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Autore: smarsties    14/03/2022    3 recensioni
[Modern!AU - Duncan/Courtney - accenni Scott/Courtney e Duncan/Gwen]
Ciò che accomuna Duncan e Courtney è che entrambi devono essere a Toronto entro sabato. Bloccati in aeroporto a Filadelfia, a tre giorni da quello che potenzialmente potrebbe essere il weekend più importante delle loro vite, si ritrovano a condividere un folle viaggio in auto verso la metropoli canadese.
Sarebbe un vero peccato se la situazione, già tragicomica di suo, si rivelasse l'occasione perfetta per far venire a galla dubbi e incertezze. Ancora più esilarante sarebbe se, nel mentre, cominciassero a provare qualcosa l'uno per l'altra.
-
«Ma guarda chi si rivede! Certo che il mondo è proprio piccolo!»
A tre passi di distanza, lo sconosciuto di poco fa la fissava, con la testa leggermente inclinata e gli angoli della bocca tesi verso l’alto. C’era qualcosa in quel mezzo sorriso che le faceva prudere le mani.
«Di nuovo tu, che gioia!» esclamò con quanto più sarcasmo possibile, mettendo via il telefono. «Comincio a pensare che tu sia uno stalker.»
«Non lo sono, però ammetto che ti stavo seguendo.»
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Courtney, Duncan, Gwen, Scott | Coppie: Duncan/Courtney
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
Capitoli:
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Quattro







«Voglio un bambino.»

Courtney per poco non si strozzò.

«Con i nostri geni assieme, non solo verrebbe fuori una meraviglia, ma sarebbe anche intelligentissimo» continuò a farfugliare Scott. «Io potrei insegnargli a intagliare, mentre tu a suonare il violino. Già ci vedo, noi tre in un bel cottage fuori città.»

I suoi erano deliri dettati dalla febbre alta, ma era consapevole che dietro essi si celava davvero il desiderio di metter su famiglia.

Onde evitare di morire soffocata, poggiò il bicchiere d’acqua sul comò e si girò dalla sua parte per rimboccargli le coperte.

«Un passo per volta» sussurrò lei, sfiorandogli le guance bollenti col dorso della mano. «Prima pensiamo a sposarci, poi ne riparliamo.»

Avrebbe fatto in modo che non ci sarebbe stato nessun poi.

Perché lei non voleva un bambino.









[ Venerdì 23 aprile – Lighthouse Landing Campground, Marathon, New York ]



Avrebbe potuto essere un risveglio bucolico, tra il cinguettio degli uccelli e i pallidi raggi del sole a bagnarla. Peccato solo per la posizione non proprio ottimale, che aveva finito con l’intorpidirle i muscoli. Nonostante ciò, avrebbe dormito volentieri per un altro quarto d’ora.

Si stiracchiò lentamente, sbattendo più volte le palpebre e mettendo a fuoco lo schienale del sedile anteriore. Intanto che le immagini della giornata precedente si facevano spazio nella sua memoria, le sue iridi si mossero verso il posto di guida, ma non vi trovò nessuno. Dovevano già essere giunti a destinazione. Quando si ridestò, però, comprese che c’era qualcosa che le sfuggiva: era nello stesso posto in cui s’era addormentata – stessi alberi, stesso lago, meno macchine e roulotte parcheggiate – e di Duncan non si vedeva nemmeno l’ombra.

Courtney si scrollò da dosso la sua felpa – ignorò che fosse impregnata del suo odore – e si fiondò fuori dalla Prius, cominciando a ispezionare i dintorni. E più non scovava la sua figura da nessuna parte, più sentiva un peso attanagliarle il petto – rabbia, si disse, perché quell’imbecille era sparito senza lasciare tracce.

Si ricordò di aver spento il cellulare. Magari aveva provato a contattarla.

Strabuzzò gli occhi quando lesse l’orario: le nove e cinque. La crisi di nervi era ormai prossima.

In rubrica, c’erano una chiamata persa alle due e trentatré e un messaggio vocale inviato tre minuti più tardi. Nient’altro. Ed erano passate la bellezza di sei ore e mezza.

Il peso in petto si era intensificato e tenere a bada la tachicardia era sempre più arduo. L’immagine di Duncan, privo di sensi e gravemente ferito, s’era infiltrata nella sua mente e non riusciva a cancellarla. Doveva ascoltare l’audio, ma era paralizzata dal terrore che quel sentore potesse tramutarsi in realtà.

Avrebbe voluto ammazzarlo a mani nude, perché non aveva nessun diritto di portarla ad un passo da un attacco di panico – perché era uno sconosciuto e tale doveva rimanere.

Il rumore di quattro pneumatici che avanzavano a fatica sullo sterrato le fecero rendere conto di trovarsi in mezzo ai piedi, immobile al centro della strada. La macchina inchiodò di colpo, alzando breccia e terra, e Courtney si voltò nello stesso istante in cui fece capolino dall’abitacolo un ragazzo dai capelli castani, schiacciati contro il cranio e il collo da un berretto rosso, e gli occhi del medesimo colore, contornati da pesanti occhiaie.

La salutò con la mano.

«Ciao! Per caso è tuo?»

Si aspettava di veder saltare fuori un animaletto domestico smarrito; invece, si trattava di una testa verde che aveva imparato a conoscere bene.

Si muoveva con passo lento, quasi strisciato. Aveva delle contusioni in faccia e in generale era messo uno schifo; perlomeno respirava ancora.

«¡Maldito idiota!» sbraitò Courtney, fiondandosi addosso a lui e colpendolo ripetutamente sulle braccia e sul petto. «¿Quieres llevarme a mi muerte?» (1)

Lui aprì la bocca, forse per chiedere la traduzione di qualunque improperio gli avesse gridato, ma riuscì ad emettere solo suoni stizziti, poiché impegnato a schivare l’uragano di pugni e sberle.

«Si può sapere dove diamine sei stato?»

«L’ho trovato mezzo svenuto davanti casa mia» intervenne il ragazzo sconosciuto. «Puzzava come un pub e ha vomitato sul mio vialetto, quindi provo ad azzardare l’ipotesi che ieri sera abbia bevuto un po’ troppo.»

Non aveva mai sentito così impellente l’urgenza di rimproverare qualcuno. Non solo non aveva mantenuto fede alla promessa data, ma aveva anche ben pensato di abbandonarla nel cuore della notte per sbronzarsi a tal punto da crollare tra i vicoli di una città sconosciuta.

«Comunque, l’ho rianimato con due ceffoni e, dopo aver perso altro tempo prezioso ad aspettare che gli si riattivassero le sinapsi, sono riuscito a scucigli delle informazioni» parlò nuovamente l’anonimo benefattore, con aria quasi scocciata. «E nulla, eccoci qua.»

«Grazie mille-»

«John» la interruppe, presentandosi. «E ringrazia il tuo amichetto perché, se non avesse sganciato cinque dollari, avrebbe dovuto trovarsi un altro passaggio. Purtroppo, io non scorrazzo in giro brutti loschi gratuitamente.»

«Ehi, John! Te l’avevo detto che era reale» esclamò Duncan con tono canzonatorio, inclinando il capo in direzione della ragazza.

Quello si limitò ad una smorfia.

«Ora tolgo il disturbo» si congedò. «Immagino che abbiate molto da raccontarvi.»

Courtney attese che la macchina ripartì, con un colpo di frizione e un rumore che non prometteva nulla di buono, prima di esordire con una minuziosa e intensa filippica, che minacciava di propagarsi per minuti interi. Duncan si era già accorto, dal modo in cui aveva gonfiato le guance, che stesse per esplodere e aveva provveduto ad allontanarsi di qualche passo.

«Sei il re dei deficienti! Mi spieghi quale fra i tuoi neuroni fulminati ti ha suggerito che fosse una buona idea farti Dio solo quanti chilometri a piedi e ubriacarti fino a perdere i sensi? E nemmeno hai avuto la decenza di avvertirmi! Mi hai fatta preoccupare da morire! E come hai fatto a ridurti la faccia in quel modo?»

Per la seconda volta in pochi minuti, provò a prendere la parola, ma ci ripensò quando incrociò i suoi occhi che, se avessero potuto, l’avrebbero ridotto in cenere seduta stante.

«Non solo sei un incosciente, ma pure un bugiardo! Mi hai mandata a dormire con la promessa che avresti guidato fino a Rochester durante la notte. E indovina dove siamo la mattina dopo? Nello stesso campeggio sperduto in qualche zona remota della Pennsylvania! Domani sera devo presenziare una cena con cinquanta invitati e per colpa tua sono ancora bloccata in un altro Stato!»

«Courtney-»

«Courtney un corno!» gridò istericamente, attirando su di sé l’attenzione di qualche curioso. «Non voglio sentire un solo fiato uscire dalla tua bocca! Ora, fila in macchina! Non ho intenzione di sprecare un secondo di più».









[ Cortland, New York ]



Lo spiacevole compito di rimproverarlo per il suo comportamento ingestibile era toccato spesso e volentieri a suo padre, ma erano le strigliate di sua madre che avevano sempre sortito più effetto. Erano sì più rade, ma capaci di farlo rimanere senza parole e, talvolta, persino di mortificarlo. Seguivano lunghi ed estenuanti silenzi, fino a quando non tracollava e strisciava a chiederle scusa.

Duncan non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi, un giorno, al cospetto della degna avversaria della sua genitrice.

Nei venti minuti che separavano Marathon da Cortland, Courtney non aveva staccato gli occhi dalla strada e non gli aveva rivolto né sgridate, né insulti. La tensione s’era gradualmente allentata, così come s’erano rilassate le sue labbra, e non teneva più la fronte corrugata. Aveva acconsentito ad una breve pausa per comprare qualcosa da sgranocchiare durante il viaggio e, di ritorno dal discount, si era persino procurata il necessario per medicargli le ferite – «Non voglio che qualcuno pensi che sia stata io a ridurti così» aveva subito tagliato a corto.

Era conscio, tuttavia, che la guerra fredda sarebbe terminata solo nel momento in cui avrebbe pronunciato la fatidica parolina magica.

«È solo acqua ossigenata» sbottò lei, notando come aveva stretto i denti quando gli aveva passato il batuffolo di cotone imbevuto sulle nocche.

«Lo so, ma brucia» si lamentò esattamente come avrebbe potuto fare un bambino. «E tu non hai esattamente una mano delicata.»

Premette più a fondo su una ferita, solo per vederlo trattenere un verso di dolore.

L’aveva fatto accomodare su una panchina poco distante dal parcheggio, per poter operare più comodamente, e aveva riempito il posto vuoto con una busta contenente gli attrezzi del caso. Gli aveva persino offerto una bottiglietta d’acqua ghiacciata, da appoggiare sopra l’occhio pesto.

Finito con le mani, si spostò a disinfettargli il labbro e a ripulirlo dalle tracce residue di sangue. Ricurva sul suo volto, gli faceva da parasole e si muoveva veloce e precisa, come se compiesse quelle azioni con cadenza quotidiana.

«L’ideale sarebbe fare dei risciacqui con l’acqua salata» spiegò, recuperando una pomata antidolorifica dalla pila. Svitò il tappo e ne applicò una goccia sull’indice sinistro. «Ma questo offre la casa. E dovresti anche tenere la testa elevata, per evitare che il labbro si gonfi ulteriormente».

«Fra i mille corsi che hai frequentato, ce n’era pure uno di primo soccorso?» domandò lui, curioso.

«Sono stata capogruppo in un campo estivo» raccontò, richiudendo il tubetto. «Ho dovuto imparare questo e molto altro – per citarne una, sarei in grado di usare un defibrillatore».

Il labbro smise di pulsare non appena gli spalmò la crema fresca sulla spaccatura.

«Dovevi proprio scegliere il giorno prima del concerto per ridurti la faccia in queste condizioni» borbottò Courtney, infilando una mano all’interno di una pochette nera e tastandone l’interno.

Accompagnata ad una fitta di dolore, gli ritornò alla mente la discussione accesa avuta con Chase e la convinzione con cui aveva affermato che, senza di lui, la band non sarebbe andata da nessuna parte. La lista di persone cui doveva delle scuse stava diventando un tantino lunga.

Assieme, sebbene non avesse diritto di sentirsi così, tornò anche la bruciante sensazione di aver un coltello conficcato fra le spalle.

«Ci sono buone probabilità che domani non mi esibisca» constatò con tono amaro, appoggiando di lato la bottiglia. «Vogliono sostituirmi anche loro.»

Lei interruppe la sua ricerca per guardarlo dritto negli occhi, con le sopracciglia inarcate e una tacita richiesta a spiegarsi meglio.

«Ricordi Gwen? Non ci siamo lasciati di comune accordo, ma ho scoperto che mi faceva le corna. Ho guidato fino a Gravenhurst per passare una giornata con lei e, ad aprirmi la porta, è stato l’amante» le narrò, il volto deformato da una smorfia. «E, siccome si sono convinti che io stia ritardando di proposito il rientro a Toronto, i ragazzi hanno trovato un rimpiazzo per il concerto di domani. Due situazioni diverse, ma la morale della storia è che sono stato tradito da fidanzata e amici nel giro di nemmeno due settimane». Esitò prima di aggiungere: «Certo, mi sarei potuto risparmiare l’uscita poco simpatica secondo cui, se il gruppo funziona, è soprattutto merito mio, ma-»

«Chi ti credi di essere?» tuonò Courtney, scioccata. «Fossi in loro, ti caccerei a calci in culo seduta stante! Il gruppo funziona perché lavorate in squadra, ognuno con le proprie idee e i propri punti di forza. Se avete ricevuto una proposta di contratto, non è solo per le tue doti, ma per quelle di tutti. Altrimenti, visto che sei tanto sicuro di te, scaricali e continua come solista.»

Duncan distolse lo sguardo, sentendo le guance scottargli per la vergogna. Gli aveva sbattuto in faccia la realtà dei fatti, e anche lui s’era accorto di aver esagerato, ma ascoltare quanto fosse stato superbo dalla voce di altri era una sensazione poco piacevole.

Non sarebbe andato da nessuna parte senza i suoi ragazzi. Suonavano insieme da quasi dieci anni, avevano condiviso sconfitte e successi ed erano cresciuti assieme, sia come artisti che come persone. Erano una famiglia.

Intanto che si appuntava a mente il discorso di scuse, Courtney era tornata con le mani dentro alla pochette e aveva tirato fuori una boccettina di vetro, con del fondotinta giallo al suo interno, e una spugnetta.

«Il giallo annulla il viola del livido» spiegò, applicando un po’ di prodotto sul dorso della sua mano. Picchiettò la chiazza con la spugnetta e, con cura maniacale, prese a coprirgli la ferita. «Già così va meglio, ma domani sera, per coprirlo del tutto, puoi completare con fondotinta del colore del tuo incarnato e cipria per fissare».

«Grazie» rispose. «Per tutto».

Gli sorrise timidamente.

«Quasi come nuovo» commentò poi, dando un’ultima controllata e riponendo gli attrezzi. «Mentre rimetto tutto a posto, puoi chiamare i tuoi colleghi e chiedere umilmente perdono lontano dalle mie orecchie poco discrete, così da non rovinare gli ultimi rimasugli della tua personalità da duro.»

«Che è quella che ti ha fatta innamorare di me, ammettilo» ammiccò Duncan, alzandosi dalla panchina e avvicinandosi a pochi centimetri dal suo viso. Resistette all’impulso di prenderglielo fra le mani, per constatare se fosse più piccolo di esse.

Lei gli diede un rapido buffetto sulla guancia, a mo’ di bonaria presa in giro.

«Non avrei dovuto allontanarmi dal campeggio» cominciò lui, con tono mesto. «Mi dispiace di averti fatta preoccupare.»

«Acqua passata, ma non lo fare mai più» lo ammonì, allungandosi di lato per afferrare i manici della busta. Prima di girare i tacchi, constatò con certezza disarmante: «E non conosco la situazione, ma se la tua ex ha ben pensato di tradirti, vuol dire che non ti ha mai meritato.»









[ Route 90, New York ]



Da quando si era lasciata Syracuse alle spalle e aveva imboccato la ramificazione in direzione di Buffalo, Courtney aveva iniziato a percepire un sempre più crescente senso di nausea.

Doveva essere stata colpa del sandwich di tonno, addentato in fretta e furia mentre conduceva l’automobile lungo l’autostrada. Evidentemente, il retrogusto strano non era una sua peculiarità, né era dovuto a delle spezie, ma era soltanto andato a male e, come risultato, il bolo alimentare le aveva provocato un bruciore insopportabile allo stomaco, minacciando di risalire l’esofago da un momento all’altro.

Aveva ancora quarantacinque minuti di strada davanti. Per fortuna, il diluvio delle due giornate precedenti sembrava essere un brutto ricordo e le condizioni atmosferiche che le si prostravano dinanzi – un sole raggiante e qualche adorabile nuvoletta bianca – erano finalmente consone alla primavera. Poteva vincere la battaglia, doveva solo stringere i denti e accelerare il passo.

L’immagine del test di gravidanza, abbandonato nella sua borsa assieme a portafoglio, fazzoletti e cianfrusaglie varie, la colpì come un fulmine a ciel sereno e il suo cervello le fece notare che, nell’ultima settimana, disturbi simili erano stati frequenti.

Un esempio era martedì mattina, quando solo il paracetamolo era stato in grado di lenire la forte emicrania con cui si era alzata – non gliel’avevano provocato il viaggio in aereo e l’imminente processo. O, almeno, non solo quelli.

Ancora, ieri dopo la colazione. Di certo, dopo un mese di dieta a base di fiocchi d’avena, ingurgitare un intero piatto di pancake ricoperti di sciroppo d’acero non era stata un’idea brillante, e, come se non bastasse, a scombussolarla ci avevano pensato anche i nascenti sentimenti per un tipo conosciuto ventiquattro ore prima. Non potevano, però, essere abbastanza da farla rinchiudere in un cubicolo a vomitare l’anima.

Doveva riempire la quiete assordante prima che l’avrebbero fatto le sue paranoie. Tese l’orecchio destro: con una gamba poggiata sul cruscotto e il cellulare tenuto in modo tale da riprendere tutta la faccia, Duncan era in videochiamata con il resto della band. Indossava le airpods, quindi poteva captare solo il cinquanta percento della conversazione: i consigli, le istruzioni, i “puoi suonarmelo ancora una volta?”, i versi intonati a bassa voce.

Era incredibile, notò Courtney, come in quel contesto avverso, senza uno strumento in mano, ping e connessione ballerina che rendevano difficile la comunicazione, e la batteria che si scaricava veloce, stesse facendo il possibile per ottenere risultati fruttuosi. E non c’era il minimo cenno di noia o frustrazione sul suo volto, solo il luccichio che gli illuminava lo sguardo ogni qualvolta nominava il suo lavoro.

Gli aveva raccontato come avesse faticato a trovare il proprio posto nel mondo, e come metà della sua famiglia non avesse mancato di farglielo pesare. Constatare quanto lo appassionasse il ruolo che s’era cucito addosso la riempiva di immotivato orgoglio.

Gli angolo della sua bocca erano curvi verso l’alto. Avvampò quando realizzò il motivo per cui stava sorridendo: era l’ingenua protagonista di un teen drama e si era presa una cotta per il bulletto dal passato tenebroso e l’animo tenero.

Si sforzò di cacciare fuori un motivo per avercela con lui – perché, ad un tratto, ha deciso di diventare attraente? Non poteva rimanere un rozzo cavernicolo? – ma era con se stessa che era arrabbiata – ti sposi dopodomani! Non dovresti nemmeno guardarlo!

Avrebbe voluto schiaffeggiarsi fino a smettere di formulare desideri totalmente irrazionali.

Fra poche ore sarebbe rincasata, non avrebbe più visto la sua faccia piena di piercing e, così com’erano apparsi, i sentimenti sarebbero annegati in qualche angolino remoto del suo cuore.

O non c’era nessuna cotta e a parlare erano gli ormoni impazziti a causa della gravidanza.

La sua bocca si era riempita di saliva. Presto o tardi, avrebbe rimesso.

«Ti senti bene? Sei pallidissima!»

Percepì una scarica elettrica propagandarsi per tutto il corpo dal punto in cui Duncan aveva poggiato la mano sinistra – sulla sua coscia, poco più sopra del ginocchio.

La persona che le restituì lo sguardo dallo specchietto retrovisore aveva, effettivamente, una brutta cera – le guance bianche, gli occhi spalancati e le labbra tese e ben sigillate. Non solo: dall’espressione stralunata, si poteva evincere con chiarezza che la sua mente era scossa da turbe e pensieri di ogni tipo.

Anche davanti al suo palese malessere, trovò le forze di mentire senza ritegno alcuno.

«Sto bene, non preoccuparti.»

Aveva dovuto deglutire prima di aprire bocca, perché nel frattempo la sua cavità orale si era trasformata in una piscina.

A giudicare dall’aria apprensiva con cui non l’aveva smessa di scrutare nemmeno per un secondo, non se l’era bevuta. Era sul punto di aggiungere altro, era palese dal modo in cui aveva fatto schioccare la lingua contro il palato.

«Sul serio», gli scostò delicatamente la mano dalla coscia, sfiorandone il dorso con le unghia solo per bearsi di quel contatto per un’altra manciata di istanti, «sto bene.»

Sospirò, segno che si era arreso alla sua testardaggine. Il nuovo centro dell’attenzione divenne l’autoradio; pigiava ogni tasto distrattamente, vagando da una stazione all’altra.

«Quindi, tu e gli altri avete fatto pace» osservò Courtney, non tanto per curiosità, quanto più per ignorare lo stomaco sempre più in subbuglio.

«Non ce la fanno a tenermi il broncio per più di mezza giornata» ghignò lui, alzando il volume per ascoltare meglio la voce di Florence Welch in Never let me go. «Mi vogliono troppo bene, tanto da rendermi partecipe alle prove via Skype. A proposito, posso usare il tuo caricabatterie?» chiese, indicando il cavetto bianco nel portaoggetti. «Il mio è nel borsone dentro al bagagliaio.»

Annuì.

«Da piccolo, avrei preferito tagliarmi un braccio piuttosto che ammettere i miei errori, oppure farmi aiutare da qualcuno» spiegò Duncan, attaccando il telefono alla presa della macchina. «Oggi, ho chiesto una mano ad uno sconosciuto e scusa a più di una persona. Ed è solo mezzogiorno! Sono fiero dei miei progressi.»

Nel parlare, non s’era scrollato di dosso il sorrisetto mellifluo nemmeno per un secondo, e Courtney comprese dove volesse andare a parare con quella pillola di saggezza.

«Bella mossa» ammise. «Peccato che non abbia bisogno di aiuto.»

Il suo organismo ritenne che quello fosse il momento migliore per contraddirla.

«Sei bianca come un lenzuolo!»

«Quindi?»

Il sapore acro era sempre più forte, scalava spietatamente il tubo esofageo.

«Quindi è chiaro che qualcosa non vada!» esclamò lui, come se la sua fosse la realtà assoluta. «E non capisco perché ti sia incaponita di voler guidare fino a Rochester.»

«Perché era tutto sotto controllo fino a cinque minuti fa!» gridò talmente forte da sovrastare la canzone alla radio. «Poi hai iniziato ad assillarmi, mi sono innervosita e- non ce la faccio più, devo vomitare!»









[ Lunedì 19 aprile – Toronto, Ontario ]



Ripeté a mente lo stesso calcolo per la terza volta. Il risultato fu lo stesso delle precedenti due volte: improbabile, ma non impossibile.

Seduta sul bordo del letto, Courtney teneva fra le mani il calendario e sfogliava avanti e indietro le pagine di marzo e aprile, controllando che non avesse saltato nemmeno un giorno – invano, perché le aveva fissate fino a memorizzarle.

Sette, quattordici, ventuno, ventotto. Trentadue.

Quattro giorni di ritardo.

L’ultimo rapporto doveva essere stato tra la seconda e la terza settimana, quindi in periodo di ovulazione.

Appoggiò il mento su una mano. Gli occhi erano ancora incollati su quei numeretti, ma aveva smesso di osservarli da un po’. Il cervello, al contrario, era perfettamente funzionante e le proponeva una serie di ragionamenti sconnessi.

Non poteva essere incinta, avevano usato le giuste precauzioni – ma ci sono microscopiche percentuali che non funzionino. Sì, ma non poteva essere quello il caso – non doveva essere quello il caso. Era il suo organismo che la ringraziava per le condizioni estreme e ansiogene cui l’aveva sottoposto nelle ultime due settimane. C’era da dire, però, che la pressione costante era sua compagna sin dalla tenera età, e questa non le aveva mai scombussolato il ciclo mestruale. E adesso era al quarto giorno di ritardo. Ma non poteva essere incinta. O sì?

«Ho caricato la valigia in macchina» le annunciò una testa rossa, facendo capolino dal corridoio. «Possiamo andare?»

Sollevò lo sguardo. Scott era spettinato, indossava una consunta tuta verde petrolio e sventolava avanti e indietro un mazzo di chiavi. Gli occhi grigi erano incollati su di lei e studiavano ogni suo microscopico movimento.

«Che guardi?»

«Controllavo le scadenze per un lavoro» rispose prontamente, come se quella bugia se la fosse preparata con largo anticipo, riponendo il calendario al proprio posto sul comodino.

Si rizzò, ma non lasciò la stanza fino a che non vi fosse più una singola pieghetta sulle coperte – «Ora possiamo andare». Il suo fidanzato scosse la testa, interdetto, nel frattempo che la seguiva lungo il corridoio.

«Non c’era bisogno che ti alzassi solo per accompagnarmi in aeroporto» gli ricordò, recuperando la borsa dall’attaccapanni e infilandoci dentro il naso, per accertarsi che non mancasse nulla. «È il tuo giorno libero, dopotutto. Avrei potuto prendere la navetta» aggiunse ad alta voce, quando era già sul pianerottolo e aveva pigiato il tasto dell’ascensore.

«Fino a venerdì ci vedremo molto poco» disse lui, chiudendosi alle spalle la porta e girando la chiave nella toppa, due volte in senso antiorario. La raggiunse e gli schioccò un bacio tra i capelli. «Voglio approfittare di ogni momento per stare assieme.»

Durante uno dei loro primi appuntamenti, Scott le aveva parlato dei suoi nipoti, due gemellini in età prescolare dai suoi stessi capelli rosso carota. Il padre non si era assunto alcuna responsabilità, quindi si era sentito in dovere di aiutare sua sorella Alberta a crescerli. Il rapporto che aveva con loro era speciale, aveva imparato ad amarli più della sua stessa vita.

L’esperienza, come Courtney aveva avuto occasione di constatare, l’aveva portato a coltivare un forte senso paterno – che aveva fatto breccia anche in Thomas, il suo fratellastro di dieci anni e il bimbo più timido e riservato sulla faccia della Terra. La sera in cui l’aveva presentato alla famiglia, l’aveva chiamata in disparte e, allargando quanto più possibile le braccia corte, le aveva detto che il suo ragazzo gli piaceva “tanto così”.

Non aveva mai nascosto il desiderio di voler, un giorno, diventare padre, e non aveva dubbi che sarebbe stato eccellente nel compito. Peccato, però, che si fosse scelto una compagna che, a mettere su famiglia, proprio non ci pensava.

Nonostante fosse stata figlia unica fino a poco prima dell’età adulta, Courtney proveniva da una famiglia numerosa ed era sempre stata circondata da cugini, alcuni anche molto più piccoli di lei, cui s’era talvolta trovata a far da babysitter. Sebbene se la cavasse egregiamente – come con qualsiasi attività, del resto – aveva presto capito di non avere la premura e la pazienza adatte ad essere una buona madre, né di volersi impegnare a svilupparle, perché non avrebbe mai avuto dei figli.

La minima possibilità che, in quel preciso istante, ci fosse un pulsante ammasso di cellule all’interno del suo utero, quindi, la spaventava a morte.

Aveva tenuto la bocca chiusa da quando erano usciti dall’ascensore. Con la testa ostinatamente voltata verso il finestrino, era rimasta a fissare i palazzi di North York scorrere velocemente davanti alle sue retine. Le sue orecchie erano comunque vigili e captavano ogni singolo suono – al momento, Scott fischiettava le note di un pezzo alla radio, Two princes degli Spin Doctors. Si era svegliato di ottimo umore e voleva esternarlo quanto più possibile.

Non riusciva a mantenere il contatto visivo con lui per più di dieci secondi. Nella sua testa si riproduceva in un loop infinito lo stesso video: loro due che aspettavano l’esito del test, due lineette rosse, lui che urlava di gioia e l’abbracciava, lei che si stampava un sorriso falsissimo in volto mentre tentava di non scoppiare a piangere. Lui aveva già cominciato a pensare a dei nomi per il bimbo, lei a come sbarazzarsene.

«Ti ricordi il villino a Nobleton?» domandò Scott, col tono di chi si fosse appena ricordato di dover dare un’importante notizia. Aspettò un suo cenno di assenso prima di continuare: «L’agenzia ha abbassato il prezzo e, se mettiamo insieme i nostri risparmi, possiamo permettercelo. Mi hanno chiesto un deposito per bloccare tutto, ma ovviamente volevo prima parlartene».

Il villino unifamiliare che il suo fidanzato aveva individuato era poco più grande dell’appartamento in cui abitavano. Si trovava su un viale di case tutte uguali, in una contrada scomodissima da raggiungere, fuori dall’area metropolitana di Toronto e a circa quarantacinque minuti dallo studio legale – che, vista l’inesistenza dei mezzi pubblici, avrebbe dovuto raggiungere con la macchina, svegliandosi all’alba per evitare di rimanere imbottigliata nel traffico mattutino. Ciliegina sulla torta era che la fattoria della famiglia di Scott era a tre chilometri da lì, il che significava che sarebbe stata costretta a vederla più spesso.

Aveva arricciato il naso ed era pronta a controbattere, ma lui, che aveva rapidamente stilato una lista mentale con i pro e i contro, fu più svelto: «Lo so che avevamo deciso di rimanere in città, ma siamo realisti! I prezzi degli affitti sono alle stelle, finiremmo in bancarotta ancor prima di firmare il contratto. Sarà uno stress fare avanti e indietro, ma, guardando ad un domani, è un’ottima scelta: la casa ha tutto quello che desideriamo, la mia famiglia è vicina e potrà darci una mano, e potremo crescere i nostri bambini in un luogo sicuro e lontano dallo smog.»

«Hai detto bene, avevamo deciso di rimanere in città» tagliò corto lei, l’attenzione ancora rivolta all’esterno. «Quindi il verdetto è no.»

«Solo nell’ultimo mese hai bocciato tre opzioni» borbottò lui, senza nascondere un pizzico di delusione. «Comincio a pensare che tu non voglia trasferirti.»

Sbuffò.

«Non essere sciocco!»

La reazione fu immediata.

«E allora dimostramelo! Smettila di remarmi contro e proponi una soluzione!»

Courtney fu costretta a guardarlo. La collera nella sua voce era gemella a quella stampata sulla faccia lentigginosa – le sopracciglia erano curvate verso il basso e le labbra increspate in una smorfia.

Tanto bastò per innervosirla.

Non trovava alcun appiglio per confutare la sua tesi – d’accordo, aveva ragione! Ma, data la sua professione, era un paradosso piuttosto ironico. Per di più, non avrebbe potuto scegliere momento peggiore per riportare luce sulla questione.

A dire il vero, concepiva tutto ciò che veniva dopo domenica come un futuro remoto, tanto da non essere ancora oggetto delle sue preoccupazioni. Quella mattina era stato come svegliarsi da un bel sogno e più riacquisiva conoscenza del mondo circostante, più si rendeva conto di non essere pronta, e più voleva tornare a dormire.

Rimbalzò contro il sedile. Scott aveva inchiodato di colpo davanti ad un semaforo rosso, a pochi centimetri dalla striscia dello stop. Quella banalità fu la goccia che fece traboccare il vaso.

«Siamo nel bel mezzo dei preparativi di un matrimonio, per pagare le spese stiamo lavorando come muli da mesi, e la tua priorità è di spendere altri soldi e trasferirti in mezzo al nulla? Ti sembra davvero il momento giusto anche solo per valutare questa possibilità? Non so se l’hai notato, ma viviamo già in un appartamento più che dignitoso – e, nella peggiore delle ipotesi, non vedo perché non potremmo viverci fino alla fine dei nostri giorni!»

La sua reazione l’aveva colto impreparato, ma non seppe definire se fosse più sbigottito o irato.

Non disse nulla; si limitò a dare gas e ripartire alla volta dell’aeroporto, mantenendo un religioso silenzio.

La canzone era terminata da un pezzo; alla radio stavano dando le notizie dell’ultima ora. I grattacieli cominciavano a lasciar posto ai palazzi e ai parchi della periferia.

«Devo fermarmi un secondo in farmacia» riferì Courtney, incrociando le braccia al petto e fissando un punto davanti a sé. «Ho dimenticato le pastiglie per la nausea.»

Lui alzò il mento, segno che avesse recepito, e cacciò la freccia per svoltare a sinistra.

Fu allora che realizzò: lei quelle cose – una bella casa, una famiglia felice – in fondo le desiderava. Ma non con Scott.









[ Venerdì 23 aprile – Greater Rochester International Airport, New York ]



«Pronto?»

«Stai lavorando? Hai cinque minuti liberi?»

«È successo qualcosa? Mi sembri triste.»

Triste non era il termine più adatto a descrivere la sua condizione. Era a dir poco terrorizzata.

Chiusa dentro uno dei bagni, Courtney era dritta in piedi e respirava piano. Guardava senza battere ciglio la stecca bianca che reggeva fra il pollice e l’indice della mano destra.

Fuori da lì, due ragazzine ridacchiavano e schiamazzavano.

«Non sono triste, sono-»

Le scappò un verso strozzato. La gola era stretta in un nodo e, se avesse alzato troppo la voce, sarebbe esplosa in un pianto disperato.

Inspirò e ricominciò da capo.

«Ho una settimana di ritardo, ho appena fatto un test di gravidanza e», deglutì a fatica, «ho paura che possa essere positivo.»

Dall’altro capo della cornetta, Alejandro mugugnò qualcosa a denti stretti.

«Puoi farmi compagnia mentre aspetto?» chiese lei in un soffio.

La prima linea aveva cominciato a colorarsi. Dovevano essere passati due minuti. Ne mancavano tre.

«Sì, certo.»

Seguirono trenta secondi di silenzio.

«Court, stai vivendo un periodo di stress intenso» provò a rassicurarla lui, che forse aveva già messo assieme buona parte dei pezzi. «Sono mesi che ti stai spingendo fino al limite per conciliare tutti i tuoi impegni, e nelle ultime settimane hai dato il meglio di te. Per di più, sei bloccata a centinaia di chilometri da casa e dubito che tu stia viaggiando in maniera confortevole. Ci sono ottime probabilità che tu non sia incinta.»

In circostanze normali, ascoltare le sue paranoie tradotte in parole l’avrebbe aiutata a comprenderne l’assurdità. Il suo cervello era, però, annebbiato dal panico e mantenere un minimo di lucidità si stava rivelando più arduo del previsto.

«Sono costantemente sotto stress, eppure questo non ha mai influito sul mio ciclo mestruale.»

«Magari questo è il segno che dovresti allentare i ritmi.»

«Non sei d’aiuto.»

La prima linea era sempre più rossa. Della seconda ancora nessuna traccia. Ma i cinque minuti non erano ancora passati.

Non sentiva più le ragazzine, dovevano essersi finalmente allontanate – oppure i loro gridolini erano stati coperti dal suo cuore. Batteva all’impazzata, lo sentiva rimbombare in gola e cresceva di intensità ad ogni secondo. Provò a domarlo con una serie di respiri profondi.

«Perché non ne hai parlato con Scott?»

La domanda era genuina, non aveva l’intento di giudicare le sue scelte.

«Lui vorrebbe dei figli, io no.»

«A prescindere da quello che vuole lui, la scelta finale spetterebbe solo a te.»

«Lo so.»

«Portare avanti una gravidanza indesiderata finirebbe col distruggerti.»

«Lo so.»

Eppure, la sola idea di interromperla la faceva sentire in colpa.

Si ricordò di aver impostato il timer solo quando il telefono vibrò. I cinque minuti erano passati.

«Ci siamo.»

Trattenendo il fiato, abbassò lo sguardo sul test.



* * *



Duncan avrebbe volentieri abolito la sezione ricordi di Instagram.

Nella storia condivisa trecento sessantacinque giorni prima, Gwen era seduta a gambe incrociate su una panchina di Music Garden, e scarabocchiava sull’album da disegno la natura attorno a sé. Il basco nero impediva che le ciocche nere e blu le finissero davanti agli occhi, oltre a conferirle una stereotipica aria da artista. Consapevole di essere ripresa, le sue labbra erano piegate in un sorrisetto compiaciuto. A completare l’opera, vi era l’emoji di un cuore nero in alto a destra.

Erano ancora nel pieno della fase “luna di miele”, quando sorrideva come un ebete solo a nominarla. Erano stati i mesi delle passeggiate infinite, delle maratone di film horror e delle chiamate a tarda notte. Richiamarli alla memoria gli provocava mancanza.

Non era la sua ex a mancargli – teneva un messaggio pieno di insulti nelle note del cellulare; non gliel’avrebbe mai mandato. Era, bensì, la sensazione di ebrezza tipica degli innamorati.

Non rifiutava mai dell’adrenalinico sesso occasionale, ma ciò che più gli donava serotonina era la fase iniziale di una relazione, quella fatta di conoscenza e di sentimenti intensi. Forse era colpa del poco affetto ricevuto da bambino, sicuramente il se stesso adolescente perennemente incazzato col mondo gli avrebbe sputato in faccia, se l’avesse sentito articolare quell’affermazione a voce alta, ma la verità è che gli piaceva amare e, altrettanto, gli piaceva essere amato.

Purtroppo, finiva sempre per innamorarsi della persona sbagliata.

Chiuse l’applicazione e ripose il telefono nella tasca dei jeans. Si stropicciò gli occhi e li puntò verso l’ingresso del bagno delle donne, dentro cui Courtney era sparita almeno da dieci minuti. Doveva stare peggio di quanto traspariva, eppure, anche dopo aver rimesso l’intero pranzo sul ciglio della strada, aveva ugualmente insistito per guidare fino a destinazione.

Due bimbette spalancarono di scatto la porta, mandandola a sbattere contro il muro. Ne approfittò per lanciare uno sguardo discreto, ma di lei non c’era nemmeno l’ombra.

E quella non era l’eccezione.

La lunga chiacchierata della sera precedente aveva cambiato le carte in tavola. Non era più un semplice interesse quello che nutriva, piuttosto era un desiderio impellente di passare intere giornate a scoprire ogni suo singolo dettaglio, e contemporaneamente di mettersi a nudo, ‘ché in qualche modo essere sincero con lei gli veniva spontaneo. Non gli era capitato in nessun’altra relazione.

Aveva anche fantasticato su come sarebbe stato bello farlo sui sedili posteriori dell’auto, ma quello era un di più.

Il nocciolo della questione era un altro: le loro strade erano destinate a separarsi. Magari l’avrebbe rivista, ma in circostanze diverse e con una fede nuziale al dito. Era l’unico finale contemplabile.

La porta si aprì una seconda volta. Fu in piedi ancora prima di accertarsi che fosse lei.

«Ehi, ho parlato col tipo dell’infopoint e mi ha detto che può metterci sul prossimo volo per-»

Si interruppe nell’istante in cui incrociò il suo sguardo. I suoi occhi erano velati dalle lacrime e, nel tentativo di trattenerle, si mordeva il labbro inferiore. Reggeva qualcosa fra le mani; quando Duncan capì cosa fosse, cominciò a boccheggiare.

«È…?»

«È negativo.»

Il secondo dopo stava ridendo. Era una risata forzata, innaturale, quasi macabra se si aggiungevano le lacrime, scure per via del mascara, che avevano iniziato a rigarle le guance.

La sua reazione l’aveva colto alla sprovvista. Non sapeva cosa dire, se provare a consolarla o chiedere spiegazioni. Decise di appoggiare le mani sulle sue braccia e lei tacque di colpo. Nel avvicinarsi, non interruppe il contatto visivo nemmeno una volta, resistendo all’istinto di stringerla forte contro il petto.

«Sono un mostro» pronunciò Courtney a fatica, tirando su col naso. «Sai a cosa ho pensato un secondo prima di guardare il risultato? “Se viene fuori positivo, corro ad abortire.”»

«Non sei un mostro» ribatté, con una serietà e una convinzione che non pensava di possedere. «È il tuo corpo e, se non ti senti pronta, nessuno avrebbe potuto – e dovuto – contestare la tua scelta.»

Di tutta risposta, lei si aggrappò alla sua schiena, crollando con la testa sulla sua spalla. Ricambiò l’abbraccio, lasciando che il naso sprofondasse fra la sua chioma castana, e portandosela talmente vicino da poter sentire i suoi singhiozzi ad un passo dal cuore. Non aveva idea che, fra essi, si celava una domanda cui Courtney non avrebbe dato voce.

Se avessi abortito senza dirlo a Scott, sarei stata un mostro?









[ Alle porte di Niagara Falls, Ontario ]



In un’ipotetica classifica delle pensate idiote che aveva avuto nelle ultime due settimane, quella sarebbe entrata di diritto nel podio. Eppure, nemmeno quella consapevolezza aveva dissuaso Duncan dall’affittare una nuova auto e guidare verso il confine di Stato, dapprima senza una meta precisa e poi seguendo le indicazioni per Niagara Falls.

«Non c’è bisogno che tu lo faccia» gli aveva detto Courtney, prima di accasciarsi, sfinita, contro il sedile. Era crollata poco dopo, trovando finalmente la pace.

L’iniziativa era nata con puro scopo altruistico, ovvero distrarla dagli avvenimenti tumultuosi della giornata e regalarle un paio d’ore di spensieratezza. A mano a mano che aveva macinato chilometri, era venuto a galla un intento a dir poco egoista, completamente opposto al primo: non era pronto a salutarla.

Nella quiete del viaggio, col finestrino abbassato per metà e l’aria fresca del pomeriggio che gli pizzicava il cranio, si era ritrovato ad immaginare una realtà parallela, in cui, dopo una folle serata fra bar e sale giochi, lui le rovesciava addosso i suoi sentimenti e lei buttava all’aria il piano di una vita per dargli una possibilità.

Uno scenario talmente surreale che quasi si vergognava ad esserselo figurato. Nei rapidi istanti in cui l’irrazionalità aveva preso il sopravvento, e aveva sperato che si realizzasse, più che vergogna aveva provato imbarazzo. Si era comunque concesso il lusso di perdersi ancora un po’ nei meandri della sua immaginazione, mentre l’ammirava sorridere nel sonno; distolto lo sguardo, si premurò di chiudere il tutto sotto chiave.

Il cartello di benvenuto lo riaccolse in Canada. Avanzava l’ora del tramonto e il cielo su Rainbow Bridge aveva assunto le tipiche sfumature rosa e arancioni. Alla radio, tenuta a basso volume, il conduttore annunciò il nuovo singolo di una band emergente, Cheer up baby degli Inhaler.

Courtney si era svegliata da qualche minuto, ma lui se ne accorse solo quando si girò e gli toccò una spalla, per richiamare la sua attenzione.

«Manca ancora tanto?»

«No, siamo praticamente arrivati.»

Guardò fuori dal finestrino. Riconobbe le cascate e la cittadina al di là del fiume, abbellite dal crepuscolo. Sull’area pedonale, i turisti immortalavano il paesaggio suggestivo coi propri telefoni.

«Non dovevi» fu l’unica cosa che riuscì a sillabare.

«E invece dovevo» la contraddisse. «Insomma, quale miglior modo per concludere questo viaggio?»















(1) letteralmente “vuoi portarmi alla morte?”, l’equivalente italiano potrebbe essere “vuoi forse uccidermi?”. Ho controllato e dovrebbe essere giusta, ma, siccome fra le lingue che studio non c’è lo spagnolo, correggetemi se sbaglio, o se è più corretto usare un’altra espressione







Angolo dell’autrice

Ormai gli aggiornamenti stanno diventando un appuntamento mensile, ma purtroppo mi è impossibile fare più veloce di così. Spero che i miei pochi lettori – sempre che siano rimasti – non me ne vogliano.

Il mistero sul test di gravidanza è stato risolto e immagino che abbiate tirato un sospiro di sollievo. Ammetto che ero quasi tentata di cambiare tutto e renderlo positivo, ma non mi sembrava il caso di mettere tutto questo angst in quella che nasce come una commedia – ma magari questo e altri trope tragici me li lascio per un’altra storia :)

Il personaggio che compare nel primo paragrafo se lo ricorderà bene chi ha letto La Storia Inversa. John è il mio marchio di fabbrica, probabilmente il motivo per cui sono più conosciuta nel fandom, e dovevo omaggiarlo in qualche modo.

(per voi che mi leggete su Wattpad, potete trovare entrambe le parti su Efp. Vi avverto, però, che la prima è stata scritta nel 2013, quindi è parecchio cringe).

La digressione centrale doveva essere più breve, ma la voglia di approfondire il rapporto con Scott ha avuto la meglio. Mi dispiaceva farlo sbucare fuori solo per l’epilogo. E, nonostante il suo sia un cameo più breve, stesso dicasi per Alejandro, visto che ho sottolineato più volte la sua amicizia con Courtney.

Il prossimo è l’ultimo capitolo prima dell’epilogo – che in realtà, per come l’ho progettato, avrà più o meno la stessa lunghezza di un capitolo canonico. I nostri protagonisti sono più o meno venuti a capo dei loro sentimenti, quindi aspettatevi di tutto – e intendo proprio di tutto, perché ho in mente un bel po’ di cose e non so ancora verso che direzione virerò. Vi assicuro che, comunque andrà, ci saranno interazioni romantiche.

E anche questo l’abbiamo portato a casa! Ci sentiamo al prossimo aggiornamento. xx



  
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