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Autore: holls    03/03/2022    6 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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25. Tutta la verità

 

 

Costole nuove alla mano, stavo firmando per la mia libertà. Quindici giorni passati su un letto d’ospedale potevano diventare una vera tortura.

«Un’ultima firma qui, signor Hayworth.»

Feci l’ennesimo autografo su quelle carte che non degnai nemmeno di uno sguardo e restituii i fogli all’infermiera di turno. Aveva la pelle scura, i capelli ispidi raccolti in una crocchia e un sorriso contagioso, a differenza delle altre facce che avevo visto girare per i corridoi in quelle due settimane. Sul cartellino era riportato un “Sarah London”, scritto in grassetto e bello fitto. La signora mi sorrise e io feci altrettanto.

Quant’era buono il sapore della libertà? Finalmente potevo andare in bagno quando volevo e buttare nel dimenticatoio quelle due settimane di brodini insipidi. La mia mente era già volata al fast-food e alle patatine mosce, fritte in un olio vecchio di giornata.

«Bene, la ringrazio. Arrivederci.»

«Arrivederci a lei.»

Sarah London mi salutò con un sorriso e io sperai, un po’ egoisticamente, di non rivederlo mai più. Spingere il maniglione antipanico e respirare l’aria inquinata di Manhattan fu come riabbracciare gli amici di un tempo e, per un attimo, mi fermai fuori dalla porta a inspirare a pieni polmoni lo scarico di un camion che passava di lì per caso. Be’, d’altronde dovevo pur pagare lo scotto di non sentire più dolore nel compiere un’azione tanto banale.

Cominciai a incamminarmi, facendomi largo tra la gente. La sensazione di nostalgia, però, lasciò presto il posto a una sempre più forte inquietudine, che cresceva di attimo in attimo ogni volta che incrociavo lo sguardo di qualcuno. Tutti sembravano così presi dai loro telefoni o persi a fissare il cielo con la musica dello Walkman sparata nelle orecchie; ogni tanto, invece, qualcuno guardava davanti a sé, per poi spostare appena gli occhi e incrociarli coi miei.

Lo sguardo mi scivolava via l’attimo dopo, frutto solo del caso. No, non erano gli aggressori che mi avevano pestato a sangue. Erano solo passanti, donne e uomini che facevano un balzo nel mio cammino e ne uscivano subito dopo.

Abbassai gli occhi, cercando conforto nella moltitudine di piedi che si incrociavano. Mocassini, scarponcini non troppo alti, stinchi scoperti dai bermuda.

Poi una spalla mi urtò e trasalii. Mi voltai, ma quella persona non si girò neanche indietro. Non era nessuno, semplice; solo qualcuno che aveva preso male le misure e mi era venuto addosso. Continuai a camminare e quella strada mi parve infinita. Troppi sguardi da evitare, troppe persone di cui dubitare; e se gli aggressori avessero aspettato le mie dimissioni dall’ospedale, per riprendere da dove avevano lasciato?

Mi spostai in un punto più soleggiato, dove non riuscivo a tenere gli occhi aperti e dove speravo che la luce riuscisse a confondermi in mezzo a tutta quella gente. Io, quantomeno, riuscivo a malapena a vedere davanti a me.

Raggiunsi le scale della metro e le scesi con fare rapido, complice dell’oscurità che riuscì a farmi calmare almeno un po’. Mi misi ad aspettare in un angolino, lontano da occhi indiscreti, nella speranza di non essere visto da nessuno. Quando arrivò la metro montai con un po’ di titubanza, ma nella carrozza nessuno mi degnava di uno sguardo: ognuno era troppo preso dalla propria vita e io non ero mai stato più felice di tutta quell’indifferenza.

 

Passai un paio di giorni in quello stato. Stare in casa mi faceva sentire al sicuro, nonostante sobbalzassi al minimo rumore esterno; al suono del campanello per poco non avevo gridato, anche se per fortuna avevo mantenuto un certo contegno, soprattutto perché alla porta mi ritrovai davanti Jane e quella piccola peste di Carter. Avevo mantenuto a stento una risatina quando, abbassando lo sguardo, mi ero ritrovato davanti quella specie di scimmietta diabolica con i suoi nuovissimi occhiali e l’apparecchio ai denti. Decisamente un’accoppiata vincente per un bambino che si apprestava a lasciare il mondo dell’infanzia.

          Alla fine però fui costretto a uscire. Mentre ero ancora in ospedale, infatti, avevo ricevuto una comunicazione da parte della NYPD, che mi invitava a presentarmi in centrale come persona informata sui fatti. Non c’era scritto su cosa volessero sentirmi, ma era indicato solo il numero di procedura penale, che per me poteva significare tutto e niente. Immaginai che ne avrei saputo di più una volta arrivato lì, per cui mi infilai una felpa garzata, tirai su il cappuccio e uscii di casa.

 

Era strano rientrare in quella centrale dopo tutti quei giorni. La segretaria mi fece accomodare su delle sedie imbottite, che però non erano così comode come sembravano. Erano talmente consumate che era possibile sentire la testa del chiodo che batteva sul sedere, costringendomi alle posizioni più assurde pur di non sentirlo. Un uomo in giacca e cravatta passò proprio in quel momento, mentre mi contorcevo sulla sedia. Pensai che doveva avermi preso per pazzo.

Accanto a me c’era un altro uomo. Guardava fisso davanti a sé, col collo allungato, forse perché la cravatta glielo stava stritolando come un cobra con la sua preda. Sembrava un uomo sulla cinquantina, ma l’assenza di capelli bianchi e la folta chioma lo facevano apparire più giovane di almeno cinque o sei anni; l’unico segnale sulla sua vera età era la pelle rugosa sotto al mento che ciondolava appena e che gli aveva procurato un abbozzo di doppio mento.

Gettai un’altra occhiata a quel tipo seduto accanto a me, mentre cercava di allentarsi il nodo della cravatta. Forse era il solo guardarlo a rendermi stranamente tranquillo e a farmi concentrare più sui vestiti spaiati del tizio di fronte a me che sul motivo per cui ero lì.

Quando però sentii staccheggiare la stessa segretaria che mi aveva fatto accomodare lì, avvertii l’impellente bisogno di andare in bagno; perché sì, dovevo solo rilasciare due dichiarazioni, ma ero comunque stato convocato dalla polizia, mica noccioline.

«Signor Hayworth, mi segua.»

Io mi alzai di scatto e non me lo feci ripetere due volte. All’improvviso dimenticai i vestiti spaiati, il chiodo sulla sedia e il trillo continuo del telefono che riempiva la sala; in quel momento sentivo solo i battiti del mio cuore, che si stava agitando senza motivo.

Come voltai l’angolo, il mostro si materializzò in una triade conosciuta: Alan, Ash e un terzo uomo, che mi pareva avesse un volto familiare.

Stavano ritti accanto a una stanza che avevo già visto un milione di volte, in quei film dove i cattivi vengono catturati, interrogati e poi sbattuti in una cella. Ogni volta che guardavo quegli sceneggiati non avevo mai pietà per l’interrogato di turno e magari mi sgranocchiavo pure un paio di patatine, per poi leccarmi le dita a fine pacchetto.

Io non avevo davvero niente da temere, ma tutti quegli occhi puntati su di me scatenarono una certa apprensione, che si impossessò ben presto del mio corpo.

Il terzo uomo si presentò come Matthew Church e sfoderò un sorriso che non mi piacque per niente. Sembrava uno di quelli sempre con la verità in tasca e io sperai tanto di sbagliarmi.

«Prego, si accomodi.»

Church mi aprì la porta e mi fece cenno di seguirlo. Io mi voltai verso gli altri due poliziotti, ma solo negli occhi di Alan lessi un tocco di rassicurazione.

La stanza era asettica. Quadrata, bianca, insonorizzata. C’erano solo una sedia e un tavolo, anch’esso bianco. Mi sedetti sul ciglio della sedia, quasi come se avessi paura di adagiarmici sopra. Agli angoli della stanza, puntate come il fucile di un cecchino, c’erano due telecamere di sorveglianza. Quella luce rossa intermittente mi ricordava che quell’occhio mi avrebbe fissato istante per istante, senza sbattere mai le palpebre. Deglutii.

Al centro del soffitto, come a dominare la stanza, c’era un bocchettone quadrato per l’aria condizionata, che in quel momento era spento. Era, in un certo senso, l’unico contatto col mondo esterno, visto che la porta era chiusa e il vetro che mi separava dal corridoio sembrava indistruttibile. A ogni modo io avevo già cominciato a sudare, forse per il caldo, forse per l’ansia che mi salì quando udii dei passi sempre più vicini.

Church prese posto di fronte a me, mentre Alan e Ashton stavano dall’altra parte del vetro, a braccia conserte, ad ascoltare quello che ci saremmo detti. Li vidi aprire bocca, ma non sentivo niente.

Mi fu spiegata la situazione, il motivo per cui ero lì e che quella era soltanto una chiacchierata informale, perché avevano bisogno di far luce su alcuni aspetti della rapina del trenta luglio e non sull’aggressione, come avevo pensato fino a quel momento. Io non facevo altro che annuire, spaventato dall’idea di poter dire qualcos’altro, magari qualcosa di sbagliato.

«Bene, signor Hayworth, partiamo dall’inizio: può dirmi cosa stava facendo la mattina del trenta luglio scorso, verso le ore quattordici?»

«Ok, sì, va bene.»

Mi grattai la fronte e respirai.

«Allora, avevo appena finito il turno al Best Deals, il posto dove lavoro. Dovevo ritirare un pacco per il mio capo e quindi sono uscito per andare alle poste. Mentre stavo per entrare, mi sono scontrato con una persona e ho capito che era una rapina. Così ho chiamato la polizia.»

«Quindi è andato alle poste con un motivo ben chiaro in mente. E il pacco l’ha ritirato?»

«No, per via della rapina. Poi non sono più tornato.»

«Il suo capo l’aveva delegata?»

«Sì, mi aveva fatto una delega scritta. Glielo può comunque confermare.»

Il poliziotto si sistemò sulla sua sedia, quasi fossimo stati a sorseggiare gin in piscina.

«È possibile vedere questa delega?»

Ci pensai un attimo. Dove l’avevo messa? Forse me l’ero ficcata in tasca, ma in quel momento non riuscivo a ricordarlo. Poteva anche essermi caduta nella foga del momento. Non mi veniva proprio in mente e cominciai ad agitarmi.

«Penso di sì, proverò a cercarla.»

«Va bene. Riguardo alla persona con cui si è scontrata, qualche giorno dopo lei è venuto qui a rilasciare una dichiarazione. Potrebbe ripetercela?»

Cercai di annuire con fare convinto, sicuro di me.

«Sì, certo. Al momento di entrare alle poste, mi sono scontrato con uno dei rapinatori. Sono rimasto colpito dai suoi occhi verdi, perché li ho trovati molto simili ai miei.»

«Magari le hanno ricordato qualcuno che conosce?»

Mi chiesi il perché di quella domanda. Chissà, forse lo avevo notato davvero per quel motivo, ma non durante la rapina; erano impressioni nate molto dopo.

«In realtà no. Mi sembravano solo simili ai miei, tutto qua. È un colore particolare che non si vede molto in giro.»

Il poliziotto, Church, annuì. Afferrò una penna che teneva sul piano e cominciò a batterla ritmicamente contro la scrivania. Forse scandiva il ritmo dei suoi pensieri o forse voleva solo mettermi pressione. Poi finalmente smise, mollò la penna e alzò gli occhi dritti verso di me.

«Ryan Goldwin è stato arrestato.»

Rimasi spiazzato per una manciata di secondi. Sapevo che uno dei rapinatori era Ryan, ma non pensavo che la polizia lo avesse già arrestato. Cercai qualche conferma nell’uomo davanti a me.

«Per la rapina?»

Lui incrociò le braccia e si mise comodo.

«Sì, per la rapina. È la persona con cui si è scontrato entrando.»

Sospirai. Anche la polizia aveva capito questa verità e mi domandai quanto fosse stata colpa mia. Lo sapevo che Alan stava con me metà per lavoro e metà per piacere, quindi cominciai a ripensare a tutto ciò che gli avevo confidato su Ryan, ma la mia memoria, in quel momento, non mi aiutò.

«Non sembra sorpreso, signor Hayworth.»

Ormai lo avevo accettato. Sia il secondo fine di Alan, sia il destino di Ryan. L’attimo dopo però capii il senso dell’affermazione del poliziotto: non sembravo sorpreso per una persona all’oscuro dei fatti. Cavolo.

«No, in effetti. Ryan ultimamente si comportava in modo strano e aveva cominciato a sniffare cocaina, quindi non mi sorprende sapere che ha rapinato una banca. Ero quasi pronto a una notizia del genere, si potrebbe dire.»

«Capisco. Che rapporto c’è tra lei e il signor Goldwin?»

«Siamo amici di infanzia. Ci conosciamo da un po’, anche se nell’ultimo periodo ci siamo un po’ allontanati.»

«Perché?»

«Diciamo che io ho avuto dei problemi in famiglia e mi sono isolato, lui poi ha preso un’altra strada e le cose si sono evolute in modo naturale. Non avevamo più niente da dirci, insomma.»

«Secondo lei, perché il signor Goldwin avrebbe dovuto rapinare l’ufficio postale?»

«Non lo so, probabilmente glielo ha ordinato qualcuno. Quando ti infili in quei giri là, quelli della droga, non è così semplice uscirne. Fanno leva sulla dipendenza e ti obbligano a fare di tutto.»

Church annuì e per un attimo distolse lo sguardo da me. Fissò un istante il tavolo e io feci altrettanto. Tutto quel bianco creava un effetto ottico frastornante, così provai a cercare dei contorni per spezzare la macchia di colore. Il primo che trovai fu quello della giacca di Church.

«Quindi lei non aveva idea che il signor Goldwin fosse uno dei rapinatori.»

Esitai un attimo.

«No, non direi.»

Il poliziotto annuì e subito dopo mi sorrise. Si alzò in piedi e pensai che la nostra chiacchierata fosse finita lì.

«Può scusarmi un attimo? Arrivo subito.»

Per fortuna che non mi ero alzato: avevo scampato la figuraccia del secolo. Feci di sì con la testa e lo vidi uscire, per poi portare Alan e Ash con sé. Avrebbero discusso su quanto avevo appena detto? O forse volevano solo prendersi un caffè?

Nell’attesa, continuai a fissare le pareti bianche di quella stanzetta angusta. L’occhio mi cadde poi sulla cartellina posata sulla scrivania, che conteneva sicuramente alcuni fogli e rapporti sulla rapina. Per un attimo, ebbi la voglia di sbirciare, per poi ricordarmi un secondo dopo che c’erano telecamere dappertutto, e che non avevo voglia di finire in carcere per… come avrei potuto definirlo? Furto d’informazioni? Violazione del segreto giudiziario? Ficcanaseria?

Be’, non era nemmeno troppo sicuro che quell’ultima parola esistesse davvero.

Pensai che la polizia si fidava davvero molto a lasciare così tutto in bella mostra. Alzai gli occhi verso i due occhi minacciosi delle telecamere e la voglia di sbirciare mi passò quasi subito. Mi voltai indietro e notai altre due telecamere alle mie spalle: stessa posizione, stesso sguardo fisso. Per la mia incolumità penale, decisi che era meglio rimanere piantato sulla sedia, immobile, in attesa che ritornassero.

I tre non si fecero attendere molto. Alan e Ash si rimisero subito in posizione, dietro a quel vetro muto; Church tornò dall’altro lato della scrivania, ma non si sedette. Quel gesto mi spinse ad alzarmi dalla sedia e, per fortuna, fu la cosa giusta da fare.

«Mi dispiace per l’attesa, signor Hayworth. Queste sono le dichiarazioni che ha rilasciato e su cui dovrebbe mettere una firma.»

Mi resi conto solo in quel momento che Church era tornato con una manciata di fogli in mano e risi di me stesso. Avevo pensato che fossero andati a fare chissà cosa e invece erano solo andati a prendere i fogli dal tizio che aveva sbobinato la mia dichiarazione.

Una firma qua, una firma là, una stretta di mano e finalmente lasciai quella stanza delle torture. Sentire di nuovo la voce di Alan e Ash mentre muovevano la bocca fu quasi strano. Ormai ero così assuefatto dalla modalità pesce che mi sentii come un ragazzo degli anni Trenta che vede per la prima volta un film col sonoro.

Passato lo shock per il ritorno al mondo reale, mi accorsi che l’aria era piuttosto pesante. Alan e Ash si guardavano senza dire niente, ma non era uno sguardo complice, quanto più l’occhiata di due nemici prossimi a sfidarsi. Io li avevo sempre visti insieme, abbastanza cordiali l’uno con l’altro e mi chiesi se quella sensazione fosse solo una mia impressione.

Quel silenzio fu rotto soltanto dalle parole di Ash.

«Accompagnalo all’uscita, va’. Almeno non si perde. Alla prossima, Nathan.»

Io lo salutai di rimando, ma Ash non mi considerò. Mi voltai allora verso Alan, che teneva gli occhi ancora incollati sul suo collega. Subito dopo si riscosse e mi rifilò un sorriso di circostanza.

«Vieni, ti faccio strada.»

Io annuii e cominciai a seguirlo. Alan camminava qualche passo avanti a me e non sembrava farci caso. Pensai che avrebbe voluto parlarmi e dirmi qualcosa, ma si limitava a stare zitto e a percorrere quel corridoio più velocemente possibile. Quando poi arrivammo alla porta, lui uscì con me e io ridacchiai.

«Da qui penso di potermela cavare da solo, sai.»

Alan sospirò e capii che non aveva colto la mia battuta, o che forse non ne aveva molta voglia. Si infilò le mani in tasca e si strinse nelle spalle, nonostante non ci fosse un alito di vento, né freddo. Sospirò ancora, poi schioccò la lingua e alzò lo sguardo verso di me.

«Nathan.»

«Sì?»

Fissò il pavimento piastrellato, ma non ne seguiva le fughe. Mi domandai a cosa stesse pensando. A noi due? Alla quercia? Forse voleva dirmi quello che aspettavo di sentirmi dire da secoli?

«Da qui la strada la sai.»

«… Sì.»

Non esattamente ciò che mi aspettavo, ma avevo capito che c’era dell’altro. Mossi qualche passo come per andarmene e finalmente tornò a guardarmi.

«Nathan. Non ti allontanare. Vieni qui.»

Suonava come una sorta di ordine gentile, strano però da parte sua. Feci come mi aveva detto e i nostri sguardi si incrociarono. Tra di noi era tornata una sorta di intimità, che mi fece desiderare occhiate come quelle per il resto della mia vita. C’era qualcosa nel suo guardarmi, nel farlo così a lungo, come se non si vergognasse a parlare con la parte più nascosta di me. Non c’era imbarazzo nemmeno nel silenzio calato tra noi due. In quel momento desiderai far sparire tutto e tutti, per rimanere soli, verso il destino che speravo si realizzasse in un modo o nell’altro. Quegli occhi un po’ scavati, quel filo di barba che faceva capolino, eppure così curato.

Mi prese per un polso, si guardò indietro e mi trascinò poco più in là. Lessi una certa apprensione nei suoi occhi, che cominciarono a scorrere per tutto il mio viso, come a volersi assicurare che fossi sano e salvo.

«Stai bene?»

Il suo tono era caldo e sommesso.

«Sì, mi sono rimesso completamente.»

Non mi venne voglia di dire cretinate, come quando lui e Ash erano venuti a trovarmi in ospedale per farmi qualche domanda. Ripensandoci, Alan non si era più fatto vedere molto dopo quell’incontro. Immaginai che la storia del bacio lo avesse turbato.

«Bene.»

Si interruppe, ma si sentiva che avrebbe voluto continuare. Si passò le mani sul viso, fece scorrere lo sguardo dal pavimento al cielo e viceversa, poi lo posò su di me. Continuò a parlare.

«Bene. Cioè, no.»

Frasi come quella mi sembrarono molto familiari. Poi mi accorsi che era il mio modo di parlare quando avevo una patata bollente tra le mani.

«No, voglio dire… Non è che stai facendo qualche cazzata, vero?»

Se fossimo stati in un’altra situazione, gli avrei misurato scherzosamente la febbre. “Cazzata”? Alan?

«Tipo?»

«Hai detto tutta la verità prima, vero?»

«Perché me lo chiedi?»

Tutta quell’apprensione mi preoccupò. Alan muoveva lo sguardo in modo frenetico su qualunque cosa fosse nel suo campo visivo. Poi tornava su di me, come a sollecitare una risposta.

«Prima rispondi alla mia domanda.»

Feci spallucce. Avevo glissato un po’ sulla faccenda di Ryan, ma ero stato sincero.

«Sì, era la verità. Ora puoi rispondere alla mia?»

Alan si portò di nuovo le mani al viso, poi si guardò ancora intorno. Rimise le mani in tasca.

«Se andremo al processo, cosa che probabilmente accadrà, tu sarai citato come uno dei testimoni, visto che adesso sei una persona informata sui fatti. E la falsa testimonianza è un reato, Nathan.»

«Lo so, ma...»

«Io posso proteggerti, ma fino a un certo punto. Non posso rischiare il posto e la carriera per te. Cerca di capire.»

Ripensai alle domande che mi aveva fatto Church. Io avevo negato qualsiasi mia conoscenza sul coinvolgimento di Ryan, ma sapevo che non era esattamente la verità. Il fatto che io sapessi che lui era uno dei rapinatori cambiava poco all’atto pratico, tranne per il fatto che forse avrei potuto aiutare ad acciuffare per tempo un criminale. Ma quei tipi erano pericolosi. Ryan era un amico, ma quanto ci avrebbe messo a sguinzagliare uno dei suoi armadi per mettermi a tacere?

Poi ripensai all’aggressione. Forse ci aveva già provato, a tapparmi la bocca? In ogni caso, io avevo sempre raccontato tutte le mie perplessità alla polizia. Non avevo mai nascosto il giro in cui si era ficcato Ryan, né tutte le ipotesi che mi erano venute in mente ogni volta che ero stato da loro. In un certo senso, ero pulito.

«Stai tranquillo, non ci sono pericoli. Davvero.»

Lui non sembrò sollevato. Mi sembrò chiaro che non si fidava di quello che avevo detto.

«Be’, meglio così. Adesso rientro. Ciao, Nathan.»

Io sventolai la mano per salutarlo, ma lasciai che si allontanasse con un’aria mesta sul viso. Non appena rimasi solo, cercai di capire il senso di quell’avvertimento. Mi arrovellai per qualche minuto, lì fermo impalato, a osservare i vetri scuri che non mi permettevano di vedere all’interno. Quando poi mi fui stancato, fissai la mia prossima meta e mi incamminai, ma mi fermai subito dopo qualche passo.

Avevo capito.

Mi bastò riflettere un attimo sui miei pensieri per rendermene conto: io sapevo qualcosa della rapina e non avevo detto niente alla polizia, né ad Alan…

… e lui aveva fatto altrettanto con me, non appena lo aveva capito.

 

Quindi Alan sapeva? Sapeva che io sapevo e che non avevo detto niente? Tutto quel “sapere” mi stava dando alla testa. Provai ad ascoltare lo stridio della metro che scorreva sulle rotaie, ma non servì a distrarmi.

Quanto pensava che fossi coinvolto? Davvero quello che avevo negato aveva tutta quell’importanza?

Scesi dalla carrozza al profumo di barbone stantio e salii le scale velocemente, per poi fermarmi una volta arrivato in superficie. Mi beccai uno spintone con relativa infamata da parte di un tipo qualunque e mi spostai un po’ più di lato, per lasciar passare quella fiumana di gente.

Il tempo passato in ospedale mi aveva convinto che, oltre alla costole, forse era ora di rimettere a posto anche qualcos’altro, nella mia vita. Per quel motivo avevo preso la metro per arrivare fino a Queens, ma tutto il coraggio che avevo avuto durante il viaggio sembrò svanire in un soffio.

La verità era che, per quanto mi sforzassi, le mie gambe non volevano saperne di muoversi. Sarei riuscito ad andare di lato e indietro, ma non avanti. Un brivido mi percorse la schiena pensando alla mia prossima destinazione, nonostante il sole a picco. Le macchine mi sfrecciavano accanto e io potevo sentire la musica a tutto volume di chi cercava un po’ di fresco col finestrino aperto. C’ero solo io a sentirmi rigido da capo e piedi, senza il coraggio di muovere un muscolo. Il mio prossimo obiettivo era un passo troppo importante e non ne avevo davvero il coraggio.

Cominciai a ripetermi il discorso nella mente, quello che mi ero preparato su due piedi. Le scuse, i sorrisi al momento giusto. E se non mi avesse ascoltato? Non riuscivo a sopportare l’idea di aver fatto un casino irreparabile. Preferivo rimanere nel limbo dell’incertezza, dove puoi ancora farti i film e immaginare con i “se” e con i “ma”: se fossi andato lì e avessi scoperto la dura realtà, cosa mi sarebbe rimasto da immaginare?

Pensai ad almeno una ventina di varianti in cinque minuti. Avrei passato il resto della mia esistenza in quel modo, a fantasticare su una scena che non sarebbe mai avvenuta?

Sospirai.

Avevo voglia di cambiare film.

 

Le luci in casa dei miei erano accese. La macchina di mio padre era parcheggiata lì davanti. Dopo tutti quegli anni, mi domandai ancora una volta perché avessero preso una casa con garage, se non avevano intenzione di utilizzarlo. Il sole stava calando e mio padre era sicuramente già tornato, benché lo immaginassi chiuso dentro al suo studio, a controllare qualche progetto. Pensare a lui mi lasciò con un senso di confusione addosso: se fossi entrato in casa, come mi avrebbe trattato? Avrebbe avuto ancora delle parole gentili per me o sarebbe tornato lo stronzo di sempre?

          Non che me ne importasse davvero, ovvio. Si trattava di pura speculazione.

Le luci accese, comunque, mi fecero dedurre che in casa c’era qualcun altro, qualcuno che non era lui.

          Attraversai la strada e i miei piedi finirono sul vialetto di casa. Una morsa improvvisa e feroce mi strinse lo stomaco e, per un attimo, desiderai vomitare lì. Mia madre mi avrebbe soccorso, forse le avrei fatto un po’ pena e mi avrebbe abbracciato come al solito, lasciandosi alle spalle il nostro ultimo litigio.

          Ma non vomitai nulla. La morsa non si allentò neppure per un secondo, ma non peggiorò nemmeno. Stava semplicemente lì, come un’ombra sulla spalla, ad alitarmi sul collo e a ricordarmi quanto fossi ansioso in quel momento.

          Mossi qualche passo verso il portone, sul vialetto acciottolato. Mi guardai intorno e notai che il giardino era curato come sempre. Alla mia destra, in una delle aiuole, scorsi uno dei trenini di Jimmy. Non c’erano soldatini morti per la patria.

          La porta, di un classico bianco panna, mi fissava inerte. Il campanello, con quell’”Hayworth” scritto sopra, mi incuteva ancora più ansia. Avevo lo stesso cognome, ma non mi sentivo parte del loro trio.

          Deglutii. Mi sgranchii le dita. Poi ne approfittai per fare altrettanto con le spalle e il collo, senza successo. Deglutii un’altra volta. Sospirai nuovamente. Un altro respiro profondo, uno dei tanti. Mi lasciai spaventare dal suono di un clacson. Un sussulto, il battito accelerato, poi di nuovo il campanello. Così piccolo, eppure così potente. Perché non riuscivo a suonare? Mi sentii stupido. Un sospiro, ancora una volta, poi alzai il braccio. O meglio, lo allontanai dal corpo e rimase sospeso a mezz’aria. Nel mentre, l’ennesimo sospiro. La morsa sempre lì, invariata. Un altro maledetto clacson a peggiorare la situazione nel mio stomaco. Avvicinai il dito. Ancora un altro po’. La distanza si fece sempre più corta, come quei “quasi-baci” con Alan - cosa diamine c’entrava in quel momento?! -. No, no, niente Alan. Eravamo solo io e il campanello. Io e quello stupido pulsante metallico. Io e le mie gambe di piombo. Be’, anche la mano ci si stava avvicinando molto. Eravamo solo io e lui. Io e quello stupido...

«Cazzo!»

“Io e quello stupido cazzo”. No, non esattamente.

C’era mia madre e quello stupido di suo figlio di fronte a lei.

Non dissi altro. Aveva aperto la porta, per chissà quale motivo. Forse mi aveva spiato?

Alzai gli occhi. Lei era lì, lo sguardo severo, ad aspettare che dicessi qualcosa. O meglio, era a braccia conserte e con due occhi supponenti, come se mi avesse appena sfidato e stesse aspettando la mia mossa.

«Ciao.»

Una bella mossa, sì. Mi era uscito sicuramente più debole del “Cazzo!” di prima. Forse non l’aveva neanche sentito. Il suo sguardo non cambiò di un millimetro. Uscì da casa e si chiuse la porta dietro di sé. Io indietreggiai appena, per lasciare la giusta distanza.

Abbassai gli occhi e mi resi conto che aveva delle buste vuote in mano.

«Sto andando a fare la spesa.»

Disse solo questo, con occhi duri, come se fossi l’ennesima scocciatura sul suo cammino. Io rimasi lì impalato, incapace di rispondere con qualcosa di intelligente. Lasciai che il mio sguardo si perdesse prima nel suo volto, sempre così curato; poi lasciò il posto all’ingresso di casa, a luci spente, perché di lei non era rimasto altro che lo stacchettio sul vialetto. Mi voltai di scatto e la raggiunsi, ma senza avvicinarmi troppo. Mia madre era una donna alta e con un portamento molto elegante; aveva gambe dritte che muoveva con naturale precisione, come una modella che sfila su un palco, di fronte a mille persone venute solo per vederla. In quel momento, mi parve molto più simile a una dea che all’arpia che avevo sempre visto in lei.

Si fermò solo quando fu arrivata alla macchina. Aprì lo sportello e mi lanciò un’occhiata.

«Forza, muoviti.»

In meno di un secondo, capii che dovevo salire dal lato del passeggero. Il mezzo secondo successivo mi servì per capire che dovevo andare a fare la spesa con lei. Il secondo che seguì, invece, mi fece capire che saremmo rimasti soli, noi due, per almeno un quarto d’ora.

Io, comunque, non me lo feci ripetere due volte. Quando chiusi la portiera, però, provai quel senso di imbarazzante vergogna che si ha nell’emettere un qualunque suono. Parlare, tossire e perfino respirare avrebbe dato prova della mia presenza; e io che avrei voluto solo sparire, essere altrove.

Essere in cattivi rapporti con mia madre si rivelò di gran lunga peggiore dell’esserlo con mio padre. Nel momento in cui sentii girare la chiave della macchina, ne approfittai per deglutire, perché l’accensione del motore avrebbe sicuramente sovrastato quel suono che mi rimbombava in testa.

Mi sforzai di respirare piano, poco alla volta, ma alla fine il debito d’aria mi costrinse a fare un bel respiro. L’aria che buttai fuori fece un casino tremendo.

Mia madre si concentrò sull’immissione in carreggiata e pensai che per un attimo si fosse dimenticata di me. Non sapevo se mi stesse guardando o meno - non l’avevo saputo dall’inizio del viaggio. Il vano portaoggetti e i bollini appiccicati sul parabrezza si rivelarono la mia ancora di salvezza.

Per un crudele scherzo del destino, la nostra auto era silenziosissima. Cercai di pensare a un discorso, qualcosa da dire, ma non mi venne in mente niente. Non era più possibile parlare come ai vecchi tempi, perché io ero il cretino che aveva rovinato tutto. Alan mi aveva detto che la situazione, secondo lui, non era così grave come sembrava; io invece avevo qualche dubbio.

Sperai per tutto il tragitto che mia madre iniziasse il discorso. Dal suo tono avrei potuto capire quali erano i suoi sentimenti nei miei confronti, ma non spiccicò parola per l’intero tragitto. L’unico rumore era dato dal tintinnio che un campanellino decorativo faceva nello sbattere contro il profumatore d’auto a forma di albero attaccato allo specchietto retrovisore. Tutto il resto erano i miei respiri soffocati e le mie deglutizioni ridotte al minimo.

Ci infilammo nel parcheggio sotterraneo. Mi accorsi solo in quel momento che la radio era inserita, ma che nessuno l’aveva accesa. Mia madre parcheggiò l’auto in mezzo a tante altre, nonostante gli spazi liberi, poi girò la chiave verso di sé per spegnere la macchina. Ci sfilammo entrambi la cintura di sicurezza e aspettai che lei aprisse la portiera.

Il problema fu che non la aprì.

Non arrivò nessun clic di scatto, né sentii i suoi piedi uscire dall’abitacolo. Ruotai appena lo sguardo verso di lei e la vidi fissare lo spazio davanti a sé, senza osservare niente in particolare.

Era estate eppure avevo le dita fredde, scosse da un leggero tremore. Tentavo di tenerle ferme, ma continuavano a muoversi da sole in piccoli movimenti, mentre il sangue si gelava sempre più e il ritmo del mio respiro aumentava di pari passo. I miei ansimi furono presto l’unico rumore.

«Immagino che tu sia venuto per una ragione, visto che non vedevi l’ora di andartene.»

Non avevo molta voglia di discutere. Avevo solo voglia di scoppiare a piangere e di implorare perdono, prendendomi anche tutta la colpa se fosse stato necessario. Non volevo un confronto, non volevo sbriciolare quel poco che era rimasto del nostro rapporto.

«… Scusa.»

«Come? Non ti ho sentito.»

Il groppo in gola mi zittì per un momento, per poi passare l’attimo dopo.

«Volevo chiederti scusa.»

Lei sbuffò.

«Per cosa? Per esserti comportato come un bambino o per aver sparato sentenze come più ti pareva?»

Avevo ancora voglia di piangere e chiedere perdono come unica soluzione. Entrambe le sue sarcastiche opzioni facevano troppo male. Forse anche lei aveva provato un dolore simile a quello che stavo provando io in quel momento?

«Mi dispiace. Non volevo dire quelle cose.»

La scusa principe. “Non volevo”. “Hai frainteso”. “Ho sbagliato io”. Avrei fatto di tutto perché avesse accettato le mie scuse. Ma fu qui che lei smise di guardare il cofano della macchina davanti e si girò verso di me. Potevo sentirlo dalla direzione del suo respiro affannato.

«Eh no, è qui che ti sbagli. Tu le volevi dire eccome. Perché il mondo ce l’ha con te e noi siamo tutti degli stronzi ingrati, vero?»

Sgranai gli occhi. Cosa stava succedendo? Dov’era finita mia madre? Chi era quella donna? Davvero pensava quello di me?

Mi sentii scuotere da scosse taglienti, capaci di mozzarmi il respiro ogni volta. E così finiva che l’aria mi entrava nei polmoni a singhiozzo e usciva in lenti, lunghi respiri. Mi sarei addossato tutta la colpa, ma non volevo sentire cose del genere. Tutta la sicurezza che mi aveva dato essere quel Nathan Hayworth si stava sgretolando sotto i miei occhi, senza che io potessi farci niente.

«Forza, ripeti un po’ quello che hai detto l’altra volta. Avanti, uomo vissuto, ripetimi che non ho mai fatto niente per te.»

Una macchina passò dietro di noi, in cerca di parcheggio. Le mani mi tremavano sempre di più. Forse mi tremava anche tutto il corpo e la morsa allo stomaco era tornata, insieme al groppo in gola che mi scuoteva ogni volta, e mi faceva fare quei lenti, lunghi respiri.

«Io lo so che cosa pensi, sai. Che tuo padre ha scoperto che sei gay, che ha voluto cacciarti di casa e che io non abbia avuto il coraggio di fermarlo. È così, vero? Dillo, che è così!»

Un mio respiro secco e rumoroso inondò la macchina. No, la verità è che avevo cominciato a singhiozzare. Mi tappai subito la bocca, come se avesse potuto allentare la stretta al cuore che sentivo, una stretta che mi stava stritolando e spappolando quel poco che era rimasto della mia dignità. Strizzava e stringeva, fino a farmi male; poi allentava un po’, per ricominciare subito dopo, come in un sadico gioco.

Tutto quello che mi ero tenuto dentro per anni ora era lì, detto ad alta voce. Appoggiai il viso al dorso della mano, ma in realtà volevo solo nascondere la mia vergogna. Mi vergognavo di quello che ero, forse anche della mia stessa esistenza.

Sentirlo dire da qualcun altro lo fece apparire abbastanza patetico. Quante volte lo avevo pensato? E quante volte lo avevo fatto forse per nascondere un’altra verità? Io non avevo mai avuto il coraggio di affrontare mio padre. Non avevo mai avuto il coraggio di essere me stesso. Avevo preferito essere il ragazzo bistrattato e abbandonato da tutti, quello di cui avere un po’ pena.

«… È così.»

Mia madre sbuffò ancora. Strinse il volante tra le mani, fino a che le nocche non diventarono bianche, poi lo mollò.

«E magari pensi anche che tuo fratello sia un rimpiazzo perché noi non ti volevamo più.»

Anni di paure spogliati così, con tanta leggerezza. Era esattamente come diceva. Se mi avesse dato quelle certezze, come avrei potuto continuare a vivere? Avrei voluto qualcuno accanto, qualcuno per nascondermi tra le sue braccia, in modo da poter ascoltare il seguito di quel discorso con uno scudo.

Sentii una leggera pressione su una coscia, poi osservai una piccola chiazza più scura rispetto al resto del pantalone. Tirai su col naso e mi asciugai il viso bagnato.

«Adesso stammi a sentire.»

E io pensavo che no, non volevo sentire niente, che avrei dato tutto per sparire in quel momento, per vivere per sempre nel dubbio di come sarebbe proseguita quella conversazione. Un altro singhiozzo mi scosse e buttai fuori l’aria con un grido. Nascosi tutto il viso tra le mani, ormai mezze e incapaci di darmi un qualsiasi conforto. Volevo scappare da lì, nascondermi da qualche parte, ma non potevo. Non c’era posto per ospitare la mia vergogna e nasconderla agli occhi degli altri. Poteva stare solo lì, sotto lo sguardo critico della gente, che mi avrebbe puntato il dito contro dicendomi che avevo sbagliato. Nessuno si sarebbe risparmiato, perché nessuno lo fai mai quando c’è da denigrare qualcuno. Quanto ci fa sentire meglio, quando lo facciamo? L’altro che diventa peggiore di te ti fa sembrare subito un santo.

«Nathan, ho detto che devi starmi a sentire.»

«Non voglio!»

Mi tappai le orecchie e mi piegai su me stesso, dondolando come un pazzo che non vuole sentire di essere tale. Singhiozzavo e gridavo, su e giù, su e giù. Io ero un figlio ingrato, lo sapevo, un figlio ingrato con le orecchie tappate e il naso colante che si struscia sul ginocchio, pieno di lacrime che avevano aspettato anni per poter uscire.

Poi mi sentii afferrare il polso sinistro, in una presa più salda della mia, e sentii chiamare il mio nome. La mia schiena si rizzò da sola e si schiantò contro il sedile e il mio corpo prese a dimenarsi in maniera incontrollata, in preda alle grida, ai pianti e alle lacrime che mi rigavano il viso insieme a quella roba che mi usciva dal naso. I singhiozzi mi scuotevano ancora, con un ritmo simile a delle convulsioni, ma era solo la mia sofferenza che non ce la faceva più a stare chiusa in quel corpo e nel silenzio in cui l’avevo costretta per tutto quel tempo. In quel momento cercava di uscirmi dalle ossa, si esprimeva rompendo il silenzio e squarciando l’aria, liberandosi dalla stretta al polso.

Fu solo una carezza al viso che riuscì a contenerla, a lasciare che si esprimesse unicamente con la voce, lasciando in pace il mio corpo. I singhiozzi smisero di essere così convulsi, la mia mano si strinse in un’altra in una stretta pressante quanto la morsa che mi stava attanagliando in quel momento.

Poco alla volta allentai la presa e i singhiozzi si trasformarono in un pianto sentito, mentre il mio viso si lasciava cullare dalle carezze e dal mio nome ripetuto con fermezza e calore, e io mi domandai come fosse possibile una cosa del genere, come potessi sentire tanto affetto nel pronunciare il mio nome, un nome che odiavo.

Cominciai a distinguere il mio respiro accanto a quello di mia madre. Cominciai a riconoscere quella carezza come la sua, quell’invocarmi così simile al suo modo di cullarmi quando ero piccolo. Mi asciugò una lacrima uscita da quegli occhi gonfi, che guardavano in basso, verso la chiazza indistinta che avevo lasciato sui miei pantaloni.

«Ascoltami un attimo. È qualcosa che voglio dirti, perché credo che adesso tu abbia la maturità per capirlo.»

Spostai gli occhi prima verso le bocchette dell’aria, poi verso di lei. Nel suo viso lessi la saggezza dei suoi anni e vidi riflessa l’immaturità dei miei. Distolsi lo sguardo e arrossii.

«Tu sei giovane, Nathan, e sei libero. Puoi scegliere di fare qualsiasi cosa e l’unico che ne subirà le conseguenze sarai tu. Ma vedi, io non sono più così giovane e non sono più così libera. E quando ti ritrovi in una situazione come la mia, a volte devi fare scelte difficili. Devi capire quale sia il compromesso migliore per far soffrire tutti il meno possibile.»

Fece una pausa.

«E io ero quello più sacrificabile?»

Lei scosse il capo.

«Vedi, è questo che non capisci. Non c’eri solo tu in ballo. Prova a pensarci un attimo: se avessi scelto di divorziare, cosa ne sarebbe stato di me e Jimmy? Avremmo dovuto trovare un altro appartamento, molto più modesto, forse lontano dalla città o in un altro stato. Avrei dovuto separare Jimmy dalla sua casa e dalla sua famiglia, perché io so che tu non ci saresti stato per lui.»

Mi sentii trafitto da mille aghi, un’altra verità che mi suscitò un sussulto.

«Che vuoi dire?»

«Saresti mai venuto a vivere con me e tuo fratello, che odi tanto? Non lo avresti mai fatto e mi sarei ritrovata sola con lui, a lasciarlo in balia di chissà chi per tutto il giorno, senza di te.»

Aveva ragione. Forse non sarei mai andato con loro, perché non avrei sopportato di vedere quel moccioso di cinque anni pronto a prendersi tutte le attenzioni di mia madre.

«Avrei sfasciato una famiglia per cosa? Mi sarei dovuta comunque prendere cura prima di Jimmy che di te e questo non lo avresti accettato. Non lo accetti neanche ora.»

Da qualche parte, avevo letto della gelosia del fratello maggiore per il nuovo arrivato, solo che in genere il bambino invidioso aveva al massimo cinque anni. Io ne avevo ventuno e tutto quello che lei stava dicendo era vero. Volevo sfasciare la mia famiglia per motivi che non esistevano. Cosa avevo voluto davvero ottenere in tutti quegli anni?

«E allora ho fatto una scelta. Sono rimasta con tuo padre e ti ho permesso di tornare quando più preferivi, per stare con me e per cercare di farti costruire un rapporto con Jimmy. E ricorda che sei tu che scegli di andartene quando c’è tuo padre, non sono io che te lo impongo.»

In quel momento, mi sentivo più vicino al bambino di cinque anni che non al ragazzo di ventuno. Mi sentivo così cieco. Mia madre aveva ragione: non potevo capirlo fino in fondo, ma in parte riuscivo a immedesimarmi. Avevo fatto tutto da solo. Ero stato così preso da me stesso, così capriccioso da non capire che quella era sempre stata la soluzione migliore per tutti.

E poi, se ci fossimo davvero trasferiti, sarei stato lontano da mio padre. E la verità era che io non volevo stare lontano da lui… perché vivevo per cercare di compiacerlo.

Sì, era così. Cercavo ogni pretesto per attirare la sua attenzione. Quante volte me n’ero andato da casa, in fondo desiderando che lui mi notasse? Quante volte avevo sperato in un suo saluto, in un suo discorso diverso dal solito, in una sua misera accettazione? Non avrei mai sopportato di stare lontano da lui, così come in realtà non volevo davvero far divorziare i miei genitori.

Volevo solo attenzioni. Avevo sbraitato e fatto i capricci come fa un bambino che vuole farsi notare. Ma nessuno mi aveva dato quelle soddisfazioni e io avevo bisogno di trovare un capro espiatorio. Jimmy, la mia famiglia, il mondo intero… Erano le vittime a cui volevo dare la colpa.

«E poi c’è un’altra cosa che non ti ho detto.»

Quante volte mi ero sentito dire che il mondo non girava intorno a me? E quante volte avevo snobbato quei tipi etichettandoli come cretini?

«Tu ti sei convinto che Jimmy sia un tuo rimpiazzo, ma non è così. Io e tuo padre abbiamo cercato per molto tempo di avere altri figli. Un paio sembrava che dovessero arrivare, ma…»

La sua voce calò, poi si interruppe. Si sforzò di metter su un sorriso di circostanza.

«… ma non ce l’hanno fatta. Be’, in realtà si sono arresi quasi all’inizio della gara.»

In tutti quegli anni, preso com’ero dalla mia pubertà, non mi ero mai accorto della sofferenza di mia madre. Certo, forse non era il genere di cose da dire a un ragazzino negli anni più turbolenti della sua vita, ma mi sentii un verme nel sapere che lei aveva sofferto, probabilmente anche quando me n’ero andato, mentre io ero stato così preso da me stesso da non rendermene conto.

Cosa aveva provato davvero mia madre, quando mio padre aveva scoperto tutto di me? Forse aveva continuato a soffrire, quando io avevo creduto che avesse cercato di fare il doppiogioco, ridendo di me alle mie spalle.

Quante persone stavano soffrendo, in quel preciso istante, mentre io me ne stavo a pensare a me e a mia madre? Poi ripensai a quello che mi aveva detto, alla scelta che aveva dovuto fare, e immaginai le notti insonni a cercare di trovare il male minore e forse le litigate con mio padre per trovare un compromesso, il dolore per la perdita di un figlio mai nato, la necessità di abbassare la voce per non far piangere troppo Jimmy… E io che me ne stavo dall’altra parte della città, a pensare a quanto il mondo fosse brutto e cattivo a prendersela con me. E mio padre? Anche lui soffriva? E Jimmy, che a soli cinque anni aveva dovuto sopportare tutto quello? Probabilmente si era chiesto un sacco di volte cosa avesse fatto di male per farsi trattare con disprezzo dal suo fratello più grande. E il punto è che non aveva fatto proprio niente, perché io ero troppo preso a credere che lui fosse il mio rimpiazzo, il figlio preferito da adorare e osannare.

«È possibile che io abbia fatto delle scelte sbagliate ed è probabile che cambierei qualcosa, se potessi tornare indietro. Sappi però che ho preso tutte le mie decisioni cercando di far soffrire te e Jimmy il meno possibile, perché voi siete tutto per me. Tutto.»

Nuove lacrime mi scesero su quella pelle secca, in modo silenzioso e ordinato. Mia madre mi strinse tra le sue braccia, come lo scudo che avevo cercato per tutto quel tempo. Ricambiai l’abbraccio e annusai il suo profumo, che mi lasciò una sensazione di dolcezza e fermezza insieme.

Passò qualche minuto prima di sciogliere quel contatto. Poi lei mi lanciò le borse vuote sulle gambe, dopodiché arrivò il fantomatico clic della portiera, quello che avevo tanto sperato di sentire. Fece il giro e venne ad aprire anche il mio sportello, con un sorriso di rimprovero condito da un sottofondo di tenerezza.

Era proprio mia madre.

 

Passai il tempo della spesa chiuso nel mio silenzio, se non per qualche monosillabe spiccicata qua e là. Ero ancora preso dalle mie riflessioni, tanto che osservavo ogni persona e mi domandavo se stesse soffrendo in qualche modo. Magari c’era qualcuno che aveva gravi problemi di salute o che aveva perso un figlio; in confronto, la mia omosessualità mi sembrò quasi cosa da poco.

          Quando rientrammo in macchina, sulla strada verso casa, pensai d’istinto ad Alan. Aveva perso l’amore della sua vita e nemmeno per scelta di uno dei due, ma solo per un brutto scherzo del destino. Lui era un ragazzo premuroso e gentile, in special modo con me, sempre pronto ad ascoltare ogni mio problema, dalle materie plastiche a mio padre. Dove trovava il tempo per soffrire in silenzio? Probabilmente la sera, quando rimaneva da solo e si ritrovava faccia a faccia con quella cavolo di pistola che teneva sotto al cuscino. Mi ero davvero mai interessato a quello che provava? O il mio unico interesse era sempre stato solo quello di farmi notare da lui?

          Fu con questi pensieri che me ne tornai a casa, alienato dal mondo; e fu con gli stessi pensieri che presi il cellulare, composi un messaggio per Alan e ci scrissi dentro la prima domanda sincera della mia vita:


Come stai?


 

 

Angolo autrice:

Salve a tutti!

E insomma, Nathan continua sempre più a mettersi nei casini da solo, con Alan giustamente diviso tra i suoi sospetti e la voglia di aiutarlo…

Ma almeno una gioia in questo capitolo l’abbiamo avuta, con Nathan e sua madre che si chiariscono. Un confronto duro, che però forse era necessario perché era da tempo che si tenevano dentro tutte queste cose.

 

Per il resto… vi ricordo che la polizia ha ancora una segnalazione da verificare u.u Giovedì prossimo ne conoscerete l’esito :D

 

Ringrazio ancora infinitamente tutte le persone che seguono con costanza questa storia, stiamo arrivando alle battute finali e sono emozionatissima. Nel frattempo sto continuando la stesura del capitolo 33 e vi dirò, mi sto divertendo un sacco a scriverlo (ma non significa necessariamente che sia divertente :P)!

 

A giovedì prossimo e grazie ancora a tutti voi <3

Simona

   
 
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