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Autore: e m m e    28/02/2022    1 recensioni
Quando scopre la possibile esistenza di un serial killer che abbandona cadaveri in giro per la sua città, Spider-Man inizia ad essere ossessionato dall’idea di trovarlo. Ha così inizio una caccia senza tregua per cui Peter non è psicologicamente pronto né tecnicamente preparato, e per la quale l’unico supporto incondizionato lo riceve dall’unica persona che è sempre stata pronta a darglielo: Deadpool.
Peccato che, per i due vigilanti, gli anni di lotta inizino a farsi pesanti, le spalle a piegarsi, le ragnatele a spezzarsi, i sentimenti a sfilacciarsi e il cuore… a non reggere.
Genere: Angst, Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Deadpool, Peter Parker/Spider-Man
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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5. E non c'è taglio, non c'è cicatrice che questa passione non possa curare

Wade si svegliò dopo un lungo sonno ristoratore, il che era molto strano dato che non dormiva in modo decente da prima della sua mutazione. E non si trattava di un eufemismo: solo di rado era riuscito a dormire per più di due ore di fila in una notte.

Il suo corpo naturalmente non ne subiva danni, ma il cervello, be’… quello era tutta un’altra storia.

Quindi, svegliandosi lentamente, come dopo una di quelle dormite che ricordava vagamente dai tempi della sua infanzia perduta, quando si appisolava nel rifugio sotto il letto durante i fiacchi pomeriggi estivi, seppe subito che qualcosa non andava.

Non che fosse un fatto strano, non in quella vita di merda che continuava a rimanere attaccata alla sua pellaccia con una resilienza che ormai Wade trovava vagamente offensiva, ma era quasi una settimana che mancava da quel pozzo di liquami che recentemente New York era diventata e l’unica cosa che non vedeva l’ora di fare era sparare contro la silhouette acrobatica di un certo aracnide. Per poi, una volta mancato il bersaglio, spingere suddetta silhouette contro un muro e farle dimenticare nome, cognome e pseudonimi eventuali. Sempre che gli fosse permesso, ovvio.

Invece di questa dolce e potenzialmente pericolosa speranza, Wade si svegliò da qualche parte che non era il suo letto e, partendo dal fatto che gli occorsero diversi secondi per capire dove effettivamente si trovasse, capì anche che per esservi portato senza che lui se ne fosse accorto qualcuno doveva averlo iniettato con roba potente. Roba estremamente potente, visto che il corpo di Wade Wilson era famoso per assorbire qualsiasi cosa gli venisse proposta come una spugna assorbe l’acqua sporca dei piatti nel lavello.

«Dio santo» si lamentò, rendendosi conto di avere la lingua pesante, il tono trasognato. «Chi ti ha insegnato a scrivere, ché crei paragoni così idioti? Mai sentito parlare di metafore?»

Sopra di lui il soffitto era lontano, distantissimo e illuminato da una serie tutta uguale di luci fredde, da ospedale. Cercò di muovere la testa, ma si accorse che era bloccata da una banda di cuoio che gli circondava la fronte. Non aveva la sua maschera a proteggergli i tratti sfigurati, indossava soltanto i pantaloni della divisa da Deadpool, e qualcuno lo aveva privato della casacca che si trovava poco distante, una pozza rossa sul pavimento grigio. Sperò che nessuno avesse avuto la malsana idea di toccare le sue katane o le sue numerose armi da fuoco che – l’ultima volta che aveva controllato – giacevano abbandonate sul pavimento della stanza da letto di casa sua, luogo in cui ricordava abbastanza bene di essere entrato prima di ritrovarsi lì. Inoltre, come Wade si avvide ben presto, non era solo la sua testa a essere bloccata, ma anche tutto il resto del corpo.

«Pure!» esclamò Deadpool a quel punto, rivolto a nessuno in particolare. «Non ti è bastato distruggermi emotivamente con quel bacio del cazzo? Devo anche subire torture varie, adesso?»

Con un piccolo sforzo dei muscoli del collo Wade si voltò un poco alla sua destra, notando che vicino al lettino da dentista in cui era stato evidentemente incatenato, c’era un tavolo con, in effetti, vari strumenti di tortura. O meglio, strumenti medici ben allineati e brillanti, ma che per lui, che aveva passato una quantità di tempo francamente imbarazzante in vari laboratori, significavano quasi sempre tortura, poco importava che il bisturi fosse disinfettato e il pazzo che glielo infilava nella carne avesse lavato le mani per quindici minuti.

«Si prospetta una nottata divertente, ricca di cliché e nuovi traumi psicologici da affrontare» borbottò il mercenario, cercando di forzare i legacci che lo tenevano fermo. Ma per sua sfortuna non possedeva la forza sovrumana di Spidey e quindi fu costretto a rimanersene là, da solo, nel silenzio minaccioso di quella che sembrava un vecchio capannone abbandonato. «Sarebbe stato meglio fossi rimasto a Seoul, ma noooooo, Spider-Man chiama e Deadpool risponde. Bah! Ehilà! C’è nessuno in questo scenario dell’orrore di prima categoria? Kudos per l’ambientazione, davvero, ma con chi me la devo prendere? Chi devo segnare nel mio Death Note. Spoiler: sarò io ad ammazzarvi, e non uno shinigami, ma sarà figo comunque. Almeno per me. Eeeeehi!!»

Mentre parlava cercava di allentare i legacci che lo tenevano fermo e finalmente riuscì a muovere la testa verso sinistra. Fu allora che si accorse di non essere solo affatto.

Su una sedia da dentista identica alla propria c’era un’altra persona nelle sue stesse condizioni, legata, cioè, perché nessuno era mai nelle stesse identiche condizioni di Wade. Inoltre, quella persona era diversi centimetri più corta di Wade, in ogni senso.

Era una ragazzina. Una ragazzina che lo fissava con gli occhi sgranati e un terrore vero, il panico più puro che Deadpool avesse mai visto sulla faccia di qualcuno. E di terrore ne aveva visto parecchio nella sua lunga vita.

Wade si schiarì la gola. «Buonsalve. Come ti chiami?»

La ragazzina non rispose per lungo tempo. Aveva un ciuffo di capelli scuri, riccissimi, che le copriva l’occhio destro, ma il sinistro era spalancato, la pupilla dilatata. Probabilmente se l’uomo si fosse concentrato avrebbe potuto sentire il battito cardiaco della piccola, rapido come quello di un coniglio che sente arrivare la fine quando l’allevatore entra nel recinto.

Wade non le mise fretta, non le sorrise, non fece assolutamente nulla se non guardarla di sbieco, il più tranquillamente possibile, e quando finalmente lei si decise ad aprire bocca e confessare il segreto del suo nome, il vigilante le rivolse un unico breve gesto col capo. «Ti prometto che ti tirerò fuori dai guai, Abby, ma devi dirmi se per caso hai visto chi ci ha portato qui, se ti è stato detto qualcosa o se qualcuno ti ha parlato.»

Lei, che la testa ce l’aveva libera, si limitò a scuotere il capo per poi aggiungere dopo un secondo di riflessione: «Stavo dormendo… mi sono risvegliata qui e basta.»

Wade emise un sospiro. «Benvenuta nel club.»

«Un uomo ti ha portato, ma aveva un cappuccio sulla testa, una maschera. Non ha detto niente.»

Un uomo che doveva essere abbastanza forzuto, vista la stazza di Wade, non proprio da pesi leggeri. «D’accordo, Abby. Dimmi, ti piacciono gli unicorni?»

Doveva però essere una domanda troppo difficile a cui rispondere, perché la ragazzina la evitò del tutto preferendo porne una lei. «È stato lui a farti… quello

Ah, quello. Quando indossava troppo tempo la maschera di Deadpool, Wade dimenticava che cosa volesse dire avere a che fare con la gente norm– no, era una sporca bugia. Wade non dimenticava mai che cosa volesse dire avere a che fare con la gente normale, con gli sguardi disgustati, terrorizzati, affascinati, increduli, stomacati, interessati, indiscreti, esplorativi, paurosi. Così tante occhiate, così pochi aggettivi. Non lo dimenticava mai. Non per via della maschera di Deadpool, almeno. A volte, quando passava molto tempo con Peter, a volte, rarissimamente, quando meno se lo aspettava, per dieci miseri secondi nella sua lunga e altrettanto misera esistenza, diventava inconsapevole del proprio aspetto fisico.

Non fu quello il caso. «Cosa? Parli della pelle da neonato che mi ritrovo? No, dolcezza, questa roba viene col pacchetto Deadpool. Spiacente, non si accettano resi al mittente.»

Lei si agitò, ma le sue catene non si spostarono di un millimetro. Chiunque fosse a tenerli prigionieri sapeva il fatto suo. «Deadpool?! Quello che va in giro con Spider-Man?! Allora lui verrà, non è vero? Verrà Spider-Man a salvarci!»

«Wow» esclamò lui riportando lo sguardo sul soffitto per evitare di diventare strabico. «Fingerò di non essere profondamente offeso dal fatto che tu preferisca Spidey a me, perché, dai, chi può darti torto, ragazzina?! Ma, mi dispiace deluderti: io e il vecchio insetto a otto zampe abbiamo avuto una piccola divergenza. Dubito che abbia la minima idea di dove mi trovo. Ehi, no, non piangere adesso. Sono piuttosto bravo a togliermi dagli impicci anche senza Spider-Man che ripulisce dietro di me e in ogni caso non hai ancora risposto alla mia domanda. Ti piacciono gli unicorni? C’è questo negozio nel Queens che vende solo peluche di unicorni. Non ho la minima idea di come possa sopravvivere con questa economia, ma porca troia se sono fighi!»

La tirata gli regalò la risata lacrimosa della ragazzina e Deadpool si complimentò mentalmente.

«Mi piacciono gli unicorni.»

«Abby» fece Wade deliziato. «Credo che questo sia l’inizio di una bella amicizia.»

«Siete molto carini» fece una terza voce appartenente a una terza persona che – Wade ci avrebbe giurato – pochi secondi prima non era affatto lì, in piedi di fronte a loro, a guardarli con le mani strette dietro la schiena e il volto impenetrabile. Be’, il passamontagna impenetrabile.

«Ma che cazzo–»

«Non sei un uomo facile da ottenere Wade Wilson.»

Wade sbatté le palpebre, senza perdere nemmeno un secondo per rispondere: «Questo perché di solito gli esseri umani non si ottengono, cattivone-dalla-voce-da-dodicenne.» Aveva davvero una voce molto infantile, un tono alto e quasi acuto. «Ti stanno per scendere o fai parte delle voci bianche del coro della parrocchia?»

«Ah sì» fece lui senza spostarsi di un millimetro, «mi avevano detto che eri un chiacchierone.»

«Chiacchierone? MOI?! Mi sento personalmente offeso.» Mentre si sentiva offeso, però, Deadpool cercò di capire con chi stesse avendo a che fare. Gli abiti del rapitore erano comuni, niente di appariscente, anche se tutto quel nero gli stava dando sui nervi. L’unica cosa distinguibile della sua persona erano gli occhi, castano chiaro, ma giallastri e iniettati di sangue, come se il tizio fosse febbricitante o malato in qualche modo. Niente della sua persona stava indicando debolezze e Wade moriva dalla voglia di sapere come uno di quella stazza, ovvero mingherlina e forse la metà di lui, fosse riuscito a trasportarlo lì dentro e soprattutto a renderlo incosciente.

«Vorrei scusarmi in anticipo per quello che sto per fare, principalmente perché non posso usare alcun anestetico, dato che il tuo corpo sembra immune.» Ah. La faccenda si faceva seria.

«Ooooh, ti preoccupi per me, cattivone? Che cosa tenera. Hai anche intenzione di sputare fuori il tuo piano malefico, oppure vuoi cercare di evitare quel cliché specifico?»

Mentre parlava, l’uomo aveva deciso di abbandonare il gioco delle belle statuine e si era spostato verso il tavolo da laboratorio, esaminandone gli oggetti, affilati e non, che vi stavano sopra quasi che non fossero suoi. «Perfino il mix di droghe che ho usato per portati qui è durato meno di dieci minuti» continuò, come se Wade non avesse detto nulla. «E credimi, quella roba avrebbe steso un’intera scuderia di cavalli.»

«Dieci minuti?» ripeté Wade distrattamente, cercando di far segno ad Abby che tutto era sotto controllo, per quanto fosse una bugia di enormi dimensioni. La ragazzina aveva due scie di lacrime silenziose che le scendevano lungo le guance e tremava in modo incontrollato. Gesù… Spidey avrebbe saputo esattamente cosa dire per tranquillizzarla.

Fu allora che la mente sovraccarica di Deadpool registrò il fatto. «Come sarebbe dieci minuti?! Vuoi farmi credere che ti sei intrufolato in casa mia senza che io me ne accorgessi, hai evitato tutte le mie trappole, mi hai iniettato con qualsiasi cosa fosse quella roba e mi hai trasportato qui in meno di dieci minuti? E a proposito, dove cazzo siamo? A giudicare dalle tempistiche e dalla tua massa muscolare al massimo dovremmo essere nello scantinato del mio palazzo? Mi dispiacerebbe molto, prima di tutto perché se avessi saputo che era così grande avrei comprato questo e non quell’appartamento di merda che mi ritrovo, e soprattutto perché non vorrei trovarmi costretto a far saltare in aria casa mia. Di nuovo.»

«Iniziamo con qualcosa di semplice» dichiarò il cattivone, senza dar credito alle parole di Wade, ma quest’ultimo ci era abituato: di rado la gente lo ascoltava.

Cercando di far forza sui legacci che erano davvero a prova di bomba, complimenti vivissimi, applausi e baci, Deadpool osservo i movimenti calcolati dell’uomo, che si spostò dal tavolo alle loro sedie e che, invece di andare dritto da lui, decise di andare dritto dalla ragazzina.

«No!» gridò lei, divincolandosi dalla stretta delle linguette di cuoio. Wade poté vedere le screpolature attorno alle caviglie nude, ai polsi sottili. «No, nonono! Per favore!»

«Shhh» replicò l’uomo nero. Ah! Ecco un nome da cattivone perfetto, soprattutto per uno che rapiva ragazzini e mercenari. Uomo Nero! Wade riportò la propria attenzione sulla scena che si stava svolgendo davanti ai suoi occhi, o meglio, lateralmente rispetto ai suoi occhi. Si chiese se sarebbe diventato strabico per davvero, ma poi rifletté che il suo fattore di guarigione avrebbe messo a posto tutto.

«Lasciala stare, pezzo di merda» ordinò tra i denti digrignati. «Prenditela con me, sono grande e grosso e sono abituato agli scienziati pazzi!»

Essendo in effetti abituato agli scienziati pazzi, Wade non si sorprese affatto quando l’Uomo Nero non si degnò né di guardarlo né di rispondergli, e nemmeno di impietosirsi di fronte alle lacrime della ragazzina. «Abby! Ehi! Guarda me, non lui. Lo so che non sono un granché da guardare, ma sempre meglio di quello stronzo lì. Ehi! Ehi! Dimmi…eeer… hai un animale a casa? Un cagnetto? Un pesce rosso? Un boa conscrictor? Raccontami qualcosa, pensa a qualcosa che non sia qui e adesso, puoi farlo? Abby!»

Abby piangeva lacrime non più silenziose e per ogni singhiozzo che proveniva dalla ragazzina Wade avrebbe voluto affondare un coltello molto, molto lentamente, nell’occhio sinistro di quello stronzo del loro rapitore, ma naturalmente per farlo doveva aspettare.

Non accadde poi molto. Abby cercò di rispondere alle domande di Wade, di guardare verso di lui, di obbligarsi a non tremare così tanto. Aveva un gatto di nome Fluffy, a proposito di cliché. Ci fu un unico grido da parte sua, una cosa alta, acuta, che trapassò il timpano di Wade e gli fece voglia di ammazzare qualcosa e poi l’Uomo Nero si girò di nuovo, un bisturi in una mano, gli occhi stretti in due fessure concentrate.

Abby respirava affannosamente, ma era viva. Sulla sua coscia spiccava, rosso e gocciolante, un taglio lungo e preciso, abbastanza profondo, ma niente di cui preoccuparsi davvero. Almeno non dal punto di vista di Deadpool che teneva adesso gli occhi fissi sul loro rapitore. «Che cazzo di pervertito sei?» gli domandò, quasi amichevolmente.

«Mi offendi, Deadpool. Preferirei essere conosciuto come un uomo di scienza.»

«Liberami, cocco, e ti faccio vedere io cos’è la scienza.» Il tono che gli uscì dalla gola era aspro, duro, il tono che usava nelle missioni fuori dal paese, il tono che produceva appositamente per gli stupratori e i pedofili, quello che lo rendeva Wade Wilson, mercenario, e non Deadpool, (amato) antieroe della grande mela.

L’Uomo Nero non parve colpito. Ignorando sia le minacce di Wade che le lacrime di Abby, si diresse di nuovo al tavolo da lavoro e prese un piccolo recipiente di vetro. Senza preoccuparsi poi di ripulire il bisturi usato sulla ragazzina, tornò verso Wade a una velocità leggermente esagerata rispetto a tutti i movimenti ipercontrollati che aveva compiuto fino ad allora e, senza tanti complimenti, gli tagliò il polso proprio dove il sangue esce a fiotti.

«Ehi!» si lamentò Wade allungando lo sguardo finché poteva. «Lo sai che non puoi ammazzarmi, vero?»

«Oh» replicò lui con quella che sembrava delizia nella voce da ragazzino. «Ma è proprio per questo che sei qui» concluse poi, raccogliendo il sangue zampillante finché la pelle cancerogena di Wade non decise di richiudersi e guarirlo, come sempre.

Il passaggio successivo forse avrebbe dovuto essere ovvio, per Deadpool, ma lo scuserete se il fatto di essere emotivamente instabile da tutta una vita, col cervello spappolato da mesi e mesi di torture vecchie di anni, ma con le quali ancora non aveva ben fatto i conti, e in generale psicologicamente disturbato da un sacco di cose, tra cui la gente che non mette le cinture di sicurezza in auto, be’, lo scuserete se tutto questo gli rendeva difficile concentrarsi. Soprattutto essendo lui la povera vittima di un rapimento.

L’Uomo Nero lasciò cadere il sangue raccolto sulla ferita appena inflitta ad Abby e tutti e tre, in silenzio tombale, osservarono con fascinazione l’operazione che si compì di fronte ai loro occhi. Il sangue mutato di Deadpool richiuse la ferita in otto secondi esatti. Wade li aveva contati. Wade era anche consapevole che quel tipo di risultato lo si poteva ottenere senza problemi. Diavolo! L’aveva fatto più volte pure con Spidey, ma funzionava solo nel caso in cui la persona che si faceva un bagno nel sangue di Wade Wilson avesse, per parte sua, almeno un minimo di fattore di guarigione.

Gli venne da pensare che forse, forse, Abby non era stata scelta a caso. Gli venne anche da pensare che non ne poteva più di prendere parte a folli esperimenti scientifici e soprattutto gli venne da pensare che, per come l’Uomo Nero si stava muovendo attorno a loro, quella non era la prima volta che indossava i panni del chirurgo psicopatico.

Gli venne anche da pensare, ma quella fu più un’intuizione che altro, che l’intera faccenda doveva in qualche modo avere a che fare col ladro di cuori di cui Webs era ossessionato. Perché, diavolo, quella era una fanfiction, non è che potevano essere aperte infinite sottotrame.

«Sei tu che vai in giro a scaricare cadaveri per la città? E mi riferisco a un particolare tipo di cadavere.»

«Sì, Deadpool» fu l’immediata risposta. «So bene di aver attirato l’attenzione di Spider-Man, e so altrettanto bene che aver scelto te come cavia mi porterà l’attenzione un sacco di altra gente. Ma non sono preoccupato, vedi?»

Wade, in effetti, vedeva. Perché l’Uomo Nero non era preoccupato?

«Conosco Spider-Man da parecchio e credimi quando ti dico che dovresti preoccuparti.»

Il tono di voce dell’uomo si fece freddo, disgustato. «Loro dovrebbero preoccuparsi. I cosiddetti eroi di questa città! Loro sono quelli che dovrebbero preoccuparsi degli altri, e invece che fanno? Ci guardano dai grattacieli, pieni di soldi, acclamati, onorati come fossero degli dèi. Non sono eroi. Sono tutti assassini che indossano una maschera.»

«Wow» replicò Deadpool, per nulla colpito. «Qual è la tua triste storia, allora? Sei stato bullizzato da bambino? Mammina non ti voleva bene? Abbandonato in fasce e adottato da un prete squilibrato? Iron-Man ha fatto fuori la tua famiglia per sbaglio? Ah, no, quella è la storyline di Wanda. Ma comunque, il punto è, non me ne frega un cazzo di scoprire quali brutte-brutte cose ti sono successe nella vita per portarti qui, a strappare il cuore dal petto di bambini. Non ci sono giustificazioni.» Oh, diavolo, Peter sarebbe stato fiero di quel discorsetto.

Non ci fu risposta, se non lo sferragliare del tavolo da lavoro, che venne posizionato a fianco di Wade. L’Uomo Nero si mise vicino a lui, osservandolo dall’alto.

«Se stai per fare quello che penso tu stia per fare almeno copri gli occhi della ragazzina.»

L’altro si strinse nelle spalle. «Non la sto certo obbligando a guardare.»

Wade si volse verso Abby quel poco che poté. La ragazzina li squadrava con occhi grandi come uova, panico, panico e nient’altro. «Abby, chiudi gli occhi, vedrai che non succederà nulla. Detto tra me e te, il mio superpotere è l’immortalità.» Non le disse che purtroppo per lei quel superpotere là non avrebbe potuto salvarla, nemmeno se Wade si fosse dissanguato per lei. E sarebbe stato disposto a farlo.

«Raccontami qualcosa» le disse, mentre il bisturi gli penetrava nel petto, incidendo pelle e muscoli che si ricomponevano quasi immediatamente. Per un attimo pensò che l’Uomo Nero non sarebbe riuscito nell’intento, che per quanto affilata la lama non avrebbe potuto star dietro al suo fattore di guarigione, ma come al solito Wade si sbagliava. Con la voce tremante di Abby nelle orecchie, osservò con fascinazione le mani del suo rapitore velocizzarsi, strappare via carne e sangue, muscoli e tessuti. Gli strumenti cambiarono, pinze arrivarono a tenergli aperta la carne che cercava di ricucirsi, di riconnettere le cellule, ristrutturare i tessuti, ma l’Uomo Nero era veloce, veloce veloce.

Per un po’ la voce triste e piccola di Abby gli tenne compagnia, Wade era bravo a sopportare il dolore, aveva affinato la tecnica, ma come già detto, aveva anche evitato di pensare ai mesi di tortura subiti per mano di Francis per anni, e quella situazione, quella sedia da dentista, quelle mani che sventravano e scavavano e strappavano, erano un promemoria costante di ciò che aveva cercato di infilare nel fondo della sua mente. Un accartoccìo di ricordi indistinti fatti di grida e di dolore freddo come il ghiaccio e a volte bollente, implacabile.

Così, visto che Abby non era sufficiente, che la sua voce si affievoliva e diventava indistinta e si mescolava al disgustoso suono dei guanti di gomma che squittivano contro la carne viva, Wade pensò a Peter.

Peter, che un luminoso giorno di quattro anni prima, seduto a gambe incrociate sul divano mezzo sfondato del salotto di Wade, si era sfilato la maschera dalla testa così, nel bel mezzo di una partita a Mario Kart.

«Che caldo» aveva detto, sventolandosi la faccia arrossata con la suddetta maschera, come se non fosse la prima volta in cui gli faceva vedere il volto, come se non fosse mai stata una questione di “se”, ma una semplice questione di “quando”. Per Wade era sempre stata una questione di “se”, con la consapevolezza che Spider-Man non si sarebbe mai tolto la maschera di fronte a lui, né gli avrebbe confessato il suo nome. E invece eccolo lì. Lo rivedeva adesso, mentre le mani di un pazzo gli si infilavano nel costato, il cuore che batteva all’impazzata, il sangue che sgorgava senza freni, bagnando il pavimento. Rivedeva quella testa carica di capelli scompigliati, castano scuro come gli occhi, grandi, sorridenti, i denti scoperti in un sorriso che si apriva in una fossetta sulla guancia sinistra. La macchina di Wade era andata a schiantarsi fuori pista, ma quello era uno dei ricordi migliori che aveva. Spider-Man che diventava Peter come se Deadpool se lo meritasse, come se Wade fosse abbastanza una brava persona da ottenere l’amicizia di qualcuno come Spidey.

Pensò a Peter, cupo e ferito, un ragazzino di – cosa? – sedici, diciassette anni al massimo. Un bimbo che si dondolava tra i grattacieli di New York senza sapere che cosa fare con tutto il dolore per la perdita di Tony Stark. Quel dolore era una matassa ingarbugliata di sofferenze che si trascinava dietro di lui, appesa a quelle sue ragnatele. Wade lo conosceva da nemmeno due settimane e già avrebbe voluto abbracciarlo, adottarlo, rinchiuderlo in una stanza piena di cuccioli di labrador, qualcosa, qualsiasi cosa per farlo smettere di essere così incazzato con tutti.

Peter, che lo trascinava a casa sua, che lo presentava a Ned, che trovava normale dividere con lui una pizza in compagnia di amici normali, gente che non portava pistole nascoste nello zaino e i cui problemi si alternavano tra scuola e lavoro al massimo.

Peter che lo guardava in faccia mentre parlavano. Che non distoglieva gli occhi, che non fissava con disgustata fascinazione il modo in cui le sue cicatrici mutavano, si spostavano, gli riarrangiavano la pelle.

Peter che gli diceva «bentornato» una, due, mille volte. Che gli portava una bottiglia di lozione: «Non avevo molto da fare negli ultimi giorni, quindi ho pensato di lavorare su questa ricetta. Dovrebbe aiutarti quando la tua pelle… quando hai più fastidio del solito.» Peter che gli dava dell’idiota, ma la parola che usava non corrispondeva mai al tono in cui la pronunciava. Peter che un giorno aveva deciso di baciarlo.

Si soffermò su quel ricordo, non solo perché era recente, non solo perché ce l’aveva stampato a fuoco nella memoria, ma perché la sensazione delle labbra di Spider-Man sulle sue lo riempiva di una rabbia impotente, di un’incomprensione totale, di una mancanza di risposte terribile e bellissima che lo aiutava a concentrarsi per capire per capire per capire come fosse possibile che quel pazzo che gli estraendo chirurgicamente il cuore dal petto per… per cosa? Per usarlo come? Per metterlo dove? Ed Abby… la ragazzina cosa cosa come? Come faceva quell’uomo a lavorare superando la velocità del suo fattore di guarigione, come come come l’aveva portato lì in dieci minuti, come, come?!

Deadpool sgranò gli occhi che non si era accorto di aver chiuso.

La realtà dei fatti, con un superpotere come il suo, era che anche senza cuore sapeva già che il suo corpo sarebbe riuscito a tenerlo in vita per qualche minuto. Ok, magari un minuto intero e non di più, ma sapeva anche che per rigenerarsi, quella volta, gli ci sarebbe voluto parecchio. Da una ferita mortale al cervello o alla spina dorsale si guariva con facilità, ma il cuore… be’, poetico quanto vuoi, ma per ricostruire il cuore, ci sarebbe voluto del tempo.

Prima di morire pensò ad Abby, al fatto di averle mentito, al suo piccolo cuore di coniglio in trappola e poi sentì qualcuno chiamarlo. Una minuscola parte di lui seppe che era Spider-Man e alla fine non gli importò poi molto che fosse vero o meno, che Peter fosse lì o meno, perché finalmente capì come.

Come diavolo aveva fatto l’Uomo Nero a portarlo lì e strappargli il cuore.

A ben pensarci era quasi ovvio.




Note: Il titolo del capitolo è tratto da L'altra dimensione, dei Måneskin
  
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