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Autore: Kiki Daikiri    05/09/2009    4 recensioni
"Noi della crew non eravamo amici: eravamo fratelli.
Per i fratelli si darebbe qualsiasi cosa, anche il proprio sangue, la propria libertà. Anche se io un fratello di sangue lo avevo già.
Avrei dovuto capirlo prima. Avrei dovuto capire prima tante cose."
Genere: Malinconico, Azione, Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
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Ecco un nuovo capitolo! Spero non ci siano errori di battitura, ma per problemi vari di salute non posso passare troppo tempo sullo schermo del computer, in questi giorni, per cui non ho riletto...
Grazie, come sempre, a chi commenta ed inserisce questa storia nei preferiti, perchè sono queste cose ad incoraggiarmi ^^
Buona lettura, Giu


Capitolo XI

Magdeburg
 
Era sempre stata una città calda, o così era parso a me le poche volte che l’avevo visitata con la mia famiglia, quella biologica.
Mi corse un brivido gelato lungo la schiena e mi strinsi ancor di più nella giacca che mi ero costretto a portare.
Per un attimo mi capitò di pensare alla ragazza che avevo incontrato in metropolitana, a come era venuta per caso a cercare della merce da noi, a come avevamo riso e scherzato quella sera in officina, a come lei accarezzava il mio volto, al suo sorriso spontaneo. E poi all’alcol, a come era svenuta in camera mia, al brusco risveglio, alla droga.
Scossi la testa e non ci pensai più.
Avevo affari più importanti tra le mani: mi ero appena trasferito in uno squallido appartamento nella città della Shizao.
Io non avevo dimenticato la prima volta che avevo udito una sparo, il rumore esplosivo di un proiettile che aveva ucciso una persona. Ero sicuro, sicurissimo che nemmeno loro l’avevano dimenticato.
«Ehi Tom, guarda qui quanta roba buona!» Georg aveva il naso schiacciato contro la vetrina di un negozio di dolci, io mi avvicinai con lentezza, ciondolando tra un passo e l’altro e guardando a terra.
E, d’altra parte, anche noi non passiamo inosservati.
«Hai fame?» domandai, con premura.
Mi accesi una sigaretta, accertandomi prima che il tabacco fosse composto bene, ed aspettai che lui acquistasse la torta alle mele e mi raggiungesse fuori.
Spaziai con lo sguardo sulle case che contornavano la stradina del centro. Erano chiare, quasi tutte con gli esterni in colori pastello e i balconi in ferro battuto.
Era così silenziosa, se si riusciva a mettere distanza tra sé ed i suoi della gente, il loro chiacchiericcio, il loro insopportabile e perpetuo lamentarsi di ogni cosa per poi esaltare le scemenze più assurde. Una gran pace.
«Eccomi.» la voce di Georg non era una tra quelle, no. La sua aveva una vena calda e pulsante, un tono rassicurante e familiare, come tornare a casa e gettarsi sul proprio letto e non su quello di un estraneo.
Mi riscossi immediatamente dalle mie farneticazioni e gli sorrisi debolmente. Shon, per tutto il tempo, era rimasto in silenzio dietro di noi.
Non c’era stato proprio verso di convincerlo a restare a Köln. Non aveva alcun senso che lui si separasse di propria volontà dalle uniche persone valide che avesse mai conosciuto, aveva detto, e poi la crew è come una famiglia, Tom.
Mi ritrovai a ridere con me stesso, in centro a Magdeburg, mentre Geo e Shon si dividevano un pezzo di torta che aveva tutta l’aria di essere una molliccia palla di mele e gelatina.
Una famiglia? Ma se avevo tutte quelle famiglie sparse per la Germania, come mai mi sentivo così fottutamente solo?
«Ehi bru, tutto ok?» Georg mi guardava un po’ sorpreso, ma rilassato, con la bocca e la pelle intorno completamente piene di briciole appiccicaticce.
«Si, certo.» Feci loro cenno di muoverci, avevo bisogno di fare due passi e di sgombrare un po’ la mente.
Ero stato solito essere un ragazzo sveglio ed attivo, sempre pronto a fare qualche pazzia, ed in quel momento avevo realizzato che mi stavo trasformando in una creatura introversa, pensierosa. Cupa…
Conoscevo già qualcuno che rispondeva a questa descrizione, e mi sarei ucciso piuttosto che assomigliargli.
Essere uguali mi aveva già causato così tanti fastidi quando eravamo più giovani… NO!
No, devo smetterla di pensare.
Guardai verso il basso e mi fossilizzai sulla tuta nera che indossavo sotto al cappotto.
Improvvisamente, mi sembrava che quel tessuto scottasse, che mi stesse ustionando la carne. Se mi concentravo, potevo sentire le piaghe bruciarmi la pelle e scavarsi posto sul mio corpo.
«Ehi Geo, quando finite di ingozzarvi, voglio entrare da Foot Locker e comprare un po’ di roba. Non ne posso più di questi stracci.»
Loro annuirono in silenzio, contemplando con rinnovato interesse i miei vestiti.
Sulle loro facce si poteva leggere la perplessità nel sentirmi definire come stracci vestiti acquistati per prezzi a tre cifre, ma non osarono replicare, né domandarmi alcunché.
Si limitarono a seguirmi nel negozio, lasciandosi andare all’ambiente moderno, ai colori sgargianti e alla musica ad alto volume.
Stavano trasmettendo l’ultimo successo di Sido e io mi ritrovai a canticchiarlo, abbandonandomi a qualche mossa, a qualche passo.
Volevo scordare, volevo scappare, non mi sentivo affatto annoiato, potevo ancora ballare, poiché ero solo atterrito dalla vita.
Indicando bruscamente tre o quattro paia di scarpe, ordinai al commesso di portarmele da provare. Poi buttai sul bancone dei jeans, una tuta e delle magliette. Quasi tutta roba molto appariscente, ma non ci feci caso. Calcolai mentalmente se avevo le fasce giuste da abbinare a quella roba, e ricordai di averne in abbondanza, ma non per questo mi risparmiai dallo sceglierne ancora un paio nuove. Provavo come una smania di rinnovo, volevo distaccarmi da tutto ciò che mi fosse appartenuto fino a quel momento, o quasi tutto.
Soddisfatto, attendendo il ritorno del commesso, mi voltai verso Geo e Shon, immaginando che stessero a loro volta guardando la merce esposta.
Rimasi paralizzato, colto da un’inaspettata inquietudine, quando li scoprii immobili a fissarmi, assieme a gran parte del resto della clientela.
Shon si era sfilato il cappello candido dalla testa scura come il cioccolato e mi sezionava con occhi sgranati e la bocca semidischiusa.
«Che cazzo vi prende?» sbottai alla fine, essendomi reso conto del tempo che passava. L’irrequietezza non mi abbandonava: temevo di avere qualcosa di sgradevole addosso, oltre ai loro sguardi, magari un insetto gigante sulla schiena o qualcosa del genere. E poi c’era quella scure immensa che pendeva sulla mia testa, pronta a calare su di me quando meno me lo aspettassi, come una vendetta. La Shizao?
Colto dal panico, mi infuriai.
«Si può sapere cosa cazzo avete?» strillai cominciando a guardarmi attorno con scatti isterici e facendo sobbalzare alcune donne e dei ragazzi che stavano in prima fila nel piccolo pubblico raccolto attorno a me.
«Allora? Fottuti…» rincarai, sempre più irritato, finché Shon non si fu riscosso dalla sua trance.
«Tom… stavi rappando.» mi informò, con voce tremante per via dell’espressione sconvolta che, immaginai, dovevo avere stampata in viso.
«Stavo solo canticchiando…» mi difesi, scrollando le spalle e scuotendo lievemente la testa con un sorriso. Siete pazzi. Cosa c’era da agitarsi in quel modo per due mugugni? Non capitava mai, a loro, di borbottare il ritornello di una canzone?
«No… tu stavi… proprio rappando.»
Shon sbatteva continuamente le palpebre, come uno che non poteva credere ai propri occhi.
«Che cazzo avete voi da guardare?» abbaiai, rivolgendomi al resto della gente, che non accennava a levarsi dai piedi.
Come obbedendo ad un ordine, tutti si allontanarono, tornando ad occuparsi dei propri acquisti con falsa noncuranza, mentre ancora tendevano le orecchie, curiosi, cercando di captare il resto della nostra conversazione. Ci sbirciavano con la coda dell’occhio.
«Mi piaceva la canzone di Sido, tutto qua.» biascicai, rivolgendomi ai miei due amici e rimirando una felpa che prima non avevo notato.
«Sido? Era solo un beat vuoto, non era un pezzo cantato… tu… tu stavi cantando.»
«Fatela finita, non fa ridere.» aggrottai le sopracciglia, rivolgendo un’occhiata spaventata a Georg, aspettandomi un suo sorriso, una sua conferma.
Lui se ne stava zitto, senza mai cambiare espressione. Quando mi concentrai su di lui, notai che poteva essere sul punto di piangere.
«Ha ragione lui, Tom.» bisbigliò, quasi impercettibilmente.
Georg non mi mentiva mai. Mai.
In quell’istante mi passarono per la mente tante alternative per quanto riguardava la mia successiva azione: avrei potuto ridere e dire di averli presi per il culo, avrei potuto dire “si, so rappare come un Dio, che cazzo volete?” e fingere di niente, oppure ammettere di essere pazzo e di aver avuto un’allucinazione uditiva, cosa per altro veritiera.
Invece schiaffai la carta di credito sul bancone e corsi via, senza meditare per nulla l’esito di quello scatto inconsulto.
Mi ritrovai fuori al freddo, appoggiato con entrambi i palmi delle mani contro il muro esterno del negozio accanto. Appoggiavo ritmicamente la fronte contro la superficie ruvida e fredda, battendo i denti e mormorando da solo cose che nemmeno io stesso comprendevo.
Cosa stava succedendo? Cosa stava succedendo a me?
«Tom.»
Le braccia forti e nervose di Georg mi strapparono via a forza da quel mio angolino di panico, riportandomi lì, in una via in centro a Magdeburg.
Sbattei le ciglia quattro o cinque volte, passandomi le mani sul viso e sull’attaccatura dei dreadlocks scuri, sistemando la fascia nera al suo posto.
«Sto bene.» sussurrai in maniera impercettibile al punto che Georg non mi sentì.
«Stai tranquillo, dai bru. Tranquillo. Non è mica successo niente…» si sforzò di sorridere.
Era vero, non era successo niente, ma il niente, in quel caso, aveva un terribile sapore di tragedia.
«Georg.» sussultai, reprimendo un singhiozzo che minacciava prepotentemente di sfuggire al mio controllo «Ho lasciato la carta di credito dentro… io… non ho preso la roba…»
Io non mi ricordo più perché mi sono arrabbiato, perché sono scappato fuori.
In quel momento soggiunse Shon, che teneva due grandissime buste in una mano, mentre con l’altra mi porgeva la carta.
Mormorai un ringraziamento, infilandola in tasca senza troppa cura.
«Tranquillo amico, ho lasciato lì solo le scarpe perché non le avevi provate.» disse, mantenendo un contegno solidissimo e il più naturale che gli fosse possibile.
Lo ringraziai ancora, mentalmente, per questa seconda gentilezza che mi stava facendo.
Dopo essermi appropriato anche delle buste, ci rimettemmo a ciondolare qui e là senza meta, in attesa di poter entrare nel nuovo appartamento.
 
-Dottore, si sente bene? Non l’ho mai visto con una faccia così. Forse ha mal di testa? No, non era la prima volta che non mi ricordavo fatti appena avvenuti, né che mi capitasse di fare qualcosa senza rendermene conto… è grave?-
 
Vektor si era tenuto la VeilSide. O, per lo meno, questa era la mia impressione.
Ma probabilmente ero solo molto geloso di quella macchina, perché entro qualche minuto Vektor me l’avrebbe portata con la maggior parte delle nostre cose, quando lui, Dexter e i due marmocchi ci avrebbero raggiunti per qualche giorno a Magdeburg.
Sospirai, appoggiando la faccia al finestrino della vettura di cortesia che ci aveva dato Shäfer. Per scacciare i fantasmi di quel pomeriggio, avevo messo un cd di Sido a palla, facendo si che la voce, la sua voce, risuonasse alta nell’abitacolo, così alta da potersi sentire anche attraverso i finestrini chiusi, mettendo ben in risalto il mio mutismo.
Georg, seduto accanto a me, era felice come un bambino, potendo finalmente guidare di nuovo.
Per lui stare lontano dal volante anche per solo un giorno era una tortura, così avevo capito. Un tempo non ne era dipendente, un tempo stavamo bene anche lontani da tutte queste cose, stavamo bene anche sul balconcino di casa sua a fumare, anche sulla panchina all’angolo di una strada, anche nel parcheggio dei motorini della nostra scuola.
Ingerii un grumo di saliva.
Il naso mi bruciava, le narici cominciavano a collassare e io nemmeno me ne curavo.
Quand’era successo?
Quando eravamo diventati vuoti?
Mi girai lievemente ad osservarlo, alla mia sinistra. Guidava sicuro, con un paio di occhiali da sole molto sportivi, molto meno grossi ed appariscenti dei miei.
A quel punto guardai me stesso, riflesso nello specchietto retrovisore.
Indossavo la felpa nuova, azzurra con delle rifiniture gialle e bianche, gialle come le scarpe della AirMax che portavo ai piedi. Ero appariscente.
Ma, soprattutto,non ero più vestito di nero.
Non come una vedova, non come colui a cui non volevo assomigliare.
Quella sera, eccezionalmente, mi ero messo anche un cappellino NewEra, era piuttosto insolito per me, anche per i tempi in cui usavo frequentare i contest di freestyle.
Mi fa schifo il freestyle. Rabbia. Detesto il freestyle. Frustrazione. Non canterò mai più. Mai più.
«Sapete, era un bel po’ di tempo che non passavo da Magdeburg… non la ricordavo così trafficata.» ridacchiò Georg, sorpassando con una sola accelerata una decina di macchine.
Io ero abituato a quel modo di fare, a quello schema mentale che gli permetteva di rimanere calmo e rilassato in qualsiasi situazione si trovasse, per cui non avevo paura di lasciarlo fare, al volante.
E poi, lui era un campione. Nel vero senso della parola.
Pensai a come avevamo pagato tutta l’attrezzatura e le macchine con le sue vincite nelle corse. L’affitto dell’officina dove lavorava Shon, che era diventata nostra.
Gli dovevo un sacco di cose, pensai.
Io non avevo fatto più nulla da quando ero scappato via, rifugiandomi a Köln: niente di ciò che amavo fare mi risultava sopportabile, ero buono solo a parole e a vendere droga al mio prossimo.
Nel mentre di quei pensieri deprimenti, Shon, appollaiato sul sedile posteriore, mi diede una forte pacca sulla spalla: «Ehi amico, è quello il posto, vero?» si informò, emozionato, indicando un’insegna al neon blu e rossa più che evidente.
FlowBiz.
FlowBiz?
«No, ci deve essere un errore. Shäfer mi ha detto che era una birreria.»
Avevo l’imboccatura della gola così chiusa da costringermi a respirare solo con il naso. Quella non è affatto una birreria.
«E non sei contento?» Shon tirò sul con il naso, gesticolando freneticamente mentre guardava il proprio futuro farsi sempre più eccitante «Molto meglio lavorare qui che in una birreria, no?» sorrideva.
Guardando alla mia destra, il contrasto tra la gioia di Shon e la preoccupazione di Georg era più che evidente.
Quest’ultimo parcheggiò con un gesto brusco, a pochi metri di distanza stava la mia VeilSide, accuratamente lucidata ed inserita in un posto macchina isolato.
Erano già arrivati.
Li trovammo all’ingresso del locale, dal quale si profondeva nell’aria il beat martellante di un pezzo dei Die Sekte, che lasciò poi lo spazio ad uno più morbido di Samy Deluxe.
«Brüder!» Dexter abbracciò prima me e poi Georg, imitato più freddamente dalla rude pugnetto di Vektor e dagli sguardi ammirati di Skill e Daidetsu.
Pensai ai loro genitori, alla loro famiglia e ai loro fratelli. Mi domandai se a qualcuno importasse qualcosa della loro assenza da casa.
«E così…» biascicai «…è questo il posto?»
Vektor si voltò per squadrare l’ingresso del luogo, che si apriva nel muro, nero, caldo e rumoroso, come l’imboccatura di una caverna.
«Si, è questo.» sembrava soddisfatto.
«Bhe, che aspettiamo? Andiamo dentro?» senza attendere risposta, Shon si fece largo tra coloro che erano fuori fermi a fumare, portando con sé anche Daidetsu e Skill, e seguito da un più sospettoso Vektor.
Io, nel frattempo, mi ero acceso una sigaretta e tentavo in ogni modo di calmarmi, di rilassare i nervi.
Dexter era rimasto lì accanto a Georg e ci guardava in silenzio.
 
-Sa, dottore, Dexter si chiamava Carl in realtà. Un nome che rispecchiava abbastanza il suo essere un totale sfigato, per lo stile di vita che avevamo. Eppure lui era il ragazzo più intelligente che io avessi mai incontrato. Sa, dottore, lui aveva capito ogni cosa, nonostante fosse l’amico con cui avevamo socializzato di meno… Cosa significa? Niente, niente di particolare, ma sentivo di doverglielo dire.-
 
Sembrava avesse intuito che qualcosa non andava.
«Per voi è un problema, vero?»
«Non so di cosa tu stia parlando.» bisbigliai, senza smettere di fumare con fretta e fissare il marciapiede sporco.
«Questo posto… avete combinato dei casini con qualcuno di importante? Ogni volta che si nomina Magdeburg, fate una faccia strana.» il suo volto era perfettamente a proprio agio nei suoi ragionamenti, un fatto che mi fece provare dell’invidia.
Per una volta, forse la prima da qualche anno, Georg non attese una mia reazione, né un mio consiglio, né un mio ordine. Afferrò direttamente Dexter per il colletto della polo, avvicinandolo a sé finché i capelli rossi dell’altro non sfiorarono la sua fronte. «Ascoltami, devi farlo bene e senza fiatare. D’accordo?»
Dexter annuì, senza cambiare espressione.
«C’è gente, in questa città, a cui abbiamo fatto qualcosa di molto, molto doloroso. Non io e lui personalmente…» precisò, accennando a me «…ma qualcuno che ci era molto vicino. Questo posto…» indicò il locale alle spalle di Dexter «… questo posto è esattamente uno di quei posti dove non solo rischiamo di incontrare quella gente, ma direi che è addirittura inevitabile. E noi… non si siamo tipi facili da dimenticare.»
Come per dimostrare che, sull’ultimo punto, il ragazzo concordava al cento per cento, iniziò ad annuire con più vigore.
Georg aveva le lacrime agli occhi e la fronte corrucciata.
«Ora io e il mio amico saliamo a bordo di quella macchina» indicò con la mano libera la VeilSide «…e ce ne andiamo con metà dei soldi che abbiamo nascosto nell’appartamento. Il resto potete prenderlo voi e farci quello che vi pare. Spartitevi tutto: le mie macchine, i miei trofei, l’officina, tutto. Dite al signor Shäfer che noi lasciamo la partita, e dì a Shon che ci dispiace.» sospirò «Questo è il momento di tirarsi indietro, vorrei averlo capito prima.» lo lasciò andare all’improvviso, ed egli quasi cadde a terra, ma si ricompose subito.
Piangeva, ma non ribatté in alcun modo.
Io lo abbracciai nuovamente, cominciando a sentire una sorta di sollievo diffondersi nel petto, poi guardai intensamente la schiena di Georg, che già si muoveva sotto il suo giubbotto di morbida pelle, mentre si allontanava.
Ce ne andiamo? Io e te e basta? Ce ne andiamo davvero, come ai vecchi tempi?
«Ciao, Dex.» sorrisi, dirigendomi verso la macchina a passo spedito, per raggiungere Georg.
Ma qualcosa, improvvisamente, ci trattenne.
 
-Il dottore mi fissa, quasi trattenendo il respiro. Si aggrappa a quel suo sgualcissimo taccuino e si protende lievemente verso di me, come attendendo la fine di una telenovela a cui si è ormai appassionato. Intenerito, mi lascio sfuggire un sorriso ed un sospiro tra le labbra. Mi dispiace, dottore. Il tempo è scaduto… per il resto della storia, dovrà attendere un altro capitolo.-
   
 
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