Anime & Manga > Bungou Stray Dogs
Segui la storia  |       
Autore: Ode To Joy    11/03/2022    2 recensioni
[Dazai & Mori Centric]
[Spin-off di “Poems By A Ghost”]
Dazai non aveva la minima idea di chi fosse Mori Ougai, ma non vi era alcun timore nel modo sfacciato in cui lo scrutava. Starnutì.
Nel silenzio assoluto della stanza, suonò come un colpo di pistola. Mori saltò come una molla e la lametta gli tagliò la pelle. Poche gocce di sangue caddero nel lavandino, andando a mischiarsi a quelle che rimanevano del vecchio Boss.
Brutto presagio.
“Oh, ti sei distratto,” commentò Dazai, con voce incolore. “Ma dalle cicatrici che hai sulla schiena, sei abituato a essere colpito alle spalle.”

[…]
Un passo indietro, all’inizio della storia, ai giorni in cui Mori muoveva i suoi primi passi come Boss e Dazai cominciava la sua educazione per divenire il più giovane dei cinque Dirigenti.
La nascita della Port Mafia come Yokohama la conosce oggi.
[Trans!Dazai] [Accenni Fukumori]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kouyou Ozaki, Nuovo personaggio, Osamu Dazai, Ougai Mori, Ougai Mori, Ryurou Hirotsu
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'These Brand New Pages'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

II

 

Una volta tornati in ascensore, Dazai diede al nuovo Boss la soddisfazione più grande. “È stato incredibile,” commentò. "Come ci sei riuscito?”

“A fare cosa?” Domandò Mori, con un sorriso lusingato.

“Non hai dovuto dare nemmeno un ordine,” disse Dazai. “Non hai dovuto imporre niente. A stento hai parlato. Nonostante le obiezioni iniziali, tutti insieme hanno deciso che tu sei il nuovo Boss. Non ti sei presentato come un tiranno ma, al contrario, hai fatto scegliere loro. Non è possibile calcolare un rischio tanto grande con la certezza di uscirne vincitore!”

“Ti do l’impressione di essere un tiranno?” Domandò Mori, curioso.

“Hai l’aria di uno che non avrebbe alcun problema a diventarlo,” rispose Dazai. Non lo conosceva, poteva solo intuire le linee di quella personalità fatta di molte ombre e poche luci. Quell’uomo era pericoloso e se si lasciava leggere da lui, era solo perché aveva qualcosa da guadagnarci.

“Dal mio punto di vista, i tiranni hanno vita breve,” disse Mori, selezionando il piano desiderato. “Il nostro vecchio amico con la gola recisa ne è la prova.”

“Punti a essere un leader magnanimo?” Domandò Dazai, sarcastico. “Qui, alla Port Mafia?”

“Punto a essere un leader che mette l’organizzazione prima di se stesso e non il contrario,” rispose Mori. “Essere il Boss della Port Mafia non la rende un’arma nelle mie mani, che posso usare a mio piacimento. Questa era la politica di chi mi ha preceduto. Da domani, le cose cambieranno.”

“Come?”

“Bisogna puntare a un obiettivo più grande del potere fine a se stesso, Dazai.”

“E quale sarebbe questo obiettivo?” Domandò il ragazzino, poi si accorse che l’ascensore non stava scendendo verso il garage, ma salendo verso la vetta. “Dove stiamo andando?”

“Voglio mostrarti questo obiettivo più grande,” rispose Mori.




 

L’ufficio del Boss era una sala immensa, forse più di quella delle riunioni al piano di sotto. Era buio e Dazai non poteva studiare i dettagli di quell’ambiente nuovo, teatro di molte storie da raccontare. Dopo tre passi, avvertì la consistenza morbida di un tappeto sotto i piedi, ma il suo unico occhio sano fu catturato da tutt’altro spettacolo. 

Mori si portò davanti alla grande vetrata e gli fece segno di avvicinarsi.

Come se avesse paura di cadere, Dazai appoggiò la mano sana al vetro e le luci di Yokohama risposero al suo sguardo. Poteva vedere il cuore della città da lassù, fino all’ultimo lume del porto, poi la distesa nera del mare che si confondeva con quella del cielo. Di notte, era uno spettacolo che non passava inosservato, ma di giorno doveva essere un vero incanto. Quello era il regno su cui la Port Mafia estendeva il suo dominio - almeno a grandi linee. Da lì, seduto sul suo trono, il Boss vedeva tutto e controllava tutto. A Mori non restava che sistemare tutti i pezzi sulla scacchiera e fare la sua mossa, Il primo passo sarebbe stato contro il Governo o un’organizzazione nemica? Difficile dirlo.

Per Dazai, era un mondo tutto nuovo e gli veniva presentato al massimo del suo splendore.

“Non l’ho mai vista da così in alto,” mormorò e, per la prima volta da quando quella missione era cominciata, dimostrò i suoi quattordici anni.

Mori lo guardò, quasi mosso da tenerezza. “La prima volta, sono rimasto incantato anche io,” raccontò, ricordando la sua infanzia al fianco di suo padre. “Avevo dimenticato quanto fosse bella da quassù.”

“E ora?” Il ragazzino allontanò l’unico occhio scuro dal panorama. “Che cosa succede ora?”

Mori lasciò andare un sospiro stanco. “Difficile dirlo. Potremmo stare qui a parlarne tutta la notte. Ho una sola certezza: non si può più tornare indietro. Avanti tutta, verso il futuro!” 

“Resteremo qui, alla sede principale?” Indagò Dazai, per nulla convinto che fosse una buona idea. “Tutta la notte?”

Mori scosse la testa. “Torniamo in clinica, volevo solo che vedessi la vista da quassù e l’obiettivo di cui ti parlavo.”

“La città,” intuì Dazai. “Yokohama è l’obiettivo.”

Mori annuì due volte. “L’equilibrio è il vero obiettivo,” spiegò. “Luci e ombre devono esistere entrambe. Aspirare a un mondo di solo sole o di solo buio è il modo più veloce per portare alla distruzione. Ci sporcheremo le mani, perché nessun altro lo farà. Noi siamo il male necessario, Dazai,” concluse Mori. “È un concetto presente in ogni mitologia e religione. Il fatto che esistiamo è la prova che è un archetipo della natura umana stessa.”

Il ragazzino non replicò in alcun modo.

“Discorso troppo complesso?” Domandò Mori. Era stato Natsume Soseki a mettere nelle sue mani quel fanciullo, ma questo fatto non diceva nulla sul suo tipo di educazione o quanto fosse estesa la sua conoscenza del mondo.

Dazai era molto intelligente, sicuramente al di sopra della media.

Questo era quanto Mori Ougai era riuscito a intuire del bambino che aveva scelto di avere al suo fianco, nella propria ascesa al potere.

“Non hai risposto alla mia domanda,” insistette Dazai. “Adesso che succede, per davvero?”

Mori fu costretto a rifletterci un attimo. “Hai capito chi sono i nostri sostenitori?”

“Tra i Dirigenti: Randou e il Generale.”

“E che mi dici degli altri due?”

“Non gli piaci. Non avrai mai la loro stima, a meno che tu non accontenti i loro capricci e non ne hai alcuna intenzione.”

“Ottima intuizione.”

“Li disprezzi.”

“Vero.”

“Per te sono forme di vita inutili, che sprecano aria e occupano a sproposito poltrone che vorresti fossero di altri.”

“Molto vero anche questo.” Mori era soddisfatto: nonostante il vuoto riflesso nell’unico occhio scoperto, Dazai era stato attento ai dettagli e questo gli piaceva.

“Ma il Generale non è tuo complice,” aggiunse Dazai. “Ti sostiene per ragionevolezza: riconosce in te un valore, questo sì. Il suo sostegno è con riserva.”

Il sorriso di Mori si fece malinconico. “Penso sia tra i Dirigenti più longevi della Port Mafia. Era amico di mio padre. La sua lealtà è il riflesso di un legame passato, spezzato da una morte violenta.”

“Il padre di cui eri un figlio bastardo?”

Eh, sì, Dazai aveva ascoltato tutto, ma proprio tutto.

Bravo, il mio ragazzo. “Giuro che ti racconterò la storia,” promise Mori. “Ma in un luogo in cui saremo più con i piedi per terra, che ne dici?” Gli porse la mano, manco fosse un bambino di cinque anni non in grado di seguirlo. “Vieni con me, Dazai?”

Ovviamente, il quattordicenne non l’afferrò.




 

“Sono un figlio della Port Mafia,” confessò il medico, gettando il coprimaterasso su quello che era il suo letto, ma che avrebbe prestato al suo nuovo coinquilino per un po’, il tempo che guarisse dalle ferite. “Sono nato e cresciuto all’interno della malavita. Mai saputo cosa volesse dire vivere una vita comune.”

“Uno di quei tipi ha detto che il tuo nome è una garanzia,” ricordò Dazai, seduto come un gatto sul davanzale della finestra. 

“I Mori fanno parte della Port Mafia da generazioni.” Fu la spiegazione. “Sono medici personali del Boss da altrettanto tempo [1]. In breve, nella mia famiglia c’è sempre stato un Dirigente.”

“E lo è stato anche tuo padre.”

“Lo è stato anche mio padre, sì,” confermò Mori, finendo di sistemare la coperta. “Ecco fatto. Per questa notte, dovresti essere a posto.”

Dazai scese dal davanzale con un mezzo saltello - quello che le sue ferite gli permettevano - e si fermò dal lato opposto del letto appena fatto. “Perché Sensei mi ha portato qui, da te?”

Mori scrollò le spalle. “Perché eri in fin di vita. Io sono l’unico medico che conosce che non avrebbe fatto domande, perciò-“

“Non ci credi neanche tu,” lo interruppe Dazai. “Non mi ha portato qui per farmi curare da te. Mi ha portato qui per lasciarmi a te. Perché?”

Mori si dette dieci secondi per trovare un modo per evitare quella domanda: non ci riuscì. “Siamo nella stessa identica posizione, io e te, Dazai. Un amico - in assenza di definizioni migliori - ci ha messi insieme e vuole che ci restiamo.”

Dazai inarcò il sopracciglio destro. “E tu hai ufficializzato il tutto rendendomi il tuo maggior complice in un colpo di stato?”

“Non è esattamente di stato, ma il peso delle mie azioni è simile,” ammise Mori.

Dazai lasciò andare un sospiro annoiato. “Non ho voglia di tentare di suicidarmi di nuovo, questa notte,” confessò.

Mori sbatté le palpebre per un paio di volte. “Bene, grazie per avermi avvisato.”

Per la prima volta da quando il medico ce lo aveva avvolto, Dazai si tolse il cappotto nero da sopra le spalle e glielo porse. Mori scosse la testa. “Tienilo, è tuo.”

“È troppo grande per me,” ribatté il ragazzino.

“Mi sembra che questa notte ti abbia tenuto al caldo. Per la prossima estate, sarai più alto di almeno una decina di centimetri. Entro un anno, ti starà splendidamente, puoi scommetterci.”

“Siamo a settembre,” gli ricordò Dazai. “Non conto di arrivare vivo all’estate, figurarsi se lascio passare altri dodici mesi.”

Mori era abituato ai discorsi di natura macabra: durante la guerra era solito discutere con lo staff medico di campo del punto in cui amputare un arto in cancrena, o a chi sarebbe stato più magnanimo piantare una pallottola in testa. Eppure, sentire quel bambino - perché di questo si trattava - parlare della propria morte con tanta disinvoltura lo disturbava.

Dazai lo inchiodò con l’unico occhio sano. “Non è il motivo per cui mi hai portato lì, a farti da testimone?” Domandò. “Non speri che io esca di scena volontariamente?”

Bambino. Mori analizzò quella parola in silenzio, osservando ogni dettaglio della creatura che era in piedi di fronte a lui - solo il letto li divideva. Lo aveva guardato bene, prima di fasciarlo. Era troppo magro per la sua età, troppo piccolo - ma a quello avrebbe ancora potuto rimediare il tempo - aveva gli occhi grandi e il viso rotondo, tipici segni dell’infanzia. Quella che stava attraversando Dazai era un’età ingrata: la pubertà colpiva qualcuno già a undici anni, per altri era tutto rimandato ai quindici. Lui a che stadio era di quella metamorfosi?

Era impossibile dirlo con una semplice occhiata. Mori aveva visto cosa nascondeva sotto i vestiti maschili e le fasciature e forse aveva sbagliato a fare quella battuta sui dieci centimetri entro l’estate. Dazai Osamu era un ragazzo, ma Mori - forse per una sua deformazione da medico - non poteva evitare di pensare che il suo corpo sarebbe cresciuto seguendo ritmi e regole diversi da quelli dei suoi coetanei.

Doveva sapere se Dazai ne era consapevole.

“Hai bisogno di qualcosa da me?” Domandò Mori, gentilmente. “Hai detto di non aver mai fatto terapie ormonali e-“

“Non voglio quella roba,” ripeté Dazai. “Sono quello che sono e basta.”

Mori annuì due volte. “Va bene. Ti procuro qualcosa per dormire.”

Non aveva altro che alcuni suoi vecchi vestiti e al giovane sarebbero calzati a sacco in ogni caso. Mori gli propose una tuta. Dazai si spogliò del completo a tre pezzi di fronte a lui - per nulla disturbato dalla sua presenza - e il suo corpo troppo magro, troppo minuto e troppo ricoperto di bende venne illuminato per breve tempo dalla luce della luna, prima di scomparire, coperto da una t-shirt nera che gli arrivava quasi alle ginocchia.

Suo malgrado, Mori fece un calcolo matematico di quanti soldi erano rimasti a sua disposizione - sì, era un Dirigente della Port Mafia, ma gestire una clinica con le sue tasche non era proprio una spesa da poco - e quanti di quelli potessero essere impiegati per Dazai. Il ragazzino non voleva terapie ormonali e quello era un bel sollievo sia dal punto di vista pratico, che economico. In quanto ai vestiti, Mori era certo che avrebbe indossato qualsiasi cosa variasse dal bianco al nero, passando per il grigio. Escluse qualsiasi colore - forse poteva dare una possibilità giusto al blu o rosso scuro - a priori. 

Una noia, pensò Mori, tra sé e sé. Era tutto così diverso da come era con Elise. 

“Vado a dormire,” concluse Dazai, infilandosi sotto le coperte. 

Mori non si mosse: il ragazzino gli dava le spalle e i suoi capelli parvero ancor più scuri contro la federa bianca del cuscino. Non c’era alcuna tenda alla finestra, né una tapparella per chiudere la luce della luna fuori dalla stanza. Non era certo che sarebbe riuscito a dormire bene.

“Troppa luce?” Mori non era veramente preoccupato per quelle bazzecole, ma c’era qualcosa che lo tratteneva in quella stanza. Era come se il pensiero di lasciare solo Dazai fosse inammissibile.

Erano successe tante - troppe - cose e quella strana creatura, senza alcuna voglia di vivere, si era semplicemente coricata a letto, come se nulla fosse accaduto.

Dazai nemmeno si voltò nel rispondergli: “va bene così.”

“Le ferite ti fanno male?” Insistette Mori, sperando che fosse il ragazzino ad attaccare un discorso di qualche tipo. “Vuoi un antidolorifico per dormire meglio?”

L’occhio scuro di Dazai gli lanciò un’occhiata da sopra la spalla. “Non mi farà svegliare più?”

L’innocenza con cui lo domandò fece venire a Mori una gran voglia di prenderlo a schiaffi. “Hai detto che non avevi voglia di suicidarti, non questa notte.”

“Se fai tu il lavoro per me, chi sono per dire di no?”

Mori ebbe la sensazione che la sua mandibola stesse per sganciarsi e toccare terra. “Cerca di dormire un po’,” concluse.

Chi - o cosa - fosse davvero Dazai Osamu era una questione che Mori Ougai avrebbe affrontato l’indomani, a mente lucida.




 

Chiuso nel suo studio, Mori appoggiò la schiena alla porta e lasciò andare un lungo sospiro. Per un attimo, credette che la terra sotto i suoi piedi avrebbe ceduto. 

“Il vecchio pazzo è morto,” disse in un mormorio, come se non ci credesse nemmeno lui. “Il Boss è morto. Lunga vita al Boss.” Aggiunse. C’era della malinconia riflessa nei suoi occhi e chiunque l’avrebbe giudicata fuori luogo. 

Mori aveva le sue ragioni per non gioire della più grande delle sue vittorie.

Dal sorgere del sole, avrebbe occupato la poltrona più in alto di tutta Yokohama - poco importava che al Governo piacesse credere diversamente - un posto che avrebbe influito sul mondo delle tenebre di tutto il paese e, in parte, del globo intero. Mori si massaggiò la fronte stancamente: aveva detto addio alla sua umanità da tempo e per ragioni ben meno gloriose, ma quella era una cosa diversa. 

Lì finiva e lì iniziava la sua vita.

Rintarou è morto. Lunga vita al Boss.

Anche se Mori Rintarou era caduto in guerra a vent’anni, in Germania, ormai da molto tempo.

“Sei sempre bravo a farti venire il mal di testa,” commentò una vocina da bambina.

Mori sollevò lo sguardo e sorrise alla creatura materializzata dalla sua coscienza. Aveva lunghi capelli biondi e gli occhi azzurri, perché era lui a volerla così. Era la sua bambolina scontrosa e poco incline a ricevere le sue innumerevoli attenzioni.

Mori non l’avrebbe voluta in nessun altro modo. “Ti sei persa la festa, Elise.”

La bambina s’imbronciò. “Non m’interessano le feste noiose degli adulti,” ribatté. “Guardati, non sembra che ti sia divertito.”

“No, hai ragione,” le rispose Mori. “Non siamo più soli, hai visto?”

Elise sollevò lo sguardo verso il soffitto, poi si premette l’indice contro le labbra. “Shhh… Dorme.”

Mori inarcò le sopracciglia. “Davvero?” Gli suonava così strano che una creatura a stento umana, come Dazai, potesse trovare rifugio nel mondo dei sogni.

“Hai detto che è un bambino,” gli ricordò Elise, intrecciando le dita dietro la schiena.

Mori annuì. “Sì, è un bambino.”

“Ma ora hai pensato che non è umano, Rintarou.”

“Già…”

Che cos’era e chi era Dazai Osamu? Natsume Soseki glielo aveva portato in fin di vita, congedandosi con poche parole. Si era detto certo che Mori avrebbe saputo che cosa fare con quel fanciullo, senza aggiungere altro.

Il medico… No, il Boss della Port Mafia - era meglio che ci facesse l’abitudine - era infinitamente lusingato di godere di tutta quella fiducia da parte del suo vecchio maestro, ma era un po’ come se gli avesse lasciato un buco nero tra le braccia e gli avesse chiesto di dargli forma.

No, Dazai un abbozzo di forma ce l’aveva già. Mori la intuiva nei momenti come quello che avevano condiviso in bagno. Sei abituato a farti colpire alle spalle.

Quella era insolenza, arguzia e presupponeva un sacco di altre caratteristiche interessanti. Quando era arrivato il suo turno d’intervenire nella sala riunioni, Dazai lo aveva capito da solo. Aveva studiato tutti i presenti, uno a uno e si era dimostrato affascinato dal modo in cui Mori aveva mandato avanti il piano, fino alla fine.

Dietro quell’occhio scuro, l’unico che non aveva dovuto medicare, si nascondeva un mondo. Oscuro, certamente. Complicato, nientemeno.

E Mori ne era attratto e affascinato, come poche volte gli era capitato nella vita.

Ah, giusto, era anche diventato il Boss della Port Mafia quindi, oltre a Dazai, avrebbe dovuto concentrarsi su quello.

“Non credevo che ci sarei mai arrivato. Sai, Elise?” Ammise alla bambina, avvolta nel suo bel vestitino rosso. “Non credo di averlo mai desiderato, a dire il vero. Se proprio vuoi saperla tutta: quella poltrona è mia, non mi ci sono ancora seduto e già mi chiedo chi diavolo me lo ha fatto fare.”

Le risposte erano molteplici: un po’ per vendetta - se era l’ultimo a portare il nome Mori, lo doveva al vecchio a cui aveva reciso la gola - un po’ per orgoglio - la Port Mafia sarebbe dovuta divenire di suo padre più di tre lustri prima - un po’ perché era quello che andava fatto.

“E qualcuno doveva pur farlo. Vero, Elise?” Cercò conferma Mori. “Qualcuno doveva sporcarsi le mani per impedire all’oscurità di straripare e distruggere tutto.”

Gli sfuggì un sorriso amaro. “Sarà una strada ancor più solitaria di quella che abbiamo percorso fino a ora, mia piccola Elise.”

“E invece no!” Replicò la bambina, facendo una piroetta. “Adesso non siamo più soli.”

Stremato dalla lunga nottata, Mori non riuscì a intuire cosa la sua abilità gli stesse suggerendo.

Annoiata, Elise sbuffò. “Adesso c’è Osamu!” Esclamò con un gran sorriso.

“Ah, già, Osamu,” ricordò Mori. “Dazai Osamu.”

Ed ecco che il circolo dei suoi pensieri ricominciava da capo, senza trovare un punto fermo.

Il destino venne in suo soccorso. 

Dopo quelli che sarebbero potuti essere pochi minuti o intere ore, qualcuno bussò violentemente al portone d’ingresso.




 

Dal modo in cui insistevano, non c’erano dubbi: era un’emergenza.

Mori non aveva tempo per l’ennesima rissa tra piccole bande finita in lame e pistole, così si prese tutto il suo tempo per uscire dallo studio e attraversare l’atrio. “Arrivo…” Ripeté un paio di volte, pigramente. “Arrivo…”

“Non è così che si comporta un vero medico, Rintarou,” lo rimproverò Elise, dietro di lui.

“C’è ancora una questione aperta sul fatto se sia un vero medico o no,” ribatté Mori. Non c’era nessuna laurea da incorniciare, non per lui. Nessuna bella proclamazione con un bel completo nuovo, le foto di rito e un brindisi finale. Era stata la Grande Guerra a dargli l’abilitazione. Con ogni probabilità, il superiore che lo aveva dichiarato dottore in medicina ora si trovava tre metri sotto terra e nemmeno tutto intero. Se era stato fortunato, lo avevano seppellito a casa, circondato dai suoi cari. In caso contrario, giaceva in una fossa comune e il suo nome era scolpito in un elenco di cento e più, su di un memoriale da qualche parte, in Europa.

Oltre i vetri, Mori vide la stoffa colorata del kimono e i capelli rossi di chi batteva i pugni con disperazione contro la sua porta e si pentì del suo menefreghismo. Percorse gli ultimi metri di corsa.

Quello che si ritrovò davanti non gli piacque per nulla: la ragazza, appena una donna, aveva il viso ricoperto di sangue - saltavano subito agli occhi il naso rotto e lo zigomo gonfio - e di trucco colato. Mori la conosceva.

“Perché ci hai messo tanto?” Kouyou non aveva più voce per urlargli contro.

Mori non perse tempo in scuse: si passò il braccio di lei intorno alle spalle e la portò via dalla strada. Nella confusione, aveva fatto sparire Elise, ma se ne accorse solo dopo che ebbe aiutato la giovane donna a sedersi sul lettino della sala visite.

“Che diavolo ti è successo?” Domandò, accendendo la lampada circolare sopra di loro. D’istinto, Kouyou abbassò lo sguardo e Mori ebbe una quadro più chiaro dello stato in cui versava: la bella stoffa del kimono era stata strappata in più punti, il braccio destro era scoperto e così la gamba sinistra. Il medico già poteva intuire la forma degli ematomi che sarebbero comparsi in poche ore sulla pelle pallida.

Con tutta la gentilezza di cui era capace, Mori prese il viso di Kouyou tra le mani e la costrinse a guardarlo - da principio non se ne era accorto, ma l’occhio destro era gonfio e cominciava a farsi scuro. “Kouyou, riesci a riconoscermi?” 

Aveva inveito contro di lui con molta determinazione, nonostante lo stato in cui versava, ma c’era qualcosa nel suo sguardo che non lo convinceva. “Che cosa ti hanno dato?” Domandò, liberandole il viso dai lunghi capelli rossi. Nel gesto, l’ultimo pettinino rimasto al suo posto cadde a terra, lasciando la bella chioma completamente sciolta.

Mori Ougai era un assassino. Nulla poteva cambiarlo e non lo avrebbe mai negato, ma c’era qualcosa in quella violenza priva di significato che gli dava sui nervi. O forse, più semplicemente, quella fanciulla faceva parte della sua vita da troppo tempo perché gli fosse indifferente. Anche se questo presupponeva che avesse un cuore.

“Kouyou?” Mori la chiamò di nuovo. Dal modo in cui lo guardò, il medico seppe che era cosciente di dov’era e di chi era il suo interlocutore, ma aveva usato le poche forze che le erano rimaste per correre fino a lì. La guancia di Kouyou aderì stancamente al palmo di Mori. 

“Ti aiuto a stenderti.” Era importante che lui le dicesse perché la toccava. Percepiva il desiderio di lei di spingerlo via, di mettere fine a ogni contatto fisico. Kouyou però non si muoveva: contro ogni istinto, prevaleva la certezza che Mori Ougai l’avrebbe aiutata. Non era la prima volta. 

Ben consapevole che un dialogo non fosse possibile in quelle condizioni, Mori preparò una flebo per combattere la droga che ipotizzò le avessero dato. I codardi avevano giocato bene le loro carte: anche la miglior assassina della Port Mafia dotata di abilità avrebbe vacillato, se avvelenata nel modo giusto.

E Kouyou era molto promettente, ma non era ancora a quel livello. Aveva solo diciotto anni, maledizione.

La parte peggiore era che non poteva chiederle cosa le avevano fatto di preciso e Mori non poteva perdere tempo, non col rischio di un danno interno e invisibile. Provò a toglierle i vestiti e Kouyou gli afferrò i polsi, mossa da nuova forza.

“No… Non mi hanno… Non…” Lei scuoteva la testa e tremava, parlare le era difficile.

Mori prese un respiro profondo. “Anche se non ti hanno violentata,” disse lentamente, in modo che lei potesse comprendere le sue intenzioni, “da quel che vedo, ti hanno presa a calci e pugni. Un addome contratto in modo anomalo è sintomo di una lesione interna che potrebbe ucciderti, ma non posso valutarlo con tutti questi strati di stoffa addosso.”

Lei strinse le labbra, ancora rosse per il rossetto sbavato e gonfie per le botte. Lasciò cadere le braccia ai lati del corpo, come una bambola priva di vita.

Mori fece il suo lavoro, poi - per quel che era in suo potere - si assicurò di restituirle la dignità che meritava.




 

Mori non chiuse occhio quella notte. Nemmeno quando il sole si alzò su Yokohama, proclamando l’inizio di un’altra giornata d’inizio autunno - o fine estate? Non ricordava di preciso che giorno fosse- il medico riuscì a togliersi i vestiti formali che Hirotsu gli aveva procurato. Si liberò solo delle scarpe, sostituendole con un paio di pantofole a forma di coniglietto, che Elise aveva scelto per lui durante uno dei loro week end di shopping.

Erano morbide e quella era una bella novità, in confronto alle scarpe di vernice nera che gli avevano massacrato i talloni. Mori adocchiò le calzature abbandonate in un angolo, vicino alla porta. Da quel momento in avanti, quella sarebbe stata la sua vita? Scarpe lucide, camicia stirata, una giacca nera cucita su misura.

L’esteta che era in lui - quello che sua madre aveva tentato in tutti i modi di coltivare - urlava di gioia. Il suo lato pigro, che lo contraddistingueva e per cui nessuno della sua famiglia poteva essere biasimato, fissava il vuoto con fare rassegnato.

Tutto quel che si era concesso era un caffè americano - preso dal bar nella via dietro alla clinica, perché da solo non riusciva nemmeno a farsene una tazzina - che ora si rigirava tra le mani, sorseggiando pigramente, in attesa che la bella addormentata sul lettino si svegliasse.

In totale, Kouyou dormì cinque ore, prima di riprendere i sensi. 

“Bentornata.” Mori l’accolse con un sorriso amichevole, allontanandosi dalla parete per arrivarle accanto. L’occhio pesto era fasciato, per lo zigomo e le labbra gonfie c’era poco da fare. Per coprirla, Mori le aveva messo addosso una tunica operatoria che non era il massimo della qualità - era più carta che stoffa - ma che faceva il suo lavoro: non le avrebbe dato fastidio alle medicazioni e celava tutto quello che c’era da celare.

“Come ti senti?” Domandò Mori.

Nonostante la brutta nottata, Kouyou gli rivolse un sorrisetto sarcastico. “Non riesci a risponderti da solo, dottore?”

Mori era felice di sentirla così: più dimostrava il suo bel caratterino, prima si sarebbe rimessa in piedi. Prese un altro sorso del suo caffè, più lungo degli altri, poi posò la tazza di cartone sul carrello operatorio lì accanto. Si fece serio di colpo. “Che cosa è successo?”

Il sorriso di Kouyou divenne meno tagliente. Doveva avere ancora della droga in circolo, perché Mori ebbe l’impressione che fosse orgogliosa di lui. “Lunga vita al Boss,” disse lei.

Lui alzò gli occhi al cielo. “Se ti dicessi che sono già stanco di questo cerimoniale, mi crederesti?”

“Sulla parola.”

“E se me lo dici dopo che ti sei presentata alla mia porta in queste condizioni,” intuì Mori, “qualcosa mi suggerisce che è colpa mia.”

Kouyou scosse la testa. “No, la colpa è di chi ha messo simili pezzi di merda al potere. L’uomo da biasimare è morto e spero che lo abbia fatto soffrendo.”

Mori scrollò le spalle. “Mia cara, dovevo essere veloce.”

“Troppo comodo,” commentò lei. “Non lo meritava, non da te.”

“Quel che è fatto è fatto,” tagliò corto Mori. “L’autore della pagina peggiore della Port Mafia è cenere. Da come ti hanno ridotta, deduco che le conseguenze delle mie azioni sono ricadute su di te e sulle altre ragazze.”

Kouyou inspirò dal naso profondamente. “Sono stata una stupida-“

“Non biasimarti per crimini che non sono tuoi,” la interruppe Mori. “Che cosa è successo?”

“A tarda notte, il Guercio e Casinò sono scesi nella Casa dei Fiori, chiedendo delle ragazze per loro e gli uomini della loro scorta,” raccontò Kouyou. “Non sapevo niente di-“

“Non dovevi saperlo.”

“Pensavo me lo avresti detto.”

“Non volevo renderti complice di qualcosa di cui non potevo prevedere la fine con certezza. Mezzo passo falso e sarebbero venuti da te a festeggiare con la mia testa.”

Kouyou storse la bocca in una smorfia. “Non ci voglio nemmeno pensare.”

“Il Guercio e Casinò,” riprese Mori. “La peggior feccia che abbia mai avuto il titolo di Dirigente. Che hanno fatto?”

Kouyou fissò un punto qualunque di fronte a sé. “Pensavo fosse solo una notte peggiore delle altre. Dover recitare la parte alla perfezione di fronte a clienti disgustosi e cose così…”

“E…?” La incalzò Mori.

“Casinò mi ha offerto da bere,” raccontò Kouyou. “C’era il solito clima da festa nella sala principale della Casa, non ho visto chi mi ha preparato quel drink o con cosa. Non mi sarei dovuta distrarre.”

Mori le appoggiò una mano sul polso, nel caso avesse avuto bisogno di un appiglio. “Non devi giustificarti, non c’è ragione. Vai avanti.”

“Lo hanno fatto a posta.” Kouyou era lì, con Mori, ma la sua mente era ferma a quella sala affollata - le ragazze coi kimono colorati da una parte e gli uomini in nero dall’altra. “Mi hanno drogata per prima perché sono l’unica dotata di abilità. Neutralizzata me, pensare a tutti gli altri è stato abbastanza facile.”

“Definisci pensare a tutti gli altri.”

Kouyou chiuse l’unico occhio visibile e strinse le labbra. 

Mori seppe che non avrebbe aggiunto altro. “Andrò a vedere di persona.”

Fu lei ad afferrargli la mano. “No, Mori, no.”

Il nuovo Boss della Port Mafia, che aveva molta fantasia e poteva quasi figurarsi quello che avrebbe trovato, piegò le labbra in un sorriso terribile. “Era il regno di mia madre. Ho passato più tempo lì di quanto ne abbia trascorso nei cinque grattacieli. Ci sono cresciuto, ci sei cresciuta anche tu - anche se abbiamo avuto due esperienze molto diverse. Non sono un sentimentale, ma tu sì ed è per questo che non vuoi che vada: sai che mi troverei davanti le macerie dell’ultimo ricordo della mia infanzia. Alla fine, il Boss Folle - o i suoi cani, che sia - è riuscito a cancellare davvero tutta la Port Mafia, come io la conoscevo.”

Kouyou ingoiò aria dalle labbra tremanti. “È stato un bagno di sangue.”

Mori annuì distrattamente: il suo non era menefreghismo, stava andando avanti con la mente a quando avrebbe regolato i conti, ucciso chi doveva uccidere - lentamente questa volta. Doveva solo decidere chi coinvolgere. 

Non gli era stato dato il tempo di elaborare la sua prossima mossa, la prima da Boss, ma gli era stata offerta su un piatto sporco del sangue dei figli della Port Mafia stessa.

C’era una regola non scritta nell’organizzazione: la violenza era parte del gioco, ma se commessa tra le mura di casa, diveniva crimine.

Vista la situazione, Mori aveva il dovere di fare giustizia.

La sua riflessione fu veloce. “Qui sei al sicuro, Kouyou,” disse, abbandonando le sue adorabili pantofole a forma di coniglietto per tornare alle scarpe di vernice. “Non ti muovere. Aspetta che torni.”

“E dove vai?”

Mori si bloccò a metà dell’atto d’infilarsi la giacca sopra la camicia: Dazai era comparso sulla porta della stanza. Aveva ancora addosso la sua maglietta extra-large e l’espressione imperturbabile della notte precedente. Il medico aprì la bocca per rispondere, ma il ragazzino fu svelto a portare l’attenzione sulla nuova arrivata.

“Ciao,” disse Kouyou, con un sorriso curioso, mentre cercava di mettersi seduta.

“Ciao,” rispose Dazai, senza alcuna intonazione particolare.

“E tu da dove sbuchi?” Domandò lei.

Mentre si aggiustava la giacca sulle spalle, Mori pensò che lo avesse preso per un ragazzino più piccolo di quello che era. Errore comprensibile.

“Dazai, lei è la signorina Ozaki Kouyou,” fece le presentazioni. “Mia cara, lui è Dazai Osamu. Un cucciolo randagio che ho raccolto di recente e preso sotto la mia custodia.”

Quella scelta di parole gli fece guadagnare un’occhiata storta da parte del ragazzino.

“Hai dormito, almeno?” Domandò Mori, studiandolo. In sua assenza, non sembrava essersi inferto altre ferite.

Dazai si limitò ad annuire. “Che le è successo?” Domandò, indicando Kouyou con l’indice destro.

Mori sospirò, esaurì la distanza tra loro e lo costrinse ad abbassare la mano. “Non ti hanno insegnato a non indicare?”

Il ragazzino si limitò a scrollare le spalle.

Il neo-Boss fece appello a tutta la pazienza che la sua stanchezza gli permetteva di raccogliere, poi parlò a voce abbastanza alta perché entrambi i suoi ospiti potessero sentirlo. “Quanto è accaduto questa notte ha avuto delle conseguenze,” si rivolse a Dazai. “Vado a occuparmene. La signorina è una sopravvissuta, nostra ospite e paziente. Ho fiducia nel fatto che tu le faccia compagnia e che pensi ai suoi bisogni.”

Dazai mostrò il braccio fasciato. “Sono ferito anche io.”

“Ma hai due belle gambette dritte che funzionano alla perfezione. Se chiederà un bicchiere d’acqua, non credo che morirai di fatica nel portarglielo.”

Il ragazzino gli fece la grazia di non replicare. Quell’unico occhio scuro lo fece sentire come se un buco nero volesse risucchiarlo, ma Mori fu svelto a voltare lo sguardo e mettere un primo piede in corridoio. “Mi raccomando, Dazai.”





 

Nonostante le basse - quasi inesistenti - aspettative di Mori, Dazai non si limitò a portare all’ospite un bicchiere d’acqua. 

Il ragazzino si prese il suo tempo per perlustrare la cucina e la pazienza lo ripagò: trovò dei filtri di té che non avevano l’odore e l’aspetto di veleno in polvere. L’idea gli parve invitante e mise a bollire un po’ di acqua per sé e quella giovane donna.

Quando tornò nella sala delle visite, Kouyou accettò la sua tazza con un sorriso cortese. “Ti ringrazio.”

Dazai rimase in piedi, come pietrificato.

“Puoi sederti, se vuoi,” gli concesse Kouyou.

Dazai prese un angolino per sé in fondo al lettino, in modo da non disturbare.

“A te cosa è successo?” Domandò la giovane donna, curiosa.

“Ho tentato di uccidermi,” disse Dazai, come se stesse parlando del sole che splendeva fuori dalla finestra. Prese un sorso del suo tè, ignorando deliberatamente il cambio di espressione della giovane donna. “Sei un’assassina?”

Kouyou tornò in sé. “Sì, un’assassina addestrata della Port Mafia.”

“E come hanno fatto a ridurti così?”

Kouyou si umettò le labbra, ormai ripulite dal rossetto scarlatto. “Ho commesso un errore.”

Dazai scosse la testa. “No, io non credo.”

Kouyou inclinò la testa da un lato. “Non sai neanche che cosa è successo.” Quel ragazzino era strano, a tratti sinistro. Ma se Mori lo aveva lasciato in sua compagnia, non c’era da preoccuparsi, no?

Dazai puntò l’unico occhio sano su di lei. “L’errore lo ha commesso chi non ti ha uccisa,” disse, schietto. “Se non fossi venuta qui, forse chi ti ha fatto questo sarebbe riuscito a occultare ogni cosa. Mori dice che metà della Port Mafia non lo vede di buon occhio. Devono essere tante persone.”

“Non la metà,” lo corresse Kouyou. “Sono molti di più a sostenerlo, ma sono spaventati.”

“I codardi non possono definirsi alleati.”

“Le persone non sono codarde,” ribatté Kouyou. “Sono solo persone, hanno il diritto di essere spaventate. Chi di loro desidera un cambiamento, non resterà nell’ombra.”

“Non ne sono sicuro.” Dazai sorseggiò il suo té. “Tutto quello che so della Port Mafia è quello che mi dice Mori e quello che mi stai dicendo tu adesso.”

“Come ti ha trovato Mori?”

“Non lo posso dire,” rispose Dazai, sbrigativo. “Come ha trovato te?” Rilanciò.

Kouyou ridacchiò. “Non mi ha trovata,” rispose. “Quando è tornato a Yokohama, ero già qui. Mi stavano addestrando nella Casa dei Fiori.”

“Che cos’è la Casa dei Fiori?”

“È la casa dove le ragazze vengono addestrate a divenire assassine letali o amanti indimenticabili. A volte, tutte e due. Un tempo, prima del Boss Folle, eravamo persone con una libertà di scelta.”

Il ragazzino corrugò la fronte. “C’è gente che sceglie di vendersi ad altra gente?”

Le labbra di Kouyou vennero graziate da un sorriso paziente. “Non è per forza così rude come lo fai passare. È un lavoro,” spiegò. “Nei luoghi sicuri, le cose non vanno come per strada. La Port Mafia ha smesso di essere un luogo sicuro, tutto qui.”

“E per strada sei mai stata?” Il modo in cui Dazai era diretto, quasi completamente privo di tatto, avrebbe infastidito chiunque.

Kouyou non riusciva a innervosirsi. Guardava quel ragazzino, provava a indovinarne l’età - non ci riusciva - e si diceva che doveva averne passate, se aveva deciso che la morte fosse l’unica via. Eppure, le si rivolgeva come se il mondo gli fosse estraneo. O forse no, non era il mondo. Erano le persone.

“Parli così tanto anche con Mori?” Domandò Kouyou.

“È Mori che parla tanto.”

La ragazza rise. “Sì, a lui piace da morire ascoltare il suono della propria voce.”

“Siete amanti?” Dazai lo buttò lì, senza alcun pudore.

Kouyou sgranò gli occhi, ma non perché fosse imbarazzata. Si rese conto che, di tutti gli uomini che erano entrati e usciti dalla sua vita, Mori Ougai era l’unico a cui non aveva mai pensato in quel modo. “Siamo amici,” ribatté.

Dazai storse la bocca. “Mori non può avere amici,” replicò. “I Demoni non li hanno.”

“Pensi che Mori sia un Demone?”

“Ci si è definito da solo.”

“Perché è un tragico per natura, Dazai.” Nonostante fosse tutta indolenzita, Kouyou rise di nuovo. Un battito di ciglia dopo, divenne seria. “È l’unico uomo che non mi ha mai mentito.”

Dazai abbassò la tazza e lei dedusse che quella parte del discorso lo interessava.

“Non è la prima volta che mi raccoglie in uno stato pietoso,” raccontò lei. “Non conoscevo questo posto. La prima volta, mi ci ha portato lui. Col senno di poi, penso che abbia solo visto un’assassina dotata di abilità e abbia ben pensato di averla dalla sua parte. Però andiamo d’accordo.”

“E perché dici che è l’unico che non ti ha mai mentito?”

“La strada per divenire Boss della Port Mafia è una strada verso il potere. Non credo che Mori lo desiderasse, non nel modo in cui una persona comune può immaginarlo. Quando ne parlava, era più come se non avesse altra scelta. Da parte mia, lo ascoltavo ma non l’ho mai preso sul serio. Un giorno, dopo l’ennesima volta che mi raccoglieva in stato pietoso, penso di aver detto qualcosa sul correre alle torri, uccidere chi potevo e morire ribellandomi. Mori mi ha calmato, rassicurandomi che non sarebbe stato necessario, che gli oppressi non avrebbero dovuto pagare nessun altro tributo di sangue. Alla fine, mi ha promesso che mi avrebbe fatta sedere lassù,” indicò il grattacielo nero, visibile dalla finestra. 

“E tu che hai fatto?”

“Gli ho riso in faccia.” Kouyou non ci trovava nulla da ridere, ora. “Non credevo lo avrebbe fatto sul serio.”

Dazai sbuffò. “Quando parlate di lui, vi dividete in chi lo definisce un impostore e chi un salvatore. Non è un sovrano impavido che ha liberato un popolo dall’oppressione di un despota. Ha solo tagliato la gola a un vecchio folle, incapace di alzarsi dal suo letto. Non è un’impresa gloriosa.”

“Non ci sono imprese gloriose nella Mafia. Nessuno di noi è una brava persona,” disse Kouyou. “Siamo figli delle tenebre. Demoni, forse. Ciò non toglie che siamo venuti in questo mondo piangendo per avere un po’ di calore. Qualcuno di noi lo ha avuto e lo ha perso. Qualcun altro non lo ha mai conosciuto.”

“Mori ha detto di aver avuto un padre,” ricordò Dazai.

Kouyou prese un respiro profondo. “Sia io che Mori apparteniamo alla categoria che ha avuto e poi perso. Lui conosce la mia storia per intero. Io di lui so solo quello che raccontano tutti. Ma ora ho un pensiero che mi martella in testa con insistenza.”

“Quale sarebbe?”

“Di solito, sono brava a leggere le persone,” disse Kouyou. “È il mio lavoro, se così possiamo dire. Sia quando devo dare piacere, sia quando devo uccidere, devo capire chi ho davanti.” Fece una pausa. “E io ti sto studiando con attenzione da quando sei entrato nella stanza, ma non riesco a intuire una singola cosa di te.”

Dazai vuotò la sua tazza di tè con un ultimo sorso. “Perché io sono il nulla.”




 

La Casa dei Fiori non faceva riferimento a un singolo edificio, ma a un intero quartiere. Era costruito interamente in stile tradizionale e si trovava al centro preciso delle cinque torri nere della Port Mafia, glorioso esempio dell’architettura occidentale contemporanea. L’intero complesso era circondato da giardini, anche da un piccolo parco di alberi di ciliegio e attraversato da un fiumiciattolo artificiale. Mori Ougai lo ricordava come un luogo sospeso nel tempo, una bolla incantata a un passo dalla più estrema modernizzazione. In quella bolla, sua madre - signora della Casa dei Fiori - aveva cresciuto lui e le sue sorelle, addestrando una nuova generazione di donne della Port Mafia a sbocciare e andare nel mondo.

In adolescenza, Mori, troppo bramoso di conoscenza, l’aveva definita una gabbia. Dorata, certo, ma pur sempre una gabbia.

Era stato accontentato: la gabbia era andata distrutta.

I cadaveri delle giovani non erano tutti uguali. Alcune avevano ancora i vestiti addosso, solo sporchi di sangue. Altre erano buttate a terra, come pezzi di carne avanzati dopo un lauto pasto.

Hirotsu faceva fatica a restare di fronte a quella scena senza battere ciglio: aveva conosciuto quelle fanciulle, alcune le aveva anche addestrate. Tra di loro, vi erano donne veterane che erano state novelline insieme a lui. Erano figlie della Port Mafia, dalla prima all’ultima, poco importava che alcune di loro fossero state raccolte dalla strada da piccole e non potessero vantare nessun nome importante. Suo malgrado, per quei morti non poteva fare più nulla. 

C’era qualcosa che turbava l’uomo col monocolo più di quel bagno di sangue ed era il giovane Boss alla sua sinistra.

Gli uomini della Black Lizard raccoglievano i corpi, li chiudevano in sacchi neri e li portavano nell’obitorio del quartier generale. Il mondo esterno non avrebbe mai saputo di quella tragedia. Ogni nome sarebbe stato scritto negli archivi della Port Mafia e nessun cadavere sarebbe mai uscito da lì. Tombe, funerali, commemorazioni: di fronte alla possibilità di mettere a rischio l’integrazione dell’organizzazione, tutto veniva meno.

E Mori Ougai se ne stava di fronte a quello spettacolo raccapricciante senza dire una parola, con l’espressione imperturbabile di un uomo che era abituato a simili massacri in modo innaturale.

Anche se nessuno gli aveva chiesto di parlare, Hirotsu sentì la necessità di spezzare il silenzio. “Quando siamo arrivati, abbiamo trovato in mezzo ai corpi il Dirigente che conoscete come Casinò. Era completamente su di giri e delirava. Mi sono preso la libertà di arrestarlo come traditore e trattenerlo.”

Mori annuì una volta. “È nelle segrete?”

“No,” rispose Hirotsu. “È in uno dei furgoni blindati qui fuori, pensavo che-“

“Portalo qui.”

“Signore?”

Gli occhi di Mori Ougai rifletterono delle sfumature violacee nel guardarlo. “Portalo qui, Hirotsu.”

Il leader della Black Lizard non poteva permettersi di esitare. Chinò la testa e fece quanto gli era stato detto. Tornò meno di cinque minuti dopo, con un due uomini armati e il prigioniero.

Casinò venne costretto in ginocchio, al cospetto del Boss. Il viso di Mori divenne una maschera di puro disgusto. “Hai ancora le braghe calate.”

Il prigioniero non rispose, ma i suoi occhietti da maiale erano colmi di risentimento: lo avevano imbavagliato per impedirgli di urlare come un ossesso.

Mori lanciò un’occhiata a Hirotsu. “Lasciate che parli.”

Il leader della Black Lizard tolse il bavaglio e subito la voce stridula di Casinò coprì il silenzio. “Che cosa pensi di fare, moccioso bastardo?” 

Mori sbuffò. “Ho superato i trent’anni. L’etichetta di moccioso possiamo anche togliermela di dosso, no?”

La calma con cui parlava, quella in cui si muoveva, tutto faceva tendere Hirotsu come una corda di violino. Conosceva Mori Ougai da tantissimi anni - dai tempi in cui ancora si chiamava Rintarou - e già allora aveva visto in quel ragazzino una bomba pronta a esplodere. Si era illuso che avesse brillato la notte prima, con l’assassinio del Boss Folle e la sua ascese al potere. Evidentemente, quella era stata solo la miccia. Il vero Mori Ougai doveva ancora mostrarsi al mondo.

“Facciamo un sunto,” disse il neo-Boss, gesticolando in aria. “Il vostro vecchio leader passa a miglior vita, dopo una lunga, estenuante stagione di malanni. Il sottoscritto viene nominato suo successore, con tanto di testimone e, come se non bastasse, ottiene l’appoggio di due Dirigenti su quattro. Uno di questi, il Generale, gira tra i corridoi della Port Mafia da prima della Grande Guerra e fa a tutti un discorso molto realistico della posta in gioco ma, no…” Mori scosse la testa. “Tu e quel Guercio dovevate fare i capricci e sottolineare quanto detestabile è la mia presenza. E quale modo migliore di farlo, se non uccidendo donne e ragazzine appartenenti alla Port Mafia stessa?”

Casinò ingoiò a vuoto. L’intento glorioso per cui si era reso complice di quella strage doveva improvvisamente aver perso mordente. 

“Dov’è il Guercio?” Domandò Mori, sfoderando la pistola da dietro la schiena, come se fosse un oggetto da nulla.

Hirotsu strinse le labbra: uccidere un Boss demente era una cosa, far strage del suo lascito appena la mattina dopo era un azzardo, sebbene giustificato. Casinò era un uomo solo, ma dietro di lui vi erano agganci, amicizie politiche, risorse di cui era responsabile. Tutte ricchezze che sarebbero andate perdute con una pallottola, se solo Mori avesse deciso di sparare.

Di fronte all’arma, la rabbia con cui Casinò si era scagliato contro il nuovo Boss divenne come polvere al di vento. “Non è stata una mia idea!” 

Mori si massaggiò la fronte. “Non ho dormito, risparmiami questo caos inutile.” Il braccio era ancora rilassato lungo il fianco.

“È stata un’idea di quel Guercio maledetto!” Continuò Casinò. “Andiamo alla Casa dei Fiori con tutti gli uomini, ha detto! Dimostriamo chi siamo con una prova di forza, ha dett-“

Il colpo di pistola fece sobbalzare tutti i presenti. 

A dispetto di quello che Hirotsu aveva temuto, la pallottola non trapassò il cranio del Dirigente, bensì lo colpì all’inguine.

Mori s’imbronciò. “Ho mancato il bersaglio,” disse, scontento, mentre le urla del prigioniero coprivano quel silenzio di morte. Il Boss si allontanò da quell’essere grottesco per arrivare al fianco di Hirotsu. “Portatelo nella sala delle torture,” disse, afferrando la spalla del veterano. “Qui la cosa è stata veloce. Hanno drogato pesantemente le più abili e hanno fatto quel che volevano col resto. Deve essere durato tutto due, massimo tre ore.”

Hirotsu aggrottò la fronte. “Da dove intuite tanti dettagli?”

“Kouyou è alla mia clinica,” rispose Mori. “È riuscita a fuggire.”

Il leader della Black Lizard annuì due volte. “Capisco.”

Mori rimise la pistola al suo posto. “Se queste donne hanno resistito tre ore, in netta minoranza, drogate e prese alle spalle… Voglio che Casinò vada avanti almeno per ventiquattro. E assicuratevi che prima di liberarci della sua disgustosa presenza, ci dica dove si trova il suo compare di baldoria."

Hirotsu annuì due volte. “Ai vostri ordini, Boss.”




 

—————————————————————————

Note:

[1] Riferimento al fatto che il vero Mori Rintarou nacque da una famiglia di samurai che serviva da generazioni come medici i Daimyō del feudo di Tsuwano (attuale prefettura di Shimane). 

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Bungou Stray Dogs / Vai alla pagina dell'autore: Ode To Joy