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Autore: JSGilmore    25/03/2022    3 recensioni
Melinda e Daniel sono due fratelli, nati e cresciuti a Mason Street, una via degradata di Brixton. A causa del lavoro a tempo pieno dei genitori hanno dovuto guardarsi le spalle a vicenda da quando sono piccoli e hanno stretto, da subito, un legame molto profondo. Tutto è sempre filato a meraviglia, fino al quattordicesimo compleanno di Melinda, in cui la ragazza scopre di provare un attaccamento morboso per suo fratello maggiore. Un attaccamento che presto si trasformerà in una dolcissima ossessione. Lei non avrebbe dovuto innamorarsi di lui, e lui non avrebbe dovuto amarla a sua volta, ma nonostante i tentativi di allontanarsi alla fine non potranno fare a meno che cedere... E le conseguenze del loro amore non tarderanno ad arrivare....
La storia racconta della vita di due persone, dall'adolescenza fino all'età adulta e di come un amore proibito è in grado di segnare indelebilmente intere esistenze. La storia racconta di un incesto tra fratello e sorella, quindi se siete sensibili al tema vi sconsiglio caldamente la lettura.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Incest | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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Chapter 8: Una serie di sfortunati compleanni.



L’aula era deserta: sulle pareti bianche erano appesi poster sull’anatomia umana e, seduto sulla cattedra del professore, uno scheletro inquietante sorrideva a una schiera di banchi vuoti. Se gli avessero fatto un’autopsia sarebbe uscito fuori che lo studio uccide e io non volevo morire. Non prima che Daniel tornasse a casa. Era il mio compleanno. Un anno prima Daniel e io battibeccavamo in salotto, adesso lui imbracciava un fucile dall'altra parte del mondo. Mi aveva inviato un rapido messaggio, verso le sei del mattino: Tanti auguri, mia piccola psicopatica.

Non ero riuscita a fare colazione.

Il gruppo dei secchioni prese posto alle prime file e le mie due migliori amiche mi passarono accanto, ignorandomi. Succedeva dall'inizio della scuola: ormai erano diventate carine, coi denti dritti, i reggiseni imbottiti e le gambe lunghe; non avevano più niente a che fare con me. Continuai a fissarle, come facevano le protagoniste dei film; continuavo a fissarle finché non si fossero girate verso di me, come vittime di un campo magnetico dal quale è impossibile sottrarsi. Però non accadde niente.

«Ma perché ci costringono?», diceva Giselle a Elizabeth tutta accorata, «Da grande a che cosa mi servirà tutta questa biologia?»

«Tranquilla», disse Giselle, «Se è come l'anno scorso ci toccherà semplicemente analizzare semi di frutta. Oh! Ma che puzza qua dentro!»

L’aula si riempì in pochissimo tempo e il banco che avevo adocchiato venne occupato da un quattordicenne foruncoloso; presi posto vicino a lui. Il professor Nicholls entrò in classe, con la sua ventiquattrore di pelle e la cravatta di seta. Si vociferava che in realtà la sua ambizione fosse quella di insegnare finanza all’università. «Buongiorno ragazzi, e benvenuti alla vostra prima lezione di Biologia di questo primo semestre», aprì la valigetta ed estrasse un paio di pinze taglienti, «Ecco cosa faremo questa mattina: infilzeremo intestini. Avremmo dovuto fare anatomia verso la fine di Aprile, anziché a Settembre, ma l’azienda che fornisce le vittime ha anticipato un po’ i tempi… Guardate davanti a voi, dentro il recipiente.»

Aprii il contenitore metallico. Rane morte. Era uno scherzo? Un conato di vomito assalì con ferocia la maggior parte degli studenti, tranne alcuni casi psichiatrici particolari. Il mio compagno di banco era stranamente eccitato: una A in Biologia era tutto ciò che quell’animale morto sembrava rappresentare per lui. Indossò la mascherina chirurgica. Kristal Hunt si limava le unghie e qualcuno alle mie spalle si lamentava perché non c’era il cuore di un maiale sanguinante sul tavolo come l’anno precedente.

«Prendete le pinze, e aprite il vostro libro di testo. Capitolo due, paragrafo quattro: come sezionare una rana. Lavorerete a coppie»

Aprii il libro e lo sfogliai. L’aula puzzava di succo di rana morta, un incrocio tra una casa di cura e il minestrone. Il mio compagno di banco mi aveva anticipato. «Allora, qui dice di disporre la rana in una posizione supina. Lo fai tu oppure ci penso io?»

Allungai una mano verso l’animale viscido e morto di fronte a noi. La consistenza della rana, melmosa e ruvida, mi ricordava le alghe del mare che popolavano le spiagge in cui andavo spesso con Daniel durante l’estate. Stesi la rana a pancia in su. «Ecco fatto. Poi?»

Il secchione si concentrò sul libro. «Bisogna incidere la gola orizzontalmente. Solo il primo strato di pelle, però. Devi essere decisa e delicata, mi raccomando.»

«Vuoi farlo tu? Non ci tengo a sporcarmi tutta di sangue.»

«Non ti sporcherai. La rana è un anfibio. Il suo sangue non zampilla. Non è come tagliare la gola a un essere umano…»

«Tu hai mai tagliato la gola a un essere umano?»

Rise. «Ma che sei matta? Ti pare. Piacere, sono Mathias.»

Gli strinsi la mano. «Melinda.»

«Allora, vuoi tagliare la gola a questa rana oppure no?»

La rana se ne stava beata a pancia all’aria, non sembrava nemmeno morta. Me ne stavo lì davanti con un taglierino in mano, indecisa sul da farsi. La gola mi si chiuse. Faticavo a respirare, a un certo punto non respirai affatto. Mi accasciai sul tavolo, misi il palmo sullo spigolo, per tentare di sorreggermi. Se avessi tagliato la gola alla rana non avrebbe neanche urlato, era già morta. Caddi per terra. Tanti auguri, Melinda.

Mi risvegliai in infermeria, stesa su un lettino d’ospedale e la prima cosa che vidi fu l’espressione turbata di Mathias. «Hai battuto la testa allo spigolo così forte che pensavo non ce l’avresti mai fatta a risvegliarti. Sono felice che non sei deceduta.»

Non ricordavo di essere svenuta. L’infermiera mi puntò una luce accecante agli occhi, fece un’espressione indecisa e disse che dovevano mettermi dei punti. Quando finirono mi disse che avrebbero dovuto chiamare qualcuno per farmi riportare a casa; tuttavia, entrambi i miei genitori erano a lavoro e Daniel… bè, era partito. Così feci telefonare a Lennox.

«Cristo, Roscetta», esclamò quando mi vide tutta fiacca in corridoio, «Andiamoci a mangiare qualcosa, devi avere un calo di zuccheri allucinante. Che hai sulla fronte?»

«Mi hanno messo dei punti. Pizza o cheeseburger?» chiesi. Gli passai lo zaino e lui se lo mise sulle spalle.

«Decidi tu», sorrise, «Oggi è il tuo giorno fortunato. Tanti auguri piccola roscia.»

Grazie a Lennox e all’incontro con Mathias, da quel giorno mi risollevai, piano piano. Tornai a parlare con le mie due migliori amiche e la mia media scolastica stava decollando. Durante i test il professor Barnes teneva il suo sguardo inquisitore puntato su di me e, questo, mi spronava a dare ogni volta il meglio. Melinda Davies. La più brava in tutte le materie. Ero l’orgoglio di nonna Lucinda. Mi invitava spesso a prendere il thè da lei, nel pomeriggio, perché sapeva che, dopo la partenza di Daniel, ero rimasta sola. Avevo provato a spiegarle che c’erano Lennox e le mie amiche, ma lei alzava ogni volta il sopracciglio e diceva: «Ah, quel Lennox».

A dispetto di ogni previsione, eravamo diventati amici. Lennox aveva espresso stima nei miei confronti più che altro in termini di vivo interesse per le mie opinioni e convinzioni, di curiosità nei confronti della mia giovane vita solitaria, nel discernimento con cui soppesavo le sue strambe teorie esistenziali fondate su un cinismo di cui ancora non riuscivo a comprenderne la natura. Io mi ero espressa in termini più empatici, gli avevo parlato della sofferenza che provavo a vederlo soffrire per sua madre, molto malata di Parkinson, dalla quale più che altro cercava di fuggire, ma evitavo di farglielo notare, perché una volta mi aveva risposto: «Mi piaci molto come persona, Melinda, ma non farmi da strizzacervelli.» Si era fermato anche a cena, qualche volta. Ai miei genitori faceva piacere chiacchiere con lui, ma gli vietai di fumare in salotto.

Al mio quindicesimo compleanno, festeggiato con un mese di ritardo per via della ferita alla fronte che non mi permetteva di indossare la coroncina acquistata da mia madre con tanto entusiasmo, Lennox fu l’invitato speciale, insieme a Mathias e un altro svitato con cui ogni tanto facevo i compiti assieme, Samuel.

Elizabeth e Giselle, ovviamente, non mancarono. Quel giorno Lennox e Giselle pomiciarono.

Nonostante mi costasse una gran fatica ammetterlo, per via del tempo che avrei dovuto rinunciare in compagnia del migliore amico di Dan, formavano una bella coppia. Giselle era stupenda e, vicino a lei, persino l’insospettabile Lennox divenne affascinante. L’aria trasandata che si portava appresso ogni volta svanì e iniziò a rasarsi la barba, esibendo una scucchia sensuale.

Io non riuscivo a dimenticare mio fratello. Daniel non telefonava quasi mai a casa e quelle poche volte in cui ci mettevamo in contatto parlava solo della sua carriera. Mi raccontò che aveva cominciato l’addestramento militare a Catterick Garrison, nello Yorkshire. L’anno seguente, annunciò che avrebbe voluto partecipare a una selezione per entrare in un corpo speciale di altissimo prestigio formato da pochi soldati, che lo avrebbe impegnato nelle missioni militari più pericolose, lo Special Air Service.

Il corso sarebbe durato sei mesi e solo una piccola percentuale dei partecipanti di solito riesce a terminarlo. Ma avrebbe prima dovuto prestare il servizio militare per almeno altri due anni. Poi lo spedirono da qualche parte in Medio Oriente e le sue telefonate si diradarono ancora di più.

Dovevo andare avanti.

Poco prima di compiere sedici anni conobbi un ragazzo, si chiamava Marcus Fletcher e già il fatto che fosse un amante incallito del cricket avrebbe dovuto farmi venire dei sospetti. Non possedeva chissà quali vistose particolarità fisiche che avrebbero potuto giustificare il mio interesse nei suoi confronti, anzi, il suo naso aquilino era quanto di più lontano si potesse definire seducente. Il corpicino scheletrico minacciava di volare via ogni volta che starnutiva e l’aria da So-Tutto-Io non era compensata da un’intelligenza fuori dal comune. Lo lasciai quando conobbi Nathan Barbrow: i suoi occhi azzurri mi convinsero a soprassedere sul fatto che il mio nome non gli piacesse. Mi chiamava Belinda e, dopo dozzine di volte in cui gli avevo ripetuto: «Mi chiamo Melinda. Melinda», cominciò a chiamarmi Melody. Comunque, il mio nome non era l’unica cosa a non piacergli di me. Si ricongiunse con la sua ex fidanzata dopo qualche settimana, nemmeno il tempo di finire a letto insieme.

Al mio sedicesimo compleanno ero in lutto per Nathan Barbrow. «Amica, non hai ancora trovato la persona giusta. Ma non disperarti c’è tempo per tutti» disse Giselle, mentre assaggiò la fetta di torta con squisitezza e si mise seduta sulle gambe di Lennox. Dopo il loro fidanzamento, lei era cambiata. Era molto più amabile e il suo scoraggiante ottimismo romantico – che probabilmente reputava contagioso, ma per fortuna si sbagliava, mi faceva rimpiangere i tempi in cui parlava di sesso e disprezzava i carboidrati. Ai suoi diciassette anni abbandonò la scuola, perché “tanto non sarebbe mai voluta andare all’università”. Si trasferì a Birmingham con Lennox e trovò lavoro in un bar. Rimasi senza nessuno, in un colpo solo.

Elizabeth viveva ancora a Brixton, ma negli ultimi due anni era diventata scostante. «Senti, Melinda» disse un giorno, raccogliendosi i capelli ricci in una coda, «dovresti smetterla di parlare solamente di università. Anche Bruce il tuo gatto ha capito che vuoi fare Psicologia. Ma io non credo affatto che saresti portata per diventare una psicologa. Voglio dire, la tua compagnia non sarebbe male se tu non fossi un’ameba

«Grazie per il tuo suggerimento, veramente molto prezioso», le risposi. Da quel momento non ci frequentammo più. Seppi, attraverso voci di corridoio, che era rimasta incinta di un ragazzo che frequentava il College e a scuola non si fece più vedere. Comunque, non mi presi il disturbo di andarla a trovare. Non avevamo mai avuto interessi in comune, esclusa Giselle.

Il festeggiamento dei miei diciassette anni fu in assoluto il più deprimente perché lo trascorsi da sola, a casa, sul divano a guardare il documentario dei Keane. Ripensai al concerto a cui ero andata con Lennox e ripensai a mio fratello Daniel, che tre anni prima aveva inscenato una sfuriata proprio in quel salotto. Non mi telefonò neanche per gli auguri. Avevo passato l’intera giornata ad aspettare una sua chiamata e mi ero addormentata con il desiderio di non risvegliarmi mai più.

A novembre di quell’anno, quasi esattamente tre anni dopo da quando se n’era andato, Daniel fece ritorno a casa.

Era sera, i nostri genitori dovevano ancora tornare dal lavoro e io avevo messo a scongelare la bistecca. Sentii il rumore metallico delle chiavi nella toppa e mi chiesi come mai mamma e papà fossero tornati così presto. Mi alzai dal divano e mi infilai le pantofole, pronta ad accoglierli. Quando la porta si spalancò non credetti ai miei occhi. Daniel indossava la divisa da soldato e la sua espressione era impenetrabile.

Gettò a terra il borsone e fece un sorriso. «Sei cresciuta» osservò.

Rimasi impalata a fissarlo, mentre una serie di immagini mi sfrecciavano rapide nella mente. Il suo letto. Le nostri mani intrecciate. Le nostre bocche che si respiravano addosso. Il profumo intenso della sua pelle. Era davvero lui, oppure una specie di ologramma inviato dall’Esercito per comunicarci la sua morte?

«Sei tornato?» gli domandai e lui rise di una risata che mi si insinuò nella testa e poi scese nella cassa toracica e si incastrò vicino al cuore.

«Sì.» disse.

Avanzò con cautela, come se ci fosse una bomba sotto il pavimento che ci avrebbe potuti far esplodere entrambi da un momento all’altro.

Non smetteva di fissarmi e mi stupii di ritrovare così facilmente la familiarità dei suoi tratti, che conoscevo così nel dettaglio, e che credevo di aver dimenticato. «I-insomma» balbettai, «raccontami qualcosa.»

«Forse è meglio se mi faccio una doccia» disse incerto, «Sai com’è, puzzo un po’.»

«Certo, vai, tranquillo.», dissi, «Ci sarà tempo per parlare più tardi, quando arriveranno i nostri genitori»

Sorrise con garbo e si dileguò in bagno.

I nostri genitori furono contentissimi di riaverlo a casa: nostra madre scoppiò a piangere e confessò di essere morta dalla preoccupazione, e durante la cena lo riempirono di domande. «Ero in terza divisione, a Kabul» iniziò a raccontare Daniel, «e la Fanteria era entusiasta perché poteva finalmente usare quei dannati fucili d’assalto, ma a me hanno concesso di utilizzare il fucile da cecchino. Ero tipo una figura di riferimento, laggiù. Durante l’addestramento ho dimostrato di avere le qualità giuste e mi hanno subito spedito nella divisione.»

«Che bravo, il mio giovanotto» disse papà dandogli una pacca sulla schiena.

«Ora che pensi di fare, caro?» domandò la mamma con una vocina acuta. Tradotto: non avrai mica intenzione di tornare a Kabul o in qualche altro posto simile, vero?

«Rimarrò qui, fino alla prossima chiamata» disse Daniel pacato, «poi ci sarebbe la selezione per il SAS tra qualche mese. Ve ne ho già parlato, ricordate?»

Qualche mese. Dunque, non intendeva restare.

«Special Air Service» cantilenai, risultando petulante.

«Ma sei proprio sicuro che questa storia del militare faccia per te?» chiese la mamma e in me iniziò a germogliare una piccola speranza, «Voglio dire, è proprio necessario?»

«Su, su, Sheila!» disse sbrigativo papà, «è un uomo, ormai, sa benissimo ciò che è necessario!»

«Ma certo, volevo solo far presente al ragazzo che non è troppo tardi per riprendere i suoi studi, se lo desidera…»

«Non preoccupatevi per me» intervenne Daniel, «sono contento della strada che sto intraprendendo. E tornare indietro sarebbe da vigliacchi.»

“Tornare indietro sarebbe da vigliacchi” sembrava un orribile slogan motivazionale del British Army.

Mia madre fece un’espressione inorridita ma lasciò cadere il discorso. «Meglio riposarci, per stasera» disse, con l’intenzione di deporre le armi, ma sapevo che non si sarebbe arresa. Non bisogna essere soldati per sapere che l’importante è vincere la guerra, non la singola battaglia. Ci alzammo da tavola e mio fratello ed io aiutammo la mamma a sparecchiare senza dire una parola. I nostri corpi erano troppo lontani, come separati da muri invisibili.

«Melinda» disse poi mio fratello in procinto di uscire dalla cucina, «ti va di fare due chiacchiere di là?»


Note.
Vi ringrazio per aver letto questo capitolo, sono molto curiosa di sapere cosa ne pensate. Vi aspetto quindi nei commenti.
A presto!
Con tantissimo affetto,
JSGilmore.
   
 
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