Anime & Manga > Haikyu!!
Ricorda la storia  |      
Autore: Shireith    20/02/2022    1 recensioni
[AtsuHina]
Atsumu scrive cose e vede orologi in cielo. Shouyou disegna cose e parla alle case. S’incontrano, s’innamorano, Atsumu scrive un libro sulla loro storia, giura che niente potrebbe andare storto.
E tutto va storto.
Gli orologi iniziano a correre al contrario, ma solo quelli nell'appartamento di Atsumu: quello in cielo mai.
Va da Shouyou, mormora: possiamo tornare indietro.
Ci prova – tic toc, tic toc – fallisce.
[Ispirata a Brividi di Mahmood e Blanco, una puntata di Scrubs e tante altre cose.
Menzione di depressione, tematiche delicate.]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Atsumu Miya, Osamu Miya, Shouyou Hinata
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
L’arte è pazzia.
La scrittura, pure.
Ci vogliono i pazzi per fare una pazzia.
Ve li presento.

A Shouyou.
  Grazie.


Il tempo che ci mette un orologio a morire


Presente
 
  Deve cercare in tutti i modi di costruire un ponte tra lei e la persona sulla poltrona di fronte alla sua. È il suo lavoro, il suo scopo.
  Gli fa una confessione.
  Gli dice: siamo diversi ma anche uguali.
  Lei, che un marito una volta ce l’aveva, era stata tutto sommato felice: una bella casa, un reddito sostanzioso, due figlie non più ribelli di altre, un cane tranquillo che reclamava attenzioni come fossero il suo stipendio e non rompeva mai nulla. Poi un bacio con la persona sbagliata, una confessione che non aveva previsto una conseguenza simile, o a cui delle conseguenze nemmeno importava, e il marito l’aveva lasciata. Le aveva detto: io mi prendo le mie cose, tu le tue. Allora lei aveva preso le sue cose, gli aveva lasciato le sue, e ciao. Le figlie, il cane, tutto il resto: lunga storia.
  Lui per le storie ha il tempo ma non la voglia. Vorrebbe solo dirle: no che non siamo uguali, signora con l’accento francese – italiano? No, meglio francese, lo preferisce – perché vede, io mica l’ho scelto di finire così.
  Guarda, senza curarsi di nascondere il gesto, l’orologio da polso che segna il tempo al contrario, l’unico che non ha avuto cuore di sistemare.
  «Non voglio annoiarti» dice la donna reclinando la schiena sulla poltrona. «Raccontamela tu una storia.»
La storia. Perché sa che è l’unica cosa che la donna vuol sapere davvero. Già immagina i titoli: «Illustre scrittore si racconta».
  E allora racconta la storia del libro. La storia di un uomo che un giorno ha smesso di salutare le case e ha iniziato a far andare gli orologi al contrario: si chiama Atsumu Miya.
   
Atto primo
  Lo scrittore che vedeva gli orologi in cielo
  e l’artista che parlava alle case
 
Primo tic,
tre anni prima
 
  Le persone normali camminano con lo sguardo fisso davanti a sé.
  Atsumu Miya guardava in alto, e non perché fosse un segnatore. O meglio anche quello, sì: ma se guardava in alto era per alzargli contro il dito medio. Al maledetto.
  Loro non lo vedevano, lui sì: un gigantesco orologio che gravitava sulle loro teste di bravi burattini e li comandava senza nemmeno l’ausilio dei fili. Scandiva quella lenta ed estenuante presa in giro con un tic e poi un tac, e poi un tic e di nuovo un tac, e Atsumu avrebbe voluto urlare fino a farsi bruciare la gola che non era possibile che nessuno di loro ci facesse caso, che non potevano essere così sordi e ciechi e scemi.
  Ma nessuno di loro lo vedeva o sentiva mai e allora Atsumu faceva finta di niente, perché non era scemo e nemmeno complottista, di quelli che girano su internet per informare le masse che la Terra in realtà è piatta e se non se ne rendono conto è perché sono stati manipolati. Atsumu Miya non era né scemo né credulone né complottista. Aveva solo una spiccata fantasia. E per fare lo scrittore è un ottimo punto di partenza.
  Una mattina il caffè ormai freddo era strabordato dalla tazza arancione e, osservando la macchia che si allargava sul tavolo, un’idea gli era balzata in testa: c’è da scriverci un libro! Non sul caffè, sull’orologio che controlla la gente. Se non puoi raccontarlo a nessuno perché ti prenderebbero per pazzo, perché non scriverci un libro?
  Ecco un’altra idea: un artista. Un artista sarebbe stato il protagonista. Non un artista come lui, sveglio e perspicace, no, uno di quelli un po’ sognanti e squattrinati (soprattutto squattrinati) che non si capisce mai se sono bravi e incompresi o senza talento e incomprensibili perché nessuno smercia la loro arte. E sì che l’arte è, per l’appunto, un’arte, ma se non ci guadagni poi non te ne fai molto. Così va la vita, e fa schifo. Colpa di quell’orologio maledetto che se ne stava indisturbato a metà tra cielo e terra, e manco gli uccelli gli andavano a sbattere contro. Nemmeno loro lo vedevano. Gli animali erano davvero più liberi degli uomini, e quelli manco se ne accorgevano?
  La macchia di caffè era arrivata per terra. Atsumu non aveva voglia di pulire, quindi si spostò in salotto. Peccato che a dividere la cucina dal salotto vi fosse solo un’arcata e la puzza si sentiva comunque. Per distrarsi fissò il muro e immaginò che lo sguardo potesse trapassarlo e fissarsi sul corridoio e poi su un altro muro, trapassarlo ancora ed entrare nell’intimità del ragazzo che abitava di fronte.
   Atsumu sfoggiò un sorriso che aveva dell'inquietante. Eccolo lì, il ragazzo dai capelli rossi – eccolo lì, l'artista pazzo.
  Il suo obiettivo.
  La sua musa.
 
*
 
  Pazzo, Shouyou Hinata lo era davvero. Per una casualità era uscito di casa proprio mentre Atsumu Miya osservava al di là del muro senza poterci vedere qualcosa, infatti mica lo vide attraversare il corridoio; né lo sentì, perché Shouyou era silenzioso quando non voleva nemmeno esserlo e rumoroso tutto il resto del tempo. Uscì, rientrò, uscì di nuovo, rientrò di nuovo, fece qualcosa, uscì ancora. Faceva mille cose e voleva farne pure il doppio. Alcune era costretto a farle, altre no.
  Tra le non costrizioni rientrava, quando voleva, scendere giù in centro, sistemare cavalletto e sgabello come quegli artisti di strada che si vedono spesso nei film e quasi mai nella vita reale e disegnare. Qualsiasi cosa. Da una coppietta innamorata che gli commissionava un ritratto per una manciata di yen a un uccello colto nell’atto di defecare in testa a un povero sventurato.
  La difficoltà nel cogliere l’attimo è che dura, appunto, un attimo. Ci vuole un attimo a una bomba per esplodere, a un palazzo per cadere, a una vita per finire. A un uccello per defecarti in testa. Anche per una macchina fotografica è difficile cogliere l’attimo, se chi la maneggia è incapace.
  Shouyou la fotografia l’aveva già provata al liceo e non gli piaceva.
  No: lui preferiva sporcarsi le mani, il nero della grafite sotto le unghie che si dimenticava sempre di accorciare e le macchie di acrilico che non si sapeva come gli arrivavano fin sopra i gomiti. In qualche modo finiva sempre per sporcarsi i vestiti e non sapeva nemmeno come lavarli, sua madre glielo ripeteva al telefono e lui se lo dimenticava prim’ancora di attaccare. D’ora in poi li indosserò solo per dipingere, si diceva, ed ecco che l’indomani tornava con vestiti nuovi e sporcava pure quelli.
  Ma la sbadataggine non è mica un crimine. Un difetto che gli rendeva la vita inutilmente complessa, ma non un crimine. Se si etichettasse come pazza ogni persona che si dimentica i panni in lavatrice o non si ricorda se ha chiuso a chiave la porta della macchina, tre quarti di mondo sarebbero da rinchiudere. Va da sé che Atsumu Miya sbagliasse a dare a Shouyou Hinata del pazzo: e non si dica che lui fosse tanto più normale, con tutta quella storia dell’orologio gigante che controlla i burattini che non sanno nemmeno di esserlo.
  Un pazzo vale l’altro. Tutti e due erano talmente pazzi, uno nella convinzione di non esserlo e l’altro nel menefreghismo più totale di cosa fosse o non fosse, che ci si sarebbe potuto scrivere un libro. Cosa che Atsumu Miya fece, o meglio avrebbe fatto.
 
*
 
  Atsumu uscì di casa alle 20:47 – lo sapeva per certo perché le lancette degli orologi ancora non correvano al contrario – e dieci minuti dopo era già nel posto in cui l’inquilino dell'appartamento di fronte si posizionava quasi tutte i giorni, generalmente alla luce di un lampione se era troppo buio per vedere cosa tracciava sulla tela. Atsumu l’aveva scoperto per caso rientrando a casa una sera, e dopo che l’aveva notato anche il secondo giorno gli era venuto spontaneo buttare l’occhio in quella direzione per vedere se c’era. E lui c’era. Sempre. Nemmeno il giorno in cui Atsumu lo cercava si fece desiderare.
  Atsumu si sedette a un tavolino dall’altra parte della strada e ordinò la prima cosa che gli venne in mente. Rimase seduto più di un’ora a far finta di essere immerso nel suo lavoro al computer mentre osservava sottecchi il ragazzo per accertarsi che non se ne andasse.
  Prima di uscire di casa aveva pianificato di andare a parlargli faccia a faccia e sputargli addosso la verità, ma il coraggio gli era venuto meno non appena l’aveva individuato tra la folla. Con quale coraggio dici a una persona che pensi sia pazza e proprio questa pazzia vorresti renderla il fulcro di un libro? Alcuni potrebbero lusingarsi all’idea che uno scrittore li abbia scelti come musa, ma bisognerebbe essere proprio… pazzi. Per l’appunto.
  Atsumu sbuffò. Chiuse il documento su cui non aveva scritto una riga e aprì Instagram da desktop. Altri venti minuti gli vennero risucchiati mentre gli correvano davanti agli occhi le vite di persone di cui non gli interessava affatto (Osamu aveva adottato un gatto).
  Poi l’illuminazione. Gli serviva un pretesto.
  Rabbrividì. Atsumu Miya, quello che stendeva tutti e tutte con un sorriso più falso che vero e una cortesia ben piazzata fin da quando aveva imparato a camminare, si rimpiccioliva come una formica in attesa dei favori del caso.
  E forse perché non ne aveva mai chiesti e la sorte era ben disposta nei suoi confronti, un favore arrivò davvero. Un miracolo. Proprio come se il cielo stesse gridando: vai, Atsumu, vai!
  Si mise a piovere. Dall’altra parte della strada, il ragazzo dell’appartamento di fronte stava già raccattando la sua roba con fare nervoso. Atsumu pagò svelto il conto, sistemò il portatile nella borsa a tracolla e raggiunse il ragazzo con un giro tale che gli permise di arrivargli alle spalle.
  «Ti serve una mano?»
  Il ragazzo trasalì. «Ah! Sì, grazie! Gentilissimo… ehm…»
  «Atsumu Miya. Sono quello che abita di fronte al tuo appartamento. Ti ricordi di me?»
  «Quello dei limoni!» esclamò l’altro illuminandosi come una lampadina. «Come mai qui?»
  Indicò svogliato il bar alle sue spalle. «Stavo prendendo un caffè.»
  Vide che a Shouyou stava sfuggendo la tela da sotto il braccio mentre rimetteva a posto i pennelli e scattò in avanti per prenderla.
  Shouyou sfoggiò un altro sorriso che gli tagliava la faccia.  «Oh, grazie, Miya-san!»
  «Atsumu va bene.»
  «Davvero?»
  «Sì.»
  «Ma quanti anni?»
  «Ventitré.»
  «E allora non va bene! Hai un anno in più di me.»
  «Io chiamo chiunque per nome.»
  «Vuoi chiamarmi Shouyou?»
  Atsumu strinse gli occhi e sorrise. Un sorriso meno genuino e più studiato di quello del ragazzo. Di quello di Shouyou
  «Anche perché non so il tuo cognome.»
 
*
 
  Se ne stava in piedi davanti alla finestra a petto nudo nonostante la temperatura fosse scesa di tre o quattro gradi per una combinazione di notte e cattivo tempo. Aveva i capelli ancora umidi di doccia e una birra in lattina in mano. Affezionato alla sua forma fisica, se ne concedeva una di rado. Andava in palestra tre volte alla settimana, e gli alcolici non sono i migliori amici degli addominali scolpiti. Quella sera aveva fatto uno strappo alla regola con una pizza e due birre: quella era la seconda, la prima l’aveva finita con Shouyou nel suo appartamento.
  “Mi devo sdebitare”, gli aveva detto. Atsumu aveva risposto con un ‘non lo so’ incerto tipico di cui vuol fingere cortesia; Shouyou ci era cascato, aveva insistito, Atsumu aveva accettato. Erano stati in compagnia poco più di un’ora, poi Atsumu si era congedato per cortesia portandosi di là una birra ancora chiusa perché Shouyou ne aveva quattro e aveva detto: due a me, due a te.
  Atsumu ne bevve gli ultimi due sorsi mentre guardava l’orologio a metà tra cielo e terra e gli rinfacciava la sua vittoria. L’orologio avrebbe voluto spedirlo dritto a casa come tutte le sere, avrebbe goduto nel saperlo solo in una solitudine scomoda e autoimposta. Invece Atsumu si era fatto un amico e aveva deviato dalla monotonia in cui le lancette intrappolavano umani e animali.
  I primi però facevano molta più pena, ad Atsumu.
   
Primo tac,
un mese prima
 
  “Questa descrizione di me non è molto lusinghiera.”
  Atsumu fa spesso cadere il cibo per terra e ancora più spesso rovescia il contenuto di una tazza sul tavolo o sul pavimento. C’è, al centro di una mattonella, come fosse il centro del quadrante di un orologio, una macchia di formaggio fuso. È lì da due settimane e Atsumu non ha voglia di lavarla via.
  Per fortuna Shouyou sembra non vederla, è troppo concentrato sul romanzo, non più una bozza ma ormai prossimo alla pubblicazione.
  I primi capitoli sono tutti per l’artista pazzo, la musa inconsapevole dello scrittore che teme gli orologi.
  “Ho esagerato un po’.”
  Uno scrittore famoso una volta aveva detto che la differenza tra finzione e realtà è che la finzione deve avere un senso. Atsumu pensa che abbia ragione ma non troppo: anche un senso insensato va bene, e dipingere Shouyou come un artista ancora più pazzo della sua effettiva pazzia dà un tocco di magia in più. La sua musa perfetta, ancora più perfetta.
  Shouyou gli sorride a trentadue denti. “Però mi piace.”
  “Lo so.” Atsumu non si volta. “Ma so anche che non puoi dirmi altrimenti.”
   
Secondo tic,
tre anni prima
 
  Shouyou Hinata parlava alle case.
  Successe, una delle prime volte, che Atsumu passava di lì (non) per caso e Shouyou gli disse di avvicinarsi. Il nome di Atsumu scivolava già come olio sulle sue labbra.
  Atsumu attraversò la strada, lo salutò, rispose che andava tutto bene, grazie mille, e poi guardò il quadro. La pioggia dell’altro giorno non aveva fatto in tempo a rovinargli il lavoro, tuttavia Atsumu notò che Shouyou stava già lavorando a qualcosa di nuovo. Non seppe dire se fosse perché aveva già finito il quadro dell’altro giorno o per una scelta arbitraria di Shouyou di muoversi sempre avanti senza fossilizzarsi sul presente. Sarebbe stato in linea con il suo carattere. Allo stesso Atsumu era capitato spesso, solo con le parole. Riconobbe nelle pennellate incerte di Shouyou i suoi periodi troppo lunghi e paragonò il contrasto disarmonico tra luci e ombre alle sue bozze in cui dialoghi e narrazione si mischiavano peggio di acqua e olio.
  Studiò ancora il quadro. Era lo spaccato di città che avevano di fronte, oltre la strada e il marciapiede. Atsumu avvertì un disturbo, come un taglio violento sulla tela, ma gli ci volle più di un attimo per individuarne la fonte.
  Corrugò un sopracciglio. «Perché questa casa è gialla e non grigia?»
  «Preferisce essere gialla», rispose Shouyou, e alzò le spalle come avesse sottolineato l’ovvio.
  Atsumu non sapeva che le case avessero delle preferenze. Shouyou dovette intercettare il suo sguardo perché chiese deluso, quasi sconsolato, se nemmeno lui parlasse alle case.
  «Dovrei?»
  «Non lo so. Secondo me non funziona se ci provi troppo, devi farlo e basta», disse.
  Atsumu lo osservò stendere un blu accesso sulla parte del cielo e solo allora si accorse che c’erano nuvole, uccelli piccoli quanto chicchi di riso e un palo nero che si stagliava in primo piano a dare contrasto: niente orologio. Che tristezza, e che delusione: nemmeno un artista più pazzo di lui capiva che quell’aggeggio se ne stava lassù a sfotterli e deriderli senza che loro nemmeno se ne accorgessero.
  Shouyou Hinata non vedeva l’orologio, si limitava a parlare alle case: quella sì che era pazzia.
  La pazzia che stava cercando.
  «E che ti dicono, le case?»
  Shouyou si volse a guardarlo con occhi grandi e dubbiosi, come temesse di essere preso in giro. Atsumu rifletté che non doveva capitargli spesso di incontrare persone che nutrivano interesse nelle case parlanti. Se lui avesse detto a Osamu che c’era un orologio gigantesco sopra le loro teste che nemmeno le intemperie potevano fermare, Osamu gli avrebbe sbattuto la porta in faccia urlandogli che drogarsi non faceva bene.
  «Questa qui», disse Shouyou indicando la casa gialla sulla tela, come se la sua corrispettiva grigia, più grande e reale, non esistesse, «l’anno scorso era gialla. L’ha ridipinta la nuova famiglia che ci è andata ad abitare, ma a lei non piace. Le hanno tolto ogni personalità.»
  In effetti Atsumu doveva ammettere che la casa gialla era più caratteristica: e non si può nemmeno dire fosse merito di Shouyou, perché persino Atsumu poteva vedere che la sua tecnica era acerba, anche se questo glielo avrebbe detto solo in un litigio mesi dopo.
  Allora si chiese cosa lo attirasse tanto del quadro un po’ brutto, e mentre se lo chiedeva non smise di guardarlo.
   
Secondo tac,
un mese prima
 
  Shouyou gli ha insegnato che le case non sono solo cemento e fondamenta.
  Gli aveva detto: tu ci vedi il colore, forse una finestra e un balcone, magari pure come sono fatte le tegole, io (ci vedo) quello e tutto il resto.
  Il rosso, il giallo, il rosa, il verde e l’arancione che a lui piacciono e che allora pure alle case piacciono, perché quelle riflettono il suo umore. Sono le case belle che la mattina lo salutano per la via e gli dicono di studiare, mi raccomando, oppure gli augurano una buona giornata di lavoro da sostenere col sorriso, ché i clienti almeno saranno contenti! Ma il lavoro non va sempre bene e quando torna da un turno in cui le stelle sembrano essersi allineate per gettargli sfiga addosso, le case grigie e nere e bianche si mettono in fila come soldati e lo sfottono. Shouyou gli mostra la lingua, perché è troppo educato per alzare addirittura il dito medio, e rientra in casa.
  Atsumu aveva pensato (gliel’aveva detto solo una volta) che le case grigie e nere e bianche fossero la cosa più vicina che Shouyou avesse mai conosciuto all’orologio in cielo: magari addirittura complici in un complotto di cui t’accorgi troppo tardi, e forse accorgersene, presto o tardi che sia, è di per sé una condanna, perché il presto o il tardi non fanno davvero differenza. Non puoi farci nulla. Non puoi combatterle.
  Una volta Atsumu gliel’aveva chiesto che cosa gli dicesse la sua casa e Shouyou gli aveva concesso una risposta solo dopo avergli fatto notare che era un appartamento.
  “Urla proprio Atsumu”, aveva detto.
  Shouyou cataloga la vita secondo schemi che nessuno capisce, nemmeno Atsumu: che pessima musa che si è scelto.
  Ora Shouyou, dell’appartamento, gli dice solo che dovrebbe pulire in giro: spolverare, togliere i peli di gatto dai tappeti, buttare i cartoni di pizza e le lattine di birra ammassate in un angolo, non lasciare i piatti a stagnare nel lavandino per giorni fino a essere costretto a comprare supplementi di plastica.
  “Non fa bene all’ambiente.”
  Atsumu allora capisce che la macchia di formaggio fuso sul pavimento della cucina l’ha notata, ma comunque non vuole toglierla. Non vuole pulire. Dovrebbe, ma non ce la fa. Perché sforzarsi se possono farlo più tardi?
  Insieme.
  (Shouyou se ne va.
  Tornerà, puliranno insieme.)
Terzo tic,
tre anni prima
 
  Si potrebbe quasi pensare che Shouyou Hinata fosse l’incarnazione di ciò ch’è più perfetto, della bontà, dell’innocenza, della spontaneità: prova che l’occhio inganna.
  Atsumu portava con sé un taccuino su cui annotava pregi, difetti e peculiarità della musa. Sotto la seconda dicitura aveva infilato ‘egoista’, con ‘solo a volte’ tra parentesi perché si sentiva in colpa dopo che solo il giorno prima gli aveva offerto una colazione, due caffè e pure la cena.
  Si scoprì che nella casa prima gialla poi grigia abitava anche una signora anziana. Passava di lì poco dopo Atsumu, che si era fermato a salutare Shouyou, e portava con sé pesanti buste della spesa. Shouyou lasciò Atsumu come un baccalà mentre gli raccontava perché quella mattina si era alzato con la luna storta e corse dalla vecchia. Atsumu si sarebbe sentito minato nella sua autostima di giovane che non aiutava gli anziani, se solo gliene fosse fregato qualcosa di apparire cortese quando non era in vena di esserlo.
  Mentre vedeva Shouyou scomparire nella casa annotò: cortese, altruista, generoso. Poi Shouyou ricomparse e disse che il corridoio e la cucina erano dipinti di arancione!
  «Per questo hai aiutato la signora?»
  Nonostante la domanda, si stupì del sì onesto di Shouyou.
  «Prima era quasi tutta bianca», aggiunse. «Forse non è così scontenta, anche se avrebbe preferito rimanere gialla fuori.»
  E allora annotò: egoista.
  Ma solo un po’, e non in modo perfido o che nuocesse al prossimo.
   
Terzo tac,
un mese prima
 
  Nell’appartamento di Osamu c’è uno specchio che apparteneva ad Atsumu: in camera di Atsumu c’è, sul muro, una sagoma rettangolare sbiadita dove una volta c’era lo specchio e ora c’è il quadro. Di Shouyou. È più bello di quelli che faceva quando si sono conosciuti, anche se questo non gliel’ha mai confessato.
  Aveva solo detto: «Mi piace un casino».
  Vede Shouyou seduto sul letto che osserva il quadro con un sorriso che gli trapassa tutta la faccia. “Questo mi è venuto proprio bene, eh?” chiede soddisfatto. “Meglio di quelli brutti che non ti piacevano.”
  Atsumu odia come Shouyou sappia sempre cosa ha pensato, pensa e penserà. Lo preferiva prima. Tante cose le preferiva prima.
  “Non ho mai detto che erano brutti.”
  “Ma se l’hai pensato!”
  “Anche tu hai criticato la mia prima bozza. E la seconda.”
  Shouyou fa spallucce. “Erano cose vere.”
  Si ricorda di come una volta aveva annotato: terribilmente onesto, in un modo ingenuo che ti fa venire voglia di perdonarlo.
   
Atto secondo
  E (non) vissero tutti felici e contenti
 
Quarto tic,
tre anni prima
 
  Osamu era lo specchio di Atsumu, e lui di Osamu. La ragione di questa verità silenziosa, su cui entrambi concordavano con altrettanta segretezza, senza che ne avessero mai discusso, non andava ricercata nel fatto che fossero fratelli. Gemelli, addirittura. Atsumu era più affascinante, più alto (un centimetro e sei millimetri), più atletico, più simpatico: qualsiasi qualità di Osamu poteva insomma essere accostata ad Atsumu e si era sicuri che quella, a patto che non fosse negativa, venisse esasperata oltre ogni misura. Quanto a modestia, Atsumu ne aveva meno di Osamu: si guardava allo specchio e lo sapeva.
  Accade però un fatto strano nelle persone, almeno nella maggior parte di esse, i cui genitori decidono di avere un altro figlio: che si cerca, per un motivo o per un altro, un’unicità che si crede perduta anche laddove non c’era a prescindere, e non aiuta il fatto che Atsumu fosse cresciuto con un riflesso che non era il suo. Più brutto, più basso (un centimetro e sei millimetri), più pigro, più scorbutico: ed eccolo comunque là, un’incrinatura che spacca lo specchio e lo divide a metà, da una parte il gemello dai capelli paglierini bruciacchiati dalla decolorazione, dall’altra il gemello dai capelli smorti.
  Atsumu aveva imparato, con la stessa naturalezza con cui s’impara a masticare le prime sillabe, a guardare il mondo attraverso gli occhi di Osamu, ad applicarlo come filtro tra lui e la realtà. Gli veniva automatico, da bambino, cercare l’unicità nella divergenza d’opinioni con il fratello: se a Osamu piaceva un cartone animato e lui lo ripudiava, se a Osamu non piaceva andare in bicicletta e invece lui era un campione, allora non ci si poteva sbagliare, se uno era Osamu, l’altro era Atsumu.
  Si era reso conto crescendo della stupidità di quel ragionamento che aveva seguito come una legge autoimposta, ma proprio come un bambino che si trascina un difetto di pronuncia dalla pancia della madre fino alla tomba, ancora ne risentiva gli strascichi e ricadeva nelle vecchie abitudini. Sachiko Suzuki, in seconda media, gli era parsa di colpo brutta e stupida quando l’aveva sentita confessare alle amiche che Osamu Miya era un bel ragazzo. Gli onigiri di sua madre, da rimanerci folgorati, gli erano scesi giù per la gola con un retrogusto amarognolo quando aveva lodato la cucina di Osamu. Atsumu non aveva detto nulla sulle abilità culinarie di sua madre, ed era assolutamente scollegato dalla faccenda il fatto che ogni singola volta mangiasse il cibo di sua madre come se non toccasse cibo da due settimane: però aveva assaggiato gli onigiri di Osamu, che pure sua madre aveva lodato, e aveva dichiarato che gli facevano schifo.
  A fargli i complimenti ci pensò Shouyou, che Osamu sorprese in compagnia di Atsumu quando si presentò nel suo appartamento senza avvisare né tantomeno bussare, tanto che a Shouyou venne naturale dedurne che vivessero insieme.
   «No!» esclamò Atsumu con una smorfia d’orrore che gli venne sorprendentemente bene. Ci avevano pensato – dividersi le spese, fare a turni nel cucinare e lavare i piatti, o meglio lasciare che Osamu cucinasse e Atsumu lavasse i piatti – ma poiché l’attività di Osamu andava bene e Atsumu tutto sommato non gravava troppo sulle spalle dei loro genitori, l’occasione non si era mai presentata. «Ha solo la brutta abitudine di entrare senza chiedere il permesso.»
  Osamu lo guardò con espressione neutra, per nulla a disagio nella situazione in cui lui stesso si era incastrato e aveva incastrato Shouyou a sua volta. «Potevi mettere una cravatta sulla maniglia.»
  Mettere una cravatta fuori della porta quando si era impegnati a far cigolare i letti, e non perché si stavano cambiando le lenzuola, era una cosa che avevano visto fare in una serie tv americana. Non sapevano se davvero si usasse in America o se fosse una di quelle cose che si inventano nei film, ma una sera in cui i loro genitori erano a casa di parenti e si sarebbero intrattenuti per altri due giorni, Atsumu si era ritrovato con un ragazzo e una cravatta allentata al collo. Era successo quello che doveva succedere. Da allora, un altro patto silenzioso si era concatenato ai tanti altri sanciti nei primi diciassette anni di vita: la cravatta sarebbe stata un segnale dei gemelli Miya.
  Atsumu allargò le mani tra lui e Shouyou in un gesto che urlava: “Ti pare che stessimo per andare a letto?”.
  In realtà no, visto che tra i due c’era un tavolo basso da salotto che sembrava cedere sotto la mole di fogli buttati alla rinfusa, ma da suo fratello non si poteva mai sapere.
  «Da me non c’è acqua calda, mi devo fare una doccia.» Fece per avviarsi dal bagno, poi sembrò ripensarci e tornò indietro. «Ah. Ti ho portato degli onigiri. Ce n’è per entrambi», disse con un’occhiata meno ostile, addirittura amichevole, lasciando una busta sul tavolo prima di raggiungere il bagno.
  Atsumu mugolò un “grazie” che avrebbe anche potuto essere un insulto.
  «Non sapevo avessi un fratello gemello», disse Shouyou quando già in bagno si sentiva rumore di acqua che scorreva. «Anch’io ho una sorella.»
  «Gemella?»
  «No.»
  «Fortunato.»
  Non era una battuta, ma Shouyou rise.
  Atsumu si alzò, prese due piatti, dispose gli onigiri in numeri pari e tornò al tavolo con due paia di bacchette, servendo prima Shouyou e poi sé stesso.
  Non dovettero passare più di trenta secondi prima che Shouyou esclamasse: «Tuo fratello cucina benissimo!»
Quarto tac,
un mese prima
 
  E aveva pure detto che lo trovava simpatico.
  Come Osamu gli fosse sembrato simpatico a quel primo incontro, Atsumu non l’aveva mai capito. Nemmeno ora ci riesce. E si capacita ancora meno di come si sia innamorato proprio di un ragazzo che trova simpatico Osamu. Di come abbia trovato in lui non la sua dolce metà, che per Atsumu non esiste, ma l’incastro migliore: migliore, non perfetto.
  A volte litigavano. Altre, Atsumu tornava a casa stanco, preparava la cena, o la ordinava facendo finta che l’aveva preparata. Lo aspettava.
  Aspettava Shouyou.
Ora arriva, ora arriva, ora arriva.
  Ma non arrivava.
  Tornava ore dopo, stanco pure lui, e lo trovava addormentato sul divano con la televisione successiva. Diceva: mi dispiace.
  Atsumu si era trovato a pensare che non ne valesse la pena. Solo a volte, quando ci si abitua tanto alla bellezza che la si dà per scontata. Poi, quand’era lui a tornare tardi la sera e trovare la cena ormai fredda, pensava che era tutto perfetto.
  I piatti sempre sporchi nel lavandino perché quando uno pulisce l’altro sporca. Gli spazzolini nel bicchiere. Lo shampoo che finisce nella metà del tempo. Le coperte troppo tirate dall’altra parte. Il gatto che piscia a terra.
  Era tutto perfetto.
  È tutto perfetto.
  Anche ora, con i piatti incrostati, i tappeti pieni di peli di gatto, i flaconi in bagno vuoti.
  Puliranno.
  Ma è Osamu a pulire.
  Compare senza essere invitato, come suo solito.
  «Questo posto è una latrina», gli dice.
  Shouyou gli dà ragione. Lo dice ad alta voce, ma Osamu non lo sente. Atsumu fa solo finta di non sentirlo.
   
Quinto tic,
tre anni prima
 
  Cazzo. Cazzo, cazzo, cazzo.
  Atsumu avrebbe voluto sputare quelle parole sul pavimento, ma sapeva che non era educato e che Shouyou non sarebbe stato contento di attirarsi gli sguardi sconvolti della gente ben educata. Ingoiò le parolacce, per amore di Shouyou.
  Shouyou che avrebbe dovuto essere incazzato quanto lui perché la pioggia, di nuovo, aveva minacciato di rovinargli un quadro, questa volta riuscendoci. Invece lo sentì ridere.
  «È stato divertente!»
  Atsumu si frizionò i capelli col cappuccio della felpa, salvo poi ricordarsi che era fradicio pure quello.
  «Pedalare sotto la pioggia col rischio di cadere ti sembra divertente?»
  «È una di quelle cose che vedi nei film.»
  Non bastava comunque a renderlo un fatto divertente. Anche gli inseguimenti in autostrada ad alta velocità erano da film, ma Atsumu non ci teneva mica prendervi parte. Ci teneva alle gambe, alle braccia, alla sua bellissima faccia e a tutto il resto del corpo.
  Si accomodarono a un tavolino in fondo. Atsumu sfregò le mani tra di loro, invano. Due ghiaccioli. Due iceberg.
  Che giornata di merda.
  «La prossima volta scegli un posto meno desolato per dipingere?»
Non posso mica seguirti per tutta la città.
  Shouyou corrugò le sopracciglia. «Non ho più niente da dipingere da queste parti.»
  Era vero. Il suo appartamento scoppiava di scorci cittadini mai uguali l’uno all’altro – Shouyou era capace di attribuire unicità a cose o fatti che non ne avevano –, ma anche lui si era stancato delle case. Di dipingerle, non di ascoltare. Erano sempre pronte a rivelargli i loro segreti, foss’anche solo perché nessun altro le stava a sentire.
  «Oggi dipingo fuori», gli aveva detto.
  Atsumu avrebbe dovuto capire cosa intendesse con ‘fuori’ quando l’aveva sentito rientrare nel suo appartamento alle due e mezza di notte, ma l’illuminazione l’aveva colpito solo quando, il mattino seguente, gli aveva chiesto di essere accompagnato.
  Quella stessa sera avevano pedalato. Quindici chilometri.
  Ad Atsumu tremavano ancora le gambe al pensiero. Quello, e anche perché avevano pedalato di nuovo. Sette chilometri sotto la pioggia.
  Shouyou Hinata era pazzo. Ma forse era più pazzo lui a inseguirlo come un’ombra per annotare tutte le sue stranezze. Aveva già un taccuino pieno. Shouyou però non se n’era accorto, e allora la gara dei pazzi la vinceva lui.
  Mangiarono tramezzini che sapevano di stantio. Shouyou si leccò le dita sporche mentre Atsumu ingollava l’ultimo, troppo affamato per essere schizzinoso. Il tempo scivolò dalle mani come sabbia, poi si fermò.
  Atsumu sperimentò per la prima volta l’evento che lui stesso nel libro avrebbe poi denominato ‘stasi temporale’. Cioè, l’orologio nel cielo smise di correre. Le lancette si bloccarono alle nove e tredici minuti della sera come congelate dal freddo.
  Responsabili, cinque parole.
  «Mi piaci anche tu, Atsumu-san.»
  Atsumu si dimenticò di sbattere le ciglia.
Anche tu.
 
Quinto tac,
un mese prima
 
  Shouyou aveva capito di piacere ad Atsumu prima dello stesso Atsumu. Non era stata una conclusione logica a seguito di lunghe riflessioni volute, ma un’affermazione naturale, un gesto meccanico, come quando vedi un cane passare in strada mentre sei in macchina e ti fermi. Perché è giusto così.
  Gli aveva chiesto, quando Atsumu aveva detto che non era assolutamente quello il motivo: Allora perché mi segui ovunque?”
  Il libro!
  La storia di un artista pazzo che vive la vita come una partita di ping-pong senza importanza: lanci la pallina nella metà campo avversaria, e poi quel che deve succedere succeda. Che torni indietro e rimanga lì. Tu vivi e basta.
  Il libro!
  Ma non ci credeva nemmeno Atsumu. Non aveva ancora scritto una riga quando Shouyou gli aveva fatto quella confessione. Invece, sul taccuino aveva annotato che non gli piaceva il cibo piccante ma faceva finta di sì. Cercava di dissimulare, invano, le papille gustative che andavano a fuoco con un’espressione di neutralità. Di godimento, persino.
  Non era un’informazione potenzialmente utile per il libro. Poteva esserlo, ma Atsumu sapeva che non l’avrebbe mai inserita. E infatti, nella bozza finale non c’è. Ora che lo ha letto lo sa anche Shouyou, che ha letto pure il taccuino.
  Una mattina si guardava allo specchio e chiedeva: ho gli occhi più belli che tu abbia mai visto?
  Una sera si guardava le gambe stese sul divano e chiedeva: ho delle gambe da paura?
  Lo prendeva in giro.
  Lo prende in giro.
  Le sue risate rimbalzano tra le pareti e Atsumu sa che non vuole uscire mai più, nemmeno per riempire il frigo o fare scorta di prodotti per l’igiene intima.
   
Sesto tic,
tre anni prima
 
  Uno spreco di soldi. Due ore della sua vita che non sarebbero mai tornate. Il film più schifoso che avesse mai visto.
  Atsumu decise in quell’istante che, quando il suo libro fosse diventato tanto famoso da ricevere un adattamento – perché lo sarebbe diventato – non avrebbe accettato uno scempio simile. Avrebbe dato fuoco a tutte le librerie del mondo pur di evitarlo.
  Sputò fuori una verità tanto cara alla comunità dei lettori.
  «Il libro era molto meglio.»
  Shouyou alzò le sopracciglia. «C’è un libro?»
  «Non lo sapevi?»
  Lui scrollò le spalle. «Non leggo molto.»
  Atsumu si stupì del suo stupore. Che Shouyou non fosse amico della lettura era una cosa abbastanza ovvia: si annoiava facilmente, non riusciva a stare fermo per più di dieci secondi. Non erano di certo le qualità ideali di un lettore assiduo. Eppure, la sua confessione lo colpì al cuore. Riuscì quasi a vedere Shouyou strapparglielo dal petto e calpestarlo sul marciapiede polveroso.
  «Se qualcuno scrivesse un libro su di te lo leggeresti?»
   
Sesto tac,
un mese prima
 
  Una mattina Atsumu esce di casa prestissimo. Tiene gli occhi bassi finché non ha superato il corridoio e poi le scale.
  Si ferma in un bar per fare colazione e si siede lontano dalle vetrate che separano dal marciapiede. Se alzasse lo sguardo potrebbe scorgere senza difficoltà gli edifici di fronte. Il lampione di Shouyou.
  Shouyou, che non c’è.
  Mentre lo aspetta Atsumu prova a parlare al bar. Gli chiede se gli piaccia cosa gli hanno fatto alle pareti, prima dentro e poi fuori. Gli chiede se i nuovi proprietari lo trattano bene, se i clienti sono gentili. Starebbe volentieri ad ascoltarlo mentre quello si lamenta dei clienti maleducati che trattano male i camerieri, e ancora più volentieri mentre gli racconta i segreti che due persone si sono scambiate a voce bassa, convinte che le mura non abbiano le orecchie.
  Ma quelle ce l’hanno. Gliel’ha insegnato Shouyou, che le case sentono e parlano. Un sistema di codifica messo in atto nel disperato tentativo di dare un senso alla vita. Forse perché è un’artista e cerca, attraverso un foglio e una matita, di urlare chi è: e urlare senza voce è difficile.
  Un artista non è diverso da uno scrittore, in questo senso.
  Atsumu allora prova a imitare Shouyou. Ci prova e ci riprova, con la mente che sonda l’aria alla ricerca della voce segreta delle case, ma quelle non gli rispondono. Forse pensano che sia antipatico.
  Shouyou raggiunge Atsumu al bar poco prima che il cameriere si avvicini al tavolo con un block-notes in mano. Gli si siede di fronte e lo osserva mentre ordina un cappuccino e un cornetto.
  Osamu gli ha detto, senza mandarlo a quel paese o insultarlo – un traguardo importantissimo, per i gemelli Miya – che le porte del suo appartamento e del suo ristorante sono sempre aperte, ma tra quelle due opzioni e il bar, Atsumu preferisce il bar. Almeno lì nessuno lo conosce e lo bacchetta. A parte Shouyou.
  “Ti ricordi il nostro primo appuntamento qui?”
  Atsumu risponde che sì, certo che se lo ricorda. Per quieto vivere vorrebbe lasciar cadere la questione e osservarla soddisfatto mentre quella si affloscia in un angolo, ci prova, non ce la fa, allora la ripesca e rettifica: “Non era un appuntamento”.
  Era materiale di discussione da tempo. Si erano intromessi, a dar man forte all’uno o all’altro, Osamu, Bokuto, Sakusa, Kenma e Yachi. Quattro dei cinque davano ragione a Shouyou; l’unico a dar ragione ad Atsumu non era Osamu.
  “Ti voglio bene”, aveva detto Yachi a Shouyou, “ma non puoi considerarlo un primo appuntamento! Non è romantico!”
  Il film schifoso non era certo stato più romantico, ma Atsumu aveva evitato di contraddire la sua unica alleata in quello che percepiva come un affronto ai danni della sua persona.
  La sua arringa consisteva nella convinzione che il loro primo appuntamento fosse stato il 7 febbraio al cinema, non il 23 gennaio al bar, perché, anche se Shouyou si era dichiarato quella stessa sera, e più tardi Atsumu aveva fatto lo stesso, le intenzioni non erano quelle di un appuntamento. Non valeva. Il primo appuntamento, quello vero, era stato tutto merito di Atsumu.
  Avevano fatto colazione insieme tante volte. Pranzo e cena, pure. Avevano pedalato come due idioti come quelle coppie idiote che vogliono fare attività di coppie idiote. Mancava solo il cinema.
  Il film l’aveva scelto lui stesso: la parentesi più grigia della sua vita.
  Ma Shouyou, di nuovo, ribatte che l’anniversario del loro primo appuntamento cade il 23 gennaio; Atsumu rimane sul 7 febbraio.
  Non che abbia davvero importanza. Atsumu non ha voglia di discutere delle sottigliezze. 23 gennaio o 7 febbraio che sia, Atsumu ricorda ogni singolo momento passato in compagnia di Shouyou come se Shouyou avesse dipinto un quadro per ognuno. Atsumu vorrebbe che gli orologi impostati al contrario nel suo appartamento una volta tanto funzionassero e gli permettessero di rivivere la storia. Di riscriverla, e non scriverla e basta. Perché anche ad aver messo su carta l’artista che parla alle case e lo scrittore che vede orologi nel cielo, la storia mica cambia.
  Anche a farci un film, le sequenze sono sempre le stesse.
  (E quando metti giù in libro, quando vedi i titoli di coda scorrere sullo schermo nero, rimane solo l’amaro in bocca.)
  “Da quando metti tre bustine di zucchero nel cappuccino?”
  (Ma quello mica se ne va.)
   
Settimo tic,
tre anni prima
 
  Atsumu Miya era troppo per credere all’anima gemella, alla dolce metà. Troppo affascinante, troppo intelligente, troppo carismatico. Troppo tutto. Non si sentiva incompleto.
  Se c’era una cosa a cui credeva, quelli erano gli effetti dell’amore. Che ti fa fare pazzie. La terra trema, i mari impazziscono, ma chi se ne frega: mi ha appena scritto ed è più importante della caduta del mondo. Le farfalle nello stomaco ti ordinano di non pensare a nient’altro.
  Alle farfalle ci credeva. Il loro potere, la loro casualità.
  E se fosse andato a vivere con suo fratello?
  Non avrebbe mai incontrato Shouyou.
  E se si fosse convinto che lo scrittore non è un vero lavoro?
  Non avrebbe mai incontrato Shouyou.
  (E sarebbe stato meno pazzo, ma questa è un’altra storia.)
E se?
  Atsumu scriveva “E se?” su fogli immaginari, li accartocciava e li buttava giù dalla finestra. Li bruciava nel camino che non aveva. Li vedeva scendere giù per lo scarico che per magia non ’intasava. Li divideva in striscioline sottili e li dava da mangiare al gatto.
“Onde evitare fraintendimenti”, s’immaginava già di scrivere da qualche parte tra le noti finali del suo libro, “non è successo davvero. Nessun gatto è stato maltrattato durante la stesura di questo libro. A parte quando Calci saliva sulla tastiera quando non c’ero, tornavo, mi ritrovavo ad aver scritto due pagine in più, pensavo “Cazzo!”, e poi leggevo: ANXJSNCDMWDDDDFC JDCD.”
  L’effetto farfalla gli aveva portato Shouyou. Atsumu immaginava di baciarlo e urlargli: GRAZIE.
  Ma se credeva alle farfalle nello stomaco, all’effetto farfalla, perché non credeva nell’anima gemella? Credeva solo in ciò che riguardasse le farfalle o altri insetti?
  No. Anche perché s’è visto che credeva agli orologi in cielo e quelli non hanno nulla a che fare con le farfalle o altri insetti.
  Credeva ai compromessi, alla quotidianità, all’altalena dopo il “e vissero tutti felici e contenti”. Perché è facile esserlo – felici e contenti – se tutto quello che devi fare è dare un bacio e dire: sì, lo voglio. Niente giornate storte. Niente orari inconciliabili. Niente spazi condivisi che si fanno stretti. Niente bollette. Niente uscite quando vorresti uscire perché lui sta male. Niente serate a casa nel letto quando vorresti rimanere a casa nel letto perché lui ha voglia di far festa. Niente.
  La verità era che sapeva che la vita era discese e salite come le strade che percorreva Shouyou in bicicletta, lo aveva sempre saputo. Anche prima di Shouyou. Questa verità, nata in lui chissà da quanto, era tramutata in concretezza quando una donna in una poltrona gli aveva detto: «Miya-san, lei soffre di depressione».
  «Già», era stata la sua risposta. Non ricordava se l’avesse detto o soltanto pensato. Ma in fondo lo sapeva già. Del resto, l’orologio in cielo non c’era sempre stato.
  L’effetto farfalla gli aveva illuminato la vita.
  Gli aveva detto: non sei mica solo, sai?
  E per questo Atsumu immaginava di baciarlo e urlargli: GRAZIE.
   
Settimo tac,
un mese prima
 
E vissero tutti felici e contenti.
  È facile esserlo – felici e contenti – se tutto quello che devi fare è dare un bacio e dire: sì, lo voglio.
  Che cosa ne sanno – Biancaneve, il Principe Azzurro e quegli sfigati lì – della vita, quella vera. Dei litigi, dei disaccordi. Di te che vuoi un cane e l’altro che vuole un gatto, ti fa notare che i gatti non vanno portati a spasso tutti i giorni e tu, spinto dalla pigrizia, pensi: e gatto sia.
  Calcifer, per gli amici Calci o Fer o qualsiasi altro nickname.
  Calcifer, perché ha il pelo rosso proprio come il fuoco, ma chiamarlo ‘Shouyou II’ o ‘Shouyou Junior’ era fuori discussione.  
  Che cosa ne sanno – Biancaneve, il Principe Azzurro e quegli sfigati lì – della convivenza. Della tua bolla personale che s’allarga per inglobarne un’altra, e quando due bolle ne formano una si stringono. A volte è tutto quello che vorresti dalla vita. Altre, ti soffoca.
  Non c’è spazio. Rivoglio il mio letto, il mio divano, il mio bagno. La mia vita.
  Lasciar andare è facile. È liberta.
  Tener duro è difficile. È casino dove prima c’era quiete.
  Atsumu lo rivede dappertutto, nella quiete, e ogni volta gli dice: mi manchi.
  Il casino.
  Noi.
  Tu.
   
Atto terzo
Le biciclette e il mare
 
Ottavo tic,
tre anni prima
 
Ho sognato di volare con te
Su una bici di diamanti
 
  Shouyou Hinata era nato in sella a una bicicletta. Atsumu ne era sicuro. Gliel’avevano incollata addosso le mani di Dio per concedergli una libertà pulita, svincolata dal chiasso dei treni, dalla caoticità degli autobus e dal fumo grigio che usciva dal retro delle macchine. A lui serviva una bicicletta, un foglio e una matita: e nient’altro per volare.
  Atsumu non sapeva quando per la prima volta aveva desiderato di volare con lui sotto un cielo di carta, e quando quello fosse stato rosa per il tramonto lui avrebbe potuto ritagliarne un piccolo cerchio e dirgli: ecco, tieni, una perla tutta per te, anzi, un diamante, sempre rosa, perché esistono anche i diamanti rosa, fidati, l’ho cercato su internet.
  Una bicicletta di diamanti.
  Vai, pedala. Vola. Dove nemmeno l’orologio può raggiungerti. Dove nemmeno l’orologio può controllarti.
  Shouyou gli tendeva una mano.
  “Vieni con me.”
  Atsumu lo seguì.
   
Ottavo tac,
un mese prima
 
Dai, non scappare da qui
Non lasciarmi così
 
  “Vieni con me.”
  La mano tesa.
  Una promessa.
Non scappo, non ti lascio, gli aveva detto Shouyou.
  “Sei uno stronzo”, gli dice Atsumu, l’appartamento rimesso a lucido da Osamu già più sporco di prima.
  Shouyou attende. Il tempo si dilata. Anche ora, gli orologi li sfottono.
  Lo sfottono.
  “Lo sai che non è colpa mia.”
  Infatti no.
  Atsumu gli ha detto di volare.
  Atsumu gli ha detto: ma sì, vai, andiamo; l’orologio mica ci prende.
  “Lo so. Però sei comunque uno stronzo.”
  Shouyou riflette a lungo su quello che sta per dire e mai un attimo smette di fissarlo. “Guarda che a me è piaciuto meno che a te.”
  Atsumu sposta lo sguardo su uno degli orologi con le lancette che segnano l’ora sbagliata. A quello, Atsumu non può ribattere. Però non gli sta bene. Qualcuno avrebbe dovuto chiedergli il permesso, quantomeno, o spedirgli una letterina in cui lo avvisavano.
  Anche Shouyou si volta a osservare l’orologio. “Sai che non basta per venirmi a trovare, vero?”
  “Lo so.”
  “Non puoi venirmi a trovare.”
  “Lo so.”
  “Se lo fai non si torna indietro. Non farlo.”
  Atsumu si accorge che, prima di pronunciare quell’ultima frase, Shouyou ha spostato lo sguardo dall’orologio che sta dentro a quello che sta fuori.
   
Nono tic,
tre anni prima
 
Tu, che mi svegli il mattino
Tu, che sporchi il letto di vino
Tu, che mi mordi la pelle
 
  La non convivenza era di per sé una convivenza.
  Le linee che tracciavano i confini di Shouyou e Atsumu si sfocavano come una tela ancora fresca sotto la pioggia, si confondevano, il giallo passava di là e l’arancione di qua. Chi li avesse visti per la prima non sarebbe riuscito a distinguere dove iniziava uno e finiva l’altro.
  Il latte non c’è, l’hai finito tu e non l’hai più ricomprato. Non trovo più i miei calzini, li ho lasciati da te? No, il tuo spazzolino non è da me: hai detto che te ne serviva uno nuovo e hai buttato quello vecchio, ma ti sei dimenticato quello nuovo.
  Giallo e arancione, arancione e giallo.
  Come il tramonto che stava dipingendo Shouyou, la tela posizionata nel bel mezzo del salotto di Atsumu perché da lui c’era una visuale migliore.
  E Atsumu non sapeva se bestemmiare perché, e che cazzo, le macchie di colore se le ritrovava pure nell’armadio, o se andare da lui, abbracciarlo, baciarlo, fargli posare lo sguardo sul tramonto, solo un po’ più su, tra le nuvole, e chiedergli: lo vedi quell’orologio, proprio lassù tra le nuvole, a metà tra cielo e terra? Lo senti come ci sfotte perché potrebbe caderci addosso in qualsiasi momento ma non lo fa mai perché sfotterci da lassù è più divertente? No? Non lo vedi, non lo senti? Nemmeno io. Torniamo a parlare alle case, è più bello.
  Atsumu non vedeva più l’orologio, e Shouyou lo sapeva. Quindi sapeva anche che prima lo vedeva.
  Poiché la non convivenza era di per sé una convivenza, il filo sottile che li separava come il corridoio separava i loro appartamenti si era bruciato. Nessuno dei due si sarebbe stupito se un giorno fossero usciti dal proprio appartamento per ritrovarsi in quello dell’altro senza nemmeno dover oltrepassare il corridoio. Non si sarebbero stupiti se una mattina si fossero risvegliati per scoprire che gli appartamenti, proprio come le bolle, si erano inglobati l’un l’altro e riportavano un po’ le caratteristiche di quello, un po’ di quell’altro.
  «Domani no.»
  «No?»
  «Ho da fare.»
  «Ah.»
  «Un appuntamento.»
  «Eh
  «Non di quel tipo!»
  Non era in trappola. Non lo era mai stato. Avrebbe potuto dire che non voleva parlarne e Shouyou avrebbe allargato la bolla per farci stare loro due e il segreto.
  Ma Atsumu disse: «Vedo una psicologa.»
   
Nono tac,
un mese prima
 
  Non la vede più. Ha smesso prima del mare e lei probabilmente non sa. Che l’orologio è tornato e Shouyou se n’è andato, e pure Atsumu vorrebbe andarsene.
  Lei non gli direbbe che è pazzo, perché di pazzia non si è mai trattato. Atsumu non è né scemo né credulone né complottista: lo sa che gli orologi in cielo non possono starci, che le case non parlano e che i fantasmi non esistono.
  “È il tuo dolore”, gli direbbe la psicologa. Atsumu quasi si mette a ridere alla realizzazione che pure lei, proprio come Shouyou, gli appare davanti come un fantasma.
  “Un’eco. Un ricordo”, lo corregge lei.
   Atsumu Miya, ormai è noto, vive in un appartamento in cui gli orologi girano in senso antiorario. Grazie a un movimento a carica automatica invertita, cosa che sembra complessa ma in realtà è davvero semplice, le lancette si trascinano in senso antiorario, stanche come un moribondo. Lente come un moribondo. Ma a differenza del moribondo, che prima o poi si fermano, quelle non si fermano mai.
Tac tic.
  Una volta si avvicina a uno, non per pulirlo, per osservarlo, e osservandolo nota che sulle lancette ci sono macchie marroni come chiazze sulla pelle dei malati. C’è la ruggine.
  Si precipita allora alla finestra e guarda il cielo scuro di nuvoloni. L’orologio capo è sempre là, a metà tra cielo e terra, intoccabile, e gli dice: pure se piove, non mi arrugginisco. Continuo a scandire il tempo. Sono sempre qui, e tu sei sempre là.
  Volta lo sguardo per avere dalla dottoressa la conferma che lo vede pure lei, ma quella se n’è andata.
   
Decimo tic,
tre anni prima
 
La tua paura cos′è?
Un mare dove non tocchi mai
 
  Disse: «Non so nuotare».
  Atsumu scoppiò a ridere, Shouyou gonfiò le guance, poi scoppiò a ridere pure lui.
  «Shouyou, è ottobre, non andiamo mica a nuotare o a prendere il sole.»
  «Perché proprio al mare?»
  «Perché no?»
  Atsumu dovette quasi farsi violenza per trattenere un sorriso: aveva vinto. Sfoderare i ‘perché no?’ era vittoria. Shouyou amava i ‘perché no?’. La sua vita si poteva riassumere in: perché no?
  Perché non sfidare la vita, prenderla, morderla e azzannarla senza ucciderla, poverina, più per il gusto di assaggiarla?
  Perché no?
  «Puoi portarti i tuoi strumenti e farci un quadro.»
  «Mi porti fin là, ovvio che ci faccio un quadro!»
   
Decimo tac,
un mese prima
 
Non lasciarmi così
Nudo con i brividi
 
  È opinione comune – tra quelli che Atsumu chiamerebbe vecchi, vecchiacci quando gli fanno girare i nervi – che la vita d’un tempo fosse più dura. Aveva sentito un aneddoto di un signore, un tempo bambino, il cui padre lo aveva buttato in acqua senza preavviso per insegnarli a nuotare. Niente braccioli né niente. Nessun riguardo, nessuna carezza.
  Morire è così.
  Anneghi.
  Atsumu non sa come il padre riesca a stare inerme mentre suo figlio muove le braccia per combattere l’acqua. Non ci sono onde, perlomeno il padre ha avuto l’accortezza di buttarlo in piscina, non in mare.
  Shouyou è morto in mare. Il mare con un’onda gliel’ha dato e poi se l’è ripreso. Acqua all’acqua, cenere alla cenere. Eri niente, sarai niente.
   
Lo vedi, sono qui
Su una bici di diamanti, uno fra tanti
Nudo con i brividi
 
  Tuffarsi nell’acqua gelida è meno traumatico di quanto possa sembrare.
  Che cos’è il trauma? Cosa il dolore?
  Niente ti spaventa se non hai nulla da perdere.
  Così come si immaginava Shouyou che lo seguiva come un’ombra anche quando il sole non c’era, ora Atsumu immagina di tuffarsi in acqua.
  Lo immagina, e un giorno lo fa davvero. Prende la bicicletta di Shouyou – quella bella tempestata di diamanti rubati al cielo, non la sua, brutta, vecchia, triste – e pedala.
  Si tuffa, ritorna a riva.
  Si chiede cosa accadrebbe se si tuffasse senza tornare.
   
E pagherei per andar via
Accetterei anche una bugia
 
“Sai che non basta per venirmi a trovare, vero?”
“Sì.”
“Non puoi venirmi a trovare.”
“Lo so.”
“Se lo fai non si torna indietro. Non farlo.”
  Eppure sarebbe così facile.
  Spogliarsi, tuffarsi.
  Annegare.
  Acqua all’acqua, cenere alla cenere.
Come te.
  “Come me?”
  Shouyou ricompare all’improvviso come a volergli strappare il cuore per buttarlo sulla sabbia. Ma non può, l’ha già fatto. Nel corridoio che separa i due appartamenti. Sull’orlo del filo bruciato. Tra le due bolle.
  Aveva bussato alla sua porta, raggiante.
  «Non compro niente», aveva detto Atsumu sbattendogli la porta in faccia. Anzi, no, prima gli aveva sbattuto la porta in faccia, e poi: «Non compro niente!»
  Shouyou, anche lui urlando: «Non sono un venditore ambulante, abito qui di fronte!»
  Atsumu era tornato ad aprire scocciato. Non si era nemmeno preoccupato di mettersi una maglietta sugli addominali in bella vista.
  «Hai dei limoni?»
  «Limoni?»
  «Per favore! Mi servono, li ho finiti.»
  Atsumu lo osserva e si stupisce di un pensiero tanto semplice che nemmeno lui, scrittore, ha mai formulato: come sono diverse le persone quando per te non sono più semplici persone. Come sono belle, delicate.
  “A che cosa ti servivano, alla fine, i limoni?”
  Non gliel’ha mai chiesto.
  Shouyou gli sorride. Si siede sulla sabbia umida e fredda e lo invita a fare lo stesso. “Sai che non posso dirtelo.”
  Atsumu si siede. “Sei nella mia testa. Sai tutto quello che so, niente di quello che non so.”
  Shouyou annuisce piano.
  “Non sei lui.”
  “Lo so.”
  “No, non sei proprio lui. Lui non si siederebbe qui, si metterebbe a correre. Guarderebbe il mare e mi direbbe che quando farà abbastanza caldo torneremo e imparerà finalmente a nuotare.”
  Silenzio.
  “Non sei lui. Sei più brutto. Più calmo. Troppo. Non ti muovi come lui. Non parli come lui.”
  “Io non parlo, Atsumu-san.”
  Non parla.
  Non parlano come parlavano loro.
  Dal 7 ottobre alle 13:21, non parlano più.
  “Faccio fatica a ricordare che voce hai.”
  Chiude gli occhi, li riapre.
  “Avevi.”
  “Mi dispiace, Atsumu-san. Hai tanti video di noi. Puoi rivederli. Non subito, se non vuoi. Quando starai meglio. Col tempo.”
  Col tempo.
  Ad Atsumu fa schifo, il tempo. Gli faceva schifo quando quell’orologio maledetto lo costringeva ad alzarsi ogni mattina anche se lui non voleva, e gli fa schifo ora che lo allontana da Shouyou. Un secondo più lontano. Dieci minuti fa. Tre ore fa. Dieci giorni fa. Una vita fa.
  Col tempo.
  Atsumu non vuole che passi, il tempo. Di certo non avanti. Vorrebbe che andasse indietro, ma quello non lo accontenta. Cammina su un orologio immaginario con le lancette ferme alle 13:21. Non vanno né avanti come nei normali orologi, né indietro come negli orologi nell’appartamento di Atsumu. E Atsumu, più che camminare su quell’orologio, sta fermo. Al centro esatto di esso, dove convergono le lancette.
  In attesa di chi non viene mai.
  Lo guarda.
  “E quanto tempo ci vuole?”
  Shouyou non risponde subito. Invece, alza il mento e allunga il braccio verso l’orizzonte, ma più su, a metà tra cielo e terra. Atsumu sa già cosa sta indicando prim’ancora di vederlo.
Tac tic?
Tic tac, tic tac.
  “Il tempo che ci vuole, Atsumu-san”, gli dice. “Il tempo che ci mette un orologio a morire.”
   
Presente
 
  Fingere che la dottoressa sia una misteriosa giornalista dall’accento francese – quello italiano l’ha scartato, non gli piace, quello tedesco sembra una barzelletta – lo aiuta. Se il suo libro ha riscosso successo a tal punto da attirare la curiosità dei giornalisti, e lui esce di casa per incontrarli, allora sta bene. È guarito. No: non ha mai avuto problemi. L’orologio non è mai esistito. L’artista che parla con le case, nemmeno.
  È una storia. Finzione. Prendi il libro, brucialo. Tutto finisce. Imbottigli il dolore e la bottiglia la butti in mare. Acqua all’acqua, cenere alla cenere.
  “Il tempo che ci mette un orologio a morire”, gli ha detto.
  Atsumu guarda la non giornalista e chiede silenzioso: come si uccide?
 
*
 
Care lettrici,
cari lettori,
grazie per aver letto fin qui.
 
A Shouyou.
  Grazie.
  E addio.
 
     
   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Haikyu!! / Vai alla pagina dell'autore: Shireith