Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: holls    10/03/2022    6 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
[Versione definitiva ora in vendita su Amazon: https://www.amazon.it/dp/B0CG6C57M3]
Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

26. Chiaroscuro

 

 

«Ti è andata male: l’ho trovato!»

Nathan si fermò sulla soglia della porta-finestra e avvicinò l’accendino alla sigaretta, poi mise una mano a conchiglia per impedire al vento di spegnergli la fiamma. Sentii il click dell’accendino e una nuvola di fumo strisciò via da lui, verso le scale anti-incendio che portavano al piano di sopra. Tolse la mano dalla bocca, puntò gli occhi sopra la sua testa e lasciò che il fumo si portasse via un pezzo di lui.

Distese il braccio con la sigaretta lungo il suo corpo, mentre la combustione andava avanti e io mi chiedevo come fosse possibile che quei sette centimetri lo facessero sentire così bene.

Continuava a guardare in alto e io, seduto contro la ringhiera sullo spiazzo che si apriva dalla sua porta-finestra, seguii il suo sguardo, senza notare niente. Poi una folata di vento ci colpì e un’occhiata mi cadde su una parte di pelle che riuscii a intravedere sotto la sua camicia. Mi dimenticai del fumo e degli occhi rivolti al cielo, per pensare solo a quella pelle chiara e a una striscia bionda che, immaginai, partiva dal centro del petto per arrivare fin sotto l’ombelico. Poi, probabilmente, proseguiva anche più sotto, oltre il bordo vistosissimo delle sue mutande; lì mi ricordai che a nulla erano valse le mie proposte di fargli indossare una cintura, ma quel pensiero svanì per lasciare spazio ad altre sensazioni che stavo imparando ad accettare. Il vento però si calmò subito dopo, e quel lembo di pelle tornò ad essere nascosto; così fece il tremito che mi aveva scosso in quei pochi attimi.

Nathan fece qualche passo verso di me, poi mi si sedette accanto, in quella sorta di nicchia creata dalla ringhiera della scala anti-incendio. La scala dava su un cortile interno e toccava tutti i piani e, in prossimità di ogni appartamento, si apriva in un piccolo slargo dove c’era posto giusto giusto per due persone sedute, così come eravamo noi. Il metallo doveva essere rosso in origine, ma in quel momento, che fosse per l’incuria o la ruggine, tendeva di più al marrone.

«Non daremo fastidio qui?» chiesi.

Nathan si voltò verso di me e il suo fumo mi finì sul viso. Quel piccolo e maledetto fumo bastardo che aveva un potere a me ancora sconosciuto. Lui fece spallucce.

«Di qui non ci passa mai nessuno, fidati.»

«Davvero? Come mai?»

Nathan alzò di nuovo gli occhi verso lo spiazzo sopra le nostre teste e seguii la traiettoria disegnata dal suo dito indice.

«Vedi lassù?»

Io guardai dove aveva indicato e vidi penzolare uno spago di circa una decina di centimetri. Si muoveva al soffio lieve del vento e mi domandai cosa c’entrasse con tutto il resto.

«Non so cosa tu stia pensando», continuò. «Ma è la coda di un topo morto.»

Io fissai ancora un po’ quella corda - o quella coda -, per poi rendermi conto che Nathan poteva avere ragione: seguendo la coda dalla punta fino all’attaccatura, era impossibile non vedere una carcassa di dimensioni simili a quella di un topo, che se ne stava lì, immobile, forse un po’ troppo per poterlo considerare vivo.

«Potrebbero essercene anche sul tuo pianerottolo?»

Nathan stavolta drizzò il mento e lasciò uscire il fumo con lentezza, dandomi il tempo di osservare mentre gli accarezzava le labbra. Quel sentimento di invidia mi colpì di nuovo con un pugno allo stomaco.

«Sì, certo, ma non ho altri posti dove fumare.»

«E i vicini non ti dicono niente?»

Lui ridacchiò con un colpo di tosse. Poi si avvicinò a me, fino a che le nostre spalle non si toccarono. Mi voltai verso di lui e intravidi una barba leggera illuminata dai riflessi del sole; ma fu tutto quello che ebbi il tempo di notare, perché lui guardava in alto e tornò a indicare qualcosa in quella direzione.

«La vedi quella finestra lì, quella spalancata?»

Io provai a cercarla tra le maglie d’acciaio del pianerottolo superiore; così abbassai appena la testa e mi scontrai col respiro di Nathan sulla guancia destra. Non la vedevo, ma dissi di sì.

«Se sali fino là, trovi un arsenale di siringhe usate. Sono strafatti, te lo dico io. E un paio di volte li ho beccati a scopare qua fuori.»

«Qua fuori? Intendi sulla scala?»

Nathan annuì. Mi sfrecciò nella mente l’immagine di quei due che scopavano sul pianerottolo; poi mi voltai verso il ragazzo accanto a me e quell’immagine cambiò connotati. Non c’erano più il ragazzo e la ragazza del piano di sopra. In compenso, qualcosa tra le gambe cominciò a farsi sentire di nuovo, e io pregai tra me e me che Nathan la smettesse di parlare di scopate o cose simili.

«Certo che ne accadono di cose divertenti, in questo palazzo.»

«Esatto. Proprio per questo ti dico che posso fumare quanto mi pare.»

Aspirò un’altra volta, ancora appoggiato alla mia spalla. Da dov’ero, non riuscivo a vedere sotto la camicia, tra un’asola e l’altra. In compenso, però, sentivo tutto il suo peso su di me, così come il suo torace che si espandeva e comprimeva tra una boccata e l’altra. Spostai appena lo sguardo verso di lui, perché se mi fossi voltato completamente saremmo stati troppo vicini; lui però guardava dritto davanti a sé, verso qualcosa che non riuscivo a vedere, conosciuto solo alla parte più intima di lui. Il fumo continuava a uscirgli dalla bocca come in un gesto automatico; ogni tanto si umettava le labbra facendo scorrere la lingua su di esse.

Poi poggiò la sua testa sulla mia spalla. Persi facilmente un battito o forse di più. L’attimo dopo si sistemò e avvicinò ancora il suo corpo al mio, tanto da sentirlo aderire molto di più. Non sentivo solo il suo torace; in quel momento riuscivo a percepire il movimento dei suoi muscoli al suo alzare e abbassare la gamba sinistra in cerca di una posizione.

Il respiro mi si era bloccato e cercavo un modo per respirare senza dare nell’occhio. Potevo inspirare fino a riempire i polmoni a metà ed espirare a tratti, poco alla volta, senza cacciar via la tensione tutta insieme; ma sapevo che non mi sarebbe entrata abbastanza aria e che non l’avrei sputata con la giusta velocità. Sarei rimasto eccessivamente a corto di fiato per non apparire come quello con un’emozione di troppo.

Erano le tre e trentasette del pomeriggio di un sabato qualunque e Nathan se ne stava con la testa sulla mia spalla, ogni tanto strusciandosi per ritrovare la posizione e ogni tanto muovendo quelle gambe che terminavano in un paio di scarpe slacciate. Nel momento in cui si era appoggiato, d’istinto avevo portato la mano destra verso la ringhiera dietro di me, come per accoglierlo meglio; mi resi conto solo in quell’istante che avrei potuto alzarla un po’ e usarla per cingere il suo corpo. Sì, avrei potuto posare le mie dita sul suo fianco, solo per un attimo; gli avrei lasciato lo spazio per muovere il braccio come più preferiva, visto che doveva finire la sua sigaretta. Però ero abbastanza sicuro che lo avrei messo in imbarazzo. Lui mi provocava spesso, ma solo perché non si aspettava una mia reazione in quel senso; se lo avessi stretto per sentire la consistenza del suo corpo, se la sarebbe presa?

Spostai appena le dita sulle mattonelle di cotto e quel rumore mi sembrò rimbombare nel silenzio di quel pomeriggio estivo. Si udì chiaramente il fruscio delle mie dita che si muovevano, e da quel rumore si poteva intuire tutto, compresa la direzione in cui stavano andando. Nathan non si scompose e si portò la sigaretta alla bocca; in quel momento, sentii il rumore del suo respiro, delle sue labbra che si accostavano al filtro e che risucchiavano appena. Era impossibile che il fumo non mi finisse sotto al naso, ma insieme sentivo anche il suo odore, l’odore di Nathan, che mi sembrò più forte del mio, ma non tanto da dare fastidio. Immaginai che fosse solo questione di abitudine.

Sollevai le dita e alzai appena il braccio, ma forse fu pure peggio, perché lo strisciai senza volere sulla sua schiena. Era impossibile che non se ne fosse accorto, ma non disse nulla nemmeno quella volta. Non potevo certo starmene col braccio a mezz’aria, anche perché cominciò a farmi male dopo poco; così buttai fuori l’aria a tratti, come mi ero ripromesso di fare, e col pollice gli sfiorai un fianco. Non si scompose di un millimetro, e così, poco alla volta, al pollice si unirono tutte le altre dita della mia mano.

In pochi secondi, tutti i miei polpastrelli stavano sfiorando la sua camicia bianca. Col pollice riuscivo a percepire le costole, che mi parevano piuttosto in risalto; le altre, invece, affondarono piano piano nella sua pelle, nonostante la presenza della camicia a impedire un contatto completo. Aveva dei fianchi snelli, magri come si poteva intuire guardandolo, ma toccare era tutta un’altra cosa. Avrei voluto stringere di più, ma non volevo nemmeno fargli male: che figura ci avrei fatto se gli avessi conficcato le dita nella carne? No, decisi di continuare a sfiorarlo, con quella mano che sembrava più rigida di un blocco di marmo. Era lui, semmai, che si muoveva per sistemarsi, e allora la mia mano tastava sempre un centimetro nuovo, più o meno carnoso. Poi un altro soffio di vento gli alzò appena la camicia, abbastanza perché entrassi in contatto con la sua pelle nuda.

Esplorai con timore e notai una manciata di peletti, più qualche poro troppo marcato, forse per via dell’alito di vento settembrino che gli accarezzava quella parte di pelle.

Era la prima volta che lo toccavo con una sensazione di intimità così elevata. Se fossimo stati amanti, quello sarebbe stato certo il preludio per qualcosa di più.

Tuttavia, la realtà mi colpì di nuovo e mi ricordai in un attimo perché ero lì, e sicuramente non era per abbracciare Nathan o per tastare la sua pelle. C’era un’indagine di mezzo e io ero stato mandato, anche se in maniera informale, a curiosare in casa sua alla ricerca del telefono cellulare che, secondo quella telefonata anonima, doveva trovarsi in salotto, nascosto sotto a uno dei cuscini per le sedute. Nelle nostre riunioni, stavamo ancora cercando di capire se l’ipotesi di Ash fosse corretta, se davvero Nathan fosse il fulcro di tutta quella vicenda.

Il ridestarsi di tutti quei pensieri mi fece sentire a disagio. Quel ragazzo aveva l’apparenza di un’anima innocente, e io ancora una volta ci ero cascato. Poteva essere estraneo a tutta quella faccenda, sì, ma poteva anche essere Waitch, la mente dietro la rapina e la droga.

La mano sulla pelle di Nathan cominciò a sembrarmi di troppo, quasi sbagliata. Oltretutto, non avevo nessun diritto di sfiorarlo così, di imporgli la mia presenza sulla sua pelle, e cominciai a pensare che il suo silenzio fosse dovuto più all’imbarazzo che al piacere. Forse non aveva avuto il coraggio di dirmi di smetterla e quindi mi aveva lasciato fare.

Scostai la mano, pentito di ciò che avevo fatto, e nascosi la sua pelle di nuovo sotto alla camicia. Lo sentii strusciare la testa per muoverla verso di me, di sicuro con fare interrogativo, ma io non abbassai lo sguardo verso di lui. Riportai la mano sulle mattonelle e mi assicurai che fossero abbastanza lontane dal suo fondoschiena, che avrei potuto toccare per sbaglio; quindi lasciai la mano lì, come fosse stata morta, perché non volevo più mettere in imbarazzo colui che mi sedeva accanto.

«Sei tornato alle sigarette normali?»

Mi aspettai di sentir strusciare la sua testa sulla mia spalla, ma notai con sorpresa che anche lui si era staccato da me. Annuì come avrebbe fatto chiunque, come avrebbero fatto due amici che non spartiscono niente di più.

«Sì, i drum mi facevano schifo. E poi mi stava fatica arrotolare le sigarette. Sai, quando sei lì e hai voglia, anche aspettare un minuto in più è una sofferenza.»

Ridacchiai sincero, perché già mi immaginavo la grande sofferenza di cui parlava.

«Ci sono altre novità?», domandai.

Lui si voltò verso di me e i nostri sguardi si incrociarono.

«Perché me lo chiedi?»

«Non so, quando mi scrivi così dal nulla è perché vuoi raccontarmi qualcosa.»

«E come dovrei scriverti, scusa? Ti devo prima chiamare per dirti che sto per farlo?»

Mi lasciai scappare una risatina, per poi pensare alle tipologie di messaggio che mi inviava Nathan. In linea di massima, quando non c’erano saluti e attaccava direttamente col discorso, voleva dire che aveva bisogno di qualcuno con cui parlare.

Recuperai il mio braccio e lo usai per cingermi le gambe in una stretta.

«Quindi cos’è successo?»

Nathan aprì bocca per rispondere, ma fu interrotto da un tonfo sordo di plastica dura caduta a terra. Ci sporgemmo verso la corte interna, che a essere onesti somigliava più al cortile di un carcere per l’ora d’aria, e notammo due bambini trascinare un sacco grosso e nero. Il bambino teneva il filo del sacco sulla spalla, come farebbe Babbo Natale con i suoi regali, mentre l’altro bambino, che a guardare meglio era una bambina, lo spintonava di continuo nel tentativo di rubargli il filo.

«Voglio giocarci anch’io!» gridò la bambina.

«Tanto non sei capace, è troppo pesante!»

Il ragazzino le diede una spinta e lei cadde a terra, sbucciandosi il ginocchio scoperto per via dei pantaloncini che indossava.

«Brutto stupido!»

La bambina si rialzò e, non appena l’altro si fu allontanato un po’ con il sacco, prese la rincorsa e, con un grido, si gettò sopra quell’ammasso nero. Cominciò a stringerlo più forte che poteva e nel frattempo puntava i piedi, per impedire all’altro bambino di trascinarlo ancora.

Partì quindi un tira e molla degno di nota, condito da espressioni di affetto reciproco.

«Chi sono? Li conosci?»

Nathan sospirò, poi si voltò verso di me.

«… Bestie di Satana, suppongo.»

Ridacchiai, poi lui si alzò in piedi, afferrò la ringhiera della scala e si affacciò verso la corte.

«Ehi, bestioline!»

I due bambini si voltarono verso di lui, interrompendo per un attimo le grida e gli schiamazzi. Notai in quel momento che il ginocchio della bambina sanguinava appena, mentre il bambino aveva la salopette sporca di chiazze d’erba.

«Che vuoi?»

«Guardate che lì dentro c’è un morto, sapete? Se la polizia vi becca, vi manda dritti in prigione.»

Un gridolino di sorpresa si levò dai due bambini, che lo fissarono per un attimo increduli. Poi si voltarono verso il grosso sacco e cominciarono a girarci intorno. Solo dopo aver fatto un giro completo, la ragazzina si abbassò per tastarlo in vari punti; dopo poco si fermò e continuò a insistere su un punto preciso, forse suggestionata dalla balla di Nathan.

«Carter...»

Il bambino si voltò verso di lei, poi incrociò le braccia. Erano tutte sporche di morchia.

«Non crederai certo alle scemenze che dice quello, vero? Ora te lo dimostro.»

Carter si inginocchiò davanti all’apertura del sacco, poi abbassò la testa in prossimità dell’apertura. Con le mani cominciò a tirare una delle estremità del filo, ma il sacco era talmente pieno che si aprì in un attimo, e tutta la spazzatura finì in faccia al povero ragazzino.

Nathan scoppiò a ridere e una risata scappò anche a me, osservando il bambino mentre urlava e cercava di togliersi dalla faccia gli avanzi di ketchup. Sembrava che sul viso avesse un animale feroce e letale, e che cercasse in tutti i modi di scacciarlo per avere salva la vita. In un paio di occasioni si tirò pure qualche schiaffo, spalmandosi la salsa rossa su tutto il volto. In tutto questo, la ragazzina osservava senza dire niente, ogni tanto lanciando un’occhiata a me e Nathan, che nel frattempo aveva preso a ridere di gusto.

«Te la faccio pagare, brutto finocchio! Ti ammazzo!»

Carter si liberò dell’incubo ketchup e cominciò a correre verso di noi; quando ci rendemmo conto del pericolo imminente, era già sulle scale, pronto a raggiungere il nostro pianerottolo in meno di cinque secondi.

«Oh cazzo, scappa!»

Mi sentii tirare il braccio e mi rialzai di scatto, mentre il rumore dei passi sul metallo si faceva più insistente e più vicino. Corremmo verso l’appartamento di Nathan, ma ci ingolfammo alla finestra nel tentativo di rientrare insieme; mi voltai e vidi il ragazzino indiavolato, con la faccia striata di rosso e la bocca spalancata in un grido, pronto a scattare verso di noi. Nathan si sbloccò e il vetro della finestra sbatacchiò; lui rientrò in casa e mi tirò di nuovo per un braccio. Inciampai sulla soglia rialzata e finii rovinosamente a terra, ma Nathan si lanciò verso la finestra, mi scalciò via e la chiuse immediatamente.

Carter arrivò un secondo dopo a peso morto sulla finestra, piantando la sua faccia sul vetro. Cominciò a sbatacchiare i pugni sopra la sua testa e poi, non contento, strusciò il suo viso pieno di ketchup, lasciando delle strisce rosse sulla superficie trasparente.

Urlò ancora per un po’, dopodiché si lanciò contro la porta-finestra un altro paio di volte, fino a che non si ritenne soddisfatto; lo osservammo andare via e controllammo per qualche minuto che non tornasse indietro coi rinforzi.

Io ero ancora seduto a terra e me ne resi conto solo quando Nathan mi porse una mano per rialzarmi.

«Che ti avevo detto? Bestie di Satana.»

«Sì, be’, pensavo tu scherzassi.»

Nathan fece di no col dito.

«Io non scherzo mai con le descrizioni dei miei vicini.»

Ci guardammo un attimo negli occhi, entrambi con un fiatone spuntato da chissà dove, poi ridemmo di gusto. Lui rideva più di me e lasciava che la risata gli scuotesse il busto, portandosi una mano davanti alla bocca, come per contenere l’ilarità che quella situazione gli stava suscitando. Non mancava di lanciare un’occhiata ogni tanto alla finestra, ma non c’era nessuno; così tornava a ridere ancora di più, mentre lasciava vagare il suo sguardo sulla macchia di ketchup sulla finestra. Poi piano piano i singulti diminuirono e la sua risata si ridusse a poco più che un sorriso divertito sul volto; io continuai a ridacchiare anche quando l’innesco si fu esaurito.

Nathan si voltò verso la finestra, illuminato da deboli raggi del sole, e vi si avvicinò, senza però aprirla. Si abbassò all’altezza del ketchup e lo guardò con una smorfia, poi sospirò.

«Non lo pulirò prima di lunedì. Aspetterò che le bestioline siano a scuola.»

«Mi sembra una saggia scelta.»

A giudicare dalle condizioni in cui versavano quelle finestre, ritenni molto probabile che la pulizia non sarebbe avvenuta il lunedì successivo, e nemmeno il martedì o il mercoledì; forse c’erano più speranze che venissero pulite in un’altra vita. Non era difficile intravedere le chiazze di pioggia ormai secche sul vetro, contornate da un alone marrone, forse di terra portata da chissà dove; molte erano colate giù fino in fondo, rigando il vetro in superficie. E poi, nel mezzo, si era aggiunto anche quel cerchio di ketchup, non troppo dissimile a qualche rappresentazione di arte moderna su tela.

Poco dopo, sentimmo nuovamente degli schiamazzi provenire dal cortile interno. Io e Nathan ci scambiammo un’occhiata e poi, nel silenzio generale che serpeggiò in quell’istante, scoppiammo a ridere di nuovo.

Bastò un attimo, però, per ricordarmi le parole che Ash mi aveva rivolto quella sera in ospedale. La risata del ragazzo davanti a me cominciò ad apparirmi falsa e io mi domandai cosa stesse tramando, pur senza avere la certezza che c’entrasse qualcosa.

Dovevo cominciare a occuparmi della mia missione, del motivo per cui mi avevano mandato lì; quale scusa potevo utilizzare per distrarlo? Cominciai a guardarmi intorno, in cerca di uno spunto. Il monolocale di Nathan non offriva poi tutti questi suggerimenti: l’ingresso dava su un’unica stanza, arredata alla bell’e meglio, che comprendeva salotto, cucina e sala da pranzo in maniera indistinta. Tutto sembrava di seconda mano, non c’erano mobili a giorno o soprammobili superflui; l’essenziale era chiuso dentro quelle ante scrostate o accanto alla televisione, sul ripiano apposito.

Mi guardai ancora intorno, ma non vidi nessun ninnolo che avrei potuto far cadere in maniera accidentale, né un vaso da fiori da rovesciare sul pavimento. Avrei potuto chiedergli un bicchier d’acqua e farlo cadere, ma mi si strinse il cuore all’idea di portar via qualcosa a quel ragazzo che aveva a malapena i soldi per mangiare. L’attimo dopo, però, mi riscossi: non era certo il tempo di sottostare a sentimentalismi di quel tipo o di farsi intenerire.

Lui se ne stava ritto in piedi e solo in quel momento mi accorsi che non sorrideva. Scrutandolo meglio, mi resi conto che aveva uno sguardo serio, quasi accigliato, e che, come faceva spesso, i suoi occhi erano persi in una realtà che conosceva solo lui. Non era lì con me, nel suo monolocale, a fissare il ketchup alla finestra; era nel suo mondo, in un tempo che non esisteva, a ripensare sicuramente alla sua esistenza.

«Abbiamo parlato.»

Mi prese alla sprovvista e lo guardai con fare interrogativo.

«Io e mia madre, dico. Volevi sapere perché ti ho chiamato, no?»

Lui si infilò le mani in tasca e io riuscii a capire cosa volesse dirmi. Ricordavo del litigio di cui mi aveva parlato con la sua famiglia, di quanto lo impensierisse, certo del fatto che niente sarebbe più tornato come prima.

Mi raccontò com’erano andate le cose. Seduto sul divano, lo sguardo rivolto verso la stanza (e solo ogni tanto verso la porta-finestra), cominciò a parlare. La voce gli si ruppe per l’emozione in un paio di occasioni, soprattutto quando arrivò a toccare i figli mai nati di sua madre; in altri momenti abbassò lo sguardo e cominciò a trastullarsi con l’orlo della maglietta, su cui faceva passare un dito come a grattar via una crosta fastidiosa, ma riuscì ad arrivare fino in fondo senza darla vinta al groppo in gola. Piegò le gambe e le avvicinò al petto, circondandole con le braccia, poi piombò in un lungo silenzio. Nascose il viso tra le ginocchia, fissando il vuoto, senza dire ancora niente. Io intanto osservavo le ombre delle fronde degli alberi disegnate sui vetri della sua porta-finestra, seduto sul divano, accanto a lui.

Nathan sospirò, poi i suoi occhi ripresero a muoversi, vispi come sempre. Diresse il suo sguardo verso di me.

«E quindi non ti ho mai chiesto neanche una volta come stavi. Scusa.»

Non si aspettava una vera risposta, perché in realtà era ancora intento a elaborare il suo dramma interiore. Era uno di quei cambiamenti capaci di spiazzarti in mezza giornata, di farti apparire il mondo sotto una luce completamente diversa. All’improvviso, diventi in grado di capire il perché di un gesto stronzo, prese di posizioni o decisioni che fino a poco prima ti erano sembrate assurde. Nathan era appena entrato in questo processo e si stava rendendo conto che non era l’unico ad avere i suoi drammi.

«Non dire così. Ci sono modi e modi per preoccuparsi delle persone.»

«Io non mi sono mai preoccupato di nessuno.»

Si sciolse dall’abbraccio e riportò le gambe a terra, poi poggiò la testa sullo schienale del divano e cominciò a fissare il soffitto.

Il suo sguardo esploratore nei confronti della vita mi fece tornare in mente me stesso, ai tempi in cui anch’io cercavo delle risposte. Si smette di essere un’appendice e si comincia a essere un io, alla ricerca perenne di una forma in cui plasmarsi e di ideali a cui tener fede per il resto della vita. Nathan cercava di modellarsi, ormai scomodo nella forma che si era dato, cercandone una che si adattasse meglio al suo contenuto. Osservandolo, lì sul divano, lo vedevo mentre cercava di riorganizzare le sue priorità, di trovare un nuovo modo di porsi nei confronti del mondo. Sentiva sbagliato tutto ciò che aveva fatto nella sua vita fino a quel momento e tentava di distruggerlo, ma era un passaggio obbligato: per raccogliere i cocci, è necessario che prima qualcosa si rompa.

«E quindi tu come stai?»

Mi sistemai meglio sul divano, fino a che la schiena non aderì allo schienale; quando però atterrai di nuovo sulla seduta, oltre alla buca di quel divano malconcio, sotto al sedere avvertii qualcos’altro. Poteva benissimo essere la struttura del telaio ad aver fatto capolino in un momento spiacevole, ma la mia mente volò immediatamente al cellulare citato nella telefonata anonima subito dopo il pestaggio.

Nathan ruotò la testa verso di me, che cercavo di dissimulare tranquillità. A quella sporgenza dura avrei pensato più tardi; bastava solo trovare una scusa.

«Sto meglio di quanto credi, non preoccuparti. A volte va meglio, a volte va peggio, ma sto imparando a restare a galla.»

Mi spostai ancora sul divano e sentii nuovamente qualcosa di duro e dalla forma squadrata sotto al mio fondoschiena. Mi resi conto in quel momento che la risposta data a Nathan sarebbe potuta apparire superficiale da parte mia, ma lui aveva ancora lo sguardo perso sul soffitto; probabilmente, non mi aveva nemmeno ascoltato. Annuì un paio di volte nel silenzio della sua mente, senza però proferire parola.

La curiosità per quella sporgenza crebbe a dismisura. Ero a un passo così dallo scoprire la vera identità del ragazzo di fronte a me. Era realmente l’angelo che credevo che fosse o sotto quello sguardo affranto si nascondeva in realtà un criminale?

Sul quel divano, diventai irrequieto. Mi muovevo appena nel tentativo di dare una sagoma concreta a quell’oggetto. Ogni momento era importante e mi avrebbe avvicinato alla verità un pochino di più. All’improvviso, Nathan espirò rumorosamente e i suoi occhi tornarono a osservare il mondo reale. Dopo un altro sospiro, tirò avanti la schiena e si voltò verso di me. Le sue sopracciglia erano appena contratte verso l’alto, lo sguardo malinconico e colpevole; dopodiché, portò le mani sul divano e si fece forza su di esse per spostarsi nella mia direzione. Si mosse di poco, mentre io stavo appoggiato su un fianco, con un gomito adagiato sulla cima dello schienale, quasi fossi pronto ad accoglierlo. Mi irrigidii senza volerlo, ma lui non se ne accorse. Fece di nuovo forza sulle mani e lo ritrovai vicino come lo era stato sulla scala antincendio.

Mi lasciai abbracciare dal silenzio e scorsi il rumore del suo respiro, il desiderio nei suoi occhi di lasciarsi cullare dall’affetto che potevano dargli le mie braccia strette intorno a lui. Non c’era malizia in quella richiesta, né un romanticismo sotteso; io ero suo amico e lui aveva bisogno di conforto. Il suo sguardo mi sfiorò, come se mi stesse chiedendo di entrare in punta di piedi; e mentre io continuavo a respirare a tratti, facendo defluire l’aria poco alla volta, il mio braccio destro assunse vita propria e cominciò piano a staccarsi dallo schienale del divano. Lo sguardo di Nathan lasciò trasparire un sorriso abbozzato, segno di una speranza affievolita che si stava riaccendendo; poi portò ancora le mani sulla seduta e fece forza un’ultima volta, fino a quando la nostra distanza non assunse i contorni di un’intimità spaventosa.

Il campanello suonò. Sobbalzai. Nathan si allontanò di rimando e sentii spezzarsi qualunque cosa ci fosse stata fino a un attimo prima. Intercettò il mio sguardo per un attimo quasi chiedendomi che cosa fare, ma l’insistenza della scampanellata lo obbligò ad alzarsi dal divano per aprire la porta. La mia visuale tornò sulla porta-finestra e per un istante mi domandai se al di là della porta non ci fossero proprio i due bambini da cui eravamo fuggiti poco prima. Mi voltai di scatto verso Nathan, ma lui aveva già le dita attorno alla maniglia, pronto ad abbassarla. Non feci in tempo a dire nulla che l’uscio era già aperto.

Sulla soglia comparve un uomo sulla trentina, un filo di barba un po’ più che abbozzato, piccoli occhi vispi che guardavano Nathan dal basso e un pacco di giornali in mano come uno scolaretto. Il tipo farfugliò qualcosa indicando con lo sguardo ciò che teneva in mano, poi afferrò uno dei giornali e lo diede a Nathan. Lui provò a rifiutare un paio di volte, ma, ogni volta che provava a rendere il giornale a quel tipo tozzo, l’altro prontamente lo respingeva con la mano, come a indicargli di tenerlo.

Era il momento. Gettai un’ultima occhiata a Nathan, prima di spostarmi piano sull’altro cuscino della seduta. Nathan stava ancora parlando col ragazzo, che nel frattempo sembrava che gli stesse illustrando di cosa si occupava la sua associazione o qualunque altra cosa fosse. Infilai una mano tra i due cuscini, senza distogliere lo sguardo da Nathan, che ancora una volta cercava di far desistere il venditore, il quale sembrava avere un discreto appeal: in fin dei conti, ancora non gli era ancora stata sbattuta la porta in faccia.

La mia mano si intrufolò sotto il cuscino dove ero seduto fino a poco prima. Serpeggiai sopra il telaio in tessuto e le mie dita avanzavano come piccoli tentacoli per esplorare quella porzione di divano. Nel frattempo, Nathan si era zittito e, poggiato sullo stipite della porta a braccia conserte, ascoltava la nenia del venditore di giornali. Feci quindi camminare le dita ancora per un po’, finché non sentii un oggetto di plastica dura, di forma rettangolare e, come forse mi aspettavo, con quello che sembrava uno sportellino. Afferrai l’oggetto, senza distogliere lo sguardo dall’incantatore di serpenti sulla soglia, e tirai via la mano in uno scatto fulmineo. Abbassai lo sguardo per un solo, unico attimo, quanto mi sarebbe bastato per avere la conferma di ciò che cercavo.

Il mio tatto non mi aveva ingannato: il cellulare era proprio lì davanti ai miei occhi. La scritta “Ericsson T28” spiccava sopra lo schermo e nella parte inferiore, sotto lo sportellino. Con uno scatto altrettanto felino, rimisi il telefono dove lo avevo trovato, poi riportai il mio sguardo sui due ragazzi alla porta, occupati in una lotta commerciale senza sconti.

Il tira e molla tra i due andò avanti per un paio di minuti buoni; poi alla fine, esasperato, Nathan cominciò a frugarsi nelle tasche e cacciò fuori una moneta. Il ragazzo l’afferrò con un sorriso e si profuse in diversi inchini di ringraziamento. Nathan lo salutò sventolando il giornale, poi chiuse la porta e cominciò a leggerlo.

Mosse qualche passo verso di me, sempre con la testa china, fino a che sul suo viso non comparve un’espressione di incredulità.

«Ehi, senti questa: “C’è uno spettro che si aggira per l’Europa: è lo spettro del Comunismo. Così scriveva Marx a metà del secolo scorso. Ma cos’è rimasto del suo messaggio nell’America di oggi? Continua a pagina cinque”.»

Nathan sbuffò e il suo sguardo si spostò su un’altra parte della prima pagina.

«Ah, e senti anche questa: “Proletari, potere al popolo! Imbracciare i forconi nell’era del capitalismo sfrenato e del liberismo più assoluto. Una visione sull’economia di oggi e sul valore dei principi comunisti nell’era moderna. Continua a pagina undici”. Bella roba.»

«Ma il secolo scorso era il Novecento, non l’Ottocento. E comunque questo tizio ha un bel coraggio a vendere giornali comunisti nella patria del capitalismo», notai.

Alzò gli occhi verso di me, mentre ancora teneva in mano il giornale. Poi una risata lo smosse, finché non fece tremare anche i fogli del giornale. Lo richiuse, scosse il capo e me lo lanciò. Sulle cosce mi finì la copia del mese di “Proletari comunisti”, edizione XXXVII, numero 309. Lettere in minuscolo, grafica essenziale, titolone in bella vista che occupava metà pagina. Diedi una rapida scorsa al sommario poco più giù, ma lasciai perdere quasi subito le lotte comuniste. La verità era che avevo bisogno di una scusa per andarmene.

Mi scoprii il polso, feci ruotare l’orologio e finsi di guardare l’ora.

«Vai già via?»

Un pizzico di senso di colpa mi solleticò la coscienza, ma ricacciai indietro quella fastidiosa sensazione prima che diventasse troppo rumorosa.

«Sì, scusa. Mi sono ricordato di un impegno.»

Notai il disappunto nel suo sguardo, ma sembrava privo del solito vittimismo velato che lo aveva sempre contraddistinto. Forse il suo primo pensiero fu che la mia fosse solo una scusa per defilarmi, salvo poi ricredersi perché fino a quel momento era sempre stato concentrato su se stesso. Mi sentii un verme nell’approfittarmi così della nuova veste di Nathan, se così si poteva definire, ma il giuramento che avevo prestato doveva andare oltre ogni sentimento umano.

Lo salutai, osservando un’ultima volta quel divano di seconda mano, i biscotti sbriciolati sul tavolino posto di fronte, le crepe sull’intonaco e la chiazza di ketchup sulla porta-finestra. Poi rivolsi un ultimo sguardo a Nathan, nel profondo perso ancora tra i suoi pensieri, mentre sventolava la mano per salutarmi.

La sensazione di essere un verme mi accompagnò per tutto il viaggio di ritorno.

 

 

 

Angolo autrice

Salve a tutti!

E insomma per Nathan le cose si complicano XD Sarà davvero colpevole o è solo un piano architettato ad arte per incastrarlo? Chissà, chissà.

Nel frattempo anche per Alan le cose si fanno più complicate perché i suoi sentimenti innegabilmente crescono, ma c’è sempre qualcosa che si frappone tra lui e il suo obiettivo. Non c’è pace, ahahah XD

 

Ma parliamo di cose belle: sono a tre quarti abbondanti dell’ultimo capitolo! Devo ancora scegliere un finale adeguato - o meglio, devo scegliere il momento in cui interrompere la storia e mettere la parola “Fine” a questa giostra emotiva -, però è già tutto nella mia testolina e devo dire che per il momento sono molto, molto contenta di come sono usciti i tre capitoli “finali” (31, 32 e 33). Certo c’è poco da fare, quando uno scrive sotto la spinta dell’ispirazione le cose escono sempre meglio ^^’

 

E anche per oggi è tutto! Ringrazio come sempre tutte le persone che seguono e commentano (tra l’altro con le ultime recensioni mi avete stimolato qualche riflessione e penso che in una seconda stesura cambierò qualcosina), senza di voi non sarei certamente qui a parlare di ultimi capitoli.

 

A giovedì prossimo!

Simona

   
 
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: holls