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Autore: 2Hermes2    15/03/2022    0 recensioni
Un’imperfezione di qualità, intensa, può stimolare la coscienza e destare l’attenzione […]. E imparo che un certo tipo di perfezione è raggiungibile solo attraverso un’infinita accumulazione di imperfezioni.
- Haruki Murakami
Kafka sulla spiaggia
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hajime Iwaizumi, Tooru Oikawa
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia è stata scritta a quattro mani, con la partecipazione della fantastica Ashla! 

Vi scrivo il link del suo profilo, perché vale davvero la pena farci un salto✌🏻 https://efpfanfic.net/viewuser.php?uid=848029

Buona lettura a tutti

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Fa caldo. Tokyo è stimolante, le luci si mischiano, i contorni sono sfocati, mi chiedo se il bianco sia sempre stato così chiaro, e come mai la Tokyo Tower sia delle dimensioni di una spanna. Sento le voci delle pubblicità sui grattacieli, la musica dei bar di Shinjuku e la mia risata. Sugawara mi poggia un braccio sulle spalle, fa ancora più caldo. È gennaio, sono quasi sicuro sia il due, barcollo, Suga non è più accanto a me, anzi mi sta tirando nel terzo locale. È il due gennaio, non mi sono ancora ripreso da capodanno eppure sono nel terzo bar gay della serata. Bevo quello che hanno ordinato per me, la lingua si impasta, il sapore è dolce, fruttato, non so cosa sia, ma la gola pizzica, lo avverto scendere, denso. Fa caldo. 

- balliamo? -

Tutti annuiscono tranne Kenma, che rimane seduto, con i capelli legati e la frangia umida appiccicata alla fronte. 

Akaashi mi aiuta ad alzarmi e mi lascia qualcosa in mano. Un cicchetto, puzza. Mi dice di non berlo subito, lo faremo tutti insieme: obbedisco, non mi chiedo neanche perché, sono impegnato a trovare il modo di camminare in linea retta, non posso pensare a vacuità. 

La sala è piccola e la gente è tanta, sento sconosciuti addosso, mani che sfiorano, pelle sudata a contatto con pelle sudata. Non mi piace, è claustrofobico, è tutto troppo vicino, la voce di Suga mi distrae dal disagio, lui parla e noi intorno.

- Brindo a questa merdosa seconda giornata dell’anno, con la consapevolezza che andrà sempre peggio -

Gli altri urlano al brindisi, e credo di farlo anche io, è il due gennaio, sto bevendo in un locale del cazzo, con i miei amici del cazzo, per dimenticare questa giornata del cazzo. 

Per dimenticare di come Iwaizumi non mi ha guardato e di come anzi, mi abbia ripreso a causa della distrazione, provocata dal fatto, che mi abbia ignorato tutto il giorno. Bevo perché Iwaizumi è un coglione, che non mi ha chiesto di rimanere in sala prove dopo l’orario. 

Le mie cellule bruciano, una a una, a ogni sorso, e continuo a ucciderle imperterrito, perché oggi non provo dolore. 

Non ho percepito la cartilagine delle ginocchia consumarsi o i muscoli strapparsi, non sono minimamente affaticato, anzi sto bene, e quindi bevo perché non sto male. 

 

Da ballerino posso dire che non c’è niente di più soddisfacente del sentire il proprio corpo tendersi fino a spezzarsi. Lì nella sala degli specchi, osservo sempre il mio riflesso integro, mentre pian piano all’interno avverto ogni fibra di me sfilacciarsi. È magia.

 

Il remix di qualche tormentone viene sparato nelle casse, mi dimeno e non so se vado a tempo, sono un ballerino, io vado sempre a tempo, mi disturba sapere di non riuscire a muovermi secondo il ritmo, voglio andare via, non sono sciolto, sono ridicolo, non riesco neanche a seguire una stupida canzone pop. Guardo gli altri, anche loro non riescono, ma non appaiono turbati, Akaashi è un pianista, va adagio, eppure non si preoccupa, fa girare Suga, che è un tenore, lui continua a ridere tra le parole che storpia e stona, sono invidioso della loro naturalezza, del loro essere spensierati. Suga mi vede e non so se capisca, però si avvicina, mi prende i polsi e oscilla le braccia in aria, sono alto, le mani fuoriescono dalla folla, è fresco, le dita sembrano respirare, inciampo sui miei piedi, seguendo i suoi movimenti scoordinati, e forse sono leggero anche io, come loro. Akaashi mi agita le spalle e Sugawara continua a stringermi dai gomiti ormai bassi e a muoverli avanti e dietro, avverto i loro vestiti bagnati che strusciano sui miei, i loro respiri vicini, bollenti. 

Sono ebbro, sudato e non c’è dolore, fa caldo, ma va bene così.

 

Socchiudo gli occhi, la testa mi pulsa, le meningi battono forte, se non avessi la certezza fisica che non sia così direi che stiano per frantumarsi, il sole è ancora tenue, ma i raggi risultano comunque invadenti, Akaashi e Suga sono già pronti e vestiti, il letto dell’ultimo arrivato è vuoto e Kenma è ancora sotto le coperte. 

 

È tardi, nella nostra stanza è Kageyama a dettare gli orari, è sempre stato il primo ad alzarsi e il primo a uscire, ultimamente ci eravamo abituati tutti a seguirlo, mentre stamattina è già andato via, non è un tipo socievole, non ho nessun dubbio sul fatto che non abbia nemmeno provato a svegliarci.

 

Metto i leggings, gli scalda muscoli pesanti, le calze, una t-shirt nera, felpa e cappotto, non ho tempo per lo spogliatoio, né per fare stretching, non posso ammalarmi, per il mio corpo potrebbe essere deleterio, lavo i denti prendo il borsone con il cambio per la fine delle lezioni e con un saluto stentato esco dallo studentato a passo sostenuto.

 

È martedì, significa che la prima classe è quella di Iwaizumi, dove si ripassano i fondamentali, si cura la postura, e ogni aspetto puramente tecnico, sono vicino, rallento e chiudo gli occhi per riprendere fiato. 

 

In ritardo, Iwaizumi è girato, da le spalle alla porta, tento di entrare in silenzio, nascondendo il rumore dei miei passi, che comunque, pesanti non lo sono mai stati, sa che ci sono, ha sempre avuto questo talento particolare, di riuscire a scovare la mia presenza anche senza guardarmi direttamente.

- La prossima volta rimani fuori dall’aula -

Il tono appare freddo, se non sapessi quanto in realtà si stia divertendo probabilmente ne sarei spaventato. Mordo le labbra, per attenuare la comparsa di un mezzo sorriso, passo la mano sudaticcia per la corsa tra i ciuffi di capelli castani e cerco di mettere su l’espressione più amareggiata che posso.

- Non succederà più sensei -

Gli occhi scuri si animano, gli piace quando lo chiamo così, mi dice sempre come gli piaccia il peso dell’autorità sia nella vita quotidiana, che mentre sono sotto di lui, alla ricerca di un contatto più intimo.

 

Quando ho visto Iwaizumi Hajime per la prima volta avevo otto anni e lui appena diciotto, lo guardavo dal vecchio televisore dei miei nonni, quello che ormai può essere considerato vintage. Non capisco il vintage, ormai ogni rifiuto viene considerato vintage, va troppo di moda. 

Hajime si muoveva sulle note de “Lo Schiaccianoci” nel suo completo bianco e dorato, abbinato perfettamente al tutù della ballerina, quando volteggiavano gli abiti sembravano illuminarsi, cosparsi di polvere di fata. Iwaizumi saltava ed era come se si fermasse a mezz’aria, i miei occhi da ragazzino seguivano attentamente ogni movimento, le cosce muscolose, le spalle larghe e le punte perfettamente tese. Ricordo di aver trattenuto il fiato durante tutta le sequenza di salti, pensavo stupidamente di poterlo distrarre e di rovinare quell’atmosfera incantata in cui si riusciva a cogliere solo il rumore di passi e gesso. I miei genitori detestavano la tv, erano convinti che trasmettessero spazzatura e rendesse i bambini tonti, ma io.. in quello schermo, ci vedevo proiettati solo sogni.

 

Mi posiziono velocemente accanto a Makki alla sbarra, e iniziamo con gli esercizi più semplici, allungo una gamba e la poggio sul legno chiaro, il busto si piega così come le braccia, per raggiungere le punte dei piedi.

Iwaizumi è facile da manipolare, è un uomo, si avvicina lento e prendendo posto dietro di me, mi fa alzare la parte superiore del corpo quel tanto che basta a non essere né completamente piegato ma nemmeno dritto, poggia la mano grande e massiccia sul mio stomaco, per correggere un errore inesistente, che ha come unico scopo il soddisfare la mia voglia esagerata di essere toccato, il suo petto ampio copre completamente la mia schiena e sento il calore che emana trapassarmi i vestiti sottili, trattengo il fiato per non rendere noto il fatto che mi si sia spezzato, ma sono costretto a buttare fuori l’aria, quando il suo bacino sfiora, o meglio struscia sul mio.

- Così va meglio - 

Hajime avvicina il viso, dall’incavo della spalla, mi arriva l’alito tiepido, che solletica l’orecchio e il collo, penso ai leggings stretti e a come non mi sia permesso avere un’erezione in questo preciso momento, quindi cerco di trattenermi, sperando che qualcuno ascolti le mie preghiere. 

Quando si allontana sospiro di sollievo, mi volto per guardarlo e lo vedo sorridere divertito, con i denti grandi e drittissimi, le sopracciglia folte che creano un leggero arco, e gli occhi verdi che perdono la leggera sfumatura di malizia, per tornare seriosi e concentrati.

 

La grande aula vuota, ha quasi un aspetto macabro, illuminata solo dalla sera, il pianoforte a coda che ogni tanto Akaashi suona, su richiesta, per le prove, torreggia mostruoso al lato della sedia di Iwaizumi, le sbarre coperte di scalda muscoli dimenticati, creano ipnotici ghirigori sul pavimento, e i contorni aranciati e appena sfocati, degli oggetti, dovuti alla luce dei lampioni che entra tenue dalle finestre, rendono caldo l’ambiente, è l’inferno. Iwaizumi dice che non dovrei allenarmi nella penombra, che potrei inciampare o colpire roba sparsa per terra che non si vede, e le volte che arriva dopo di me accende i neon bianchi, accecanti, gelidi. Ma ultimamente invece, io al buio ci sto benissimo. 

 

- Oikawa? -

Iwa entra, la sua andatura pare più lenta del solito, probabilmente è stanco dopo l’intensa giornata di lavoro, si affaccia nella stanza, ed evidentemente non riesce a distinguermi in modo preciso, è tutto scuro.

- Sono qui -

Alzo la mano sperando che percepisca almeno il movimento, l’aria che si sposta, e lo vedo avvicinarsi a me, che sono seduto a gambe incrociate nel mezzo della sala, posa il borsone che cade con un tonfo sordo, e mi tira un leggero pugno sul braccio, per poi darmi subito le spalle, non posso vederlo, ma sono certo che prima di girarsi, mi abbia lanciato una veloce occhiata, per assicurarsi di non avermi fatto male.

- Quante volte ti ho detto di accendere la luce? Hai problemi di udito? E se ti fai male come il cretino che sei poi come facciamo eh? -

Non rispondo, la mia bocca, la mia lingua, le mie corde vocali e il mio cervello, non hanno la forza di reagire alla provocazione.

- Oi, mi hai sentito? -

Lo vedo mentre tasta il muro alla ricerca dell’interruttore che non riesce a scorgere.

- Iwa-chan ho fatto il provino -

Odo la mia stessa voce tremare, e nel silenzio sbatte sulle pareti vuote, rimbomba, in questo modo.. così fastidioso.

Iwaizumi si volge di nuovo verso di me, vacilla, le sue pupille si dilatano, per l’ansia, mentre mi guarda ormai alla luce, rannicchiato, patetico, bagnato.

- È andato così male? -

Sorrido amaramente e alzo gli occhi castani per incontrare il suo volto.

- No, è andato benissimo - 

Hajime è confuso, sa perfettamente che le mie non sono lacrime di gioia, ma non riesce a dare un’ulteriore motivazione al mio stato, effettivamente l’unica ragione per essere tristi dopo un’audizione è che sia stata pessima.

- C’era anche Kageyama -

Silenzio.

Quella che si dipinge sul volto di Iwaizumi è consapevolezza, capisce, e spera che non sia quello che crede, sta per parlare ma sono più veloce di lui. Alzo il tono, perché pulsa, non so cosa, forse tutto, è come essere stati morsi da un serpente, brucia il punto in cui in cui viene rilasciata la tossina, ardono le giunture, i tendini e i muscoli, che forse non ho allenato abbastanza, mi contorco in preda a un male che non è fisico.

- Perché lui è dovuto venire Hajime? Perché? - Stringo i denti in preda alla rabbia, mi alzo e incastro le dita tra i miei capelli, li tiro e li strappo, per cercare un dolore che superi quello che sto vivendo adesso. - Ho passato anni, ad allenarmi fino a svenire, ti ricordi Hajime? - Abbasso la voce, le braccia scendono lungo i fianchi, non voglio che Iwaizumi mi veda così, iniettato di lacrime, bagnato di veleno.

- Forse dovrei mollare, non ci sono possibilità per chi non ha talento vero? -

Iwaizumi stringe gli occhi, e sbatte velocemente le palpebre, come se volesse risvegliarsi da un incubo, come se ciò che sta accadendo non sia reale, stringe i pugni ai lati del bacino e poi mi afferra, con violenza, non è mai stato un uomo delicato, ma è come se artigliandomi

volesse condividere con me l’ira e la tensione che in questo preciso momento sta provando. È furioso. 

- Stupido! sei un cretino! certo che mi ricordo di quando ti allenavi a notte fonda, quando ti trovavo, privo di sensi alle sei di mattina e ti sollevavo per portarti a mangiare qualcosa, mi ricordo anche quando ti sei rotto il crociato, e ti ho dovuto accompagnare in riabilitazione per mesi, di come piangevi di nascosto a causa della paura di non poter più ballare, eppure ricominciasti con lo stesso regime del cazzo, e tutto per un ragazzino. Dimmi Oikawa ma la danza ti piace ancora? -

Iwaizumi riprende fiato lentamente, ha smesso di urlare. Da piccolo mi dicevano sempre che l’aspirazione della vita era fare di ciò che amavo una professione, ma col passare del tempo ho scoperto che per la danza l’amore non basta, è l’ossessione che ti fa arrivare.

- Che valore avranno avuto i miei sforzi se non dovessi raggiungere la vetta? E non dirmi il divertimento Hajime - 

Ricomincio a piangere, torno a essere il rivoltante ammasso di muco di prima.

- Se tutti gli artisti la pensassero come te, allora esisterebbe solo un ballerino al mondo, gli altri si sarebbero ammazzati, l’arte è così soggettiva che puoi non essere il migliore stavolta, ma lo sarai la prossima -

Sono sempre stato consapevole del fatto che quella dell’artista non sarebbe stata una vita semplice, che ci sarebbe stato sempre qualcuno con il collo del piede più bello, con più equilibrio, con più fiato di me, con le gambe che riescono ad andare più in alto e le braccia che sono più dritte. È spietato, selvaggio, il nostro mondo. L’unica cosa di cui si può andare fieri è il dolore che si accumula quando non si riesce più a respirare, la fatica di cui si è intrinseci per aver cercato di superare i propri limiti, questo è ciò che ti fa andare avanti, che per un effimero attimo ti fa credere di essere il migliore. Più faceva male e più ero convinto andasse bene.

- Oikawa, tu a come stavo io nel saperti così ci hai mai pensato? Sei solo un bambino viziato, se vuoi buttare all’aria la tua vita perché il tuo più grande problema è un ragazzino che potrebbe essere più bravo di te, fallo pure ma non trascinare gli altri nel tuo melodramma -

- Non ti ho costretto io a farmi da balia Hajime -

Iwaizumi balbetta frasi sconnesse, rilassa il corpo e lascia la presa su di me, i suoi occhi sembrano leggermente opachi. 

Si incammina verso l’uscita.

Mi sta lasciando da solo.

Lo rincorro e gli prendo debolmente il polso, fino a quando la mia mano non scivola via, cado in ginocchio, greve, disgustoso.

- Resta, ti prego -

La mia voce è un sussurro, rotto da eccessivi singhiozzi, Hajime mi scruta, anzi sono io che mi faccio scrutare, indigente, schifoso. Iwaizumi si piega per arrivare alla mia altezza, e mi abbraccia vigorosamente, nascondo il viso sul suo petto, premo così forte nella speranza di essere io a sparire, nella speranza che lui non sia più costretto a vedere questa debole parte di me, perché non lo merita, come non merita la cattiveria che gli ho detto, che echeggia nella mia testa e mi opprime il cuore.

Cadiamo entrambi sul legno duro, privi di forze, Iwaizumi mette una mano dietro la mia testa, per non farmela urtare violentemente sul pavimento, e rimaniamo per quelli che reputo minuti interminabili, stesi per terra, lui che abbraccia il mio bacino, io con la pancia rivolta al soffitto, la consapevolezza di quell’ultima frase affilata.

È bastato che andasse via, per risvegliare in me il terrore di non vederlo più tornare. Sono sempre stato così concentrato nel ruolo della vittima da non accorgermi di quelle che le mie azioni illogiche mietevano, e Iwaizumi si è trovato coinvolto nei miei capricci, ho infettato anche lui con la mia tossina.

In quell’istante riavvolgo i ricordi della persona problematica che sono sempre stato, e di come Iwaizumi mi abbia accompagnato in questi ultimi anni urlandomi parole dure, ma continuando a tenermi la mano. Siamo stesi sul pavimento e ho voglia di toccarlo, allungo le dita fredde e le poggio sulla sua guancia un po’ ruvida, a causa della barba che sta pian piano ricrescendo, lui chiude gli occhi e non la scansa, nonostante detesti le pubbliche manifestazioni d’affetto, forse perché siamo in un luogo pubblico ma da soli. Lì circondato dalla quiete, avvolto dalla persona che amo prendo coscienza di una cosa importante, della danza fin da bambino mi è sempre piaciuta l’idea di cambiamento, è una metamorfosi del corpo, un giorno sei il re dei folletti, l’altro uno stregone, alle volte un semplice ragazzo, tutti questi ruoli ti si spalmano addosso e diventano parte di te, si mischiano a ciò che sei davvero, alle volte ti seguono anche quando esci, e non distingui più chi sia il vero te stesso, quello che adoro della danza è la confusione e il caos di non riconoscerti più in uno, ma essere mille e provare le emozioni come se ogni giorno fossi qualcuno di diverso.

Quando Iwaizumi mi tocca però da quel disordine riesco a far riemergere me, e Hajime mi ama come Oikawa, non come re dei folletti o stregone, ma come Tōru.

 

Scendo dal taxi, fletto la schiena allungando il corpo, irrigidito dai sedili un po’ duri, sorrido a Iwaizumi e mi accingo verso il portabagagli, ma mi fermo quando lo vedo già piegato nell’intento di sollevare la valigia pesante e il trolley grigio, con una stampa di Tokyo, a parere suo troppo kitsch anche per me. Siamo in anticipo di almeno tre ore, ma se esiste una possibilità di incappare in un imprevisto, sicuramente questo capiterà a me, quindi ci siamo svegliati alle quattro e trenta del mattino, per prendere un volo che parte alle nove. 

- Ho preso tutto, entriamo? -

Mi chiede Hajime tra uno sbadiglio e un altro, con gli occhi appena socchiusi per la stanchezza. Io rimango fermo, di fronte alla scritta “Partenze” dell’aeroporto di Haneda. Do le spalle a Iwaizumi, e non riesco a capire se questo mio stato catatonico è dovuto all’emozione della partenza o a causa di ciò che sappiamo entrambi, succederà inevitabilmente una volta che avrò passato i controlli di sicurezza. 

Mancano tre ore. 

- Sì, passami il trolley - 

- Certo, facciamo portare a Iwa-chan il bagaglio da venti chili schifokawa, che poi si può sapere che ci hai messo? Questi sono almeno cinquanta -

Si lamenta un po’ e sono del tutto certo sia per stemperare la situazione, entrambi speriamo di alleggerire il silenzio che ci ha circondati dalle quattro e trenta fino ad adesso.

- Iwa-chan basta con le lagne, lo sai che non posso fare sforzi inutili, queste braccia e queste gambe ormai valgono milioni! -

Iwaizumi ride forte adesso, si mette una mano sulla fronte e sento un mugugno che somiglia a un “cretino sei sempre il solito!”.

Ci poggiamo sulle seggiole argentate, quelle scomode che fanno male al sedere, e penso a quanti soldi siano stati investiti, in questo stupido aeroporto, e mi chiedo come mai una parte non sia stata impiegata per delle sedute decenti. Non so cosa ci sia nella testa di Iwaizumi, se sta pensando a me, o a un modo per non pensare a me. Non mi guarda. Rimane con i gomiti poggiati sulle ginocchia e il viso basso, nascosto dai palmi, sono sicuro non si voglia far vedere piangere, che lo dice sempre che gli esce il moccio dal naso, e che io da merda quale sono lo prenderei in giro fino al giorno in cui uno dei due non verrà seppellito. Forse questa volta devo essere io a prendere in mano la situazione, devo essere quello che regge.

- Iwa-chan ti ricordi quando da bambino hai dovuto badare a me? -

Io e Iwaizumi ci siamo conosciuti quando avevo dieci anni.

Ricordo che convincere i miei genitori a portarmi al teatro fu una fatica immensa, dovetti lamentarmi, e piangere per settimane, fino a quando per sfinimento non accettarono, non avevo mai avuto l’occasione, di godermi un balletto dal vivo. E quell’opportunità, io, me la presi, con un’avidità tale da sembrare un adulto.

Lo fissavo incantato, ammirandone l’eleganza, i movimenti puliti, privi di sbavature, l’espressione sicura, di chi sa perfettamente cosa sta facendo e ciò che verrà dopo, così, passo dopo passo pulsava nelle vene il desiderio di essere come lui, anzi se possibile più di lui.

Volevo tutto.

Ero così perso nell’estasi da non riuscire a distinguere nemmeno lo scorrere del tempo e, quando l’orchestra finì di suonare e la musica cessò, ci vollero più richiami da parte dei miei genitori per ritornare alla realtà.

Scesi giù dalla sedia che all’epoca mi appariva altissima e corsi via nel frastuono della sala, ancora intenta ad applaudire, ignorando le urla di mia madre, che adesso quando ce l’ha con me, ancora mi rinfaccia quella bravata!

Il corridoio era quasi deserto e la fortuna, o forse il destino, volle che non venissi notato da nessuno, mentre scappavo diretto alla zona dei camerini, captavo l’adrenalina, racchiusa nel gesto sconsiderato di un bambino, che ha come unico obiettivo e priorità quella di avere un assaggio e tastare con mano il sogno della vita.

Il cuore mi galoppava furioso per l’eccitazione e lo sentì quasi perforarmi il petto dal terrore, quando dietro di me avvertii un rumore di passi che ero certo non fossero i miei così, nella fretta e nel panico cercai di nascondermi sotto a un tavolo coperto da grossi teli, e scostando alcuni lembi riuscii a vedere cosa stava accadendo. 

Alcune donne avanzavano leggere al seguito di quella che somigliava a Odette o Odille ed entrarono in una stanza poco distante. Ero sicuramente vicino ai camerini dei protagonisti. Uscendo da sotto il banchetto inciampai in una delle gambe, e sbattei con un tonfo sordo sulla porta che avevo accanto, come se non bastasse questa si aprì, facendomi cadere completamente a terra. 

Iwaizumi Hajime mi fissava. Mi scrutava in silenzio con gli occhi spalancati dalla sorpresa, la bocca aperta e le sopracciglia aggrottate.

Quella sera ne “il lago dei cigni” aveva interpretato lo stregone

- Ciao, bambino? -

- Mi chiamo Tōru - 

Mi guardai intorno, raccogliendo e cercando di memorizzare, ogni dettaglio della stanza, allestita con i suoi oggetti preferiti. I miei occhi rotondi e castani si fermarono sul banco, dove, cipria, ombretti e rossetti vari erano ammassati.

- Wow, Iwaizumi senpai posso provare anche io? - 

Si alzò piano dallo sgabello, indicando con la mano che potevo poggiarmici io.

- Sì, vuoi che ti trucchi? -

Annuì contento e mi sedetti sgambettando.

Lo vidi prendere qualche cianfrusaglia colorata e poi scegliere l’eye-liner tra tutte le boccette.

Io continuavo a sorridere come un idiota, perché in quel momento mi pareva l’unica cosa giusta da fare. Quando si avvicinò per stendermi il prodotto sul visino paffuto cercai di rimanere immobile.

- Puoi respirare se vuoi -

E presi aria.

- Iwaizumi-san sul palco sembravi davvero cattivo, a un certo punto mi sono anche spaventato, quando la musica era tutta tetra e quei movimenti così ampi, ti facevano grande e minaccioso -

Si sciolse in una smorfia di ringraziamento.

- Ma come? ti piace il cattivo? - 

- Sì -

Confermai muovendo la testa, e vidi con uno dei due occhi la mano con il pennellino traballare.

- Come mai? -

Si mise la lingua tra i denti, cercando di rendere la virgoletta dell’occhio destro il più simile possibile a quella dell’occhio sinistro.

Ci pensai un attimo su, alla fine a me piaceva lo stregone perché era lui a interpretarlo, se fosse stato un albero, allora i miei personaggi preferiti sarebbero stati le piante. 

- Perché i malvagi, sono infelici, il principe azzurro è sempre perfetto, e nessuno al mondo sa cosa vuol dire esserlo, ma tutti almeno una volta si sono sentiti disperati, i cattivi, sono più umani - 

Iwaizumi rimase un attimo sbigottito dalla mia risposta, alla fine all’epoca avevo più anni da vivere di quelli vissuti, e mi chiedo ancora, come abbia fatto a uscirmi una frase a effetto del genere, quando ne avevo dieci. Mi guardai allo specchio saltellando e lo abbracciai.

- Grazie Iwaizumi-san, un giorno anche io ballerò sui palchi di tutto il mondo, ma per adesso mi limito a tornare, è passata l’ora di andare a letto, sei fortunato ad avere una mamma che ti lascia stare sveglio fino a tardi! -

Dopo quella che mi parve un’eternità, Iwaizumi annuì incrociando le braccia al petto e un piccolo sorrisetto gli illuminò appena il volto costantemente severo.

E scappai via prima che i miei si preoccupassero troppo.

Mancano due ore e mezza.

- E il mio provino per la borsa di studio? Non è granché ballare quando la tua cotta è tra i giudici sai? -

Quando avevo sedici anni, Iwaizumi ne aveva ventisei, e aveva appena accettato l’incarico alla New National Theatre, in seguito a un incidente, che gli avrebbe impedito di ballare per almeno i sei mesi seguenti. 

L’ingresso della stanza in cui si sarebbero tenute le selezioni si stagliava davanti a me, non c’era nulla di strano o di minaccioso eppure un brivido che poteva essere di eccitazione così come di terrore, mi percorse la spina dorsale, costringendomi a fermarmi.

Ero a un passo dal realizzare ciò per cui mi ero tanto sforzato.

Dal fatidico incontro di cui forse lui non aveva neanche memoria non avevo smesso un attimo di allenarmi. 

La danza aveva appena iniziato a prosciugarmi.

Mi stava svuotando, grand jeté dopo grand jeté.

A un certo punto dubitai perfino della mia sanità mentale, lo sguardo verde di Iwaizumi cominciò a seguirmi durante ogni sequenza di passi, con l’aria critica che solo il migliore avrebbe potuto avere, al minimo errore di cui prendevo consapevolezza, mi giravo nella direzione in cui immaginavo ci sarebbe stato lui.

E nella sala degli specchi io continuavo a provare.

I primi anni furono stressanti, ero convinto che nessuno riuscisse a capirmi, spesso avrei voluto urlare alla mia insegnante di alzare il livello, che avrei potuto fare di meglio, che i compagni di corso non avrebbero fatto altro che rallentarmi, che il tempo passato in inutili attività ricreative o in pause più lunghe del necessario, avrebbero tolto secondi, minuti, e ore al raggiungimento del mio obiettivo

Ero un mostro. 

Iwaizumi venne mandato dietro le quinte per accertarsi che tutti i partecipanti fossero presenti, io ero seduto per terra, nell’intento di sistemarmi i capelli aiutandomi con la fotocamera del telefono. A un tratto lo vidi avvicinarsi e sbattei le palpebre più volte, incredulo che stesse venendo verso di me, si accostò al muro dov’ero poggiato, pensieroso.

- Iwaizumi sensei? -

In quel momento c’era odore di lacca e fondotinta, sapeva di spettacolo, sapeva di incantesimo, e su Iwaizumi era calzante.

- Ti aiuto io -

Hajime mise le mani sulle mie tempie, appiattendomi i ciuffi, allisciati apposta per l’occasione, ai lati, io strinsi appena la bocca piccola, e quando la riaprì lievemente il fiato caldo uscì in refoli, lo vidi deglutire, e irrigidirsi impercettibilmente. 

Mi resi perfettamente conto di ciò che stava succedendo, ero bello da adolescente, sono bello anche adesso, ma nulla può competere con l’inviolata e innocente bellezza del me sedicenne e minorenne di un tempo. Continuò ad accarezzarmi la faccia, le guance, la mandibola, le labbra sottili e colorate dal rossetto, e io non mi sottraevo al tocco che avevo sempre agognato, quella stupida vicinanza, mi teneva sospeso. 

Era così proibito.

- Vuoi baciarmi Iwa-chan? -

Si riprese immediatamente, sono certo che la mia frase l’avesse punto nel vivo, mi stavo prendendo gioco di lui, un uomo adulto. Ma avevo ragione.

- Spero tu stia scherzando, sono il tuo insegnante! Se mi tocca ascoltare di nuovo una cosa del genere verrà riferita a chi di competenza -

Mi misi a ridere, forte, mentre lui si girava per darmi le spalle e scappare dalla situazione che lui stesso aveva creato, mi ha detto poi che la mia smorfia bastarda lo seguì per una settimana intera, anzi ancora oggi quando se lo ricorda si vergogna di sé stesso. Non mi vide ballare quel giorno. Disse che stava male.

Manca un’ora e mezza.

- Iwa, ma quando ti sei innamorato di me? -

 

 

Amare Oikawa, è deleterio, ti toglie le forze, Oikawa è un illusione. 

Chi lo vuole è perché è così piacevole alla vista da far girare la testa.

Una sera dovetti raggiungere l’accademia in fretta e furia, avevo dimenticato le chiavi di casa in aula. Imboccato il corridoio vidi un sottile fascio di luce proveniente da una porta socchiusa, passai una mano sudata tra i capelli e scuotendo la testa, mi appropinquai verso la classe per premere l’interruttore, convinto che gli studenti del turno serale avessero scordato le lampade accese.

Quando fui abbastanza vicino udì un rumore che si unì al suono dei miei passi, e si intravide una sagoma.

Sbattei le palpebre e mi accostai piano all’uscio, senza emettere un fiato. Quando provai a sbirciare, Oikawa Tōru, girava aggraziato su stesso, con gli arti troppo lunghi, quasi infiniti, la musica tanto alta da fuoriuscire dagli auricolari, e il sudore che grondava dalla pelle ormai lucida.

È banale, ma ho capito di essere innamorato di Tōru quando l’ho visto ballare, credo di essermi innamorato prima del suo talento, e questa infatuazione mi ha colpito come uno schianto, violenta.

- No, non va, non è perfetto -

Tōru si piegò su stesso, le mani sulle ginocchia e il fiato corto, gli uscì un ringhio frustrato, e come se nulla fosse, si rimise dritto e riprese… instancabile. 

Quello fu solo il principio della sua follia. 

Quando andò via, era inquinato, contaminato dalla sua stessa collera. 

Oikawa tornò la sera seguente, quella dopo ancora così come tutte le altre. E questo costrinse me a seguirlo.

Alla fine, comunque venni scoperto.

Tōru sul palco, era buio.

Se qualcuno ha un dono inequivocabile si dice che brilla, Oikawa invece è sempre stato avvolto dall’oscurità, quando danza è lo stesso delle crisi, maledettamente fragile, alla ricerca di qualcosa che non lo faccia cadere in pezzi. Quando smette di ballare Oikawa, il pubblico ha il fiato corto, perché provare la sua afflizione è stancante, anche se da seduti in platea.

Il cattivo di cui parlava a nove anni è lui, infelice perché non in grado di raggiungere la perfezione del principe.

Dopo ho amato il resto. Dopo è venuto il suo pessimo senso dell’umorismo, la sua voce petulante che mi chiama Iwa-chan, il suo sbavare mentre dorme, o il grugnito di quando ride troppo forte.

Quando mi sono innamorato di Tōru Oikawa, speravo che non fosse vero, avevamo dieci anni di differenza, e io ero il suo insegnante, l’ho evitato, per settimane, ho chiesto cambi di orari, ho scelto ogni giorno una strada diversa per tornare a casa, per diminuire le probabilità di incontro, vivevo nella paranoia, obbligandomi a non soddisfare quei desideri eticamente sbagliati, da ogni punto di vista, avevo la sensazione di avere a che fare con uno stalker, quando invece era solo un ragazzo, ma io mi sentivo così, soffocato dalla sua presenza. 

Manca un’ora.

- Devo andare Iwa-chan -

Le chiacchiere si interrompono all’improvviso, accompagno Oikawa ai controlli di sicurezza e solo adesso che è sul punto di partire mi guardo intorno, e mi rendo conto di come un posto come l’aeroporto conservi ricordi preziosi di migliaia di persone. Ci sono famiglie che si riuniscono e si abbracciano contente, amici che si rincontrano circondati dall’imbarazzo tipico, di chi, non si vede da tanto tempo e non sa come approcciare. Amanti che si tengono stretti, e poi c’è chi si lascia, li riconosci subito, quelli che non si rivedranno, e non solo perché piangono, ma perché non si voltano, se ne vanno dritti perché sanno di non poterci ripensare, consapevoli che girarsi potrebbe mandare all’aria una scelta così difficile come quella di andare via.

Oikawa trema e le sue lacrime escono senza che lui possa o voglia davvero fermarle, e poi si incontrano con le mie, ci baciamo con i visi bagnati, e le labbra che sanno di sale, ci baciamo con gli occhi chiusi e le mani che vagano e stringono ogni pezzo di pelle coperto dai vestiti. Ci baciamo con la consapevolezza di dirci addio, quell’addio che abbiamo rimandato e ignorato. È che lo sappiamo io e Oikawa tutto sommato che ci stiamo lasciando senza sapere se ci incontreremo ancora. Ci baciamo arrabbiati perché alla fine separarsi nonostante l’amore ti fa un po’ incazzare. Accarezzo il viso di Oikawa per non dimenticarmi la sensazione della sua pelle liscia, sotto i miei palmi ruvidi, lui si aggrappa ai miei capelli, spingendomi ancora più contro di sé, e io benedico il non essere andato dal parrucchiere, perché altrimenti adesso saremmo qualche millimetro più lontani.

Quando ci stacchiamo ci siamo anche scordati come si fa a respirare, cerco di sorridere, che lo so che è un palliativo ma magari, ci aiuta veramente un attimo, a sopportare questa pena.

Gli asciugo il viso, e lo bacio tutto, ogni parte scoperta.

- Tōru, ascoltami, la Scala ti sta aspettando a Milano, porca merda! E io ti aspetterò qui, guardando ogni performance che trasmetteranno in tv, e urlando a tutti “ma quella è la testa di cazzo che amo” -

Annuisce singhiozzando. 

- Ti amo Iwaizumi Hajime -

E lo dice per intero il mio nome stavolta.

- Ti amo anche io, adesso vai - 

Oikawa prende le valigie e scannerizza il biglietto, io lo seguo con lo sguardo fino a quando non lo vedo sparire.

Non si è voltato. 

Ma mi concedo un attimo per immaginare che l’abbia fatto, e lo vedo: mi fa un veloce occhiolino e sorride come la serpe che adoro e allo stesso tempo prenderei a schiaffi. Perché è questo Oikawa, un agglomerato di insicurezze e vittimismo compulsivo, che vengono seppellite da egocentrismo, piagnistei infantili, e protervia, tutto rifinito da pelle nivea e onde castane.

Sorrido amaramente, continuando a piangere. Non ci rivedremo più.

Ho quasi ventinove anni e sono qui in un aeroporto, a piangere per un bambino di merda. Ho quasi ventinove anni e sono qui in un aeroporto a piangere per quello che ritenevo essere l’amore della mia vita. Ho quasi ventinove anni e sto piangendo in un aeroporto per quello che è l’amore della mia vita. Ho quasi ventinove anni e domani sarò in quel buco di appartamento del cazzo e piangerò per quello che sarà per sempre l’amore della mia vita.

   
 
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