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Autore: e m m e    07/03/2022    1 recensioni
Quando scopre la possibile esistenza di un serial killer che abbandona cadaveri in giro per la sua città, Spider-Man inizia ad essere ossessionato dall’idea di trovarlo. Ha così inizio una caccia senza tregua per cui Peter non è psicologicamente pronto né tecnicamente preparato, e per la quale l’unico supporto incondizionato lo riceve dall’unica persona che è sempre stata pronta a darglielo: Deadpool.
Peccato che, per i due vigilanti, gli anni di lotta inizino a farsi pesanti, le spalle a piegarsi, le ragnatele a spezzarsi, i sentimenti a sfilacciarsi e il cuore… a non reggere.
Genere: Angst, Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Deadpool, Peter Parker/Spider-Man
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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6. A noi il coraggio non ci manca siamo impavidi, siamo cresciuti con i lividi sui gomiti

Peter batteva ritmicamente il piede sul pavimento lurido dell’abbandonato magazzino di stoccaggio in cui lui e Matt erano penetrati esattamente quarantotto minuti prima. Quarantacinque minuti prima, però, lo stesso posto era stato preso d’assalto da un mezzo plotone di agenti S.H.I.E.L.D., Sharon al comando, accompagnata dai sempre presenti Bucky e Sam. Peter non aveva idea di come l’intera faccenda potesse interessare a quelle stesse persone che meno di dieci giorni prima lo avevano caldamente invitato a farsi un giro e lasciar perdere il fantomatico assassino di bambini, ma evidentemente Daredevil non era della sua stessa opinione. Era stato lui a volerli coinvolgere e a informarli di, be’, di tutto

«Quello che vorrei sapere» gli stava dicendo Sam in quell’istante, «è perché non hai pensato di avvertirci nell’istante in cui hai saputo che c’era qualcuno sulle vostre tracce.»

«Per l’ennesima volta» esalò Peter, desiderando solo togliersi la maschera dalla faccia: faceva un caldo infernale e lui aveva iniziato ad avere difficoltà a respirare nell’esatto momento in cui avevano ritrovato Wade in quel modo. «Nessuno è sulle nostre tracce. Al massimo qualcuno era sulle tracce di Deadpool, e ha chiaramente ottenuto quello che voleva» concluse con voce piatta, indicando la sedia da dentista da cui Wade ancora non era stato liberato. «E devono proprio lavorargli attorno come fosse un cadavere?!»

C’erano un paio di agenti S.H.I.E.L.D. che fotografavano il corpo disastrato del suo migliore amico, prelevavano tessuti, insacchettavano prove, scrutavano gli schizzi di sangue e le ossa spezzate, e soprattutto lavoravano come se stessero avendo a che fare con un corpo morto e nient’altro. Peter lo detestava.

«Sapevate comunque che qualcuno era sulle tracce di Deadpool e avete voluto fare di testa vostra» rincarò la dose Sam. Di rado Peter l’aveva visto così nervoso, sembrava che l’aver dovuto ricorrere all’aiuto di Sharon in una situazione che sarebbe stata perfettamente gestibile da Spider-Man lo pungesse nell’orgoglio, o roba simile.

Per fortuna Matt si mise in mezzo, impedendo a Peter di fare una battuta molto al di sotto dei suoi normali standard. «Abbiamo scoperto che Deadpool era nei guai solo un’ora fa, Sam.»

Bucky, silenzioso come sempre, fece un passo avanti dalle ombre in cui si teneva nascosto. «E in una sola ora siete riusciti a trovarlo?»

«Ah» tossicchiò Spidey, leggermente in imbarazzo e passandosi una mano dietro la testa. «Potrei, e dico potrei, aver sistemato degli Spider-track sul costume di Deadpool qualche anno fa. Molti anni fa. Non lo conoscevo ancora… quasi. Tutti mi dicevano che era pericoloso… volevo solo tenerlo sotto controllo e da allora li ho disattivati, giuro!»

Sam sollevò un sopracciglio, curioso e forse divertito. «Nessuno ti sta giudicando, ragazzo. Deadpool è pericoloso.»

Peter roteò gli occhi, sperando che anche indossando la maschera l’altro supereroe lo notasse. «Sì, be’, mi sembra che ci sia qualcuno più pericoloso di lui, in giro.»

«Qualcuno che abbiamo mancato per un soffio» completò Daredevil. «DP era ancora quasi del tutto vivo quando abbiamo fatto irruzione. I battiti cardiaci erano tre, poi uno dei tre ha iniziato a sfasare, come sotto un grande sforzo. E poi nulla.»

Sam e Bucky si lanciarono uno sguardo. «Teletrasporto? Ci sono i segni di una terza persona che era legata sull’altra sedia. Senza teletrasporto come avrebbero fatto a sparire?»

Peter sospirò. Per quanto in qualsiasi altra occasione avrebbe fatto di tutto pur di trovare quella terza persona svanita nel nulla, in quel momento voleva solo uscire di lì portandosi via Wade. «Non abbiamo visto o sentito niente che lo facesse supporre.»

«Be’» si intromise Sharon, aggiungendosi al loro quartetto con la testa piegata su un tablet che le illuminava i lineamenti di una luce malaticcia, artificiale. «Per sapere con sicurezza cosa sia successo e quanta gente c’era in questa stanza non resta che aspettare che la bella addormentata si svegli.»

Bucky incrociò le braccia sul petto. «Quanto ci vuole, normalmente?»

«Secondo i record che abbiamo» spiegò Sharon muovendo rapidamente le dita sul tablet, «i tempi variano dai pochi minuti a più di dieci ore, ma dipende dai tipi di ferite.»

«Dovrebbe volerci poco in questo caso.»

Peter, incredulo, tentò di interromperli. «Ehi!»

«Normalmente sarei d’accordo con te, Sam, ma a quanto mi dicono i cervelloni siamo ancora lontani da una ripresa comple–»

«Aspettate un secondo!» quasi gridò Spidey, a bocca aperta. «Fermi tutti. Time-out! Mi state dicendo che volete aspettare che Wade si rigeneri qui?!»

Lo fissarono tutti, pure Daredevil, il volto come al solito impenetrabile. Gli altri parevano vagamente stupiti dal tono che Spidey aveva appena usato. Ne era stupito pure lui, ma nascondere il disgusto dalla voce gli risultò impossibile. «Volete lasciarlo lì legato e aspettare che si risvegli nell’ennesimo laboratorio in cui è stato sottoposto a torture come una cazzo di cavia?! Sto davvero capendo bene quello che state dicendo?!»

Sharon si strinse nelle spalle. «Questa è l’idea, sì.»

«Ne hai una migliore, Spider-Man?» s’informò Sam, spostando il peso da un piede all’altro, calmo e rilassato, come se non avesse un solo problema al mondo.

Succedeva di rado che Peter si arrabbiasse, perché, prima di lasciare che la rabbia prendesse il sopravvento, gli era stato insegnato a contare fino a dieci e a soppesare le motivazioni di tutte le persone coinvolte nella discussione. In quel caso contò fino a quindici, e arrivò perfino a capire le motivazioni, ma stranamente si ritrovò incazzato come di rado gli era successo.

«Ne ho una, Capitan America, perché non ti infili quello scudo su per il–»

«Calmiamo gli animi, signori» intervenne Matt, mettendo una mano sulla spalla di Peter e trascinandolo indietro. Il ragazzo non si era nemmeno accorto di aver fatto tre passi avanti e di trovarsi a meri centimetri di distanza da un Sam davvero poco impressionato. Bucky, dietro di lui, sembrava stranamente divertito. Sharon li fissava ancora senza capire. Eppure, prima di allora, a Peter era sempre stata simpatica.

Con la sua miglior voce da avvocato, Daredevil prese le difese di Spider-Man. Non che Peter si aspettasse niente di diverso, in realtà: dopotutto faceva parte pure lui dei dannati Cappuccetti Rossi. «Vorrei ricordarvi che DP è un essere umano, per quanto indistruttibile, e Spidey ha ragione: non potete lasciarlo qui a rigenerarsi. Non visti i precedenti che ha avuto con Weapon X, eccetera. Capisco la necessità di avere risposte, ma…»

«E cosa proponete, quindi?» lo interruppe l’agente dello S.H.I.E.L.D., spegnendo finalmente quel cazzo di tablet e incrociando le braccia a sua volta. «Lo possiamo prendere in custodia noi, senza problemi.»

«Lo riporto a casa» dichiarò Peter, col tono di chi considera chiusa la questione. Tre paia di occhi e un paio di ottime orecchie si spostarono su di lui, in silenzio. Il silenzio durò per un po’.

«A casa?» s’interessò Bucky alla fine, guardandosi le unghie. «Casa tua? O casa sua?». Il tono era studiatamente innocente, e Peter quasi si aspettò che concludesse con un “Oppure casa vostra?”, cosa che, sinceramente, all’interno di quella conversazione non lo avrebbe stupito troppo.

«Casa sua» replicò. «Tanto sono sicuro che abbiate l’indirizzo, visto che partecipa da anni a varie missioni suicide per conto degli Avengers. E se sta sul vostro libro paga di certo gli avrete chiesto qualche assicurazione.»

«Potrebbe averci dato un falso indirizzo.»

Spidey esalò una risata tutta gola. «Wade?! Mentire per entrare negli Avengers? Vi avrebbe ceduto il suo primogenito, se glielo aveste chiesto. E pensate di farmi credere che non abbiate controllato?»

«D’accordo, d’accordo» sbottò Sharon che evidentemente ne aveva avuto abbastanza. «Mi aspetto che risolviate tra di voi questa faccenda, e i miei capi si aspettano un lungo elenco di motivi per cui ho guidato una squadra in questo posto dimenticato da Dio. Quindi, Sam, mi aspetto di averli al più presto. E che siano motivi validi.» E detto questo girò sui tacchi e si allontanò.

Sam la fissò per un attimo mentre se ne andava, per poi tornare a puntare gli occhi su Peter. «Tra due ore saremo a casa di Wilson, ragazzo.»

«Ah-ah» scosse il capo Spidey. «Minimo dieci ore, se non volete trovarlo ancora morto.»

Sam aprì la bocca per replicare, ma Bucky lo interruppe appena in tempo. «Che ne dici di cinque ore? Credo siano più che sufficienti.»

«Lo sono» confermò Matt al posto suo.

Peter, che si sarebbe accontentato di tre, tirò un sospiro di sollievo. Non sarebbero mai state lontanamente sufficienti per far riprendere Wade psicologicamente, ma almeno fisicamente sarebbe stato a posto. Sperava. Per il poco che aveva osato guardare, nel petto di Wade c’era ancora una grande, vuota cavità sanguinolenta laddove avrebbe dovuto esserci il cuore. Le ossa della cassa toracica sporgevano all’infuori, il sangue era colato a fiotti sul pavimento, imbrattandogli gran parte del busto, l’orlo dei pantaloni, e fin sotto la gola.

«Non c’è bisogna che venga anche tu, se non vuoi» dichiarò il giovane a voce altra pochi attimi dopo, percependo il passo rapido di Daredevil dietro di lui. Si stavano muovendo verso Wade.

«Si dà il caso che voglia, Spider-Man.»

Peter gli lanciò un’occhiata di sbieco mentre un senso di profonda gratitudine andava a sostituire il sentimento di orrore e panico che aveva cercato di tenere malamente sotto controllo fino ad allora. Aveva trasformato le sue mani tremanti e la sua voce rotta in rigurgiti di rabbia per come Wade stava venendo trattato, per il poco rispetto che gli veniva dato come persona in generale, e per come Sam si ostinasse a considerarli tutti come parte integrante di un team che non esisteva. Almeno non per Peter. Ma dentro di sé, in una parte molto ampia del suo cuore che riusciva a stento a controllare, Peter avrebbe voluto strappare quelle cinture di cuoio che tenevano Wade legato alla sedia da dentista, caricarselo in spalla e mandare tutti a fanculo.

Quello che invece fece fu quasi rompere un dito al tizio che aveva pensato bene di tirar fuori un sacco per cadaveri dove sistemare DP. «Non. È. Morto» sillabò molto lentamente allontanando l’agente dal corpo del suo migliore amico. Poi si ricordò che il suo titolo era ancora “l’amichevole Spider-Man di quartiere” e lasciò andare il malcapitato borbottando parole di scusa. Dopo quella scena, a lui e Matt fu lasciato campo libero.

Qualcuno aveva già provveduto a slegare Deadpool e lo squarcio sul suo petto sembrò fissare Peter come un occhio di Sauron redivivo. Il ragazzo ringraziò il cielo che la maschera di Spider-Man fosse ancora ben salda sulla sua testa, perché non aveva davvero idea di quale espressione potesse avere la sua faccia in quel momento, e finalmente procedette a nascondere la ferita con un bello strato di ragnatela, che avviluppò l’uomo in un piccolo bozzolo e lo rese più semplice da trasportare.

Lui e Matt rifiutarono in tono secco la macchina che venne loro proposta e Peter chiamò invece Dopinder, che arrivò in tempo record. Il viaggio in taxi fu silenzioso e nessuno dei due uomini fece niente per alleggerire l’atmosfera. Dopinder, dopo un iniziale tentativo di conversazione, decise fortunatamente di tacere. Peter si tenne la testa di Wade sulle gambe, ma si obbligò a non guardarlo, a non sfiorarlo, a non desiderare con tutto se stesso che aprisse gli occhi, perché sapeva per esperienze pregresse che quella sarebbe stata una ferita che richiedeva tempo e lasciarsi prendere dal panico o dalla fretta non era la soluzione.

Entrare nell’appartamento di Wade fu semplice: Spider-Man salì lungo il muro, caricandosi sulle spalle il peso dell’amico, mentre Daredevil scelse l’ascensore.

Peter entrò dalla stessa finestra che aveva usato poche ore prima quando, insospettiti dall’estremo ritardo di Deadpool e dal fatto che nessuno dei loro messaggi riceveva risposta, i due supereroi avevano deciso di andare a vedere se fosse effettivamente rientrato dalla sua missione all’estero. Penetrando nella camera di Wade, Peter aveva subito notato il letto vuoto, il cimitero di vestiti sparsi per il pavimento e Bea e Arthur, che giacevano abbandonate assieme a tutte le armi da fuoco che in quel periodo il mercenario sembrava preferire.

«Non lascerebbe mai le sue spade così» aveva commentato Spider-Man, indicando i due oggetti luccicanti.

Matt non aveva chiesto cosa intendesse Peter per “così”, ma si era limitato a commentare un laconico: «Lo conosci davvero bene, Spidey.»

Lui aveva sospirato, osservandosi attorno con curiosità. «A volte penso di conoscerlo troppo bene.»

Poi aveva trovato la siringa e Peter era entrato nel panico.  

Era ancora notte fonda quando Spidey rimise piede sullo stesso pavimento ricoperto di vestiti sporchi sul quale giacevano le spade tanto amate da Wade e si accorse che, per qualche motivo soprannaturale, Daredevil aveva fatto prima di lui. Lo attendeva nel minuscolo salotto/cucina/ingresso dell’appartamento e si muoveva con cautela, ma abbastanza pratico dell’ambiente. Peter si immaginò Wade che invitava altri super a casa sua, Wade che offriva birre e stuzzichini in giro con un gran sorriso nascosto sotto la maschera rosso-nera. L’immagine era al contempo assurda e plausibile.

Ci fu un attimo di quiete e Peter si sentì leggermente a disagio. Sapeva cosa avrebbe dovuto fare, ma si era sempre trovato a gestire quella situazione da solo: la compagnia di Matt lo turbava e allo stesso tempo lo rassicurava.

«Rallenta i battiti, Spidey. Se pensi che sia di troppo posso sempre tornare dopo.»

«No!» esclamò Peter con veemenza, vagamente consapevole di avere ancora Wade caricato sulle spalle. Per qualche motivo non se la sentiva di lasciarlo a terra. L’idea di farlo sedere contro il muro alla stregua di un vecchio paio di pantaloni o di una maglietta sudata gli ricordò il modo in cui i fratelli Spencer erano stati abbandonati nel vicolo, e all’improvviso gli venne da vomitare. Si tirò via la maschera dalla testa prendendo lunghi respiri. L’odore familiare di alcol e polvere da sparo gli assalì l’olfatto, ma perfino quello era meglio del suo stesso odore di sudore e alito cattivo che respirava dentro la maschera.  «Non andartene, Matt. Err… rimani con Wade mentre riempio la vasca…?»

Se Daredevil trovò la richiesta bislacca, per fortuna non lo diede a vedere e si limitò seguire Peter con lo sguardo cieco, quasi che potesse vederlo davvero. Anche lui si era tolto la maschera e si sistemò accanto a Wade non appena Peter ebbe posato il suo corpo su una delle poche sedie libere da vecchi cartoni di pizza.

«Ci metterò solo pochi minuti» aggiunse il giovane dopo un secondo, assicurandosi che l’amico non crollasse a terra come una bambola rotta.

Entrato nel bagno, trovò l’ambiente stranamente meno disgustoso delle altre volte in cui aveva fatto visita a Deadpool, come se fosse stato utilizzato e poi pulito molto di recente. Senza fermarsi a riflettere su cosa stava per fare e come avrebbe gestito un Wade ferito, disorientato e sicuramente fuori di sé per essere stato rapito e torturato, aprì l’acqua e attese finché la vasca fu piena per un quarto. L’acqua era fredda, ma sapeva che Wade l’avrebbe preferita: la sua pelle non gestiva bene l’estremo calore.

Tornato in salotto, si fece aiutare da Matt per liberare il mercenario dalle ragnatele ormai in via di disfacimento, poi i due supereroi lo calarono nella vasca afferrandolo sotto le ginocchia e sotto le ascelle. Peter avrebbe tranquillamente potuto fare tutto da solo, eppure non disdegnava la compagnia silenziosa di Daredevil.

Quando gli tolsero a fatica i pantaloni della divisa da Deadpool, Peter fu lieto che quel giorno Wade non avesse deciso di andarsene in giro commando: vederlo nudo e inerme sarebbe stato troppo intimo, troppo doloroso da sopportare, soprattutto quando si trattava di avere davanti una persona così energetica come Wade. Era forse quella la cosa che Peter odiava di più quando DP faceva una visita nell’oltretomba: l’immobilità, il silenzio, la quiete. Wade era grande e grosso, prendeva spazio, non aveva paura di entrare in scena con urli e strepiti, si faceva notare, mangiava il mondo e spesso lo risputava quando non era di suo gusto. E invece, averlo lì, impassibile, malleabile come un burattino… a Peter sembrava quasi di poterlo prendere tra i palmi delle mani, stringerlo, tenerlo al caldo, al sicuro. E invece non poteva. Doveva aspettare, e aspettare. E aspettare.

«Non ho la minima idea di quello che ti sta passando per la testa, Peter» disse allora Matt, facendolo sussultare. Il ragazzo stava passando una spugna imbevuta d’acqua sulla pelle butterata di Wade: non si era nemmeno accorto di ciò che stava facendo. «Ma mi sembra quasi di sentire gli ingranaggi del tuo cervello muoversi a scatti. Qualsiasi cosa ci sia tra te e Wade, ti consiglio di sistemarla al più presto, prima che ti mangi vivo.»

«Ah» dichiarò lui, eloquentemente. Non si era nemmeno accorto di essersi messo a togliere il sangue in eccesso dalle membra gelide dell’amico. Eppure c’era stato un tempo in cui gli veniva quasi da vomitare alla vista delle ferite al limite dello splatter – e volte ben oltre lo splatter – che Deadpool subiva in combattimento. Dio… quanto cazzo era cambiata la sua vita negli ultimi anni?

Sciacquò quello che poté, ripulì le pareti della vasca e fece scorrere via l’acqua lurida, per poi riempirla un’altra volta. E in tutto quel processo non trovò niente di intelligente da dire al diavolo di Hell’s Kitchen, che se ne rimase lì, una presenza incongrua, inaspettata, ma della quale Peter fu profondamente grato.

Ci fu un orribile CRACK quando il costato di Wade prese vita e cominciò ad autorigenerarsi. Purtroppo per lui, il rumore indusse Peter a osservare davvero la cavità toracica di Wade, e vi scorse con sorpresa un minuscolo cuore, qualcosa che avrebbe potuto essere l’organo di un uccellino, che batteva all’impazzata. Gli ricordò il battito del cuore dei bambini quando ancora stavano al sicuro nell’utero della madre, veloce, veloce, un minuscolo attimo di vita che non cedeva, che non avrebbe mai ceduto, che non l’avrebbe mai lasciato.

A metà tra il disgustato e l’affascinato, Peter ricominciò a respirare.

Rimase lì, inginocchiato sulle piastrelle gelide e viscide, i gomiti doloranti e pieni di lividi poggiati lungo il bordo della vasca, i capelli sudati che gli ricadevano sugli occhi, mentre questi ultimi non facevano che passare dal petto ormai in totale ricostruzione di Wade al suo volto, che conosceva a memoria nonostante le cicatrici che mutavano di giorno in giorno. Non si accorse nemmeno che Matt scelse quel momento per uscire dal bagno, se per dar loro della privacy o solo perché non voleva assistere alla resurrezione non fu dato sapere.

Peter attese come sempre faceva, un battito dopo l’altro, contando i secondi, contando le gocce che cadevano sulla superficie rosata dell’acqua, plick-plock, bumbum-bumbum, e per ogni attimo che passava si rendeva conto che nella cosa che Matt gli aveva appena suggerito di sistemare c’era dentro fino al collo e non pensava di poterne più uscire. Nemmeno con tutta la forza sovrumana di Spider-Man.

Wade tornò alla vita con un grido silenzioso strozzato in gola, uno spasmo che fece tremare l’acqua e sussultare il ragazzo inginocchiato accanto a lui. Peter fece appena in tempo a leggere il terrore negli occhi azzurri e sfocati di Wade, e poi una mano andò a serrarglisi attorno alla trachea, stringendo. Avrebbe potuto liberarsene nel giro di un secondo forzandogli le dita, ma l’ultima cosa di cui Wade aveva bisogno in quel momento era qualcuno che usasse della forza contro di lui.

Aveva gli occhi appannati, distanti, blu come sempre, ma iniettati di sangue.

Peter cercò con disperazione di inghiottire dell’aria, scioccato che neppure quella volta, con le dita di un assassino prezzolato che gli si stringevano attorno alla gola, i suoi sensi di ragno gli facessero sapere che forse era un tantino in pericolo.

«Ben…tornato» riuscì a dire con un filo di voce, le dita che gli prudevano dalla voglia di togliersi la mano di Wade dal collo. Ma non ce ne fu bisogno.

«S-- Spidey?»

«No» replicò lui con voce roca, massaggiandosi la gola ormai libera. «Babbo Natale. Oh-oh-oh.»

Wade batté le palpebre un paio di volte, ma non era una cosa nuova: ogni volta che si ritrovava in un posto molto diverso dal luogo della morte, Wade aveva bisogno di qualche attimo per ambientarsi. Ed erano anni che praticava quell’esercizio: Peter non osava immaginare come doveva essersi sentito le prima volte, così tanti anni prima.

Wade lo fissò a occhi sgranati, le dita strette attorno ai bordi della vasca, le gambe che creavano piccoli tsunami nell’acqua in cui era immerso. Alcuni minuti e si sarebbe tranquillizzato, solo alcuni minuti e…

«Spidey!» esclamò di nuovo Deadpool, portandosi una mano al petto come se il cuore ancora non fosse del tutto funzionante. Peter lo vide socchiudere le palpebre, come in preda a una sofferenza interna che di solito era perfettamente in grado di nascondere. Poi Wade aprì di nuovo gli occhi, le labbra strette, la mandibola serrata. «La ragazzina… Peter! Abby!»

Ah, la persona catturata assieme a lui era quindi una ragazzina. Sam gli aveva detto qualcosa a tal proposito, tracce trovate sulla seconda sedia, capelli lunghi e ricci, tessuto epiteliale incastrato nei legacci, del sangue, troppo poco per indicare un altro cadavere… ma Spider-Man aveva ascoltato solo con un orecchio, ogni briciola della sua attenzione concentrata su Wade.

«Starà bene, Wade, vedrai che andrà tutto bene. Adesso concentrati a respirare.»

Come se un grosso peso gli fosse appena stato tolto dalle spalle, per lunghi attimi Wade fece proprio quello, posò la testa sul bordo della vasca, la bocca semi aperta, lunghi respiri tremanti che entravano e uscivano. Peter gli scrutò la faccia alla ricerca di altri danni, di ulteriore dolore, ma per molto tempo l’unica cosa che vide furono le minuscole gocce d’acqua che cercavano una via di fuga tra le cicatrici, lungo le guance, tra le labbra semi aperte. Una mano di Spidey decise di sua spontanea volontà di stringersi lungo l’avambraccio dell’uomo riverso nella vasca, ma nessuno dei due se ne rese realmente conto. Poi il mercenario parve ricordarsi di qualcosa.

«Esci dal mio bagno» dichiarò aprendo gli occhi di scatto e puntandoli con rabbia verso Peter.

Per un secondo il ragazzo non seppe come reagire. «Wade…»

«Esci dal mio cazzo di bagno, Spider-Man» continuò lui con un tono di voce gelido e distante che Peter gli aveva sentito usare spesso, ma mai, mai rivolto a lui. «Non ho bisogno della balia.»

Si alzò in piedi, allora, perché quel tono, quello sguardo, quell’espressione tradita e risoluta al tempo stesso furono per Peter più convincenti del tentativo soffocarlo di pochi attimi prima – e del quale il suo collo iniziava già a mostrare i segni, tra parentesi. Poco male, i lividi sarebbero spariti entro breve, ma per la prima volta in assoluto i suoi sensi di ragno gli dissero di andare, e andare alla svelta.

Uscì dal bagno camminando all’indietro, all’improvviso consapevole che Wade non gli aveva mai permesso di vedere così tanta pelle tutta insieme, non sotto la luce asettica e bianca che penzolava dal soffitto del bagno, non nella trasparenza rosata dell’acqua. Non senza la sua piena e assoluta volontà. Si voltò di scatto, perché lo sguardo di Wade bruciava, lasciava segni sul costume di Spider-Man, penetrava lo spandex e gli ustionava la pelle e, cazzo, essere disprezzato da Wade faceva un male d’inferno.

Il bello era che sapeva pure di meritarselo.

Uscì il più velocemente possibile, chiudendosi la porta alle spalle e appoggiandovisi subito dopo, un sospiro tremante chiuso in gola, le dita appiccicose di nervosismo come non gli succedeva dai primi tempi della sua mutazione.

«A giudicare dai vostri rispettivi battiti… non è andata molto bene» lo accolse la voce di Matt, che aveva deciso di fare come a casa sua e si era sistemato sul divano. Stava bevendo da una lattina di birra di fronte alla televisione accesa a un volume ridicolmente basso.

«Ti ho mai detto che questa cosa che ascolti i battiti della gente mi fa accapponare la pelle?»

«Ti ho mai detto che i ragni mi fanno schifo?»

«Touché» sospirò Spider-Man, ben deciso a ignorare l’elefante nell’appartamento che per il momento rimaneva chiuso nel bagno. Con Wade avrebbe fatto i conti più tardi, dopo l’arrivo e la partenza di Sam e Buck.

Lanciò un’occhiata all’orologio da muro mezzo storto che correva trentasette minuti indietro e che Wade si ostinava a tenere appeso sopra la porta dell’ingresso. Facendo un rapido calcolo, i due supereroi sarebbero stati da loro in poco meno di due ore.

A Spidey non restava che una cosa da fare: cercare un modo utile per occupare il tempo senza cadere preda degli speciali pensieri ossessivi targati Peter Parker™.

Note: Titolo del capitolo tratto da LIVIDI SUI GOMITI dei Måneskin
  
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