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Autore: Sweet Pink    25/02/2022    4 recensioni
Impero Britannico, 1730.
Saffie Lynwood e Arthur Worthington non si potrebbero dire più diversi di così: freddo quanto implacabile giovane Ammiraglio della Royal Navy lui, allegra e irriverente ragazza aristocratica lei. Dire che fra i due non scorre buon sangue è dire poco, soprattutto da quando sono stati costretti a diventare marito e moglie contro la loro stessa volontà e inclinazione!
Entrambi si giurano infatti odio reciproco, in barba non solo al fatto di essere i discendenti di due delle più ricche e antiche famiglie dell'Impero, ma pure alla vita che sono sfortunatamente costretti a condividere.
Eppure, il destino non è un giocatore tanto prevedibile quanto ci si potrebbe aspettare, poiché sono innumerevoli i segreti che li tengono incatenati l'uno all'altra; segreti, che risalgono il passato dei Worthington e dei Lynwood.
E se, con il tempo, i due nemici si scoprissero più simili di quanto avrebbero mai immaginato, quale tremendo desiderio ne potrebbe mai derivare?
Genere: Romantico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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CAPITOLO UNDICESIMO

CIELI STELLATI E STORIE LONTANE





Benjamin Rochester sussurrò quelle ultime parole ed esse parvero echeggiare in tutta la stanza, prima che quest’ultima sprofondasse in un pesante silenzio raggelato. L’opprimente presentimento che da diverse ore sembrava pesare sulle teste di Keeran e Saffie divenne ora una tremenda rivelazione, una aberrante realtà che si palesò cristallina davanti ai loro occhi spalancati.

Douglas Jackson è morto.

Senza nemmeno respirare, Saffie voltò lentamente la testa castana in direzione della sua dama di compagnia e fu l’istante in cui tutto rallentò in maniera esasperante: il cuore della Duchessina si strinse dal dolore e dalla paura, poiché riuscì a vedere distintamente i graziosi lineamenti dell’irlandese contrarsi in una smorfia di sofferenza infinita; i suoi occhi nero pece – sempre così brillanti – si persero in due enormi ovali bianchi, risultando in questo modo nient’altro che puntini miseri e opachi. Il tempo stesso parve fermarsi in un lungo secondo infinito, decretando l’attimo in cui entrambe si resero conto che lui era morto per davvero, per quanto la loro mente rifiutasse irrazionalmente di crederci.

Saffie cercò di combattere contro il presentimento di pianto imminente e si azzardò a parlare per prima, le iridi lucide che si rifiutavano di abbandonare la figura tremante della sua domestica. “Keeran, io…”

“Perdonatemi, signora.”

Eppure, in tutti quei mesi, niente avrebbe potuto farle prevedere la reazione della ragazza seduta al suo fianco: Keeran si era alzata in piedi di scatto e non solo aveva lasciato cadere a terra i suoi ferri dorati con mala grazia, ma aveva osato interromperla senza alcun balbettio di sorta, articolando quell’unica frase con un tono sì tremolante, ma dalla terribile determinazione rabbiosa. E ancora, la diciassettenne non accennava a voltarsi verso la sua padrona, ma nascose il paffuto viso dietro a lunghe onde di nero inchiostro, nascondendosi alla vista delle persone attorno a lei.

Non ditelo. Non usate le vostre solite parole di compassione gentile.

Forse, in fondo, fu un bene per Saffie non poter vedere l’espressione di distruttivo dolore dipintasi sul volto bianco di Keeran o ne sarebbe rimasta sconvolta e ferita più di tutto il resto.

Hanno detto che sono nata per portare disgrazia e morte, poiché tutti gli illegittimi sono dannati.

Chapman aveva ragione. Tutti, alla fine, hanno sempre avuto ragione.

“Io…perdonatemi” ripeté in maniera confusa, stringendo i piccoli pugni con forza, fino a farsi male. “Perdonatemi.”

Aveva creduto di potersi illudere, e ora ne pagava le giuste conseguenze.

La signora Worthington non comprese immediatamente il significato delle sue parole stravolte ma, senza dubbio alcuno, ebbe occasione di avere chiarezza non appena vide la morbida sagoma della diciassettenne scattare in direzione della porta quasi ne andasse della sua stessa vita. Il cuore cominciò a martellare spaventato nel petto di Saffie ed ella si alzò subito in piedi, seguendo con lo sguardo esterrefatto un impassibile signor Rochester farsi da parte, lasciando così a Keeran campo libero per poter proseguire nella sua fuga.

“Keeran!” chiamò quindi la ragazza castana, il tono tinto di bruciante preoccupazione. Le sue gambe si mossero in automatico e lei si trovò sull’uscio della stanza in un attimo, la mano protesa in direzione delle spalle dell’irlandese che, come se si fosse trasformata in un etereo fantasma, continuava a scomparire nella tenue oscurità del corridoio. “Keeran aspetta! Torna indietro!”

In ultimo, furono i capelli corvini della ragazza a svanire.

Saffie udì il cigolio delle porte che davano direttamente sul ponte sopracoperta aprirsi e poi rinchiudersi con un rumore secco, definitivo; infine, fu il silenzio a calare nuovamente su di lei. Una muta assenza di suono che le fece capire quanto, in quei giorni, avesse ignorato i sentimenti della sua stessa domestica: Keeran aveva tradito tutti i suoi diciassette anni ed era scappata via, pure se doveva essere ben consapevole della gravità e delle conseguenze che il suo gesto poteva provocare. “Non ha nemmeno dato ascolto ai miei ordini” considerò la Duchessina, appoggiando una mano sullo stipite della porta e indagando con gli occhi il buio circostante. “Le avevo promesso di esserle amica, ma sono stata una perfetta sciocca.”

Avresti dovuto accorgerti della sua sofferenza, ma hai pensato solo ad Arthur Worthington.

Un allucinante senso di colpa si fece sentire dentro alla sua anima e la ragazza fece per muovere un passo in avanti, pronta ad uscire dalla stanza e lanciarsi all’inseguimento dell’irlandese che – si disse – di sicuro aveva bisogno di lei e del suo supporto. Inoltre, non doveva dimenticare che era stato impartito ad entrambe l’ordine di starsene rinchiuse in cabina, vista la battaglia che disgraziatamente si profilava all’orizzonte!

“Sto arrivando, amica mia” pensò Saffie, cercando di afferrare una manciata di determinazione e coraggio perduti; avrebbe voluto anche lei poter condividere il suo dolore per la morte del povero Douglas, ma sapeva di non essere nella posizione per concedersi un lusso simile. Era Keeran, in quel momento, ad aver bisogno del suo aiuto e conforto.

Dal nulla, una mano leggera e gentile si posò sulla sua esile spalla con tenerezza, facendola sussultare dallo spavento. Voltandosi, la Duchessina ebbe la sorpresa di trovarsi di fronte a Benjamin Rochester: l’uomo era intento a guardarla con un’espressione di gentilezza stampata sul suo giovane viso attraente e Saffie si rese conto di essersi totalmente scordata della sua presenza, tanto il suo bisogno di raggiungere la diciassettenne era urgente.

“Lasciatela andare” le mormorò pacato, come se le stesse comunicando un affare da nulla. “Il ponte sopracoperta è ben pattugliato dagli Ufficiali di guardia e la ragazza ha bisogno di un momento di solitudine. Sarà al sicuro.”

“Ne siete certo?” chiese ingenuamente la signora Worthington, alzando due occhi grandi e tormentati su di lui.

Il medico di bordo si concesse un leggero sospiro e le sue labbra si sollevarono leggermente, donando ai suoi lineamenti delicati un’aria di laconica ironia. “All’inizio della traversata avrei potuto rispondervi piuttosto negativamente, ma avete guadagnato il rispetto degli uomini dell’Atlantic Stinger” asserì monocorde, spostando lo sguardo scuro sull’interno della camera, prima di aggiungere: “Pure se, sopra tutto, è l’ira del famoso Generale Implacabile ciò che più temono.”

“… poiché io non sono uomo da concedere alcuna pietà.”

Come un fulmine a ciel sereno, Saffie ricordò il corpo imponente dell’Ammiraglio incombere su di lei, mentre decideva di conquistare le sue labbra schiuse con una bocca famelica e crudele, pericolosa. Le gote della ragazza si imporporarono con violenza perché, per quanto fossero passate diverse ore da quando aveva lasciato lo studio di Arthur, ancora il tocco malizioso della sua lingua non accennava ad abbandonare la sua memoria; anzi, poteva quasi dire di non essere riuscita a pensare ad altro in tutto quel tempo.

Gli occhi lucidi di Saffie si abbassarono sulle assi del pavimento, mentre la sua stessa piccola mano andava inconsciamente a posarsi sulla spalla sinistra. Le dita scivolarono sopra al ricco tessuto della veste da camera, i polpastrelli tesi a sfiorare il punto esatto in cui lui aveva deciso di marchiarla.

“Tu sei mia, adesso.”

Faceva male…e non solo fisicamente.

Cos’è questa nuova sofferenza, che non riesco a comprendere?

Era un pensiero scomodo e doloroso, su cui Saffie non desiderava soffermarsi troppo, poiché temeva più di ogni altra cosa la risposta che avrebbe potuto farsi sentire dentro alla sua anima; una consapevolezza impossibile, che lei non sarebbe stata in grado di affrontare. Gli avvenimenti delle due settimane passate si erano susseguiti in maniera così repentina, che lei stessa non poteva dice con certezza quando esattamente avesse lasciato spazio a impulsi e pensieri vergognosi. A sentimenti che non avevano diritto di essere.

Continui a chiedertelo, ma la verità è che conosci già da parecchio tempo la risposta.

“…imparerai ad apprezzare l’uomo al tuo fianco e, chissà, potresti perfino innamorartene.”

Da più di quanto tu stessa voglia ammettere.

Una morsa di terribile paura si strinse attorno al suo cuore e la ragazza fu preda di un istintivo rifiuto, ostinata negazione. “No. No, questo non accadrà mai” pensò con vera e propria disperazione, trovando in Benjamin Rochester la sua ancora di salvezza: il medico di bordo stringeva infatti fra le lunghe dita pallide un volume consumato che Saffie poteva dire di conoscere molto bene; e quasi la Duchessina si stupì di non averlo notato prima.

“Questo libro…” cominciò quindi lei a voce bassa, scacciando dalla sua mente la figura imponente di Arthur Worthington e dalla sua pelle i brividi freddi che avevano cominciato a torturarla. “Questo libro è una raccolta di poesie: si tratta de I Sonetti di Shakespeare.”

Come soleva fare il figlio, Benjamin annuì una volta sola e sollevò il braccio, per darle modo di osservare meglio tutti i dettagli della copertina, ora illuminata dalla luce soffusa proveniente dalla camera di Saffie. “È esatto. L’ho portato per la signorina Byrne, a dire il vero: la vostra serva non faceva altro che leggere per il mio paziente e, in particolare, era proprio questa l’opera prediletta. Ho pensato potesse farle piacere averla per sé” spiegò il medico, osservando con due malinconici occhi neri il volto avvolto nella penombra della Duchessina di Lynwood. Un breve silenzio seguì le sue affermazioni ed egli decise poi di aggiungere, sfoderando un sorriso che poco o niente aveva a che fare con l’allegria: “Quella ragazzina mi ha ricordato qualcuno che ho conosciuto.”

Saffie sorrise a sua volta, di nostalgica tristezza, e si volse verso l’interno della sua stanza, entrandovi lentamente. “Posso dire di comprendere perfettamente le vostre parole” commentò cupamente, prima di lasciarsi cadere sulla sua sedia con una strana stanchezza; aspettò di vedere la sagoma dinoccolata del medico avvicinarsi a lei e recitò, senza nemmeno conoscerne la ragione: “Amore è un faro sempre fisso che sovrasta la tempesta e non vacilla mai; è la stella-guida di ogni sperduta barca, il cui valore è sconosciuto…”

“…benché nota la distanza” continuò Benjamin, abbassando il capo biondo cenere. Il medico di bordo non fece caso alle ciocche di lisci capelli che, sfuggendo dal suo codino basso, andarono per un attimo a nascondere il suo viso bianco e poggiò con delicatezza il libro sul tavolino più vicino, proprio accanto ai primi falliti tentativi di ricamo di Saffie. “Potrei recitarvi l’intero sonetto a memoria” le disse infine, con una strana ironia, senza alzare lo sguardo dalla copertina usurata del libro. “Pure se non dovrebbe stupirmi vedervi a conoscenza di questa poesia.”

In tutta risposta, Saffie si strinse nelle spalle e lasciò le sue iridi castane libere di indagare il posto vuoto di fronte a lei, lasciato da una sconvolta Keeran in fuga.

“Sorella mia, leggilo un’ultima volta, te ne prego! Solo un’altra volta!”

“È perché erano i suoi preferiti” gli disse, in tono vago e assente. Il suo volto triste fu di nuovo sul signor Rochester ed ella fu fulminata da due fermi occhi di tenebra, che quasi parevano brillare dietro una sobria montatura sottile. Uno strano brivido premonitore la colse, ma non riuscì a spiegarsene affatto il significato. “Mia sorella Amandine era innamorata dei sonetti di Shakespeare.”

Non poté sbagliarsi: Saffie colse al volo l'espressione di fredda e nascosta sofferenza che attraversò Benjamin, come non poté fare a meno di notare che l’uomo si era irrigidito leggermente e aveva chiuso le mani a pugno, dal nervoso. Ma fu un istante; alla ragazza bastò sbattere le palpebre una volta per ritrovarsi di fronte il solito signor Rochester, trincerato dietro al consueto atteggiamento di educata gentilezza.

E alla Duchessina venne in mente la collera a malapena repressa che l’aveva colto dieci giorni prima, quando era venuto in soccorso di un Ammiraglio Worthington in preda ai deliri dovuti dalla febbre alta. Uno strano sentimento di opprimente premonizione si agitò di nuovo dentro di lei poiché, si disse, c’era un qualcosa di indefinito che continuava a scapparle dalle dita.

“Dovevate volerle molto bene, non è vero?” chiese il medico, sorridendo appena.

“La adoravo. Forse tenevo a lei più di quanto non facessi con la mia stessa vita” ammise subito la ragazza, senza alcuna esitazione. Le sue piccole dita si andarono a stringere le une con le altre, per non tradire alcun nervosismo, mentre le sue stesse labbra decidevano di articolare l’unica verità che – in tutti quei mesi – non aveva avuto il coraggio di rivelare ad anima viva: “Sapete, doveva esserci lei al mio posto. Era destinata ad essere la moglie di Arthur Worthington e andare via insieme a lui; ed era così felice di poter dirsi finalmente libera da nostro padre…ma poi, poi è successo” sussurrò, abbassando il capo castano e vergognandosi, sentendosi maledettamente in colpa. “Vi chiedo scusa, signor Rochester; non so perché vi sto dicendo queste cose così tristi.”

Non che serva a ripulirti la coscienza, vero?

Nessuna risposta giunse dall’uomo che le stava davanti e la ragazza pensò di aver oltrepassato il segno, di essersi lasciata andare ad uno sproloquio disdicevole e scandaloso proprio di fronte ad un uomo che aveva dimostrato di conoscere il suo odiato marito da molti anni. Saffie stava quasi per scusarsi di nuovo, ma un tocco gentile le tolse qualsiasi parola di bocca: Benjamin aveva posato con dolcezza una mano sulla sua chioma morbida, come volesse darle una sorta di pallido conforto.

“Non avete nulla di cui scusarvi con me” lo sentì dire con un tono strano, vibrante di un sentimento che lei non riuscì ad identificare; inoltre, le sue dita aggraziate sembravano tremare leggermente, dalla tensione. “So per esperienza quanto le famiglie potenti forgino attorno ai loro figli soffocanti catene.”

“…la mia primogenita. Per quanto credevate di riuscire a sfuggirmi, tu e quella nullità che affermi di amare?”

Proprio così.

Il calore trasmesso dalle dita del medico di bordo sparì non appena le sue dita scivolarono lontano dalla ragazza, per ricadere inermi lungo il fianco dell’uomo. “So che sarete indulgente con la signorina Byrne” aggiunse, cambiando tono di voce e tornando alla pacatezza per cui era conosciuto da ogni membro dell’equipaggio. “Ma, se ci tenente così tanto ad essere sua amica, allora dovete essere la prima a fidarvi di lei.”

“Ve l’ho de-detto, signora. Io sarò sempre serva vostra.”

La Duchessina sgranò tanto d’occhi di fronte alla perspicacia di Benjamin Rochester e alzò il viso di scatto, sorpresa. Lo vide darle le spalle e avviarsi in direzione della porta con noncuranza, l’alta figura snella che non lasciava intendere alcun tipo di turbamento; e Saffie allora sorrise, piena di calda gratitudine. “Io…grazie” gli disse solo, fissando la sua schiena allontanarsi.

L’uomo alzò appena una mano diafana, senza accennare a voltarsi verso di lei. “Non dovete neppure ringraziarmi” asserì. “Ora, sono costretto a prendere congedo da voi, signora: è molto tardi e sono sicuro di trovare quel piccolo sconsiderato di mio figlio fin troppo sveglio. Non si direbbe, ma ha solo cinque anni.”

Di nuovo, la ragazza ebbe modo di stupirsi delle parole del signor Rochester: era vero, di quei tempi innumerevoli vascelli potevano contare a bordo la presenza di bambini piccoli – i cosiddetti Ragazzi di bordo – che venivano usati per incarichi di bassa manovalanza, mentre lei stessa si era immediatamente accorta di quanto Ben dimostrasse di essere più maturo di quanto effettivamente fosse; eppure, venire a conoscenza dell’età del figlio del medico le provocò comunque un certo sbalordimento.

“Davvero? Cinque anni?”

“Vivere in un ambiente come questo significa essere obbligati a crescere in fretta. Quel bambino ha dovuto sopportare dispiaceri e fatiche che diversi suoi coetanei non affronteranno mai” le rispose Benjamin, fermandosi sulla soglia e voltandosi indietro, lanciandole infine uno sguardo costituito di una tristezza disarmante e infinita. “Inoltre, anche sua madre era parecchio alta, quasi quanto lo sono io.”



§



Le acque scure e grumose schiumavano sotto i suoi piedi, spaventose e implacabili. Si trattava di un liquido all’apparenza torbido, che andava a scontrarsi rumorosamente contro l’enorme scafo dell’Atlantic Stinger, ora lanciata a tutta velocità in direzione di una nera sagoma immersa nell’oscurità.

Hanno sempre avuto ragione, in fin dei conti.

Dietro alle sue spalle, la luce opaca di qualche rara lanterna illuminava a malapena lo sparuto viavai di marinai e Ufficiali di guardia che cercavano di adempiere al loro mestiere nel silenzio più assoluto, seppure i loro lineamenti immobili tradissero in una qualche maniera lo stato d’animo comune: il conflitto con la Mad Veteran sarebbe avvenuto con tutta probabilità in mattinata ma – per quanto l’equipaggio dovesse essere avvezzo a situazioni del genere – il massacro compiuto dieci giorni prima era impresso a fuoco nelle menti di tutti.

Come aveva potuto pensare che le cose sarebbero andate diversamente?

Forse era per questo motivo che a nessuno era venuto in mente di fermarla; d’altronde era stata invisibile agli occhi di chiunque per ben diciassette anni di vita. Non vi era motivo per cui quella notte dovesse in fondo rappresentare un’eccezione, visto che non era cambiato assolutamente niente.

“Lui non ce la farà. Se desiderate illudervi, fate pure; ma sappiate che ciò vi porterà solamente sofferenza.”

Le dita bianco latte strette attorno alle sartie, Keeran Byrne fissava ad occhi spalancati l’oscuro oceano ruggire sotto di lei, misera figura in piedi sul parapetto di una delle navi più temute della Marina di Sua Maestà. Una brezza fresca, quasi fredda, pareva voler prendere a schiaffi il suo bel viso rigato di lacrime, mentre una nuvola di soffici capelli corvini s’agitava tutt’attorno a lei, pure se l’irlandese non se ne riusciva a rendere affatto conto. Le sue iridi color carbone erano infatti ipnotizzate dal movimento continuo della lontana onda, parecchi metri sotto la punta delle sue umili scarpette da domestica.

Si chiese cosa sarebbe successo se adesso avesse deciso di buttarsi nell’acqua ghiacciata, come sarebbe stato sprofondare dentro a un vuoto liquido e silenzioso. Non riuscire a sentire più niente.

“…tu sei il nulla.”

Un dolore sordo e persistente si contorceva sotto la sua stessa pelle e si faceva di secondo in secondo più insostenibile, perché era quel genere di sofferenza che lasciava tanto attoniti quanto confusi. Increduli, quasi come se si avesse visto con i propri occhi il cielo cadere.

Ed era uguale al sentimento che aveva provato per l’ultima volta dieci anni orsono, quando la morte le aveva strappato dalle braccia l’amata nonna, l’unica persona che si fosse mai interessata per davvero al suo interesse. Dopo, la sua esistenza non aveva più potuto chiamarsi tale.

“…ma, anzi, penso sia stupendo che tua nonna te la cantasse per farti addormentare.”

Lo sguardo pieno di rispetto di Saffie si palesò davanti ai suoi occhi, emergendo crudele dall’acqua nera. “Io mi sono illusa di poter diventare simile a lei” pensò Keeran, mordendosi il labbro inferiore con forza. “Perché deve essere tutto così ingiusto?”

Anche mio padre è un nobile, ma mi ha rifiutato come se non valessi niente.

La presa delle sue dita morbide sulle corde si allentò leggermente, al passo del richiamo delle onde sotto di lei che invece sembrava divenire di secondo in secondo più assordante. Un suono che la invitava a tuffarsi nell’abisso e non provare più alcun senso di impotenza e nessun dolore; ma, chissà, forse poter raggiungere Douglas, il primo ragazzo di cui si fosse mai innamorata.

Ovvio, le era stato negato pure che potesse sopravvivere e renderla felice; anche se l’irlandese era ben cosciente – dentro di sé – del motivo per cui ciò era accaduto. Avevano sempre avuto tutti perfettamente ragione nell’additarla come la nullità che aveva portato sfortuna intorno a sé: lei era il frutto di un terribile peccato mortale, la conseguenza di un atto che non sarebbe mai dovuto avvenire.

“La tua stessa nascita è una disgrazia.”

Lui era innamorato di mia madre, non di me. E io l’ho uccisa quando sono venuta al mondo.

Perdonami, Saffie” sussurrò Keeran, nella bocca il sapore salato delle lacrime. “Sei stata l’unica amica che io abbia mai avuto.”

E fu con un cuore gonfio di dolore e risentimento che la ragazza chiuse gli occhi fra le palpebre e lasciò la presa dalle funi, muovendo un passo in avanti, sul vuoto.

Ma io sono una delusione, davvero.

Con la stessa velocità di un fulmine, due braccia forti si allacciarono sotto il prosperoso seno dell’irlandese e la strinsero in un abbraccio d’acciaio, allontanandola di peso dal parapetto. Uno squittio sorpreso sfuggì dalle labbra carnose della ragazza ed ella cadde all’indietro, spalancando le iridi su una porzione di incredibile cielo stellato. “Meraviglioso” pensò solo, del tutto irrazionalmente, mentre la sua schiena aderì bruscamente ad una superficie sì solida, ma non tanto quanto si sarebbe aspettata dal pavimento dell’Atlantic Stinger.

“Tu devi essere veramente una stupida!” ringhiò un voce al suo orecchio, il tono vibrante di una collera mortale. “Spostati, pazza.”

Dopo un secondo attonito, Keeran si rese finalmente conto di essere sdraiata sopra al corpo di un certo qualcuno e, come sempre, non ebbe bisogno di voltarsi per riconoscere chi aveva appena parlato. Un piccolo sussulto spaventato la scosse e, senza perder tempo, rotolò di lato, inginocchiandosi sulle assi del ponte e lanciando così uno sguardo sperduto sulla sagoma slanciata di un James Chapman fuori di sé: il tenente la fissava con due iridi glaciali, ed era stranamente in maniche di camicia, trafelato e in disordine. Non portava il suo ridicolo parrucchino da Ufficiale e la diciassettenne poté notare dei cortissimi capelli castani sfiorare appena una fronte pallida e impregnata di sudore freddo.

“…Se desiderate illudervi, fate pure; ma sappiate che ciò vi porterà solamente sofferenza.”

Le iridi oscure della ragazza si abbatterono subito al suolo, offuscate da un lucido velo di lacrime.

“Io…”

Prima che potesse aggiungere qualsiasi altra cosa, o tentare di giustificare un gesto che lei stessa non era ben cosciente di aver tentato di compiere, il tocco leggero di cinque dita ruvide la stranì quel tanto da ammutolirla del tutto: James aveva infatti allungato in silenzio una mano verso il viso sconvolto di Keeran, trattenendole appena il mento e, al contempo, obbligandola con dolcezza a voltarsi nella sua direzione.

“No, non si tratta di un livido” commentò sottovoce, in maniera enigmatica, fissando gli occhi metallici sul piccolo alone violaceo che faceva bella mostra di sé sulla guancia dell’irlandese. Il suo sguardo si chiuse poi nella solita fredda superiorità ed andò a scontrarsi con quello sperduto dell’irlandese, impegnata a guardarlo di rimando, le belle labbra schiuse e un’impacciata figura tutta tremante. I suoi lucidi e ricci capelli corvini parevano ribellarsi allo stato stesso della natura, nel loro caotico modo di incorniciare un volto bianco latte, su cui brillavano due straordinarie gemme nere.

Tale ad un angelo caduto, al quale sono state strappate le ali.

“Rimani comunque una pazza” aggiunse il tenente Chapman in tono piatto, parendo in ogni caso sollevato nel vedere illesa la domestica personale della signora Worthington. Il ragazzo passò lentamente il pollice sulla morbida e fredda pelle di quest’ultima, rimuovendo così la misera macchia di sporco che Keeran doveva essersi procurata quando aveva deciso di arrampicarsi sul parapetto della nave. “Credi davvero che lui sarebbe stato felice, nel saperti morta a causa sua?”

“Eppure, sono così felice di avervi potuto incontrare, dopo aver sofferto per una vita intera.”

Come un pesante macigno, fu enorme la vergogna che piombò addosso di una signorina Byrne ancora inginocchiata sul rigido pavimento dell’Atlantic Stinger. Una devastante realizzazione dolorosa esplose nella sua mente all’improvviso e la ragazza sembrò rendersi finalmente conto della realtà che la circondava, della sofferenza provocata dalle dure e umide assi di legno sotto di lei, del suo cuore terrorizzato e della tarda notte oscura; a pochi centimetri di distanza, James Chapman attendeva una sua risposta, osservandola con un’espressione a metà fra la rabbia e l’indignazione stampata sul viso da principe arrogante. Sono stata una perfetta stupida.

“Ti avevo avvertito” asserì freddamente il giovane Ufficiale, ritraendo il braccio e abbandonando il viso dell’irlandese, seppure – non l’avrebbe mai ammesso nemmeno con sé stesso – la tentazione di prolungare quel contatto era vergognosamente grande. “Il mondo a cui io e quel Jackson apparteniamo è una realtà dominata dalla morte, dove nessuna luminosa illusione piò sopravvivere.”

Ed è lo stesso abisso, l’identico fondale, a cui anche Arthur Worthington si è condannato.

Trincerata in un mutismo costituito di diffidenza e disperazione, Keeran guardò James inarcarsi leggermente in avanti e appoggiare le braccia toniche sulle ginocchia, assumendo un’aria da pigro mascalzone che non gli apparteneva per niente; non sembrava affatto lo stesso impettito tenente dell’Impero che, proprio come un cagnolino fedele, seguiva ogni passo del Generale Implacabile. Fra le altre cose, il suo volto era in realtà leggermente abbronzato, cosparso da una leggera spruzzata di lentiggini rossicce e, notò la diciasettenne per la prima volta, i suoi occhi rilucevano di un grigio chiaro incredibile.

Uno sguardo da bambino tanto annoiato quanto solo.

Senza che se ne rendesse conto, le iridi vuote di James scivolarono di nuovo su di lei e sulla sua morbida figura inginocchiata. “Che hai da guardare tanto?” le chiese in tono improvvisamente stizzito, inarcando un sopracciglio scuro. “Mi sono dimostrato così terribile da non meritare nemmeno una tua parola?”

“Oh, ma sapete benissimo di essere una signorina nessuno, non è vero?”

“Sì, lo siete stato” pensò d’impulso Keeran, arrossendo violentemente e abbassando gli occhi neri di scatto, inchiodandoli per la milionesima volta sul pavimento; anche se, in quell’attimo, una serie di sentimenti contrastanti le imperversò dentro e l’irlandese scoprì di avere la voce bloccata in gola, poiché non sapeva cosa e come rispondere all’arrogante tenente Chapman. Era proprio come se fosse tornata indietro al tempo in cui Saffie l’aveva salvata, sottraendola all’inferno in cui si era meritata di stare: imprigionata dentro al suo guscio di paura, non osava allungare le mani e provare a forzarlo, liberarsi. Non osava parlare.

Lui si era dimostrato terribile ma, di certo, non era affatto un ragazzo cattivo.

Se solo fosse bastata questa considerazione a sciogliere le sue inossidabili e tremende diffidenze, allora forse la signorina Byrne sarebbe riuscita a ringraziare come si deve il ragazzo di fronte a lei per averla salvata sia dalle acque scure che da sé stessa. “La mia padrona sarà in ansia” esordì infine, quasi a caso, raggomitolandosi dentro le profondità dal suo guscio spezzato. “Vi chiedo la cor-cortesia di congedarmi, tenente.”

E la ragazza la vide subito, la sorpresa delusione che attraversò per un eterno secondo il viso raffinato di James, prima che quest’ultimo si trincerasse a sua volta dietro un’espressione di sprezzante superbia. “Ah, ma certo: devono essere molti i compiti che vi attendono” commentò glaciale, tornando a rivolgersi a lei con un sorrisetto storto e il formale voi di cortesia; il ragazzo si alzò poi in piedi con uno scatto agile e, senza essere sfiorato dal pensiero di aiutarla ad alzarsi, aggiunse: “D’altronde, siete una serva.”

Ancora due occhi da angelo triste si spalancarono timorosi sui suoi, provocandogli una sgradita fitta di bruciante senso di colpa, nauseante disgusto per sé stesso; malgrado questo, non riuscì a mettere a tacere il rabbioso senso di inadeguatezza e inferiorità che continuava a prendersi crudelmente gioco di lui.

“Piccolo James, ma davvero non hai compreso che così non ti farai mai nessun vero amico?”

L’eco di quelle parole lontane gli arrivò alle orecchie nel medesimo istante in cui egli decise di dare le spalle alla signorina Byrne, di non affrontare più alcuna impotenza o disillusione. Si avviò a grandi passi verso gli alloggi dedicati agli Ufficiali e non si guardò indietro, poiché tanto era più che certo la ragazza non avrebbe provato di nuovo a compiere alcun gesto da folle sciocca. Inoltre, a un ricco tenente dalle nobili origini come lui, cosa poteva interessare della sorte di una plebea qualunque?

“Un Marchese, figuriamoci! Tu, l’ultimo e il più stupido dei miei figli maschi!”

Una smorfia aberrante si dipinse sul volto di James, che alzò gli occhi grigi in tempo per inquadrare la figura altissima di Benjamin Rochester attenderlo sulla soglia delle cabine, mollemente appoggiato allo stipite della porta con una spalla e le braccia lunghe incrociate sul petto. “Devo fare i complimenti all’attenta vigilanza di cui si fanno vanto gli Ufficiali di guardia” scherzò il medico di bordo con un mezzo sorriso. “Fortuna che ho pensato bene di avvertire il letale braccio destro dell’Ammiraglio Worthington.”

“Siete voi il braccio destro dell’Implacabile” lo rimbeccò James, sibilando alla stessa stregua di un inferocito cobra velenoso. “Grazie tante per avermi buttato giù dal letto a quest’ora; mi chiedo cosa vi sia saltato in mente di fare, nel chiamare proprio me, fra quattrocento uomini disponibili.”

Benjamin sorrise con fare vago e misterioso. Aspettò di vedere la figura slanciata di James passargli accanto, prima di lanciargli la giacca blu della sua amata divisa da tenente, che il ragazzo prese al volo. “Oh, non credo il vostro innato talento nel strappare vite altrui sarà in alcun modo toccato da questa faccenda. Domani sarete come nuovo” commentò infine, insensibile allo sguardo omicida di Chapman. “Perché, dalla furia con cui siete corso in aiuto della ragazzina, posso dedurre che qualcuno qui si sia preso una bella cotta.”

“De-desiderate altro?”

Oh sì, desidero molto altro.

Nel buio, il volto da bambino capriccioso di James arrossì con violenza mai vista.

“Andatevene al Diavolo, Rochester!”

Il destinatario di quelle gentili parole sospirò con pazienza infinita e non disse nulla fino a quando non udì le porte degli alloggi chiudersi sonoramente dietro di lui, quasi il tenente Chapman le avesse volute in realtà rompere. “Il cucciolo adottato da Worthington è piuttosto feroce” considerò fra sé, socchiudendo gli occhi nero pece e lasciandosi contemporaneamente sfuggire un ghigno piuttosto ironico. “Pure se non è molto bravo a dare un peso alle parole.”

“Sapete, doveva esserci lei al mio posto.”

Uno strano senso di amarezza e disprezzo risalì la gola di Benjamin a tradimento, facendogli intendere che non sarebbe riuscito a liberarsi tanto presto dell’ossessivo pensiero di cui gli ultimi dieci giorni erano stati costituiti.

“Il suo braccio destro, eh?”

“Era destinata ad essere la moglie di Arthur Worthington e andare via insieme a lui.”

Dai suoi remoti ricordi, emerse la figura di un bambino alto e ossuto, forse più lacero e sporco degli stessi vestiti che indossava. Il dottor Rochester ricordò di essersi nascosto dietro alle possenti gambe di Simeon Worthington, poiché spaventato dallo sguardo vuoto e immobile di colui che l’Ammiraglio aveva presentato all’improvviso in casa.

Benjamin, ti presento mio figlio. Si chiama Arthur” aveva detto l’uomo, con voce profonda e roboante, piena di commosso orgoglio. “Ti ho parlato di lui, ricordi?

E allora Benjamin aveva alzato i grandi occhi neri su colui che, da parecchi anni a quella parte, rappresentava non solo la figura di padre adottivo, ma il suo intero mondo. “Arthur” si era limitato a ripetere piano, aggrappandosi al ricco tessuto dei pantaloni di Simeon con forza. “Il pirata?

Le labbra del medico di bordo si incurvarono leggermente all’insù, al ricordo del suo primo incontro con quel testardo uomo che rispondeva al nome di Arthur Worthington. Eppure, quel giorno, non aveva conosciuto solo lui.

Chapman sbagliava: il dottore non era affatto il suo braccio destro.

Benjamin ricordava di aver avuto un migliore amico capace di sacrificare sé stesso e chiunque altro all’oscura fame che con lui conviveva, e che mai lo lasciava solo.



§



Keeran Byrne bussò timidamente alla porta della stanza che condivideva con la sua padroncina, palesandosi poi sull’uscio illuminato con la stessa faccia di un condannato diretto al patibolo. La ragazza temeva più di ogni altra cosa la reazione della signora Worthington alla sua ricomparsa silenziosa, dopo che aveva non solo infranto qualsiasi regola imposta dall’etichetta, ma – soprattutto – disobbedito agli ordini impartiti: la domestica sapeva fin da subito di essere corsa via come una pazza, ignorando volontariamente i richiami preoccupati di Saffie.

Se solo tu riuscissi a non essere una delusione per tutti.

Malgrado la paura nei confronti della possibile punizione che avrebbe potuto subire per il suo pessimo comportamento, Keeran non riusciva in effetti a mettere a tacere l’insistente voce di James Chapman presente dentro alla sua testa; le parole schiette che il ragazzo le aveva dedicato solo un quarto d’ora prima risuonavano moleste e crudeli, ma dolorosamente vere: si era comportata per davvero come una folle, poiché di certo Douglas non avrebbe mai desiderato nulla del genere e, fra l’altro, cosa sarebbe potuto cambiare con il suo insensato gesto?

Nulla, come sempre. Ma una volta superato quel confine, lo sai, non c’è più modo di tornare indietro.

Con gli occhi grigi di James puntati addosso e un meraviglioso cielo stellato dispiegato sopra la sua testa, Keeran aveva d’un colpo compreso che desiderava ardentemente vivere, pure se la sua era un’esistenza da anatroccolo ripudiato.

Un bizzarro insieme di sollievo e incredulità emerse infine dalle pieghe del suo cuore, mentre era altrettanto strana la realizzazione che derivò da quei due diversi sentimenti: poteva quasi definirsi comico, che proprio l’insopportabile e arrogante tenente Chapman le avesse fatto inconsapevolmente capire questa verità assoluta.

Ti ha tratta in salvo dall’abisso. Non dimenticarlo.

L’irlandese non ebbe il tempo di approfondire la questione, poiché il suo il suo liquido sguardo nero fu attirato dall’unica figura presente nella stanza e un brivido di soggezione parve annullare tutto il resto: la signora Saffie sedeva rigidamente sullo stesso sgabello in cui l’aveva lasciata nelle ore precedenti, la schiena dritta e le piccole mani chiuse in grembo; una cascata di onde castane ricadeva disordinata sul viso esausto della Duchessina, fino ad arrivare a lambire i fianchi sottili, ben fasciati da una tenera veste da notte blu pallido. Gli occhi grandi erano fissi su di lei, pieni però di una quieta serenità che la stranì.

Ed era un angelo irraggiungibile, di cui aveva sempre temuto il luminoso e ridente sguardo.

“Si-signora, io…”cominciò a balbettare l’irlandese, stringendosi nelle solide spalle per darsi coraggio e nel contempo sostenere la vergogna provocata dal solo avere la padroncina seduta davanti. “So-sono stata una per-perfetta scio…”

“Siediti al mio fianco, Keeran.”

L’ordine era stato articolato senza alcuna particolare inflessione di tono, ma il tenue sorriso gentile che si palesò sul viso di Saffie chiarì qualsiasi dubbio all’irlandese: la padrona non sembrava essere mossa da rabbia alcuna, né desiderosa di punirla troppo presto. In ogni caso, la diciassettenne non si sentì abbastanza sicura di poter spiccicare ancora parola, per cui obbedì alla richiesta della signora Worthington senza fiatare.

“Vorrei raccontarti una storia” le disse Saffie con calma, una volta che Keeran ebbe preso posto sulla sedia accanto alla sua; e aspettò di incrociare lo sguardo confuso di quest’ultima, prima di continuare: “Ti andrebbe di ascoltarla?”

Confusa oltre ogni dire, l’irlandese annuì lentamente e, raccolto un pugno di abbondante temerarietà, si decise a chiedere a sua volta: “Di-di che narra?”

Un silenzio strano cadde nella stanza e, per un istante, fu come se un velo di opaca malinconia fosse andato a coprire il piccolo corpo di Saffie Worthington. Alla luce fioca e calda delle candele accese, una tristezza disarmante invase gli occhi e il viso della ragazza che, muta, osservava la sua dama di compagnia con un sguardo di strana ironia dolorosa. “È la mia storia” le rispose infine, e l’ultima parola quasi parve risuonare più alta nella camera.

Sbalorditi, le iridi color pece di Keeran si spalancarono sul viso tormentato della signora Worthington.

“Sai di Amandine e della sua malattia, non è forse così?” cominciò dunque la Duchessina, spostando il viso ovale in direzione della porta chiusa e osservandone il legno con assente interesse. “Ma ancora non sai che non siamo sempre state insieme, malgrado l’affetto reciproco: è esistito un tempo in cui ci…mi sono illusa di poter ottenere la libertà che fin da bambine avevamo sempre sognato.”

Come se qualcuno avesse aperto la nostra detestata gabbia fatta d’oro.

“Parlo dei due anni che ho trascorso a Londra” chiarì Saffie, voltandosi nuovamente verso una signorina Byrne dal fiato sospeso e le tenere labbra socchiuse dalla sorpresa. “Dovevo trovare un marito o, almeno, questo era ciò che i miei genitori si auguravano per me e per il bene del Casato dei Lynwood.”

Un sospiro pesante sfuggì dalle labbra della Duchessina ed ella abbassò il capo castano sulle sue stesse piccole dita, fermamente intrecciate le une con le altre. Non avrebbe mai dimenticato l’immenso senso di liberazione provato quando – per la prima volta – la ricca carrozza di famiglia era finalmente giunta entro i confini della capitale dell’Impero e lei si era sporta coraggiosamente fuori dal finestrino, gli occhi spalancati sul caotico viavai presente in strada; ed il suo viso si era subito aperto in un’espressione di radiosa felicità, perché era stata forte la tentazione di credere che una nuova vita fosse appena incominciata.

Di essersi liberata dalle solide sbarre costruite da suo padre.

Una vita lontana dal Northampton e dall’inconsistente vanità dei Duchi di Lynwood, dal cono d’ombra in cui la malattia di Amandine l’aveva relegata per praticamente la sua intera esistenza, dove a nessuno era mai veramente importato ciò che realmente avesse da dire o le piacesse fare. “Io amavo mia sorella e ne sentivo la mancanza, davvero” spiegò Saffie a bassa voce, senza alzare gli occhi scuri. “Eppure non ho esitato un attimo a buttarmi fra le braccia della Società di Londra, a ricambiare la capricciosa curiosità che il mio arrivo aveva suscitato fra le famiglie nobili della città. Ho partecipato a tanti di quei fastosi ricevimenti che, non ci crederesti, passavo solo due sere a settimana in casa!”

L’eco di una leggera risata divertita aleggiò fra le due ragazze, ma l’espressione di colei che l’aveva prodotta rimase comunque l’incarnazione della nostalgica malinconia. “Ed è stato nella capitale che ho conosciuto lui.”

“Lu-lui?” ripeté perplessa Keeran, sporgendosi leggermente in avanti, come a voler cogliere ogni sfumatura del tono usato dalla padroncina; non aveva bene compreso dove quest’ultima volesse andare a parare con il suo racconto, ma poteva dire di nutrire un bruciante interesse nei confronti di ciò che concerneva il suo passato.

Il visino ovale di Saffie si sollevò di nuovo in direzione del suo e l’irlandese pensò che il sorriso rassegnato della ragazza castana fosse insostenibile da guardare. “Earl Murray” spiegò poco dopo la quest’ultima, annuendo appena. “L’uomo di cui mi sono innamorata.”

Saffie notò in modo vago il piccolo sussulto che colse la sua dama di compagnia e, anzi, si portò inconsciamente una mano a coprirsi la spalla sinistra, poiché – ancora – era l’imponente figura di Arthur Worthington ad infestare la sua mente. O meglio dire la avvelenava, visto che non riusciva più a pensare ad altro.

“Tu sei mia, adesso.”

Si sentiva come se lui fosse infine riuscito a marchiarla per davvero.

“Era il vostro fida-fidanzato?”

“Oh, no!” esclamò immediatamente l’interpellata, scuotendo la scarmigliata chioma castana con forza, prima di abbassare nuovamente il capo. “Come se mio padre avrebbe mai potuto acconsentire ad un legame del genere.”

A pensarci adesso, è stato ridicolo da parte mia pensare che potesse accadere sul serio.

“Come ben saprai, è costume di ogni fanciulla della Buona Società essere accompagnata a qualsiasi evento da uno Chaperon…e la sottoscritta, per certo, non faceva eccezione!” aggiunse ancora, quasi ridendo al ricordo dell’anziano maggiordomo che Alastair le aveva messo alle costole. “Rimpiango siano passati solo sei mesi, prima che il Duca venisse messo a parte della disdicevole abitudine del mio accompagnatore: la serata era iniziata da nemmeno dieci minuti, che già lo si poteva trovare a sonnecchiare su qualche divanetto appartato!”

Uno strano e malcelato grugnito fuoriuscì dalle narici di Keeran ed ella provvide subito a portarsi una mano bianca alla bocca, per nascondere dietro alle dita un leggero ghigno divertito. Pure se, nel profondo, si sentì grata nei confronti della Duchessina: cercare di ignorare il fatto che Douglas non esistesse più era tanto doloroso quanto impossibile, ma il racconto di Saffie serviva allo scopo.

“Povero Gregory!” disse quest’ultima, mentre un smorfia di spigolosa ironia si palesava sul suo volto grazioso. “Ma, probabilmente, sarebbe stato meglio per tutti se mio padre non avesse deciso di sostituirlo.”

E la signora Worthington non poté impedirsi di vedere un paio di timidi occhi neri, incastonati su un volto imbarazzato, ma dalla bellezza onesta e pulita. Una mano grande che andava a posarsi nervosamente sopra una disordinata capigliatura rossiccia, dello stesso colore di una foglia d’Autunno.

Un ragazzo alto e impacciato comparso sulla porta della sua lussuosa residenza cittadina, proprio nel primo giorno di quella fredda stagione.

“Il mio nome è Earl Murray, Vostra Grazia. E…e, ecco, ricopro il ruolo di vostro Chaperon d'ora in avanti. Spero di poter aiutarti…cioè, rendervi adeguatamente onore.”

Saffie sorrise e il suo cuore cominciò a dare i primi segni di esausto cedimento; sentiva che sarebbe crollata a piangere da un momento all’altro, per quanto avesse promesso ad Amandine di non farlo.

Già. Come avevo creduto di non potermene innamorare?

“Earl era a tutti gli effetti un servo alle mie dipendenze, Keeran; proprio come lo sei tu. Sai, suo padre è stato per molti anni uno degli uomini incaricati di occuparsi dei nostri giardini secolari e, in nome della fiducia che il Duca riponeva in lui, è toccato al figlio accollarsi la capricciosa Saffie Lynwood” raccontò la nobile in questione, con il medesimo sguardo assente di chi sta rivivendo qualcosa di scomparso per sempre. “E dire che io e Amandine ci siamo trovate a passargli accanto innumerevoli volte senza accorgercene.”

Un’altra atroce fitta dentro al cuore, pungente come un ago appuntito, e la ragazza ricordò quando lei e sua sorella giocavano a rincorrersi lungo i sentieri del parco di casa, superando con indifferenza l’anonima figura di un ragazzino chino sulle aiuole in fiore.

Perché non ti ho mai guardato prima?

Forse così avremmo avuto più tempo.

“Se la mia vita nella residenza della capitale era comunque sorvegliata da un nutrito stuolo di domestici, ero presente agli eventi mondani e culturali solo grazie alla sola compagnia di Earl Murray, da cui dipendevo in toto” fece Saffie, alzando infine le iridi vuote sulla profondità della camera da letto, senza però riuscire a vedere nulla. I suoi occhi castani erano ormai troppo lontani. “Eravamo praticamente coetanei e trovavo estremamente divertente la sua difficoltà nell’approcciarsi a me con i suoi goffi modi da finto gentiluomo. Forse mio padre aveva pensato che non vi sarebbe stato alcun pericolo, nel mettermi a fianco un ragazzo che lui stesso aveva considerato infinitamente inferiore a me; sebbene l’avesse fatto istruire per poter apparire davanti agli occhi della Società senza essere giudicato come un plebeo qualunque.”

Sì, aveva passato i primi mesi a prenderlo in giro per i rigidi modi ossequiosi con cui continuava a rivolgersi nei suoi confronti, a divertirsi nel cercare di sfuggire al suo timido controllo; sparendo fra la calca danzante di un importante ballo, o in mezzo ad un fitto giardino costituito di fitte siepi ornamentali, ad esempio. Non riusciva ad ammetterlo per bene neanche con sé stessa, ma era in realtà affascinata e al contempo infastidita dall’atteggiamento di pacata pazienza con cui Earl continuava a cercarla, trovandola puntualmente e sorridendole infine come se non fosse accaduto nulla, né lui fosse minimamente turbato dalle sue volontarie fughe.

Il viso di Saffie si accese di un tenue rossore diffuso, ma altri aghi vennero a pugnalare crudelmente il suo cuore spezzato. No, aveva giurato a suo padre che l’avrebbe dimenticato e ad Amandine di non versare più alcuna frivola lacrima.

Ma già sapeva sarebbe stato tutto inutile.

“Non siete un po’troppo sicuro di voi, signore?” ricordò di aver scherzato uno di quei giorni lontani, quasi sbuffando in faccia al suo accompagnatore. “Non vi dimostrate mai preoccupato di potermi perdere per davvero!”

Earl si era fermato di botto, voltandosi poi nella sua direzione con due ridenti occhi di tenebra. “Questo perché so di potervi ritrovare facilmente, signorina Lynwood” aveva commentato in maniera laconica, infilando le mani nelle tasche dei calzoni con fare vago.

“Come ho detto prima, siete fin troppo sicuro di voi stesso. Mi chiedo cosa vi dia tutta questa confidenza!”

Le aveva dette ridendo allegramente, quelle parole. Eppure, era stato con un amaro groppo in gola che si era decisa a girarsi ed aveva ricominciato a camminare sullo scricchiolante sentiero di ghiaia di Hyde Park. In quell’istante, non un suono sembrava fender l’aria, a parte il vento che aveva preso a scuotere le chiome degli alberi con gentilezza.

Dovresti averlo già compreso.

La voce seria di Earl era arrivata dall’alto, come se fosse piovuta dal cielo; ed egli l’aveva afferrata dolcemente per il braccio, attirandola a sé con una strana lentezza ipnotica. “È da me che stai fuggendo, Saffie” le aveva mormorato piano, imprigionandola contro il suo corpo alto e solido.

Poi si era chinato su di lei e l’aveva baciata a lungo, approfittando della quiete solitaria e oziosa del primo pomeriggio.

“Lo amavo così tanto, Keeran” confessò alla fine la Duchessina, il cui tono di voce aveva cominciato a incrinarsi ad ogni parola pronunciata, gli occhi castani lucidi di lacrime. Ella si voltò verso la sua domestica e l’irlandese poté indagare un viso rosso, consumato dal rimorso e dalla sofferenza. “E anche Earl era innamorato di me. Abbiamo mantenuto questo nostro vergognoso segreto – questo sentimento impossibile – per quasi un anno intero…cercando disperatamente di scordare chi eravamo davvero.”

Due mondi a cui non è mai stato concesso di incontrarsi.

Cinque morbide dita si posarono sopra le mani tremanti di Saffie, in un timido gesto di comprensivo conforto. “E…Amandine lo sapeva?” osò chiedere la signorina Byrne, ignorando il fastidioso sapore che si era fatto strada nella sua bocca al nominare l’amata sorella della Duchessina per la prima volta; inoltre, aveva ancora infranto le regole dell’etichetta di rango, ma entrambe non sembrarono curarsene affatto.

“Certo” fu la schietta risposta che ricevette. “Io e Amandine ci tenevamo in contatto tramite innumerevoli lettere e, in generale, ci siamo sempre dette tutto.”

Sul serio?

Perché, lo sai, sull’Ammiraglio non hai fatto altro che mentire.

Un enorme senso di colpa le cadde addosso nel medesimo istante in cui il tanto detestato pianto trovò la strada per fuoriuscire dai suoi occhi e Saffie seppe di essere totalmente impotente di fronte ai suoi disgustosi sentimenti, gli stessi che lei non credeva di avere il diritto di provare: un desiderio e una speranza avevano infatti cominciato a svegliarsi dentro al suo cuore, allontanando l’odio di cui si era scioccamente nutrita in quei mesi. Come poteva lasciare loro il controllo, dopo aver voltato le spalle all’uomo che aveva giurato di amare?

E aver desiderato di essere al posto di Amandine, a cui hai nascosto la verità.

Saffie si strinse nelle spalle, pronta a ricevere il colpo.

Volevi essere tu la sorella amata da Arthur Worthington…fin dal primo momento.

“Poi cos’è accaduto?” si fece strada nella mente la voce flebile di Keeran, la sua ancora di salvezza.

La Duchessina cercò di ripulirsi le guance con il dorso della mano e fece un cenno vago, di finta noncuranza. “Oh, nulla che non avessi potuto prevedere” disse, posando nuovamente le dita in grembo, su quelle fredde dell’irlandese. “Si sa, ogni storia prima o poi giunge al termine.”

Non c’è altro modo. Vieni via con me, Saffie. Solo allora sarò un uomo veramente felice.

“Avevo ventitré anni ed ero innamorata, Keeran” continuò la ragazza castana, il tono rotto dal pianto. “Sono stata presuntuosa e stupida, poiché non ho pensato ad altro se non a liberarmi dalla gabbia dorata in cui avevo sempre vissuto. La mia reputazione e quella della mia famiglia, Amandine…no, non ho pensato più a nulla.”

“…la mia primogenita. Per quanto credevate di riuscire a sfuggirmi, tu e quella nullità che affermi di amare?”

Un sospiro pesante, affaticato, e di nuovo Saffie abbassò le iridi liquide sul pavimento di legno lucido. “Era scontato che il Duca lo venisse a scoprire, visto che mio padre è a capo di uno dei casati più antichi di Inghilterra; amicizie influenti e mezzi a disposizione non gli mancano di certo. E, figuriamoci, non avrebbe mai sprecato la sua primogenita così, dandola in sposa al figlio di un giardiniere!”

Sono catene impossibili da spezzare, quelle forgiate dalle famiglie di potere.

Saffie ricordò di aver preparato un misero bagaglio in tutta fretta, di come era riuscita a sgattaiolare fuori dalla sua residenza senza che alcun domestico sospettasse una sua possibile fuga e di quanto si era sentita pervasa di un sentimento di libertà terrificante, una volta arrivata sulla soglia del lussuoso appartamento dei signori Gardiner, benestanti intellettuali e amici, ora complici di averla aiutata nel suo scandaloso piano.

Dopo poco era arrivato anche Earl e le si era subito fatto incontro, abbracciandola con forza, come se non potesse credere alla sua presenza lì…al fatto che Saffie avesse scelto di stare insieme a lui per davvero.

“Farò di te mia moglie, Saffie. Così nessuno potrà né imprigionarti di nuovo, né separarci.”

“Mio padre ha impiegato meno di due giorni per trovare il nostro nascondiglio” concluse la Duchessina, sorridendo con triste e amara ironia. Agli occhi della sua domestica, sembrò quasi che il suo viso grazioso e rosso si fosse adombrato di botto, attraversato da chissà quale emozione crudele. “Deve aver chiesto l’aiuto di qualcuno molto ricco ed influente, ne sono sempre stata convinta.”

Saffie si risparmiò di raccontare a Keeran la parte in cui, quasi scardinando la porta del salotto di casa Gardiner, due impassibili Ufficiali dell’Impero avevano fatto irruzione nella stanza ed erano praticamente saltati addosso ad Earl, bloccandolo poi contro il freddo pavimento di marmo con violenza. Dal buio del corridoio, erano poi sbucate le figure silenziose di un altro Ufficiale e di Kitty, la sua vecchia balia; ed era stato di oscena indignazione lo sguardo con cui gli occhietti dell’anziana domestica l’avevano fulminata.

“No, vi imploro! Non fategli alcun male!”

Trattenuta a malapena dalle rugose mani di Kitty, Saffie aveva urlato quelle parole isteriche al vento, poiché gli Ufficiali avevano evidentemente ricevuto l’incarico di punire Earl Murray per il suo orrendo e scandaloso crimine. No, non avrebbe mai dimenticato l’espressione colma di dolore e preoccupazione con cui il ragazzo l’aveva guardata per l’ultima volta, alzando la testa rossa e scarmigliata di scatto.

“È me che cercate! La figlia di Alastair Lynwood! Earl non ha alcuna colpa!”

Due iridi nere come la notte stessa si erano aperte su di lei, colme di un amore smisurato. “Non avvicinarti, Saffie” aveva sussurrato, incurante del sangue che colava dal suo labbro spaccato. “Devi lasciarmi andare.”

Poi, ricordava solo di essere stata trascinata di peso sul tiro a quattro di suo padre, i cui cavalli neri sbuffavano nervosamente, quasi fossero pure loro ansiosi di portarla via.

“Da allora, non l’ho più rivisto” asserì sottovoce la Duchessina, colma di insopportabile sofferenza.

Le dita paffute di Keeran si strinsero su quelle della ragazza al suo fianco, premendo con delicatezza contro le mani tremanti di quest’ultima. “Mi-mi dispiace veramente tanto, signora” pigolò, sperando di poter essere di un qualche sollievo per lei. “Gra-grazie per avermi raccontato di Earl Murray.”

Un ennesimo sorriso triste e il volto dall’espressione rassegnata di Saffie fu di nuovo visibile, alla luce sempre più fioca delle candele. “Ho pensato a lungo che fosse stata in fondo colpa mia: ho osato desiderare l’impossibile, illudermi di poter cambiare le cose ed essere felice” le spiegò, guardandola di nuovo con la sua solita espressione di empatica gentilezza. “Ero preda di un sentimento distruttivo e, per un istante, ho forse desiderato di essere morta.”

“Credi davvero che lui sarebbe stato felice, nel saperti morta a causa sua?”

Gli occhi neri di Keeran si spalancarono all’improvviso, e lei fu colta di sorpresa dalla fastidiosa voce seria di un James Chapman che – davvero – non accennava ad abbandonare in alcun modo la sua mente. L’irlandese comprese in un fulmineo attimo l’intero discorso della signora Worthington, del perché avesse deciso di sacrificare i suoi ricordi per la sua inutile servetta, abbandonandosi ad un dolore che sapeva sarebbe sicuramente giunto a tormentarla; un’altra rivelazione si svelò nell’anima nascosta della diciassettenne ed ella fu invasa da un caldo quanto benevolo sentimento.

E, per la prima volta, si sentì veramente vicina a Saffie. Uguale a lei.

“Siete stata tan-tanto coraggiosa, in mia opinione” disse la sua Keeran, annuendo fieramente, i riccioli corvini che si allungavano tutt’intorno alla morbida figura. “Io, invece, dovrei so-solo chiedervi perdono per il mio pes-pessimo comportamento.”

“È una notte molto triste per entrambe” glissò la signora Worthington, posandole una piccola mano sulla spalla con fare confidenziale. Infine, le sorrise per l’ultima volta, instancabile. “Cosa ne dici di dormire nel mio enorme e comodo letto da aristocratica, al posto della angusta cuccetta che occupi?”

“Ma, se ci tenente così tanto ad essere sua amica, allora dovete essere la prima a fidarvi di lei.”

Immersa nell’oscurità della camera, Saffie ripensava al consiglio pieno di gentilezza di Benjamin Rochester. La ragazza aveva preso a dormire con sé una Keeran letteralmente distrutta dagli eventi della giornata ed ora le sue iridi sveglie erano intente ad osservare la sagoma nera dell’irlandese ronfare al suo fianco, raggomitolata su sé stessa come un riccio spaventato. “Spero di poterti essere stata di conforto e distrazione, amica mia” pensò la Duchessina, tormentata però da un segreto e pressante pensiero.

Ah, sì? E, dunque, perché non le hai raccontato come è finita realmente la storia?

Le sue dita si aggrapparono al cuscino con forza, come se Saffie avesse deciso di strappare via l’imbottitura di piume. Per assurdo, le venne in mente il sogno fatto due settimane prima e di come Earl Murray fosse riuscito a sfuggire dalle pieghe dei suoi ricordi, confondendosi fra fantasia e realtà: erano stati amanti per un anno, ma non avevano consumato nessuna passione fra le lenzuola di casa Lynwood, né Amandine li aveva mai coperti direttamente.

E Arthur Worthington non aveva ancora stravolto la tua vita.

Il volto esausto di Saffie si nascose nel tessuto profumato e morbido, mentre la proprietaria cercava di frenare il flusso di immagini e suoni che vorticava incessantemente dentro alla sua testa; aveva deciso di scoperchiare un vaso di Pandora e ne doveva affrontare le giuste conseguenze.

come è finita realmente la storia?

“Certo che ho dato ordine di punire quel disgraziato” confermò Alastair, rilassandosi pigramente contro il divano e osservandola con due annoiati occhi castani. “Ecco cosa ci si guadagna a mostrare benevolenza nei confronti dei plebei: diventano irrispettosi e si montano la testa, dimenticando qual è il loro posto nel mondo.”

Un secondo di silenzio pesante e suo padre aveva fatto un lieve cenno nella sua direzione, agitando appena la mano ingioiellata come se volesse congedarla dal salotto vuoto al centro del quale lei si ergeva in piedi, tremante e pallida. “Anche tu continui a dimenticare il tuo posto” continuò il Duca, in tono piatto. “Sei preziosa. La mia primogenita. Per quanto credevate di riuscire a sfuggirmi, tu e quella nullità che affermi di amare?”

Ancora, non aveva trovato coraggio alcuno e si era limitata a fissare l’alta figura del padre con due grandi occhi terrorizzati – stranamente muta di fronte alle sue fredde parole – e aveva compreso solo di essersi rivelata una completa folle, nell’aver creduto di poter spezzare le sue catene d’oro. La gabbia, alla fine, non era mai stata aperta per davvero.

Un sospiro insofferente era infine sfuggito dalle labbra pallide di un Alastair Lynwood a cui, da sempre, era piaciuto mettere alla prova l’intelletto testardo della figlia maggiore; giocare sadicamente con i suoi sentimenti, per forzarla a diventare più simile a lui di quanto avrebbe mai desiderato. “Devo comunque riconoscerti un certo scaltro egoismo, figliola...un lato che certamente devi aver ereditato dal sottoscritto” aveva ammesso, sorridendo appena. “E, per questo, ti concederò una scelta, Saffie: libertà insieme al tuo disgustoso plebeo o Amandine, e la prigionia nel Northampton. Fai attenzione a ciò che deciderai di fare, poiché è in mezzo agli squali che stai nuotando.”

Con il senno di poi, avrebbe dovuto già saperlo come sarebbe andata a finire. Ugualmente, la ragazza aveva alzato la testa castana e aveva osato finalmente chiedere, balbettando: “Mi-mi lascerete decidere?”

Il sorriso da volpe astuta del Duca si era fatto sottile ed inquietante. “Oh, certo” aveva risposto, sporgendosi verso di lei, la lunga parrucca ricciuta che andava a sfiorare la sua splendente giacca rosso sangue. “Lascerò che tu parta insieme a Earl Murray e non sentirai mai più parlare del tuo malvagio vecchio. Eppure, mi chiedo, potrai sopportarne le conseguenze?”

Due iridi luminose e pene di lacrime si erano aperte su quelle di Alastair Lynwood, ed erano tanto identiche quanto paradossalmente diverse.

“Perderai tutto. Non sarai chiamata con il mio nome e mi assicurerò personalmente che tu non venga ricevuta in Società; verrai ripudiata ed allontanata dalla tua cerchia di amicizie e, ovviamente, dovrai dire addio alle frivole passioni di cui vai tanto fiera” aveva sentenziato suo padre, inchiodando due taglienti occhi castani sulla primogenita. “Sarai costretta a vivere nella miseria del proletariato e chinerai il capo tutta la vita, perché è questo il mondo a cui appartiene Murray. Non vedrai mai più Amandine.”

Ignorando il leggero russare di Keeran in sottofondo, Saffie continuò a premere il viso rigato di lacrime contro il cuscino, combattendo un senso di colpa immenso e letale. Un dolore insostenibile premeva contro la sua cassa toracica, bruciandogli nel petto e rendendole faticoso persino l’atto di pensare, poiché in effetti era solo una, la frase che rimbalzava dentro alla sua anima ferita.

Non è chi ha niente da perdere, ma chi vuole sopravvivere, che vince sempre.

“Era forse una falsa scelta, ma sono stata io a decidere. Ad abbandonare Earl” pensò la ragazza, facendosi volontariamente del male. Di fronte alla prospettiva di perdere Amandine, di dover vivere un’intera vita senza la possibilità di poter dedicarsi ai suoi interessi, l’amore provato da Saffie aveva vacillato e lei stessa si era odiata immensamente, poiché aveva compreso subito quale sarebbe stata la sua risposta. Ed era stato disgustoso da parte sua, sciocca ventitreenne viziata, avvinghiarsi con le unghie e con i denti alla comoda esistenza da Duchessina che fino ad allora aveva vissuto.

La verità è che anche io sono un’eccellente bugiarda, tanto quanto lo è Worthington.

Saffie si rannicchiò in posizione fetale, abbracciando stretto il suo stesso piccolo corpo tremante di sofferenza. L’aberrante sentimento che credeva di essersi lasciata alle spalle riemerse dentro di lei a tradimento e, in un attimo, la ragazza capì che il disprezzo non l’aveva in realtà mai abbandonata. Comprese, finalmente, di aver sempre odiato sé stessa.

Le dita della Duchessina sfiorarono la pelle livida della sua spalla sinistra ed il suo senso di colpa le sussurrò all’orecchio quanto lei non fosse riuscita a cambiare affatto, che sarebbe rimasta per sempre una scandalosa e meschina donna.

Piangeva per Earl, mentre il suo più grande desiderio era lasciarsi cadere fra le braccia di Arthur.



§



“Amami o odiami, entrambi sono a mio favore.

Se mi ami, sarò sempre nel tuo cuore.

Se mi odi, sarò sempre nella tua mente.”*

Arthur alzò gli occhi smeraldini dal libro stretto fra le dita e li rivolse verso il cielo notturno, dove un’immensa e luminosa coperta di stelle si dispiegava al suo sguardo vuoto. Una impietosa folata di vento freddo spettinò appena i suoi capelli scuri, onde d’inchiostro che s’infrangevano sopra un viso aristocratico ed indifferente, come se l’uomo stesso fosse in realtà ben lontano dalle meraviglie attorno a lui.

“E cosa farai, una volta che l’avrai raggiunta?”

Similmente alla sera che aveva preceduto il primo scontro con la Mad Veteran, egli aveva deciso di ritirarsi nella quieta oscurità del ponte superiore dove – poteva scommetterci – il timoniere ed i marinai di servizio non avrebbero osato avvicinarlo. Difatti, il pontile poteva dirsi sgombro del pomposo viavai di Ufficiali che contraddistingueva le ore diurne e, in generale, il luogo risultava essere parecchio silenzioso: nessuno pareva morire dalla voglia di parlare e realizzare ad alta voce l’unico pensiero che monopolizzava le menti di tutti.

In fondo, l’imponente sagoma nera che stavano braccando era l’incarnazione stessa di una preda ormai spacciata.

“Quello che deve essere fatto.”

Ed è in questo modo che hai sempre ragionato, non è vero?

Le mani grandi dell’Ammiraglio si strinsero nervosamente sul volume donatogli da Amandine fin troppo tempo prima, sebbene l’uomo si rese conto di non stare affatto pensando a lei. No, la verità stava nel fatto che non riusciva più a pensare a nulla al di fuori di Saffie Lynwood e all’opprimente bisogno di possederla, di sentirle dire che desiderava essere fatta sua.

Pure se hai già vinto, Arthur.

Fu come se la sua fedele e morbosa ambizione gli sorridesse dal buio dell’abisso, mostrandosi infine crudelmente soddisfatta. Là, da qualche parte dentro di lui, Worthington poté vedere l’immagine della Duchessina e della Mad Veteran sovrapporsi fino a formare la rappresentazione di un unico obbiettivo.

Tutto, tutto gli sarebbe appartenuto.

Le sue iridi chiare fremettero di uno strano e pericoloso sentimento, ed egli dovette subire l’arrivo di un violento brivido di trionfante appagamento, tanto dolce quanto lussurioso.

D’altronde, il suo famoso dovere incorruttibile non era nient’altro che una implacabile fame desiderosa.

Un battito di ciglia e, a tradimento, il cielo stellato gli restituì il sorriso di incauta allegria della piccola strega. Un immediato senso di repulsione e colpa venne a galla dalle sue viscere, oscurando così i suoi pensieri da Re capriccioso: perché Saffie sorrideva, certo…ma non a lui. Nascosta dalle discrete mura di un elegante cortile interno, di gusto Quattrocentesco, la ragazza aveva mostrato la sua migliore espressione di imbarazzata felicità ad una persona che Arthur non era riuscito subito ad intravedere.

È una promessa” aveva sussurrato l’insopportabile Duchessina, sfoggiando un viso e un tono radiosi. “Hai dichiarato di voler prendere in moglie questa viziata fanciulla...non puoi proprio tirarti indietro!

L’Ammiraglio ricordò di averla udita ridere divertita, mentre l’eco di quel suono era riuscito a riecheggiare tra le pareti, somigliando al verso che avrebbe fatto un candido uccellino finalmente libero dalla gabbia; ed egli aveva fatto in tempo ad accarezzare con lo sguardo le sue labbra rosee, prima che l’altra persona facesse la sua comparsa sulla scena: un alto ragazzo rossiccio si era portato vicino a lei, stringendola subito fra le braccia con fare intimidito, quasi avesse timore di poter vedere la piccola figura di Saffie svanire da un momento all’altro.

“Sarai libera, Saffie” le aveva assicurato il plebeo, baciandola teneramente fra i capelli castani. “Saremo felici. Te lo giuro.”

Un sentimento aspro si era affacciato subito alle porte della sua anima imprigionata nell’abisso, senza che lui stesso se ne rendesse conto per davvero. Arthur aveva quindi voltato la testa bruna seccamente, nascondendosi all’ombra del porticato e inchiodando il suo sguardo sul viso pallido del soldato che lo accompagnava. “È lei?” aveva domandato solo, in tono brusco.

Il giovane ragazzo aveva annuito una volta sola e Worthington si era ritenuto soddisfatto da quella risposta, visto che aveva deciso di girare i tacchi senza aggiungere altro, né degnare di un’altra occhiata la minuta Saffie Lynwood. L’uomo rimembrò di aver aspettato di giungere fin sulla trafficata strada principale prima di asserire, con la consueta compostezza elegante: “Non mi resta che informare il padre della ragazza e assicurarmi il vostro silenzio”.

“Co-commodoro?”

Arthur si era avvicinato ad una lussuosa carrozza parcheggiata a bordo strada e non aveva esitato un secondo nel voltarsi indietro, fulminando con due glaciali occhi d’acciaio il poveretto alle sue spalle. “Non farete parola di questa faccenda con anima viva né ora, né mai” l’aveva minacciato a bassa voce. “Se ciò dovesse sfortunatamente accadere, sappiate, non ci sarà uomo alcuno che potrà proteggervi dalle conseguenze.”

“È così dannatamente lontana” pensò Worthington, le iridi smeraldine ancora perse nella cupola luminosa. Il suo braccio destro si mosse in automatico, di lato, avvicinandosi al lucido tavolo di legno al suo fianco; altrettanto inconsciamente, le dita lunghe dell’uomo si strinsero attorno ad un freddo bicchierino colmo di liquore ed egli se lo portò alle labbra senza nemmeno guardarlo, bensì bevendone il contenuto in un colpo unico. “Irraggiungibile.”

Sentì l’alcool bruciare dentro alla sua gola, amaro, ma stranamente questo non sembrò servire a distrarlo dal dolore che stava sperimentando in quell’istante. Una nuova sofferenza…che lui non comprendeva e non desiderava spiegarsi.

Vuoi impossessarti di lei, pure se non ti amerà mai?

Chissà, potresti persino finire per ucciderla sul serio questa volta.




Angolino dell’Autrice:

*se vi è piaciuto il Capitolo, spero prendiate in considerazione di Recensirlo/Votarlo/Farmi sapere cosa ne pensate!*

Buonasera e Buon Febbraio! :D

Come promesso, sono tornata entro la solita scadenza mensile, pure se questa volta ho seriamente temuto di avere un ritardo nella pubblicazione: sono tornata alla mia vita di sempre dopo i miei problemi di salute, ma pare che i miei ritmi lavorativi siano diventati più serrati! (-.-)”

Inoltre, per quanto ci tenga ad aggiornare con almeno un minimo di decenza, la mia priorità rimane scrivere in maniera per me soddisfacente e quindi mi ci vuole un po’di tempo, prima che i capitoli giungano a conclusione. Questo, in particolare, mi ha richiesto un’attenzione tutta speciale.

Comunque, comunque! Ho intenzione di pubblicare il prossimo Capitolo sì a Marzo, ma nell’arco di una/due settimane da oggi…ce la farò?(TvT)

E ora alla storia. Non ho molto da dire, in realtà: tutto ciò che volevo esprimere l’ho riversato nella scrittura del Capitolo, che è forse simile ad un continuo viaggio fra passato e presente. Spero tanto di non aver creato momenti di confusione!

Avrei voluto vedere Saffie e Arthur interagire ancora ma, tranquillizziamoci (oppure no?), perché l’Undicesimo Capitolo – e i due che verranno – li ritengo fondamentali per il racconto. Oddio, non vedo l’ora di scoprire dove i miei due mi condurranno…ed è comunque difficile per me da dire con un certo grado di sicurezza!

Ah, ultima cosa! Sono veramente felice di aver potuto finalmente parlare di Earl Murray e farlo “muovere” nel racconto, come non sono altrettanto convinta di quanto mi piaccia il buon James Chapman! Insomma, alle volte quel ragazzo mi fa tenerezza, lo ammetto.

E voi? Spero stiate bene e in serenità! (*w*)

Ora, vi saluto e vi abbraccio tanto, poiché procedo proprio nella pubblicazione di questa Undicesima parte: voglio pubblicarla a tutti i costi oggi e se continuo a scrivere faccio notte!

Spero vogliate farmi sapere se vi è piaciuta! :D

Un baso grande,

Sweet Pink


*W. Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate.

  
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