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Autore: Ombrone    21/03/2022    2 recensioni
Questa è diventata la mia storia più vista e più seguita. Grazie a tutti! Farò del mio meglio perché i prossimi capitoli siano all'altezza!
Una storia d’amore di 2000 anni fa.
Il giovane patrizio Marco Valerio Corvino torna a Roma nella sua casa dopo aver prestato servizio sul limes in una lontana provincia, troverà qualcosa che non si aspettava e per capire come affrontarla dovrà scoprire il lato nascosto di se stesso.
Il mio è un tentativo, mi direte voi quanto riuscito, di scrivere una storia d’amore, romantica, ma verosimile per la sua epoca, questo significa che al suo interno troverete situazioni, discorsi, atteggiamenti e comportamenti che potrebbero disturbare ed offendere, e che per gli standard del XXI sono inammissibili (o addirittura illegali). I personaggi stessi potrebbero sembrarvi antipatici o immorali o violenti: mi son sforzato di renderli realistici rispetto all’ambientazione e fargli seguire comportamenti considerati normali, morali o addirittura meritori per il primo secolo dopo cristo, un epoca molto lontana e molta diversa dalla nostra.
Commenti e anche critiche benvenuti e incoraggiati. Stimolano a scrivere e servono a migliorare!
Genere: Erotico, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Storico
Capitoli:
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Tornai a Roma da solo.
Mia madre e mio zio non dissero niente, nessun commento arrivò alle mie orecchie, anche se sicuramente lei si informò, nei giorni seguenti, di quello che avevo fatto e deciso.
Sabra iniziò a gironzolarmi intorno, pur senza il coraggio di chiedere espressamente, fui io, per evitare che zio lo notasse e la rimproverasse di nuovo, che quando ebbi l’occasione la presi da parte e le dissi che avevo dato ordine che Filinna e il fratello fossero mandati a Baia, dai genitori. Lei sorrise, mi baciò. Non le dissi altro.
Catualda non era invece così riservato e la mia faccia corrucciata, e la quantità di vino che ingurgitavo, chiamava una spiegazione. Chiese cos’era successo se per caso non l’avessi ritrovata.
Per un attimo pensai di chiuderla, mentendogli e confermando la sua ipotesi, ma non la feci.
“L’ho trovata, ma… ma non è andata come pensavo, non era quella di una volta.”
“Non era più bella?”
Lo fissai. “No, era.. era bella.” Si lo era. “Come sempre, ma è cambiata. Non… adesso mi odia, amico. Mi dà la colpa delle sue sfortune.”  
Lui si soffermò pensoso e poi risolse i dubbi con un’altra sorsata di vino.
“Le donne ti odiano spesso, poi ti amano, poi ti ri odiano… poi ti riamano, sono donne. E spesso se ti dicono che ti odiano è perché ti amano.” Si fermò a riflettere “Non so. Credo. Sono ubriaco anch’io, Marco.” Su questo ultimo punto non avevo dubbio, sugli altri ne avevo qualcuno in più.
Dopo alcuni giorni, Eryx mi consegnò una lettera di Cleone.
Filinna e il fratello erano arrivati a Baia e lui mi ringraziava. Era una lettera di quelle da conservare: io ero un novello Orfeo, ma assai più saggio, che aveva salvato dagli inferi la sua Euridice. Filinna era Persefone, che con il suo ritorno aveva fatto rinascere la vita anche in lui, padre dolente, e riportato la primavera nella sua esistenza. Insomma, non poteva scriverla meglio e in maniera più commovente, ma non mi diceva nulla di quello che avrei voluto sapere. Come stava? Era felice? Era tornata a sorridere? La guardavo e in quelle righe non trovavo risposta.

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E risposta certo non ero destinato ad averla presto. 
Impegni molto più gravosi mi attendevano, nelle settimane successive dovetti presentare il rapporto di Palpellio al Senato e successivamente all’Imperatore. Rimpiansi di non aver al mio fianco Cleone per rivedere e affinare i miei discorsi, ma tutto andò comunque per il meglio e i miei interventi vennero apprezzati e l’Imperatore mi invito persino ad un'altra cena.
Anche Catualda era presente, come ospite dell’Imperatore, dopo essere stato presentato risiedeva ufficialmente a palazzo, anche se continuavo tenergli a disposizione una camera nella mia casa e probabilmente passava più noti da me che a palazzo. Rimanemmo seduti a tavola fino a tardi, tempestati dalle domande di Claudio Cesare che voleva sapere tutto dei costumi e della storia del popolo dei Quadi e dei loro vicini.
Una discussione piacevolissima e istruttiva. Claudio Cesare era veramente una persona piacevole e in quelle occasioni private estremamente alla mano. 
A fine serata, Cataulda si spinse a canzonarmi amichevolmente proponendo che dovessi aggiungermi il soprannome di Ermonduro, visto il mio successo nella spedizione punitiva che avevo guidato, il buon vino servito aveva talmente rallegrato tutti che l’Imperatore stette al gioco e si disse disposto a proporlo al senato e alla mia faccia sbigottita si fece grosse risate a cui, una volta capito che mi prendevano in giro, mi unii di buon cuore.
Alcune settimane dopo mi candidai alla carica di Questore e visto il favore di cui godevo e dell’appoggio dei numerosi amici della mia famiglia fui eletto senza eccessivi problemi. Il primo passo del cursus honorum che non comportava solo di aver ottenuto l’onore di un Littore che mi scortava in giro per la città, ma soprattutto l’ammissione al Senato. Ero tornato al posto che era stato di mio padre.
Difficile per me descrivere le emozioni che provai il giorno in cui entrai per la prima volta in quell’aula non come visitatore od ospite, ma come un pater conscriptus, accolto dai saluti e dagli abbracci degli amici e dei colleghi di mio padre.
Avrei voluto avere lui e mio fratello accanto quel giorno, ma, forse, c’erano anche se non li vedevo e di sicuro mi sorridevano.

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Scesi a Baia solo al ritorno della buona stagione, in compagnia di un gruppo di amici fidati, tra cui Catualda, che si era ormai inserito benissimo nella vita sociale di Roma ed era un ospite ricercato ovunque per cene e ricevimenti (e anche per i dopo cena, i suoi occhi azzurri avevano spezzato il cuore di svariate fanciulle e matrone). 
Era la prima volta che andavo realmente lì, l’ultima volta prima di partire per la Pannonia la mia era stata una semplice visita per valutare il completamento dei lavori e la casa era ancora quasi vuota, disabitata, ma questa volta era differente. 
La villa era stata preparata nei minimi dettagli per accogliere me e i miei ospiti. Ogni superficie era stata lavata e lucidata, i giardini erano al massimo del loro splendore, sembrava avessero lustrato persino le foglie degli alberi e i petali dei fiori, la servitù preparata, rivestita di nuovo e dall’aria sveglia e attenta.
Feci la figura migliore che fosse possibile e fare e ne fui più che lieto.
La vera gioia fu però re incontrare Cleone. Era lì al mio arrivo, si teneva un po’ discosto, sul lato tra le colonne dell’atrio, ma quando lo vidi non potei trattenermi dal salutarlo appositamente e vidi che ricambiava i miei sentimenti.
Una volta sistemato, mentre gli ospiti si sistemavano a loro volta e si riposavano, andai io a trovarlo, tanto immaginavo dove lo avrei trovato: in biblioteca. Così fu.
La biblioteca occupava una grande stanza, illuminata da due grandi finestre. Il pavimento era decorato con semplici motivi geometrici, ma chiaro per dare ancora più luminosità, che contrastava magnificamente con le pareti coperte dagli scaffali in legno scuro su cui erano riposti custoditi i volumi.
Al centro un grosso tavolo con sedie comodo e due leggii, a cui trovai Cleone e suo figlio Erasto. Non c’era Filinna, non saprei dire se fui deluso o sollevato che non fosse lì. Volevo vederla e sapere come stava e lo temevo allo stesso tempo, come mi avrebbe guardato?
Cleone si balzò immediatamente in piedi:
“Padrone!” Mi venne incontro e abbracciando con un gesto tutto quello che ci circondava. “Vedete che meraviglia?”
Gli sorrisi, era vero, era una biblioteca come poche, un vero gioiello. “Si vede che ce la tua mano, caro Cleone. Veramente stupenda. Non vedo l’ora di potermi rilassare in questo posto, leggendo i volumi che hai preparato.”
Si fermò a un passo di distanza da me. Anche il figlio aveva alzato il viso dal rotolo su cui stava lavorando e ci fissava.
“Li abbiamo preparati per voi. Io vi devo ancora ringraziare per avermi ridato i miei figli.”
Scossi la testa e non era falsa modestia.
“Ho solo rimediato a un mio errore, Cleone, è stata anche colpa mia se è successo quello che è successo.”
“No, padrone, vi prego, non ci sono colpe. Voi mi avete ridato la gioia padrone, ridandomi i miei figli.”
Capii che Cleone, era in imbarazzo, temeva di criticare mia madre di fronte a me e questa era d’altra parte una cosa che volevo evitare di sicuro anch’io. Cambiai argomento e mi rivolsi al figlio.
“Erasto, ho saputo della tua gamba. Spero vada meglio. Se c’è qualcosa che si possa fare, fatemi sapere.” 
“Grazie Padrone, va meglio, per quello che è possibile. Zoppico, ma non è grave.” Minimizzo, malamente. “Per il lavoro e la vita che faccio non è grave.”
Annuii. “Sono sicuro che sei di valido aiuto.”
“Lo è, lo è.” Confermò Cleone. “Ed è la luce che illumina il mio futuro. Ha trovato anche una brava ragazza, qui a Baia.”
Mai visto gli occhi di Cleone brillare così. “Ne sono felice e chi è?” 
“Una delle serve delle cucine, Padrone. Magari avrò dei nipoti.” Quasi risi vedendo quando contrastava l’espressione di aspettativa di Cleone con il viso imbarazzato del figlio.
“Buono a sapersi, farò sapere al sovrintendente che non devono essere separati in nessuno caso. Sono felice per voi!” Ripetei. Poi finalmente riuscii a trovare il coraggio di domandare: “Spero che anche FiIinna stia bene.”
“È rinata anche lei, padrone, rifiorita. La incontrerete di sicuro nei prossimi giorni.” Poi aggiunse lo sguardo triste. “È stata molto dura per lei, Padrone. Voi me l’avete salvata.” Nell’espressione meravigliata che assunse il suo viso, vidi riflessa, la smorfia che improvvisamente distorse il mio. Non so come riuscii a dire.
“Sono contento che stia bene anche lei.”
Fu poi lui con la sua proverbiale delicatezza a cambiare argomento.
“Ma venite a vedere come ho organizzato i volumi Padrone, ci ho a lungo studiato.”
Lo seguii ascoltando le sue spiegazioni: i libri che aveva fatto copiare fuori o che aveva copiato lui stesso (e riconobbi anche la grafia di Filinna), come lì aveva organizzati e classificati. Alla fine, mi parlò anche di come stesse scrivendo un poema che cantava la vittoria di Pompeo su Mitridate e io mi offrii di pubblicarlo non appena lo avesse giudicato pronto. Di sicuro sarebbe stato un successo.

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Filinna la rividi quella sera. Era stata organizzata una cena, una cosa piccola per me e gli ospiti che avevano viaggiato con me. Una cosa semplice: io con cinque ospiti, il grande triclinio era praticamente vuoto, ma reso piacevole dalle discussioni amichevoli e dal buon cibo.
Filinna serviva come coppiere, gli occhi nocciola chiaro belli come ricordavo, era cambiata da quel giorno in cui era venuta ad accendere le lucerne nello studio piccolo, ma era forse persino più bella: per servire il vino ad una cena con degli ospiti importanti aveva indossato, o le avevano fatto indossare, una delle tuniche migliori, stoffa pregiata, le braccia nude e abbastanza corta da mostrare le caviglie, i capelli neri sciolti sulle spalle nude dalla pelle soffice e liscia. I fianchi che premevano la stoffa modellandola.
Girava intorno alla tavola, alternandosi tra gli ospiti mescendo il vino, con movimenti eleganti, non appena vedeva le coppe svuotarsi.
La servitù che serve a tavola è di solito invisibile ai commensali, non si bada a loro, se non per rivolgergli un gesto o al massimo un cenno del capo, ma quando lei si avvicinava trovavo difficile rimanere e indifferente e fingere naturalezza. Mi accorgevo che più tentavo di dissimulare più mi irrigidivo e quando si piegava a riempirmi la coppa, mi sembrava di sentire il suo profumo o il tocco di una sua ciocca di capelli che mi sfiorava il viso.
Non tardai a rendermi conto che anche per lei era lo stesso, per servirmi si fermava impercettibilmente più indietro rispetto a quanto avrebbe dovuto, evitando di guardarmi, anche lei rigida e innaturale, una volta la mano le tremò e finsi di ignorare una goccia di vino cadde sulla tavola. 
Era triste tutto ciò, al ricordo di quando invece alla mia presenza sorrideva e rideva e ridevo anch’io.
Fu Catualda a darmi il colpo di grazia, sporgendosi verso di me, vinto dalla curiosità e sussurrandomi complice.
“Ma è lei la ragazza di Nomentum?” Annuii senza parlare. “Ah! Una delizia, avevi ragione a rivolerla.”
E dopo di ciò non mi restò altro conforto che la coppa di vino, con il risultato che me la trovai ancora più spesso accanto a me a riempirmi la coppa.
Non era comunque l’unico a bere anche gli altri seguirono l’esempio mio e continuammo a dar fondo alle coppe pur non potendo, nessuno di noi, nemmeno sfiorare le intoccabili vette raggiunte da Catualda in materia di vino.
Stavo discutendo con Lucio, uno di quelle profonde discussioni che si fanno da ubriachi, resa ancora più solenne dagli estemporanei interventi di Catualda, quando da abissali profondità mi accorsi che qualcuno mi chiamava in lontananza. Alzai gli occhi per trovarmi di fronte a Gaio a nemmeno due braccia da me che si stava sgolando per richiamare la mia attenzione, ridendo, anche lui con il viso arrossato dal troppo vino.
“Posso prenderla per stanotte?” Alla fine, mi resi conto che mi stava domandando e mi accorsi che FIlinna era in piedi accanto a lui, alzai lo sguardo e per la prima volta nella serata, la prima volta da tanto tempo i nostri occhi si incrociarono e il suo sguardo era di rassegnazione e accusa. Il viso immobile e inespressivo mentre Gaio la teneva per un braccio, scuotendola leggermente, come per mostrarmela ed essere sicuro che capissi di chi parlasse, come se non conoscessi i miei schiavi domestici.
Sentii lo stomaco chiudersi, vedevo le dita delle mani di Gaio che le stringevano forte il braccio affondando nella carne. La testa mi rimbombò mentre Gaio rideva, colpito dalla mia espressione vacua, pensando che fosse semplicemente quella di un ubriaco.
Chiusi gli occhi, come sperando di cancellare quell’immagine, ma quando li riaprii era sempre li. Lei immobile, silente con lo sguardo triste fisso su di me. Scossi la testa come tentassi di recuperare lucidità.
E gliela negai.
Filinna abbassò gli occhi, un sospiro di sollievo, fin troppo visibile, non appena Gaio le lasciò andare il braccio.
Gaio guardo lei e poi me, adesso era la sua meraviglia quella dell’ubriaco, e mi chiese il perché.
Gli risposi, semplicemente, la verità: 
“Perché mi è cara.”
Lucio scoppiò in una risata omerica e gli altri lo seguirono. Ero il solito animo delicato e sensibile, un vero stoico, incorreggibile, lo sapevano tutti quelli che mi volevano bene. 
Sarebbe tutto finito là, se non ci fosse stato Catualda, sempre esotico coi suoi baffi biondi, gli occhi chiari e la pelle pallida, ma la toga come un romano, ormai non la toglieva più da quando gli era stata concessa la cittadinanza.
Catualda continuava a parlare poco, la sua forma e la sua grammatica erano già molto migliorate, ma si vergognava ancora del suo accento barbarico. Parlava poco, ma osservava molto ed era un occhio fine, bisogna riconoscerlo. 
Aveva riso anche lui, forte e tonante, come ci si aspetta, in fin dei conti, che debba ridere un Germano delle foreste del nord, poi aveva alzato la sua coppa e aveva chiamato un brindisi alla mia fortuna, perché era chiaro, diceva, che se a me era cara la ragazza, anch’io ero caro a lei visto come mi aveva guardato per tutta la serata.
Solo il rinato tumulto di risate che era seguito aveva impedito ai miei ospiti di notare come era arrossita Filinna e di come mi aveva guardato, facendo arrossire me questa volta. Quanto l’avevo trovata desiderabile in quel momento.

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La casa era ancora silenziosa, tutti i miei ospiti erano ancora profondamente addormentati, quando uscii dal bagno freddo, rinato dopo la serata di stravizi, uscii nel giardino e mi diressi al mio angolo preferito: una delle panche in pietra sotto il pergolato, quella con la miglior vista sul golfo.
L’aria della mattina era fresca, frizzante di brezza marina, ma il sole già si faceva sentire sulla pelle.
Mi sedetti sulla pietra ancora fredda, accanto a me un’anfora di acqua fresca (niente di meglio che bere molta acqua fresca e pura di sorgente se la sera prima si è ecceduti col vino, come avevo fatto) e un piccolo rotolo di Lucrezio.
Sotto di me si estendeva in tutta la sua magnificenza la vista del golfo di Napoli fino a Capri, di fronte a me, una tavola blu scura punteggiata dalle vele di alcune barche da pesca e da tre splendide triremi che stavano giusto lasciando Pozzuoli.
Sorrisi a me stesso, gioioso di tanta bellezza e srotolai Lucrezio.
“Quando la necessità ci porta a usare parole sincere, cade la maschera e si vede l'uomo”
Qui mi cadde l’occhio e qui mi fermai e non riuscii ad andare avanti. La mia serenità improvvisamente scomparsa. Inutile prendersela con Lucrezio se le sue parole erano così appropriate e se mi colpivano come una freccia dritta nel petto. Lo scopo della poesia è proprio esplorare l’animo umano, a volte di aprirti il cuore come una lama affilata per farti vedere cosa contiene.
Ero stato sincero ieri sera?
La maschera, quello che portavo, era caduta.
Non riuscivo ad essere indifferente a Filinna. Non potevo. Quella era la verità
Ora che dovevo fare? Lasciar svanire quel momento di sincerità?
Sarebbe stato saggio, ma io non sono mai stato saggio.
Sotto di me, uno degli schiavi stava curando le siepi, lento e svogliato, malgrado la mia presenza, non lo conoscevo doveva essere uno dei rustici preso da una delle proprietà agricole per curare i giardini. Quando lo chiamai comunque corse. Svelto e rispettoso.
“Conosci Filinna la figlia di Cleone? Valla a chiamare che le voglio parlare.”
Non dovetti aspettare a lungo, solo il tempo di una coppa di acqua e le triremi uscite dal porto erano ancora visibili ancora ben al di là dal doppiare Capo Miseno. Sentii i passi leggeri di Filinna e sollevai lo sguardo, adesso aveva, i capelli di nuovo raccolti nella sua solita treccia e la tunica più spessa e larga le copriva le braccia e le caviglie, una stola con un motivo geometrico sulle spalle.
“Mi avete fatto chiamare, padrone?”
Non mi guardava, il viso era quello inespressivo, una maschera di cera, tipico degli schiavi di quando hanno paura di qualcosa.
“Si, grazie. Non ti preoccupare non hai fatto nulla di male. Volevo solo parlarti.” Le dissi e per un attimo sollevò lo sguardo, come ad interrogarmi. Parlare è una parola che doveva suonarle strana, non avevo detto che dovevo ordinarle qualcosa o anche solo chiederle qualcosa.
Eravamo soli nel giardino, la guardai, immobile di fronte a me, in piedi, le mani unite di fronte al ventre. Piccole e delicate.
Mi schiarii la gola e istintivamente passai al greco, la lingua più vera tra tutte le lingue.
“Filinna, ti ho chiamato per chiederti scusa.” Ecco questo, provocò una reazione, la vidi come sussultare, gli occhi dardeggiarono sul mio viso, meravigliata da parole tanto inusitate. “Sento di dovermi scusare con te, per quello che è successo. Ho mancato verso di te, quando sono partito per la Pannonia, non ho badato a te, come ti avevo promesso, e ti ho lasciato esposta all’antipatia di mia madre per te e per tuo padre. Non doveva punirti ingiustamente e cacciarti dalla casa di Roma per mandarti a Nomentum. Mi dispiace è stata colpa mia.” Non aveva riabbassato lo sguardo, mi guardava fisso, la bocca stretta, dubbiosa, forse preoccupata per quello che stava succedendo. “E mi devo scusare anche per quello che ti ho fatto io… io quella mattina, quando venni a cercarti.” Ecco quello che mi usciva dalla bocca: una vergogna dopo tutti gli anni a studiare retorica, dialettica e oratoria, ma erano frasi difficili, perché sono vergogne che sentivo veramente. “Ti chiedo scusa sinceramente, Filinna, e spero che vorrai perdonarmi.”
Solo quando smisi di parlare vidi il suo viso diventare vivo, la bocca le tremò. 
“Mi avete portato via da là, padrone, mi avete portato me e mio fratello qui a Baia, dove ci sono i miei genitori, Sto bene e nessuno ci maltratta. Avete rimediato ai torti che avevo subito.” Si interruppe un attimo. “Vi devo essere grata, siete un buon padrone. Sono serena adesso. Come riconoscere la luce se non si è avuto, almeno una volta, l’esperienza del buio?”
Non potei fare a meno di sorridere, degna figlia di Cleone, che citava gli stoici come un oratore nell’agorà mentre io incespicavo nelle parole, come un ignorante. 
“Filinna, sei sempre colta e intelligente quanto sei bella, ma oltre a dire che mi sei grata, puoi perdonarmi per il male che ti ho fatto e ho per quello da cui non ti ho protetto.”
Abbassò la testa e un ciuffo di capelli le calò sulla fronte, oscurandole gli occhi, per un attimo ebbi paura che mi rispondesse di no, che non poteva perdonarmi il male che le avevo fatto.
“Padrone, come posso non perdonarvi, come potrei negarvelo?”
“Grazie. Mi dai sollievo.” Calò un silenzio di attesa che interruppi con la prima cosa che mi venne in mente per avere una scusa per trattenerla. “Va tutto bene qui a Baia, ti serve qualcosa?”
“No, padrone, ho tutto quello che mi serve.” Poi aggiunse. “Avevate ragione è un posto bellissimo.”
Sorrise. 
Quanto mi era mancato quel sorriso. Come potevo negarlo? 
“Mi sei mancata, Filinna, per davvero.” Dissi all’improvviso. Sincero. Ci guardammo negli occhi, entrambi tentando di capire l’animo dell’altro. “Verresti da me stanotte? Vorrei passarla con te.”
Distolse lo sguardo, smise di sorridere.
“Siete il mio padrone.”
Scossi la testa.
“No, non sto dicendo questo. Non sto dicendo questo…. Dovresti conoscermi un poco. Non devi farlo… non è un ordine, o altro, non voglio farti altro male… solo se vuoi venire.” 
Impiego un lunghissimo istante per rispondermi. “Mi siete mancato anche voi…” La vidi piegare le labbra di nuovo un piccolo sorriso. “Era bello, padrone, era un periodo felice.” Poi la vidi rabbuiarsi. “Io non credo che potrà tornare.” Aveva ragione. 
“No, non si può tornare indietro,” ammisi l’ovvio, “ma mi manchi davvero.”
Il sorriso le tornò. “Io verrò.”
Ci sorridemmo a vicenda, le presi una mano e me la tirai vicino.
“Siediti un attimo.”
Esitò e vidi nei suoi occhi brillare di allegra malizia.
“No, padrone. Devo andare a lavorare.” Quanto volte avevo sentito quella frase dalle sue labbra. 
“Nessuno ti rimprovererà. Visto che ti sto trattenendo io.” Le diedi la risposta che le davo tutte le volte.
“Lo so.” Il sorriso si allargò e vidi i suoi occhi ridere “Ma lo saprei io di non aver fatto quello che dovevo.” Fece un passo indietro liberando la mano. “Ci vedremo stasera.” Fece una pausa “Quando mi chiamerete.”
Se ne andò senza chiedere il permesso, lasciandomi solo. Il passo era svelto ed elastico, la schiena dritta e la testa alta. Si voltò solo un attimo per guardarmi in tralice, con un piccolo sorriso.

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Quando rientrai a Roma, lasciai Filinna a Baia. Era la soluzione migliore. Per lei sarebbe stato un dolore per lei essere di nuovo separata dai genitori e dal fratello, era chiaro. Soprattutto riportarla a Roma sarebbe stata una critica implicita, ma chiara, all’operato di mia madre. Non volevo assolutamente offenderla in questa maniera e soprattutto non volevo aprire una contesa con lei, in un contrasto simile sarebbe stata sicuramente Filinna a pagarne le conseguenze. Mi sembrava di averle fatto già fin troppo male. 
A Roma avevo ben altri impegni che mi avrebbero lasciato ben poco tempo per rilassarmi con lei. L’incarico di Questore, le sedute del Senato la gestione dei miei affari erano sufficienti a riempire le mie giornate e buona parte delle mie serate. 
Inoltre, non voglio far sembrare di essere diventato un intimo dell’Imperatore, ma di certo in quel periodo venivo molto considerato da lui e gradiva spesso la mia compagnia. Il che mi portava al centro dell’interesse pubblico se non altro come possibile canale di contatto per ottenere favori o visibilità.
La mia non era una posizione comoda però. Mi era fin troppo chiaro che a corte c’era qualcosa strano in corso e mi sembrava proprio che al centro di tutto fosse l’Imperatrice, Valeria Messalina, e l’Imperatore ne sembrava totalmente inconsapevole.
Rimasi a lungo perplesso su cosa fare e come comportarmi, pensai a lungo all’affermazione di mia madre che i nostri sono tempi per sopravvivere non per essere retti. In più dovevo tener conto dei nostri legami di parentela con Valeria Messalina. Ovviamente dopo tanti tentennamenti e numerose notti insonni (e sì lì rimpiansi di non avere Filinna accanto) feci quello che avrebbe fatto mio padre e tentai di avvisare l’Imperatore, seppur con tatto e diplomazia, che stava succedendo qualcosa di strano.
Non mi diede retta, anzi mi accorsi che lasciava appositamente cadere il discorso, rifiutando di parlarne e cambiando argomento. Mi arresi, e passai le settimane successive ancora più insonne, temendo di averlo offeso e di essere uscito dal suo favore. Per poi spaventarmi ancora di più quando mi accorsi che sembrava che tra noi nulla fosse cambiato. Non capivo cosa stesse succedendo.
Poi quando successe quello che successe e quella sciocca di mia cugina tentò di deporre Claudio Cesare e far nominare Imperatore il suo amante e finì giustiziata, scoprii che l’essermi comportato rettamente era stata la mossa giusta. L’imperatore lungi dal ritenermi complice o legato a Valeria Messalina (e molti caddero in disgrazia o peggio), mi ringrazio per essere stato tra i primi ad avere avuto il coraggio di avvertirlo e rinnovò il suo favore verso di me.
Filinna, dunque, la incontravo a Baia, nei momenti in cui potevo rilassarmi, e non mentirò negando che spesso trovavo ragioni per lasciare Roma più spesso di quanto avrei dovuto.
Filinna era molto cambiata, in una maniera che devo dire non trovavo sgradevole. Era diventata più assertiva. Il suo comportamento era sempre irreprensibile e non potrei neppure accennare ad una mancanza di rispetto, ma, in privato, mi trattava senza nessuna remissività. Prima questo si limitava alle nostre discussioni più intellettuali, in cui le concedevo ampio margine di libertà, ma per il resto la sua soggezione nei miei confronti era stata quasi esagerata. Ora era scomparsa. Affrontava il mondo e me con coraggio a testa alta.
Era diventata una sfida e il suo sorriso una ricompensa da guadagnare.
Non mi dispiaceva.

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Quell’anno passai i Saturnalia a Baia. Dicembre non è la stagione più bella, neppure lì: il cielo è spesso carico di pioggia e le acque del golfo da azzurre diventano grigie e cupe, scure come il vino, omeriche, ma avevo convinto mia madre e zio e unirsi a me per sfuggire alla confusione di Roma in occasione delle festività.
Il giorno della festa partecipai ai riti in onore del dio Saturno nel tempio di Pozzuoli e poi rientrai alla villa per partecipare alla festa della servitù.
Ho molte conoscenze che partecipano attivamente alla festa: indossano una toga colorata e si mischiano agli schiavi della casa per folleggiare con loro in libertà. Io preferisco evitare, non perché mi consideri superiore, ma perché trovo che alla fine la presenza del padrone rovini la loro di festa.
Per una sera e una notte possono festeggiare liberamente godersi la vita come non possono nel resto dell’anno e parlare apertamente. Per quanto la festa renda tutti uguali e sarebbe stato assai disdicevole portare malevolenza per qualcosa successo durante quelle ore, è evidente che in presenza dei padroni la servitù non si sentirà mai pienamente a suo agio. 
Così, mi comporto come mio padre: faccio organizzare un grande banchetto per tutta la servitù, con vino buono in abbondanza e piatti ricchi e speciali per tutti e io mi limito ad essere presente a inizio serata, indosso il pileo (il cappello in feltro dei liberti), mi trucco il volto e aspetto che venga estratto a sorte il principe della serata che guiderà il banchetto e per una notte sarà il padrone di casa (e in quell’occasione fu Aristo, il fratello d Filinna). Gli servo le prime portate e gli faccio da coppiere, dopo di che mi ritiro nella mia camera dove di solito mi sono fatto portare una cena fredda e mi attende una buona lettura.
In quell’occasione mi trattenni un po’ più a lungo, mentre mia madre, come suo solito, distribuiva piccoli regali ai bambini e alle donne, e zio, truccato come un teatrante di provincia cantava dei versi da lui composti accompagnato dalla cetra, malgrado la bella voce non sia tra le sue doti, o forse proprio per questo.
Feci persino una partita a dadi con Aristo e il Sovraintendete della casa, e persi, prima di seguire mia madre e ritirarmi. 
Quella sera in verità la lettura non era né buona né piacevole, dovevo rivedere tutta una serie di documenti del senato e dare gli ultimi ritocchi a una orazione, che pur avendola scritta io stesso, trovavo già indigesta e noiosa.
Non riuscivo a concentrarmi e fissavo la finestra ascoltando il rumoreggiare della festa della folla su cui spiccava la bella voce di Sabra che cantava, quando senti grattare alla porta e al mio comando di entrare mi trovai di fronte Filinna.
Indossava una tunica decorata con strisce di stoffa colorata, i capelli sciolti, le guance colorate di carminio e gli occhi truccati, in cima alla testa il pileo di un rosso vivo era inclinato in precario equilibrio. Era decisamente alticcia. Non che ci volesse molto con lei, visto che non beveva mai.
A quella vista non potei fare a meno di ridere, ma lei mi interruppe subito, rimproverandomi simulando una voce cupa e severa.
“Come ti sei permesso, servo, di lasciare il banchetto senza il permesso della tua padrona?”
Senza smettere di ridere non potei fare a meno di stare al gioco, nello spirito dei Saturnalia, scattai in piedi afferrando il mio di pileo rimettendomelo in testa. 
“Scusate, mia signora.” Feci. “Non l’ho fatto apposta.”
Lei fece un passo avanti. Poi, provando a imitare il mio tono di voce e le espressioni di quando ero arrabbiato.
“Chissà quante scuse stupide tenterai di appiopparmi!”
“O tante, Signora, tante. Mi bastano per tutta la notte!” Cantilenai. Tentando di imitare il servo furbo di tante tipico di tante commedie. “Mettetevi comoda e fatemi dire!” e le offrii la sedia in cui ero seduto io un attimo prima. Lei si sedette con movimenti composti e studiati e si allisciò la gonna con affettazione.
“Del vino, mia signora?” Offrii porgendole la coppa.
“Adesso provi a lusingarmi, ma lo so che sei pigro e assai disobbediente.”
Me la porse e io gliela riempii.
“Dovresti tenere la schiena più dritta quando servi il vino. Sai? La tua posizione è tutt’altro che elegante.” Mi rimproverò.
“Oh, scusatemi mia signora! Perdonate questo povero servitore.”
“Saresti un pessimo schiavo lo sai?”
“Mi volete punire?”
“Lo meriteresti.”
“Datemi una occasione per farmi perdonare!” E chinandomi veloce le rubai un bacio.
“Brigante!” strillò con perfetta finta indignazione. “Brigante! Quale tremenda punizione dovrò darti adesso!”
Provando a imitare la sua capacità di recitazione a quel punto mi gettai in ginocchio ai suoi piedi.
“O Padrona! Abbiate misericordia, cosa volete farmi?” Forse esagerai un po’ perché lei scoppiò a ridere e io la seguii.
Quando smettemmo, mi accarezzò il viso.
“Come servo saresti davvero tremendo. Chissà quante volte saresti punito.”
“Tu invece come padrona di casa saresti perfetta.”
Scosse la testa.
“Non mi prendere in giro. No, non saprei proprio cosa fare o cosa ordinare. A te viene naturale, sai cosa gli altri devono fare e sai come e quando ordinarlo. Io non so come fai, io non sarei capace.” Si chinò e ci scappò un altro bacio.
“Non oserai mai prendere in giro la mia padrona.” Riscoppiammo a ridere. Poi ripresi, vedendola indecisa. “Cosa desidera mia signora? Che le serva la cena?”
Rimasi in silenzio, sempre in ginocchio, con lei che mi osservava dall’alto. Poi la bocca si inarcò in un sorriso, c’era malizia.
“No, ho altre idee.”

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Quando alla fine Filinna terminò di mostrarmi le sue idee, rimanemmo abbracciati avvolti nella coperta. Era stata una nottata sorprendente devo dire. Di sicuro aveva contribuito che avesse bevuto, ma poi mi ero ricordato di averla vista, prima della cena, appartarsi con Sabra e chiacchierare e ridere fitto, il che mi lasciava intuire da dove fossero venute molte delle idee che avevamo appena sperimentato. Molto di quello che mi aveva chiesto di fare, di farle, era decisamente una novità. Giochi decisamente piacevoli, ma ammissibili solo ai Saturnalia e di cui certo era meglio non raccontare.
Non dormivamo, di solito a quel punto iniziavamo qualche sfida letteraria, la più tipica era che uno di noi recitasse i primi due versi di qualcosa e l’altro dovesse continuare, se indovinava era lui a iniziare e all’altro toccava completare. Era difficile batterla a quel gioco, ma quando ci provai mi zittì e si rimise appoggiata a me in silenzio. Le accarezzai il braccio, risalendo fino alla mano, riscendendo mi fermai sul polso lo stesso dove aveva infilato il disgraziato bracciale che le avevo regalato e alla fine glielo chiesi.
“Che fine ha fatto? Chi te lo ha preso?” Era chiaro di cosa parlavo.
“Nessuno lo ha preso. L’ho dato via io.” Rispose senza guardarmi. Poi spiegò “Quando ruppero la gamba a mio fratello. La frattura era brutta e lui soffriva… alla villa c’era solo un vecchio ubriacone incapace che curava noi schiavi…. Lo diedi alla moglie del sovraintendente e lei in cambio fece chiamare un medico vero da Nomentum. Ancora non mi odiava a quel tempo…”
“Quel bracciale valeva molto di più di un medico.”
“Quel bracciale valeva molto meno della vita di mio fratello.” Mi tacitò, con una decisione che mi sorprese e forse in altre occasioni persino offeso. Erano i Saturnalia, aveva bevuto ed era molto maturata Filinna. Ed aveva ragione.
“Mi dispiace… hai ragione, ho detto una sciocchezza.” Ammisi. “Vorrei farti un regalo. Qualcosa che ti piaccia.”
“Un rotolo di stoffa buona, un vestito usato di tua madre. Qualcosa del genere.”
“Volevo farti qualcosa di diverso. Qualcosa che abbia valore e che duri. Qualcosa che ti rimanga anche per il futuro.”
“Perché? Perché vi preoccupate di queste cose?”
“Perché ti voglio bene Filinna.” Dissi. Si alzò di scatto a fissarmi e le accarezzai il viso. “Ti voglio bene e mi preoccupo del tuo futuro. Vorrei che avessi qualcosa. Tu lo sai che prima o poi affrancherò tuo padre e dovresti sapere che lo farò anche con te, basta che lo chiedi.” Poi affrontai un argomento difficile, ma che mi assillava e che ritenevo fosse importante che chiarissi. “Immagino che vorrai avere una famiglia e che sicuramente avrai dei corteggiatori, no? Se mai ci fosse qualcuno… ecco ci fosse qualcuno… basta che me lo dici e ti affrancherò all’istante. E anche lui, se è di mia proprietà, o potrei addirittura comprarlo per liberarlo se non è di casa. Vorrei che tu fossi felice e stessi bene, al sicuro.”
Mi sembrava un’offerta estremamente generosa, ma non vidi nessuna reazione da parte sua. Rimase immobile senza parlare. Nel buio ci scrutavamo a vicenda, incapace di leggere i visi l’uno dell’altra. 
“Non c’è nessuno, Marco.”
“Impossibile che nessuno ti corteggi Filinna.”
“Nessuno che mi interessi.” Precisò
“Non vuoi costruirti una famiglia? Qualcosa per il futuro?” L’età era quella giusta per lei. 
Non mi rispose, m diede due pacche sul petto, quasi degli schiaffi e si alzò.
“Non voglio parlare di questo. Torno alla festa.”
“Rimani ancora un po’” La riafferrai e la ritrascinai sul letto.
“No lasciami.” Si divincolò. “Voglio andare.”
Si vestì in fretta mentre la fissavo dal letto. Era pensierosa, l’occhio lontano.
Uscendo si fermò sulla porta. “Per questa volta sei riuscito a farti perdonare.” E se ne andò

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La settimana successiva, mi cambiò la vita.
Nel tardo pomeriggio rientrò da una visita a casa di conoscenti e si affacciò nel tablinio dove stavo lavorando.
“Per favore Marco, raggiungimi in stanza. Dobbiamo parlare. Credo di averti finalmente trovato una moglie adatta.”

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“Giunia Minore.” Mi annunciò, quando la raggiunsi. “Conosci il padre, sicuramente.”
Ovviamente lo conoscevo, era un senatore assai influente, la nonna era Giulia Minore, figlia di Augusto, una parentela con la casa imperiale ci stava sempre bene.
“È una buona famiglia.” Il che per mia madre indicava che avevano almeno 5 o 6 secoli di antenati conosciuti. “Ed è un ottima alleanza.” Non potevo che darle ragione. “La loro situazione la conosci, no?” Annuii provando a riportare alla memoria, ma venni ovviamente preceduto. “Il figlio maggiore è morto in oriente e il secondo è uno sfaticato incapace e immorale. Il marito della prima figlia non è un gran che neppure lui, anche se di famiglia discreta” Ovvero con non più di un paio di secoli di storia alle spalle. “Se manovri bene sarai tu il suo erede politico. Un’ottima possibilità.”
Sapevo di dovermi sposare, era normale e scontato, era l’età giusta per mettere su famiglia. Anzi tra un po’l’avrei addirittura passata. Persino l’Imperatore, che ci teneva molto che noi patrizi ci sposassimo e avessimo figli, me lo aveva più volte fatto notare, cordialmente, ma con decisione.
“Ci hai già parlato?”
“Certo, la madre è entusiasta. Una donna di sani principi che sa come gestire la famiglia e ha partorito ben sei figli sani senza problemi. Se la figlia ha preso da lei, sarà perfetta.” 
Poi mi venne incontro per fugarmi altri dubbi.
“L’ho vista, lei, è una gran bella ragazza. Non avrai di chi essere scontento. Poi la madre mi ha confessato che legge molto e si diletta persino a scrivere. Il che a te potrebbe non dispiacere.”
Dovetti sorridere al tono con cui lo disse. Il fatto che si interessasse a qualcosa che non fosse la casa e i vestiti di sicuro mi sollevava. Per l’aspetto… non mi fidavo poi molto di mia madre, ma non avevo scelta. Almeno pensavo.
“C’è un solo problema, anche se a un figlio folle come te potrebbe trovarlo piacevole.” La guardai interrogativo, “A quanto pare la ragazza ha un carattere, e il padre l’ha così tanto viziata da averle concesso di poter rifiutare di sposarsi. Così dopo domani saremo invitati a una festa da loro e la conoscerai. Comportati in maniera appropriata e vedi di fare una buona impressione. È un partito da non perdere."
   
 
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