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Autore: meliiiiissa    02/03/2022    1 recensioni
Aizawa, la sua insonnia, un incubo, i suoi figli, casa sua, suo marito. Tutto qui, solo tanto domestic fluff.
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EraserMic, menzioni di ShinKami
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Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eri, Hitoshi Shinso, Present Mic, Shōta Aizawa
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '✿ one-shot haikyuu!! - my hero academia ✿ '
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Non chiudere gli occhi.

Non farlo, Shōta.

Non chiudere gli occhi.

Non puoi chiudere gli occhi.

Non devi chiudere gli occhi.

Anche se bruciano come ci fosse la sabbia a graffiare la cornea chiara, anche se prudono, anche se lacrimano, tu non devi chiudere i cazzo di occhi.

Finirà tutto, se chiudi gli occhi.

Scomparirai, se chiudi gli occhi.

Scomparirete.

Non mi è sembrata una buona idea, quando l'ho sentita, stamattina, quella di andare sul campo. Andiamo, saremo pure forti ma siamo pur sempre una classe di ragazzini del secondo anno di liceo, non eroi professionisti, cosa pretendevano facessimo?

Dov'erano?

Dove sono?

Tutti emozionati, all'idea di fare il "lavoro vero".

Ma non siamo abbastanza forti.

E abbiamo il cervello pieno di preteste giovanili e speranze senza fondamento, non c'è spazio per l'esperienza, non per il buonsenso, gettati allo sbaraglio da una vita che ci emoziona per il solo motivo di essere ragazzi.

Ma la vita non è fatta per chi è emozionato, credo.

La vita è fatta per chi è pragmatico e realista, per chi ha esperienza e sa quello che fa.

Non di certo per un branco di stronzetti che non hanno idea di cosa vogliono, come o perchè.

Sono pieno di sangue, di croste, di lividi.

Schiacciato contro un muro, schiena e scapole premute fino a farmi male contro questi mattoni grezzi che graffiano la mia pelle oltre il costume da Hero squarciato, capelli biondi chiarissimi e fini sulle mie cosce.

Non ci aspettavamo... questo.

Io e Yamada siamo usciti in pattuglia coi "grandi", ci siamo staccati dal gruppo principale e al primo segno di qualcosa di interessante ci siamo buttati addosso al pericolo senza nemmeno pensarci, a quel che sarebbe successo.

Avremmo dovuto pensarci.

Non chiudere gli occhi, Shōta.

Non chiuderli.

Lo vedi, questo stronzo a pochi metri da voi, lui e il suo quirk bloccato dal tuo che fatica, lontano e ignaro e inerme.

Se li chiudi siete morti.

Se li chiudi sei morto tu ed è morto Yamada, svenuto su di te.

Non possiamo morire, cazzo.

Tutti pensano che sia un depresso cronico, ma in realtà sono soltanto selettivo con il mio tempo. Lo impiego in quello che m'interessa, il resto lo faccio cercando di sprecare il meno possibile dell'energia corporea di cui ho bisogno, niente di più.

Non odio tutti, assolutamente.

Non mi fanno nessun effetto.

Ma Yamada me lo fa, un effetto.

Me lo fa strano, che sono un ragazzino e ancora non so bene dare tutti i nomi a tutte le cose, ma me lo fa.

Usciamo da... due settimane.

Non possiamo...

Non chiudere gli occhi.

Mi piace come sorride.

Mi piace come ride, mi piace quando parla un po' in inglese fra le frasi, mi piace il rumore che fa e mi piace come canalizzi l'attenzione quando vede che sono a disagio, solo per levarmene un po' dalle spalle.

Mi piace la faccia che ha fatto quando ho raccolto tutto il coraggio che possedevo e gli ho scritto un "andiamo a mangiare in quel bar con i gatti?" in un pezzettino minuscolo di carta fra le pagine di un libro che stava leggendo.

Mi piace come si è chinato ad accarezzarne uno quando siamo effettivamente andati.

Come le sue dita lunghe e magre si sono piegate sotto il muso soffice di una di quelle creaturine che ha fatto le fusa.

Mi piace come si è tolto la macchia di cioccolata dal viso mentre mangiava la torta.

Mi piace come mi fa sentire.

Mi piaccio io quando mi vedo con lui.

Non chiudere gli occhi.

Non puoi, miseria.

Guardalo, ora.

La guancia piena di sangue e polvere appoggiata contro la tua coscia, gli occhi chiusi e il cipiglio delle sopracciglia che si tende e distende a ritmo con un dolore che non lo lascia, forse una costola rotta, completamente indebolito.

Dovevi proteggerlo.

Lo puoi fare ora.

Mi lacrimano gli occhi, sono secchi come il peggiore dei deserti e bruciano, bruciano di un fuoco che non avrei mai immaginato potesse nascere in una piega di corpo tanto minuta.

Mi rigano il viso, le gocce di quel che non so se sia dolore o rabbia.

Lo vedo, il Villain, che si avvicina.

Non lo usa, il suo potere.

Non lo riesce ad usare.

Ma questo non lo rende innocuo.

Potrei...

Come faccio a difendermi? Sono distrutto, senza forze. La fuga sarebbe la cosa più logica ma a portare Yamada ci metterei troppo e non tollero nemmeno il pensiero di lasciarlo qui, combattere potrebbe farci guadagnare tempo ma sarebbe totalmente inutile.

Intanto...

Non chiudere gli occhi.

Pettino le ciocche chiare con le dita, prendendo respiro in questa quiete prima della tempesta.

− Non permetterò che ti facciano del male, 'Zashi. – borbotto, impastando le labbra tra le ferite.

So che è una frase del cazzo, ma al momento, di fronte a morte certa, è quel che mi viene fuori.

− Non ti toccheranno, te lo prometto. – continuo.

Piango, Dio, quanto piango.

Non so perché piango.

So che piango con gli occhi aperti.

− Nessuno ti toccherà. Nessuno ti farà niente, ci sono io e andrà tutto bene. – tento ancora.

Si avvicina, lo stronzo di fronte a me. Mancano pochi passi, lo vedo, lo sento anche fra le lacrime.

Stringo le spalle di Yamada fra le braccia, lo tiro su, il viso contro la mia spalla e il corpo chiuso dentro al mio.

Se ci attacca attutirò il colpo.

Dovrei combattere ma sono un ragazzino con gli occhi sbarrati che ha paura, non riesco nemmeno ad alzarmi.

Stringo Yamada più forte.

Il Villain si avvicina.

Non la controllo, la voce, quando esce.

− Non... ti prego, non... non farci... siamo solo... − blatero, e stupisce persino me.

Lo sto pregando?

Perché cazzo sto pregando questa feccia?

Perché ho Hizashi mezzo morto fra le braccia, ecco perché. Perché se fossi io vorrei tenermelo stretto, l'orgoglio, ma se è lui mi sa che...

Tengo gli occhi aperti così forte che le gocce d'acqua che scendono bagnano la schiena del mio ragazzo.

− Preghi, stronzetto? – mi chiede il Villain, e mando giù una risposta al vetriolo.

− Stiamo... stiamo insieme da poco, non siamo mai usciti a cena, non l'ho presentato ai miei. Non ho fatto niente, nella vita, non voglio... non voglio che... non possiamo morire qui, abbiamo un sacco di cose da fare, noi due... −

Non controllo più niente di me stesso.

Solo gli occhi.

Solo gli occhi che non devono chiudersi.

Non farlo, Shōta.

Non chiudere i cazzo di occhi.

Luce.

La luce inonda il mio campo visivo.

Sento delle voci arrivare da lontano.

Stringo forte Hizashi.

Guardo lo stronzo di fronte a me.

− Non puoi toccarlo perché... − tiro su col naso – perché lui... perché lui è mio. E tu non lo tocchi. – piagnucolo.

Sento qualcosa muoversi contro il mio petto.

Le voci si fanno più forti.

Più forti, più forti, più forti.

Svengo con gli occhi aperti.

Ci vengono a salvare e io, io svengo sfinito e distrutto, ma con gli occhi... aperti.

Mi sveglio di soprassalto.

Apro gli occhi nel buio che mi circonda, cerco di mettere a fuoco il mio campo visivo, il respiro mozzato nel petto e il sudore che cola sulle tempie, ho caldo e ho freddo allo stesso tempo, il cuore mi batte come un martello dall'interno della cassa toracica e il sangue rimbomba nelle mie orecchie e...

Era un... sogno.

Era un sogno.

Sto bene.

Sono vivo.

Sono a casa.

Mi sono addormentato sul divano, credo.

Non dormo mai bene quando mi addormento sul divano.

Una vocina dal retro della mia testa cattura la mia attenzione e la mia mente si rifocalizza su tutt'altro in mezzo secondo.

E Hizashi?

Hizashi sta bene?

Devo...

Mi alzo di scatto, la testa che gira per lo sbalzo della pressione corporea che ignoro bellamente, mentre muovo le gambe indolenzite verso la camera da letto, spalanco la porta e metto a fuoco una figura che dorme rannicchiata fra le coperte.

Mi avvicino.

Il suo petto fa su e giù.

Ha una maglietta delle principesse Disney addosso, i capelli sciolti, gli occhi verdi chiusi ed è...

Vivo.

Assolutamente vivo.

Tremendamente vivo.

Tiro un respiro di sollievo.

Miseria, che sogno del cazzo. Mi sono preso un colpo, altroché. È un ricordo reale, lo so bene, ma è passato e ne è scorsa di acqua sotto i ponti da quel giorno.

La paura non ti abbandona mai, però. Torna sordida e muta come una nota ribattuta talmente bassa da essere appena impercettibile, ma quando la senti bene, Dio se non ti fa tremare.

Quel giorno me ne ha tolte tante, di cose, e altrettante me ne ha concesse.

Ho capito che non avrei mai lasciato Hizashi quel giorno.

Ho iniziato ad essere terrorizzato all'idea di dormire quel giorno.

Mi spaventa chiudere gli occhi.

Che controllo hai, quando li chiudi?

Non vedi, non senti, sei debole e chiunque potrebbe distruggerti con il minimo sforzo, e allora che li chiudi a fare?

Esco dalla stanza cercando di riprendere fiato.

Sono pur sempre un padre, e se temo per mio marito temo per una ridicola proprietà associativa anche per i miei figli. Dar loro un'occhiata non sarà criminale, in fondo.

Cammino cercando di non far rumore verso la stanza di Eri, abbiamo iniziato a farla dormire da sola da relativamente poco e abbiamo comunque quell'aggeggio di cui non conosco il nome che si accende se i bambini piangono.

Mi amareggia il fatto che ne abbia bisogno lei, che di anni ne ha nove, e mi fa anche incazzare, perché non capisco come si possa distruggere a quel modo l'animo di una creatura così innocente, ma non ne parlo spesso che non ho la minima intenzione di farle gravare sulle spalle un peso che non le appartiene.

Ha i capelli bianchi lunghi e lisci sparsi sul cuscino, il viso pacifico e la stessa maglietta di Hizashi addosso, abbinata ad un paio di altrettanto sgargianti pantaloni fuxia.

Sì, mio marito e mia figlia mettono i pigiami coordinati.

Ne vado persino fiero.

Imbuco il corridoio ancora per sbucare con la testa sulla porta di Hitoshi, abbasso piano la maniglia e intravedo una luce fulminea.

− Papà? – sento.

Cazzo, figliolo. E dormi un po', pure tu.

Non ho la forza di sgridarlo, poi ha diciotto anni e penso che non ne abbia bisogno.

− Stai bene? – chiedo, intravedendo di sbieco il suo viso dietro lo schermo luminoso del telefono che tiene premuto al petto.

− Dovrei stare male? – risponde.

− Non lo so. Stai bene? –

− Boh, sì. –

Gli adolescenti sono una tale goduria genitoriale, così aperti ed espressivi, devo dire.

− Che fai sveglio? – chiedo.

− Scrivo a Denki. –

Vorrei sospirare, e lo faccio.

Sì, anch'io stavo sveglio la notte a farmi inondare il cervello di tante parole da qualcuno con i capelli biondi e una voce rumorosa, ed è proprio perché ci sono passato che posso permettermi di commentarlo.

− Tutto bene papà? – borbotta poi di rimando, chiudendo per un attimo lo schermo del telefono e fissandomi attraverso l'oscurità che distinguiamo a malapena.

Ci sono tanti modi diversi di fare i genitori, e nessuno è quello giusto, su questo non ci piove. Ma quel che credo io e che ho messo in piedi con Hizashi, è di mostrarsi ai propri figli come creature umane e non esseri perfetti e metafisici che trascendono le leggi della realtà.

Se sto male Hitoshi lo sa e lo vede, non ho paura di mostrarglielo, perché non voglio insegnargli che la vita è di chi sopporta in silenzio, ma che appartiene a chi impara ad adattarsi ai cambiamenti accettandoli nella loro validità.

− Brutto sogno, solo un po' d'ansia. – rispondo, con totale onestà.

− Hai sognato il giorno in cui sposerò Denki e inizierà a chiamarti "papà"? –

Ridacchio e sorrido.

− Punto primo, tu non ti sposi fino ai trent'anni. Punto secondo, sai che mi piace Kaminari perché è un bravo ragazzo ma il giorno in cui mi chiama "papà" è il giorno in cui gli stacco la testa. –

Hitoshi lascia andare una risata sfiatata.

− L'ha già fatto in classe. –

Annuisco.

− Un paio di volte. –

Quel ragazzo è perfetto per mio figlio e anche questo, l'essere distratto e brutalmente onesto, fa parte di questa perfezione.

− Sveglia papà. Yamada, intendo. – mi dice poi Hitoshi, col tono affettuoso.

− Domani ha lavoro presto. –

− Anche tu. Sai che non vuole che tu dorma poco, e se non lo svegli gli dico che hai vagato tutta la notte. –

Schiocco la lingua.

− Stronzo. –

− Ti voglio bene anch'io. Ora vattene che non riesco a concentrarmi su Denki se ci sei tu e ho tutta l'intenzione di capire di che cosa cazzo stia parlando. Chiacchieriamo da dieci minuti e non ne ho idea. –

Sbuffo.

− Ragazzini. –

Chiudo la porta mentre mi risponde un "vecchio" sottovoce.

Ha ragione e so che ha ragione ma non riesco a convincermi appieno di farlo. Lo so, che Hizashi è l'unica cosa che mi permette di chiudere gli occhi, ma non voglio costringere lui ad essere vigile per me, so quanta fatica faccio e non voglio estendere questa malattia pure su di lui.

Intanto torno in camera da letto, mi tolgo la maglietta di dosso e la butto in una palletta disordinata all'angolo della stanza, mi stiracchio le braccia e mi stendo al suo fianco.

Non dormirò, magari, ma tenere gli occhi aperti mi è meno faticoso, quando lo faccio con lui vicino.

Mi fanno il solletico, le punte dritte dei capelli lisci come fili di seta, ne sposto qualche ciocca via dal suo viso e mi appoggio sul fianco a guardarlo.

Uscivamo da due settimane, quella volta.

Ora stiamo insieme da quindici anni, ci siamo sposati, abbiamo adottato due figli, lavoriamo in un posto che non sia l'attimo precario di un ragazzino appena diplomato, abbiamo una casa e una marea di gatti, siamo una famiglia.

E comunque anche se il tempo è passato contro e attraverso di noi, continuo a pensare quelle parole blaterate di me ragazzo.

"Non puoi toccarlo, perché lui è mio. E tu non lo tocchi".

Ottima argomentazione, devo ammettere, grande frase, pregna di attenzione e significato poetico.

Non m'interessa se è un agglomerato di parole spaventate, però.

Lo penso ancora.

L'ho sempre pensato.

L'ho pensato quando andavamo in vacanza assieme i primi tempi, le prime volte che abbiamo fatto sesso e le prime che abbiamo litigato.

Lo pensavo persino quando mi ha lasciato per ventitré minuti quando avevamo ventotto anni.

Avevo detto che la sua pronuncia inglese era "scadente".

Mi ha rifatto il sistema uditivo.

Appoggio i polpastrelli sul ponte del naso, la mia missione di non svegliarlo che sfuma nell'incoscienza e nella voglia di sentire com'è fatto nonostante lo sappia bene, riconosco la sua pelle.

Ha qualche cicatrice da combattimenti passati, minuscola e ruvida, qualche lentiggine chiara e qualche neo.

Ha le ciglia lunghe, bionde.

Mi piacciono le ciglia bionde.

Più delle mie, che sono folte e scure, perché incorniciano gli occhi verdi che amo come volessero sparire al sole. Sbattono e sfarfallano, e si vedono solo quando la luce le colpisce in un certo modo.

Hizashi è alto, ma è snello.

Anch'io non sono propriamente robusto, la mia forma corporea non è quella ben piazzata di un lottatore, ma nel lavoro avevo bisogno del corpo più di lui e l'ho allenato di più.

Hizashi invece non combatte a distanza ravvicinata, gli serve essere agile e muoversi in fretta, il suo corpo è tagliato per quello.

Porta la fede a casa.

Pensavo fosse ridicolo, visto che a lavoro non possiamo metterla col rischio di lasciarla cadere sul campo o peggio in mezzo a dei mocciosi e perderla per sempre, ma la regola era che quando torniamo a casa dobbiamo metterla ed è sempre stato così.

Non è niente di che, ci siamo sposati presto ed eravamo giovani e squattrinati, ma ci sono davvero affezionato.

Dicono che le fedi devono essere d'oro, la sua lo è.

Per la mia ha mandato avanti una discussione di tre ore con Midnight, o Nemuri, che è nostra amica da una vita e alla quale voglio davvero bene nonostante sia tremendamente irritante, sul fatto che la mia stagione armocromatica non si sposasse tanto bene col giallo.

Fedina d'argento.

La mia è d'argento.

So cosa c'è scritto dentro.

Sulla sua "Shō", sulla mia "'Zashi", i nomi completi ci avrebbero messi a disagio.

Intreccio le dita con le sue, tiro su la sua mano nell'aria e osservo il modo familiare in cui sembrano incastrarsi, sorrido.

− Hizashi, non riesco a chiudere gli occhi. – mormoro, poi, liberandomi completamente.

Carpisco un angolo delle sue labbra piegarsi.

− Mi stavo giusto chiedendo quanto ancora avessi intenzione di fissarmi prima di dirlo. – risponde, con la voce roca dal sonno ma cosciente.

Era sveglio?

Certo che era sveglio. Tu conosci ogni angolo di lui, che sia il suo corpo o l'anima che gli dà vita, ma non devi dimenticarti che la cosa è reciproca, che anche lui sa tutto.

Per alcuni è spaventoso, essere così vulnerabili e scoperti con un'altra persona.

Ho imparato che per me è solo essere a casa.

Apre gli occhi piano, come volesse testare quanto male gli fa la luce sulle iridi assonnate, ma oltre ai riflessi della città che filtra dalle tapparelle si vede ben poco, e mi squadra in un secondo.

Mi dà un'occhiata veloce, come mi stesse facendo una radiografia, mormora qualcosa fra sé e sé e annuisce, e poi eccolo, lui e la sua istantanea cura formatasi nella sua mente.

Lascia passare una gamba magra oltre la mia vita, si tira più vicino, attraversa il mio petto con un braccio e spiaccica la guancia contro uno dei miei pettorali.

Le sue dita iniziano a muoversi contro la spalla nuda, sul collo.

− Che è successo? –

− Ho sognato di quando eravamo in seconda. – rispondo.

Sono successe tante cose, in seconda. Ma sa cosa sto intendendo.

Sospira, fa "sì" con la testa, e lo sento stringermi.

− Mi hai salvato la vita, quel giorno. Ci hai salvato la vita, Shō. So che hai paura ma a dirla tutta sono felice che fra tutti ci fossi proprio tu, con me, quel giorno. –

Tiro su una mano, accarezzo la guancia.

− Ma ti ho visto morto. –

− E mi hai salvato. –

Respiro, i capelli di mio marito che si spandono contro il mio naso e hanno l'odore del sapone di Eri, quello che fa le bolle rosa nella vasca.

− Hai fatto il bagno con la bambina? –

− Voleva farmi le trecce e io dovevo lavarmi i capelli. Ma non stavamo parlando di questo. – mi riprende, e ridacchio.

− Lo so, lo so. –

Inspira.

− Vuoi dirmi che cosa ti fa paura? Mi hai visto mezzo morto più di una volta, non penso sia quello il problema. – commenta poi.

Ci rimugino su.

In effetti non è che abbia torto, anzi.

− Ho la sensazione di perdere il controllo, quando faccio quel sogno. Ho la sensazione che se chiudo gli occhi poi perderò tutto, e non so perché questa cosa mi fa un effetto strano. –

Piega il viso per baciarmi lo sterno.

− Continua. –

− Mi sveglio e ho l'impulso di controllare che tutto vada bene, che tutti stiate bene. Di quel sogno mi dà fastidio credo... − interrompo la frase incagliato nelle mie stesse parole.

Di essere solo.

Di essere l'ultimo.

Di essere io a dover salvare tutti e di non avere la possibilità di fallire.

− Ti dà fastidio essere umano, Shō? –

Mi legge come fossi un manifesto a caratteri cubitali.

− Perché lo so che è difficile per te, che sei pieno di tante responsabilità, ma è quello, il punto. Hai paura di sbagliare, Shō? Di perdere tutto perché ti lasci scappare qualcosa? –

− Penso... penso di sì. –

Rimaniamo un attimo in silenzio, ad ascoltarci solo vivere sospesi in questo quadratino minuscolo di notte.

− Non sei da solo. – mormora poi.

− Cosa? –

− Non sei da solo. Ti proteggiamo noi, se qualcosa va storto. Io e Hitoshi e anche Eri, piccola, darebbe un rene se le dicessi che è per farti felice. –

Mi colpiscono forte, queste parole.

Mi si infiltrano nella cassa toracica, si diffondono capillarmente in tutto il mio corpo.

− A scuola ci sono i ragazzi, sai che ti vogliono bene, ti aiuteranno loro. E gli altri professori sono degli eccentrici stronzi, ma ci sono anche loro. E ci sono i tuoi genitori, e i miei, e un sacco di persone che ti vogliono bene quanto tu vuoi bene a loro. –

− Lo pensi davvero? –

− Non lo penso, lo so. –

Non ero un tipo sorridente, non credo di esserlo neppure ora. Ma mi fa sorridere, sentirlo parlare, rendermi conto di come rotoli la sua voce contro la mia pelle, di quanto profondo sia questo legame che dura da una vita.

L'errore di tante relazioni lunghe è darsi per scontati.

Ma sono fiero, persino orgoglioso di ammetterlo, io Hizashi non l'ho mai dato per scontato e non penso davvero che lo farò in futuro.

Non svaluterò mai la sua opinione o le sue parole pensando che tanto lui mi ama e direbbe qualsiasi cosa per farmi stare meglio, perché so che non è solo questo, che si racchiude nel modo in cui si rapporta con me.

So che è sempre stato così, che lo sarà sempre, che lo è sempre.

Onesto.

− Ti amo, Hizashi. – sussurro, con la notte silenziosa che assorbe le mie parole e le inghiotte in un istante.

− Anche io ti amo, Shōta. –

Lascio che mi circondi il collo con le braccia, lascio che mi baci in un modo che non ha niente di quella passione corporea reciproca che ci appartiene, ma che sia dolce e affettuoso, con me.

Non devo chiudere gli occhi, no?

Quando mi bacia li chiudo sempre.

Perché non ho bisogno di vedere, sento e basta.

Li riapro l'istante dopo, e per quanto l'atmosfera scura riduca ad un miscuglio sui toni del grigio la realtà che mi circonda, vedo i suoi occhi che brillano e i capelli che svolazzano.

− E poi di quel giorno ci sono tanti altri ricordi che se pensi solo a quel che è andato storto te li dimentichi tutti, Shō. – dice.

Alzo un sopracciglio.

− Infatti non me li ricordo. –

Si china ancora sul mio petto, inspirando il mio odore prima di parlare, percorre le linee dei muscoli con le punte delle dita.

− Mi hai detto che mi amavi per la prima volta sul lettino d'ospedale e non importa quanto volessero farti il culo ma non ti sei schiodato dal quella stanza finché non mi sono svegliato e ti ho risposto. –

Oh, ora le immagini si riformano nella mia mente.

Me seduto a braccia conserte sulla poltroncina di un verde squallido a fianco di un corpo pieno di cerotti, Recovery Girl che tenta di spiegarmi che farà meglio il suo lavoro se non la disturbo e il professore responsabile che tenta di trascinarmi via.

L'ho detto che aveva gli occhi aperti e lo stavano portando a fare la risonanza magnetica.

Con una mano aggrappata alla sbarra di un lettino d'ospedale, con un ragazzo appena cosciente sopra, dopo due settimane che ci uscivo.

"Ti amo, Hizashi, e vedi di non fare cazzate e tornarmi indietro tutto intero", avevo borbottato come fosse un segreto che qualcuno voleva carpirmi dalle labbra senza che nemmeno avessi il potere di trattenerlo.

− Mi hai anche portato i mochi del bar che mi piaceva perché mi lagnavo che il cibo dell'ospedale faceva cagare. – riprende.

Vero anche questo.

Avevo dato scena a tutte le mie capacità di salto-sui-tetti-senza-spiaccicarmi-di-sotto per arrivare in quel posto in un tempo ragionevole.

Avrei potuto benissimo comprarglieli in un altro qualsiasi locale, che quel genere di bar compra i dolci preconfezionati all'ingrosso che trovi ovunque, ma Hizashi mi aveva detto che voleva quelli e io volevo renderlo felice.

Ero un idiota romantico. Sotto copertura, nascosto da una cortina di capelli lunghi, ma un idiota romantico.

− Il giorno dopo, a scuola, mi hai dato la mano davanti a tutti, poi sei arrossito, ti sei seduto al tuo banco e hai nascosto la testa fra le braccia facendo finta di dormire. –

− Non stavo facendo fin... −

− Stavi facendo fintissima. – mette in chiaro, ridendo e accompagnando le parole con quel suono delicato che conosco bene.

− Quel giorno non è stato solo una merda, te lo concedo. Ma continua a farmi schifo ripensarci. –

− Certo che te lo fa, ci siamo quasi rimasti secchi e tu hai avuto un gran bel trauma quella volta. Ma le cose brutte sembrano sempre più grandi di quelle belle, anche se alla fine non è tanto vero. –

Già.

Sembrano enormi, buchi neri che ingoiano i ricordi, li rendono scuri e tinti solo d'una china tenebrosa che li macchia indelebilmente.

Quel che Hizashi sta cercando di dirmi è che il quadro che io vedo solo nero è in realtà un maculato di grigi e bianchi e neri pece, e che tutte le macchie hanno un loro valore, concentrarsi solo su alcune ti rende cieco alle altre.

Saggio, Hizashi.

Non mi abbandona mai.

Tornerò a questo punto, prima o poi, qualche altro brutto sogno o ricordo e ricomincerò ad essere un uomo terrorizzato che teme di essere tornato ragazzino, ma me le ridirà, queste cose, e mi scalderanno il cuore ancora.

Equilibrio.

L'equilibrio non è noioso.

L'equilibrio è pace.

È come chiudere gli occhi.

Sale con la mano fino al mio viso, appoggia il palmo sulla mia guancia.

− Siamo quasi morti, in seconda liceo, ma ci siamo anche un po' trovati, non credi? –

− Credo di sì. –

Mi piego di lato, lascio scivolare il suo viso sul mio braccio, stringo le mani sulla sua schiena come volessi fonderlo al mio corpo.

− Se non ci fosse stato quel giorno in seconda liceo non ti avrei mai visto col pigiama della Bella Addormentata nel Bosco. – aggiungo poi.

Mi pizzica la pancia.

− Cos'hai contro il mio pigiama? –

− Niente, niente. Hai trent'anni e sei un Pro Hero, ma niente. –

Ridiamo insieme, poi lo sento sbuffare.

− Uno stronzetto a scuola ha detto ad Eri che lei non è nessuna delle principesse perché nessuna ha i capelli bianchi. Che lei al massimo può fare Ursula della Sirenetta. –

Mi stacco, cerco i suoi occhi nel buio.

− Quale sacco di organi ha dato a mia figlia della piovra? –

− Un bambinetto antipatico, uno di quelli del centro. –

− Tu che le hai detto? –

Scuote la testa come fosse poco importante, si riaccomoda fra le mie braccia e scivola con le gambe fra le mie, intrecciandole assieme.

− Che Elsa di Frozen ha i capelli bianchi e che il suo compagno ha ragione, lei non è una principessa perché Elsa è una regina. –

Incastro la lingua fra i denti.

− Sei un bastardo. –

− Naah, sono solo gay. –

Appoggia il naso contro il mio.

− Hitoshi dormiva? –

− No. –

Mi bacia la punta del naso.

− Con Denki al telefono? –

− Ah-ah, cotto. –

− Come noi al liceo, cazzo. È quasi inquietante. –

Alzo una spalla.

− Forse. –

Silenzio, corpi che scivolano e si sistemano sempre meglio, sempre più rilassati.

− Come faremo quando se ne andranno via di casa? – chiede, poi.

− Come facevamo prima che arrivassero, con meno vino e più film sotto le coperte. –

− Oh, non parlarmi del vino, ti prego. Ci sono cose che abbiamo fatto da ventenni che rimarranno a quando eravamo ventenni. –

Decisamente.

I ventenni sono stupidi e si divertono, poi crescono e si pentono.

Anche se non mi pento di nulla, ad essere onesto, che la mia vita è sicuramente stata un po' movimentata, non per nulla il mio lavoro stesso lo è, ma non ne cancellerei nemmeno un angolo.

Non cancellerei i ricordi felici e non cancellerei le mie paure, perché è vero che mi hanno portato qui, e qui io sto bene.

Non tutto è facile, non tutto è perfetto nemmeno ora, non credo esista davvero una perfezione di quel genere, ma la felicità non è perfetta, è solo varia.

Prende forma in cose buffe e cose eleganti, momenti solenni e altri idioti, non è disegnata su un reticolato chiaro ma rammendata di eventi spezzati e distanti.

Sono ancora il ragazzino che tiene gli occhi aperti e sbarrati, che piange le sue lacrime all'idea di non poter cedere, sono il ragazzino che difende qualcuno fino allo sfinimento perché "è suo", sono lui.

Ma non solo quello.

Non solo... quello.

Non chiudere gli occhi, Shōta.

O forse chiudili, che un minuto andrà bene lo stesso, c'è sicuramente qualcuno che li terrà aperti per te mentre copri i tuoi.

Te lo meriti, forse, in fondo in fondo.

La fatica che hai fatto e l'impegno che ci hai messo per partire dal niente e arrivare a questa felicità domestica che per te è tutta la tua vita, ti concedono anche di essere umano e riposarti, ogni tanto.

Non è tuo, il compito di salvare tutti, non sempre, almeno. Qualche volta puoi anche farti salvare, Shōta, puoi anche lasciarti cadere all'indietro, perché ti sei trovato tante persone che ti prenderebbero al fondo del vuoto, ti raccoglierebbero e ti rimetterebbero in sesto un pezzo alla volta come tu faresti con loro.

Il tuo amore non è sprecato, ma riflesso.

E si riflette nei figli, nei ragazzi a cui insegno, nella persona che amo.

Non tenere gli occhi aperti e non tenerli chiusi, gli occhi.

Guarda e basta.

Sbatti le palpebre, cambia direzione, inondali di luce e costringili al buio, tirali al cielo e spegnili quando dormi.

− Sono felice di avere te. – dico con un filo di voce.

− E io sono felice di avere te. –

Mi sento sprofondare nel cuscino.

− Grazie. – mi lascio scappare un attimo dopo.

I contorni di Hizashi si fanno appannati, distanti e confusi, sfumano sui bordi e s'illuminano di sonno.

− Grazie di cosa, Shō? –

− Di avermi insegnato a chiudere gli occhi. −

   
 
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