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Autore: e m m e    27/02/2022    1 recensioni
Quando scopre la possibile esistenza di un serial killer che abbandona cadaveri in giro per la sua città, Spider-Man inizia ad essere ossessionato dall’idea di trovarlo. Ha così inizio una caccia senza tregua per cui Peter non è psicologicamente pronto né tecnicamente preparato, e per la quale l’unico supporto incondizionato lo riceve dall’unica persona che è sempre stata pronta a darglielo: Deadpool.
Peccato che, per i due vigilanti, gli anni di lotta inizino a farsi pesanti, le spalle a piegarsi, le ragnatele a spezzarsi, i sentimenti a sfilacciarsi e il cuore… a non reggere.
Genere: Angst, Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Deadpool, Peter Parker/Spider-Man
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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4. E pagherei per andar via, accetterei anche una bugia

Con gli occhi che lacrimavano dalla stanchezza, Peter lanciò uno sguardo all’orologio e si accorse che ormai avrebbe avuto ben poco senso mettersi a dormire, così fece quello che non faceva da tre giorni. No, non si mise a pensare a quel cazzo di bacio, perché il suo cervello ormai si alternava quasi solo tra quello e il pensiero fisso dei fratelli Spencer. No. Decise però di aprire la chat privata che aveva con Deadpool e, da buon codardo, evitò con cura di leggere i messaggi più recenti, per tornare indietro nel tempo, molto indietro, a quando ancora il loro rapporto sembrava avere un senso, ma camminava comunque sul filo di lama ed era chiaramente sul punto di precipitare in un baratro.

Potevano passare giorni interi in cui non si sentivano, poi a volte trascorrevano tre ore – ore in cui Peter avrebbe di certo potuto dormire, o lavorare, o studiare – a sparare una cazzata dopo l’altra come gli adolescenti che sotto sotto ancora erano. C’erano giorni in cui Wade, con un laconico messaggio di poche sillabe, si autoinvitava nell’appartamento che Spider-Man condivideva con Ned, e tutti e insieme ai due giovani si abbrutiva davanti alla tv, a giocare a Mario Kart. C’erano giorni in cui Wade gli dava il buongiorno, o la buonanotte. C’erano giorni in cui era Peter a scrivere, a chiedere se le cose andassero bene a chiedersi che cosa mai avrebbe potuto fare se le cose non fossero, in effetti, andate bene.

E c’erano giorni in cui Wade gli mandava messaggi del genere:

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Peter fissò lo schermo del cellulare, rileggendo la conversazione avvenuta mesi prima, cliccando di nuovo sulle pagine di YouTube e riascoltando le canzoni a volume basso per non svegliare Ned, che di certo dormiva nella stanza accanto.

L’idea che Wade gli avesse mandato “I wanna be your slave” per delle intenzioni non proprio innocenti gli era passato per la mente quasi subito, non era così scemo da non rendersene conto. Aveva ascoltato la canzone trattenendo il fiato, mentre un qualcosa di caldo e inopportuno si faceva strada nel suo stomaco, gli inondava la cassa toracica e lo faceva deglutire a fatica.

Aveva chiuso la conversazione, perché non voleva entrare in territori pericolosi, perché non voleva rovinare nulla di quello che aveva con il mercenario, perché la sanità mentale di Spider-Man dipendeva ormai quasi esclusivamente da quanto a lungo sarebbe riuscito a tenersi strette le persone che amava. E non era mai stato bravo in quel gioco.

Però. Però, invece di dormire, si era messo ad ascoltare le canzoni più popolari dei Måneskin. Aveva cercato i singoli, soprattutto le canzoni in inglese e aveva definitivamente capito di essere un idiota di alto livello quando, dopo essere riuscito a chiudere in modo perfettamente civile una conversazione pericolosa che avrebbe potuto degenerare se solo Peter si fosse azzardato a dare a Wade il minimo segno di quanto avrebbe voluto che degenerasse, be’, il suo cervello aveva avuto la brillante idea di fare quello.

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«Stupido stupido stupido» aveva detto a mezza bocca, fissando come ipnotizzato lo schermo del telefono. Nell’esatto momento in cui aveva inviato il secondo messaggio se n’era pentito, ma Deadpool aveva già visualizzato.

Ci aveva solo messo un po’ a rispondere, e quel “bimmmmbo” con la M allungata aveva come riverberato nel cervello di Peter. Se l’era immaginato dal vivo, con la cadenza che Wade sapeva dare alle parole, la voce densa come una colata di qualcosa di bollente. Era un suono che aveva il potere di insinuarglisi sotto la pelle e distrarlo, trascinarlo via.

«Perché stai fissando il telefono come se volessi bruciarlo?»

Era tardi, ma non troppo tardi perché Ned fosse già a letto. Peter aveva sollevato la testa rendendosi conto di essere quasi piegato in due sul divano di casa, con la testa totalmente abbassata sul cellulare e gli occhi sgranati di un animale in trappola.

Ned l’aveva guardato impassibile. «A chi hai scritto cosa, stavolta, sentiamo?»

Peter aveva scosso il capo, bloccando lo schermo, incapace di credere di aver appena inviato quel tipo di canzone a uno come Wade. Incapace di credere di averlo fatto e aver poi fatto finta di niente. Aveva lanciato il sasso e nascosto la mano.

Col senno di poi si sarebbe accorto che quello era il suo modus operandi, apparentemente.

«Eeeeh, di' a zio Ned cosa hai combinato, forza!»

Peter aveva scosso il capo, sconsolato e sconvolto al tempo stesso. «Non fare quella voce, è super creepy!»

L’amico si era seduto pesantemente accanto a lui, aprendo un pacchetto di patatine e offrendogliene una manciata, subito rifiutata. «Tanto lo sai che finirai per dirmelo. Togliti il dente adesso.»

Peter si era tolto il dente facendogli ascoltare la canzone a volume abbastanza alto. Nonostante il panico crescente al pensiero di aver mandato quella roba a Wade si era ritrovato suo malgrado a battere il piede a terra, a ritmo della voce roca del cantante.

«Leggermente esplicita, no?» aveva ridacchiato Ned tra una manciata di patatine e l’altra.

Senza una parola Peter gli aveva fatto leggere la conversazione appena avuta con Wade osservando con orrore come gli occhi del suo migliore amico si ingrandissero man mano che scorreva la chat.

«Wow» fece Ned dopo un secondo di orribile silenzio, schiarendosi la voce. «Hai mandato a Deadpool una canzone in cui letteralmente viene detto “dammi un ordine e obbedirò perché la mia musica preferita è il tuo aah-aah”?! Dove con “aah-aah” s’intende il suono specifico che viene prodotto durante un rapporto sessuale?»

Peter si era guardato attorno, scrutando con crescente disperazione il loro minuscolo appartamento, come se dalla loro mobilia potesse giungere un aiuto inaspettato. I muri scrostati, i divani in pelle che avevano visto giorni migliori, la televisione gigante che proiettava un film dimenticato e da tempo messo in muto, niente venne in suo soccorso. L’unica lampada accesa era quella nell’angolo, ma nemmeno la vaga oscurità dell’ambiente gli impedì di notare il divertimento scritto a grandi lettere sulla faccia di Ned.

«Forse?» tentò dopo un secondo.

Sollevando le sopracciglia Ned gli indicò la chat ancora aperta, in cui era ben evidente che la canzone l’aveva mandata eccome. «A casa mia questo si chiama flirtare. Anzi. A casa mia questo si chiama–»

«Non dirmelo» l’aveva interrotto Spider-Man coprendosi la faccia con le mani. «Sono un deficiente.»

C’era stato un intenso momento di quiete in cui Peter si era lasciato cadere all’indietro sul divano e aveva fissato il soffitto, sconsolato. A volte avrebbe voluto tornare a quando aveva diciassette anni e tutto nella vita gli era sembrato chiaro e cristallino. Non ricordava più che a diciassette anni non avrebbe voluto altro che averne venticinque.

«Peter, per quel che vale, a me Wade piace» aveva detto a quel punto Ned, con un tono di voce stranamente serio, misurato.

L’altro l’aveva guardato con la coda dell’occhio, pensando a uno scherzo, ma scorgendo solo un lieve disagio, come se la conversazione stesse mettendo Ned a dura prova. Aveva aperto la bocca per dire qualcosa, ma l’amico l’aveva prevenuto. «Non voglio mettermi in mezzo o niente del genere, ma tra tutti i pazzi che hai conosciuto da quando sei diventato Spider-Man penso che Deadpool sia il meno pazzo di tutti.»

«Ma se quando l’hai conosciuto per poco non te la sei fatta sotto!»

«Non è colpa mia se va in giro armato fino ai denti!»  

Avevano riso insieme e la conversazione era morta lì, con Peter che cercava di capire come fosse possibile che Deadpool, la persona che era considerata da tutti gli altri supereroi come la più instabile tra le loro conoscenze, fosse invece considerata dai suoi amici come la meno fuori di testa di tutti.

Sta di fatto che da quella sera fino alla fatidica notte in cui Peter aveva pensato bene di baciarlo, Wade non aveva perso occasione di canticchiare MAMMAMIA tra sé e sé, o di bisbigliarla all’orecchio di Spider-Man, o metterla sul cellulare, o farla filtrare in modo stupidamente astuto dagli auricolari. L’aveva persino messa come suoneria e Peter non aveva mai ringraziato così tanto la presenza di una maschera a coprirgli la faccia, che puntualmente e senza che lui potesse farci un bel niente, arrossiva fino alle orecchie.

Wade era anche quello: Wade aveva la capacità di farlo sentire come un povero ragazzino impacciato e allo stesso tempo come una persona che ha tutte le risposte a tutte le domande del mondo. Wade sapeva prendere in mano la situazione e gestire il pericolo come il professionista che era, ma allo stesso tempo trattava Peter come un suo pari, si affidava a lui otto volte su dieci e la metà di quelle volte finiva spiaccicato contro una parete, o morto o in fin di vita. Eppure, in nessuna occasione gliene aveva fatto una colpa. Tornavano a casa insieme, malconci e distrutti dalla guerra che combattevano ogni notte contro le ombre di New York; mangiavano pizza fredda innaffiandola con birra calda di fronte a qualche robaccia trash che Wade sceglieva a caso su Netflix. Giocavano ai videogiochi fino all’alba, come se Peter non avesse un lavoro alla Stark Tower a cui presentarsi o lezioni da frequentare, come se Wade non passasse il tempo libero a far fuori gente per soldi in qualche remoto paese del sud-est asiatico. Saltavano di palazzo in palazzo, di missione in missione, di notte in notte e, sì, Wade scherzava, Wade giocava, Wade gli chiedeva di sposarlo, gli diceva di adorarlo, gli ripeteva allusioni che allusioni non erano, ma non avevano mai superato quella linea, mai affrontato quell’energia statica che sedeva in mezzo a loro. Non avevano mai davvero rischiato nulla, tranne le loro vite, mille e mille volte.

Quindi perché rompere l’equilibrio? Perché Peter non era riuscito a imbottigliare i suoi istinti come aveva sempre fatto, e perché, per l’amor del cielo, non era ancora riuscito ad affrontare le conseguenze delle proprie azioni?

Sconsolato, scrollò l’intera conversazione per tornare al presente e scrutò con rabbia gli ultimi messaggi che si erano scambiati. O meglio, che Peter aveva ricevuto senza mandare risposta.

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Peter rilesse la conversazione per l’ennesima volta, ripensando al consiglio di Ned che gli diceva di risolvere quel casino al più presto, perché Wade non se lo meritava, perché Wade era già stato abbastanza paziente nel non tempestarlo di messaggi, nel non fargli agguati nella notte, nel non pretendere la conversazione risolutrice di cui in effetti avevano estremo bisogno.

Così, con un senso di colpa potente che gli attanagliava le viscere scrisse finalmente una risposta che in realtà risposta non era:

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Pazzesco come nei cinque minuti (uniti ai sei giorni interi) che Peter aveva impiegato per pensare a cosa scrivere, fosse riuscito pure a eliminare un messaggio. Come se avesse importanza. Come se dopo tutto quel silenzio e quel fare di tutto per evitare il problema – per evitare Wade –, una qualsiasi parola da parte sua avrebbe mai potuto sistemare davvero le cose.

Era già tanto che Deadpool non lo avesse bloccato.

Però, nel frattempo, i messaggi non arrivavano a destinazione.

Peter meditò se aggiungere le novità sul caso dei fratelli Spencer, poi si diede dell’idiota per l’ennesima volta e si disse che se Wade aveva dovuto aspettare quasi una settimana perché Spider-Man si facesse vivo, be’, Spider-Man avrebbe potuto aspettare qualche ora affinché i messaggi fossero consegnati. Poco importava che sul cadavere trovato a Hell’s Kitchen fosse stato rinvenuto del sangue di Julia Spencer: il fatto che i tre omicidi fossero collegati non aveva prodotto nulla, tranne un iniziale momento di euforia per Peter. Dopo due giorni, però, si era reso conto che i due ritrovamenti non avevano nient’altro in comune e che l’assassino era virtualmente ancora del tutto sconosciuto.

Fu allora che la sveglia decise di suonare facendolo sussultare e facendogli perdere la presa sul cellulare, che gli cadde dolorosamente sul naso. Un ottimo inizio di giornata.

Lavorare alla Stark Tower rappresentava la parte adulta della vita di Peter Parker, così come frequenta il corso di biomeccanica all’università rappresentava solo Peter, la parte che ancora lo legava a quel ragazzino un po’ goffo che faceva esperimenti nel bagno di casa. Entrambi gli impegni, però, rappresentavano senza dubbio la parte normale della sua vita. E a volte Peter odiava la sua vita.

Trascinandosi come uno zombie nella minuscola cucina dell’appartamento con un grugnito salutò Ned, che rispose con un identico grugnito, affrettandosi a fare il caffè con gli occhi semichiusi. Nell’attesa, Peter controllò la chat ancora aperta, ma non c’erano segni di vita.

Sul tavolo della colazione c’erano i rapporti della polizia da cui Ned si teneva a debita distanza, dato che contenevano anche le foto di Mark e Julia e del senzatetto, che di nome faceva Fred Johnson. Peter tentò di richiamarli a sé con la forza del pensiero, ma non riuscendovi si limitò ad allungarsi sul tavolo e trascinarseli davanti agli occhi. Li sapeva a memoria, ma non per quello aveva smesso di rileggerli.

I due amici finirono di fare colazione insieme, come di rado succedeva, scambiandosi solo qualche monosillabo, Ned che scrollava Facebook, Peter che scrollava le analisi del medico legale. Si salutarono pochi minuti dopo, ognuno diretto alle proprie normali vite di venticinquenni e Peter controllò di nuovo la chat.

Ancora nulla.

Prendendo un bel respiro aprì la conversazione privata che teneva con Daredevil e gli inviò un vocale per nulla ragionato, che era frutto della sua totale impazienza e chiara stupidità. «Ehi, Matt… senti. È un paio di giorni che non parlo con Deadpool. Abbiamo…err, avuto una discussione. Per caso sai se sarà in giro stanotte?»

Ebbe appena il tempo di arrivare al piano terra che ricevette la risposta, quindi si immaginò Matt al tavolo della colazione che era costretto a far fronte ai suoi drammi sentimentali senza peraltro averne la minima idea.

«Wade è fuori dal paese fino a domani notte. Strano che non ti abbia avvertito, ma adesso mi spiego perché ha deciso di avvertire me…»

Peter notò con disappunto un tono ironico, così, come piccola vendetta personale inviò una serie di emoji che il lettore automatico di Daredevil avrebbe avuto qualche problema a tradurre in parole e poi si sentì automaticamente in colpa. Era una sensazione che doveva imparare a scrollarsi di dosso, perché ormai viveva avviluppato in un senso di colpa perenne che rendeva le cose molto più difficili da gestire.

Almeno adesso aveva la conferma che Wade non aveva deciso di tagliare i ponti con lui. Probabilmente aveva spento ogni forma di comunicazione mentre era fuori per uno dei suoi… lavori. Lavori a cui Peter preferiva non pensare, ma era anche vero che ultimamente Deadpool prendeva soltanto incarichi quando i target erano i peggiori dei peggiori, quindi Spider-Man non se la sentiva di lamentarsi.

Entrare a lavoro con zero ore di sonno sulle spalle fu peggiore del previsto e la sua mente si alternava senza freni sull’assassino ancora in circolazione, sul fatto che nessuno oltre Wade e Matt sembrava prendere la cosa sul serio e su ciò che avrebbe detto a Deadpool una volta che fossero stati di nuovo faccia a faccia.

Alla Stark Tower, Pepper aveva fatto in modo di assumerlo come tirocinante, ma in realtà Peter aveva un laboratorio tutto suo dove poteva sviluppare progetti legati ai suoi interessi personali e dove cercava di collegare gli studi di bioingegneria a progetti pratici per gli Avengers, ma non solo. Prima di assumerlo, Pepper si era offerta di finanziare una borsa di studio creata appositamente per lui e perfino di pagargli una casa vicino all’università.
Peter aveva rifiutato immediatamente e la donna si era dovuta accontentare di fargli un’assunzione proforma. A quella proposta Peter non aveva saputo proprio dire di no, e in ogni caso zia May l’avrebbe ucciso se solo ci avesse provato. Inoltre, alla Stark Tower c’era sempre l’opportunità di imbattersi in Morgan, soprattutto nelle ore pomeridiane e Peter adorava la figlia di Tony e Pepper.

Quindi sì, lavorare all’interno della compagnia del suo vecchio mentore, scambiarsi consigli col dottor Banner a ogni ora del giorno, e in più avere la possibilità di veder crescere l’unica figlia di suddetto mentore era una benedizione, per Peter. Ma quel giorno, alle undici di mattina e al termine del quarto caffè i suoi occhi continuavano a chiudersi in automatico e il ragazzo decise che, per quanto quel lavoro gli piacesse, si meritava almeno una piccola pausa.
Si stava dirigendo alla caffetteria del piano terra con passi pesanti quando il cellulare di Spider-Man si mise a suonare.

Peter lo estrasse dalla tasca del camice da laboratorio con dita appiccicose, sperando senza grande speranza che fosse Wade. Invece era un numero sconosciuto. Con un sospiro stanco si portò il telefono all’orecchio.

«Sì?»

«Spider-Man?» replicò subito una voce roca e vagamente familiare.

Peter si grattò la testa. «Dipende da chi vuole saperlo» decise di dire dopo un secondo, abbastanza certo che, se qualcuno era riuscito a ottenere il suo numero, non aveva granché senso mentire.

«Wilson mi ha dato il tuo numero, ragazzo. Chiamo per conto del professor X.»

Sbattendo le palpebre Peter si fermò in mezzo al corridoio, il cuore che d’improvviso gli saliva nella gola, le mani appiccicose di sudore e mucosa. Deglutì a vuoto. «Wolverine?»

Wade gli aveva parlato di Wolverine. In realtà Peter l’aveva incontrato anni prima, brevissimamente e solo durante una delle rare situazioni in cui Avengers e X-Men si trovavano a combattere fianco a fianco. Non si erano mai scambiati una parola e Peter all’epoca era stato poco più di un ragazzino. A quanto sapeva la mutazione di Wade aveva a che fare con la mutazione di Logan e Deadpool gli era sempre sembrato particolarmente affezionato all’X-Man, come una sorta di fan un po’ molesto. Aveva anche intuito che Logan sopportasse la presenza di Wade a malapena. Quindi per quale motivo gli stava telefonando, se non per comunicargli qualche orribile, orribile notizia?

«Perspicace» borbottò la voce distante dell’uomo. «Abbiamo dato un’occhiata agli omicidi di cui tu e quel cretino vi state occupando.»

Oh.

«Oh?» Peter si sentì stringere gli intestini in una morsa. Nonostante Wade avesse tutto il diritto di essere estremamente incazzato con lui, e nonostante fosse fuori città, aveva trovato il tempo di indagare su qualcosa che stava a cuore a Peter. Si era sentito una merda tante volte in vita sua, ma quella mattina la sensazione lo lasciò quasi senza fiato.

«Un tipo di poche parole, eh? Strano. Mi avevano detto che riesci a blaterare quanto e più di Wilson, quando ti ci metti. Comunque. Passo l’informazione: a quanto sembra tutti i tuoi cadaveri avevano un qualche tipo di fattore di guarigione. Chi più, chi meno. La ragazzina sembrava particolarmente dotata, ma non c’è tanta gente in grado di rigenerare interi organi. Soprattutto il cuore. Una merda, lasciatelo dire.»

Peter si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore. Si sentì accaldato, l’informazione che gli penetrava nel cervello, sommandosi alle altre cose che già conosceva. L’ubicazione dei corpi, il cuore estratto, il sangue delle vittime precedenti trovato sulla terza vittima. Che diavolo voleva dire? Che accidenti pensava di fare la persona che si divertiva a operare su gente in grado di rigenerarsi?

«Come avete fatto a scoprirlo? Non c’era nei rapporti dei medici legali.»

Peter lo sentì inalare qualcosa, come se stesse prendendo una boccata da una sigaretta o da un sigaro. La voce di Wolverine si fece ancora più roca quando rispose. «Gli stronzi dello S.H.I.E.L.D. tengono un archivio con tutti i mutanti registrati. A volte lo usiamo per cercare la gente che se la passa male.»

Ci fu una breve pausa e per un secondo Peter credette che la conversazione sarebbe finita lì; invece, Logan decise di aggiungere qualcosa che era forse più a beneficio di Wade che di Spider-Man: «Non sono informazioni che diamo a chiunque.»

«Io… grazie.»

La risposta fu un generico borbottio e Peter fece per allontanare il telefono dall’orecchio e chiudere la chiamata, ma la voce di Logan lo fermò. «Ehi ragazzino» disse, probabilmente ignaro della vera età di Peter, ma per uno con l’età di Logan – era bicentenario o roba simile, no? –  probabilmente tutti sembravano ragazzini. «Di’ a quell’idiota in calzamaglia di chiamare, se le cose si mettono male. Questa faccenda riguarda anche noi, non solo la tua città.»

Per qualche motivo, l’idea che per Wolverine New York fosse la città di Spider-Man riempì il petto di Peter di stupido orgoglio, una cosa di cui si vergognò quasi all’istante, ma sperò che non gli si leggesse nella voce quando rispose un semplice «Glielo dirò quando lo vedo, signore». Poi si portò una mano agli occhi, stropicciandoseli, sentendosi come un povero idiota per l’uso di quel “signore”.

L’ultima cosa che udì fu la risata catarrosa di Logan che chiudeva la chiamata.

Dieci secondi dopo stava già scrivendo nella chat dei Cappuccetti Rossi.

Sapeva che nei confronti di Matt sarebbe stato più gentile mandare un vocale, ma non se la sentiva di parlare a voce alta delle sue faccende di Spider-Man in mezzo a un corridoio della Stark Tower. Era già stato abbastanza fortunato a non dire troppo durante la telefonata con Wolverine.

Ho delle novità importanti, scrisse nella chat, camminando a testa bassa, la stanchezza della notte insonne che pesava sulle sue spalle ormai quasi del tutto dimenticata. Ci vediamo stasera sul solito tetto di Hell’s Kitchen, alle 11.

Non era una domanda, non era una gentile richiesta. Non era nemmeno un ordine. Era una vaga speranza che Wade ricevesse il messaggio, che fosse tornata dalla sua missione all’estero, qualsiasi cosa ci fosse andato a fare. Che non fosse così tanto arrabbiato con lui da non accettare.

Matt fu il primo a rispondere un lapidario OK, che Peter chiaramente si aspettava.

Per la risposta di Wade, però, il ragazzo dovette attendere metà giornata, durante la quale ogni dieci minuti controllava i messaggi per vedere se almeno fossero stati consegnati, letti, qualsiasi cosa. La risposta arrivò alle quattro, quando Peter era intento a fare altro. Quasi perse la presa su una provetta quando il cellulare gli vibrò sul tavolo.

Deadpool aveva inviato un’unica emoji: un pollice all’insù.

I messaggi nella chat privata tra lui e Peter rimanevano invece senza risposta, ma almeno erano stati ricevuti e letti.

Nonostante la sua indifferenza, all’idea che Wade fosse tornato in America, che fosse di nuovo presente in quel dedalo di strade e vicoli che formavano New York City, riempì Peter di uno strano, inaspettato senso di speranza.

Come se, con la sua semplice presenza, Wade potesse risolvere ogni problema.

Dio, cos’era diventata la sua vita?



Note: Il titolo di questo capitolo è tratto da Brividi di Blanco e Mahmood. 
Mi scuso enormemente per la settimana di ritardo nel postare, ma venerdì 18 febbraio ho perso 30 anni di vita quando ho rovesciato la mia borraccia d'acqua sul computer. Ne è seguita una settimana terribile in cui il mio bambino è andato all'ospedale dei computer e io sono stata chiusa in biblioteca a cercare di lavorare alla tesi con le tastiere orribili che hanno qui in Francia (vivo in Francia), dove la A e la Q sono invertite, la M sta al posto della nostra ò e la mia vita fa chiaramente schifo. Vabbe, ormai il peggio è passato e il mio bambino è tornato a casa sano e salvo.
On the bright side, visto che questo è un capitolo estremamente filler con solo una spruzzatina di trama, tra domani e martedì posterò il capitolo 5, col POV di Wade, che spero possa far ridere un po'. 

 
  
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