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Autore: Nariko_koi    28/03/2022    1 recensioni
Regione dello Hubei, 1939.
Dopo essere stato ferito sul campo di battaglia e congedato, Wang Yao, tenente dell'esercito Nazionalista, si trova costretto a scortare il proprio aguzzìno lontano dal fronte. All'incarico di per sé insolito si aggiunge il fatto che Honda Kiku, l'ostaggio, non è un volto nuovo nella vita di Yao. Dopo aver condiviso un'estate sulle sponde rigogliose del Fiume Azzurro, i due si ritrovano a distanza di anni a camminare fianco a fianco indossando divise di schieramenti tra loro opposti. Yao è sfuggente, impenetrabile e pieno di collera, una collera di cui Kiku, incorruttibile e legato alla propria causa, non comprende fino in fondo la motivazione. Due spiriti fratelli, entrambi brillanti e inquieti, un ricordo che emerge da dietro la devastazione attorno ai passi dei due soldati, due nazioni senza speranze.
Sulla strada per Chongqing, il passato tornerà a chiedere la resa dei conti, e Kiku e Yao saranno costretti ad affrontare i loro demoni, nel tentativo di preservare la loro scarna, sofferta, umanità.
[NiChu/ChuNi] [Accenni ad altre coppie e personaggi]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi, Slash | Personaggi: Cina/Yao Wang, Germania/Ludwig, Giappone/Kiku Honda, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo IV
I demoni innocenti
 
Mo dice che sua madre è cattolica, che prima che arrivassero i giapponesi era sua abitudine andare in chiesa ogni domenica, e che la chiesa in questione si trova su un isolotto in mezzo al canale, vicino al centro del villaggio.
«Perciò siete tutti cattolici, qui?»
«Quasi tutti. I nostri vicini erano buddhisti.»
Yao sa che l’uso del passato nasconde un significato che non vuole indagare. Kiku continua a portare Mo sulle spalle senza emettere un lamento, ma è chiaro che sta iniziando a vacillare. Non parla da quando hanno lasciato le palazzine sul fiume. Yao non riesce a spiegarsi la sua reazione. È accaduto allo stesso modo per lui, nel ’37. Ai tempi si trovava in un campo profughi a sud. C’era una ragazza, arrivata insieme al fratellino. Lei avrà avuto sì e no sedici anni, aveva sentito dei soldati dire che era arrivata camminando come un automa a piedi nudi col bambino in braccio, immersa fino a metà polpaccio nella risaia e con una macchia di sangue tra le gambe. Al campo profughi Yao le si era seduto accanto con una tazza di tè, lei guardava dritta davanti a sé ed era chiusa in una sorta di mutismo. Poi, spinta da qualcosa di cui Yao ignora tuttora la natura, ha iniziato a raccontare. Yao è dovuto uscire dalla tenda, ha avuto la stessa reazione di Kiku. È come guardarsi dall’esterno.
Guarda il profilo di Kiku con la coda dell’occhio. Si chiede come sia possibile che un uomo, un soldato, che ha combattuto tra le fila di un esercito vomiti per una scena alla quale dovrebbe essersi più che abituato. Yao si chiede se non stia recitando una parte, se non sia tutto un teatrino architettato per impietosirlo. Magari è parte di un accordo col colonnello. Forse è troppo abituato a vedere complotti. L’idea che possa aver simulato tutto sta in piedi solo a metà, eppure si tratta della soluzione che lo rassicura di più. Perché, se così non fosse, allora dovrebbe abituarsi all’idea che Honda non sia un mostro spietato come quelli a cui ha fatto saltare la testa uno per uno. Perché se dovesse sbagliarsi, e se quella che ha visto fosse davvero una pantomima da prestigiatore, allora non potrebbe reggere l’umiliazione di essersi fidato una seconda volta della persona sbagliata.
Presto si ritrovano di fronte al portone di legno scuro e robusto della chiesa, un edificio in stile neogotico con la facciata crivellata da fori di proiettile e il rosone centrale con più vuoti che vetri. Mo spiega che all’interno vive una scolaresca femminile, che le ragazze hanno su per giù la sua età e che si sono trasferite dal Jiangsu insieme al nuovo parroco. Yao dà una piccola spinta al portone, e imboccando l’ingresso si ritrovano subito dentro a un’unica navata, costeggiata da colonne robuste e vetrate variopinte. Sulla destra è presente una scalinata che dovrebbe condurre ai dormitori delle studentesse. Ogni cosa lì dentro è impregnata dell’odore di incenso. Sono ancora spalle al muro quando notano che dal confessionale due figure hanno fatto la loro comparsa. Una, alta e massiccia, appartiene a un occidentale biondo, dai tratti severi e affilati, che, a giudicare dall’abito talare, non può essere che il prete; l’altra, più sottile e minuta, è quella di un giovane anch’egli europeo che non avrà più di vent’anni, capelli castani e abiti civili.
Yao non ha modo di esaminare ancora il mingherlino, perché quando i due si accorgono del gruppetto che li fissa dall’uscio indietreggiano di un passo. Allora il più alto, quello con l’abito da prete, si sporge a sussurrare qualcosa all’orecchio del ragazzino, e lui corre alla loro destra e sparisce sulla rampa di scale.
Yao carezza la testolina di Meihua, ha tolto il cappello e la riga dei capelli è spolverata di crosticine. «Andiamo» dice.
Il biondo si stira le pieghe dell’abito con le mani, da come gli fascia le spalle è evidente che non è della sua misura. Sembra un siluro infilato in un calzino. Yao fa uno sbuffo, arricciando il naso. Ora non è proprio il momento di ridere in faccia a un prete per un pensiero così demente, soprattutto a uno con l’aria di chi può stenderlo con un dito. Ma la voglia di ridere gli passa immediatamente di fronte allo sguardo di ferro di quell’uomo. Lui si schiarisce la voce con la mano chiusa a pugno di fronte alla bocca. «Ni… ni qu.- balbetta, cercando di darsi un tono -ni pu… ehm…»
D’accordo, quindi si tratta di un tentativo maldestro di dir loro di andarsene. Yao gli viene in soccorso. «Parla inglese, padre?»
Lui sembra sorpreso. «Un po’» dice. Dal modo in cui serra la mandibola è chiaro che muore dall’imbarazzo. Comunque, dura poco. «Che cosa volete?»
Avrebbe giurato che i preti fossero portati all’accoglienza e al garbo. «Tenente Wang Yao. Il caporale Honda è un mio ostaggio.»
Kiku si inchina accanto a lui, nonostante il peso di Mo sulla schiena. Il prete sbatte le palpebre un paio di volte, poi parla di nuovo. «Ludwig.»
«Ludwig e...?»
«Ludwig e basta.»
Tedesco, quindi. Ha letto che i tedeschi sono soprattutto protestanti, ma devono aver trovato un’eccezione. Yao fa un cenno con la testa per indicare le bambine «Cerchiamo qualcuno che possa occuparsi di loro. Sono sole.»
Ludwig (e basta) inspira, poi sposta gli occhi da Yao e per squadrare Kiku dall’alto in basso. Quella breve ispezione deve aver dato effetti deludenti, perché Ludwig apre le braccia e indica Mo con il mento. «Dalla a me, forza.»
Kiku non fa in tempo a voltarsi che il prete si è già caricato in braccio la ragazzina, e questo lo fa barcollare, la cappa gli cade da sopra le spalle e si abbatte al suolo con un tintinnio di bottoni. Yao stringe la mascella, ma decide di soprassedere. «Se permette, padre, vorrei scambiare due parole con lei.»
Intanto Kiku si è chinato a raccogliere il mantello. Il prete sistema meglio il peso di Mo sulle braccia, sposta lo sguardo da Yao a Kiku. «Lui deve uscire.»
«Lui resta.»
«Senta, tenente–
«Il caporale è un mio ostaggio, non ho il permesso di perderlo di vista. Lui resta.»
Dire che lo sta facendo solo per tenerlo d’occhio è una bugia da manuale, ma non c’è alcun motivo per dichiarare di star agendo per principio. Per principio, sì, perché il ragazzino ha il diritto di stare lì dentro, disarmato, tanto quanto lui, e quando quel prete salirà sulla scranna da giudice ed esaminerà la storia della vita di Kiku, allora, e soltanto allora, potrà decidere come condannarlo.
Il prete lo guarda fisso per un lungo momento. Mette una gran soggezione con quelle sopracciglia gialline e contratte e il mento squadrato e severo, ma se adesso Yao abbassasse lo sguardo non se lo perdonerebbe mai. Alla fine, il prete scrolla le spalle. «Mi segua.» E si avvia su per le scale.
Yao volta il mento verso Kiku senza guardarlo. «Aspetta qui» dice, e stringendo la manina di Meihua si allontana da lui. Mentre sale i gradini a passo storto è sicuro che Kiku lo stia guardando.
 
Le scale conducono a un portico che si affaccia sulla navata, e su questo stretto corridoio si aprono tre porte che devono condurre alle camerate delle studentesse. Il prete si piazza dietro al primo ingresso e bussa sul legno. Dopo una breve attesa le due ante si socchiudono quel tanto che basta per mostrare il naso e l’occhio sinistro del ragazzino del confessionale. In un primo momento questo apre una delle ante, lo sguardo fisso su quello del prete e il braccio destro nascosta dietro la porta. Solo quando Ludwig gli posa una mano sulla spalla sinistra sembra rilassarsi, e lasciare quindi il nascondiglio dietro al quale stringeva un fucile da caccia.
La stanza ospita effettivamente un dormitorio con letti a castello, sei coppie. Il prete dice qualcosa in tedesco che Yao non comprende, e da sotto ogni letto sbucano fuori due ragazze, che si trascinano sui gomiti prima di mettersi in piedi. Portano tutte una divisa blu e capelli corti a caschetto, viste da lontano potrebbero sembrare un esercito di cloni. Il prete annuisce, sembra compiaciuto. «Good job» biascica, poi posa Mo su uno dei letti. Dopo aver scambiato qualche parola in tedesco col mingherlino fa cenno a Yao di seguirlo fuori.
Prima di obbedire Yao si inginocchia ai pedi del letto su cui è seduta Mo, sorride alle bambine. «Come state?» chiede.
Mo muove le labbra biancastre a vuoto. «Uh… bene, credo.»
«Stanche?»
Le bambine annuiscono. «Quando torniamo a casa?»
«Presto. Però prima dovrete restare qui per un po’. Possiamo provarci, che ne dite?»
«Io voglio tornare a casa.» Meihua arriccia il mento. «Mi manca mamma.»
«Lo so – si schiarisce la gola – lo so, ma adesso non–
«Sono stanca.» Meihua sembra non volerlo ascoltare, l’impresa di calmarla si rivela più complicata di rimettere in riga un qualsiasi soldato in esaurimento nervoso. «Voglio tornare a casa.»
«Non potete tornare a casa.» Yao si morde la guancia. Entrambe le bambine si sono voltate a guardarlo con la bocca socchiusa, in questo momento vorrebbe colpirsi alla fronte con la stampella. «Non adesso, ma ci tornerete. Dovete solo darmi un po’ di tempo, qui sarete al sicuro. Va bene? Solo un po’ di tempo.» Le bambine non rispondono, Yao accarezza loro la testa prima di uscire. Quando è lontano dai loro sguardi si passa una mano sulla fronte e sul collo, china la testa con un sospiro. È un disastro in divisa, ecco cosa pensa mentre raggiunge il prete e si affaccia alla balconata. Da lì può vedere i raggi di sole penetrati dalle vetrate disperdersi in una nuvola d’incenso. D’istinto porta la mano alla tasca dove tiene le sigarette, poi il suo lato ancora razionale gli ricorda di trovarsi in una chiesa.
«Le dispiace se fumo?»
«Sì.»
Ci ha provato.
«Ce l’ha con me, padre?»
«Che faccia tosta. Come si permette a entrare armato nella mia chiesa e trascinarsi dietro quel criminale?»
«È solo un ragazzino.»
«Abbastanza grande da andare in guerra. Non sono ammessi soldati nella casa del Signore, tenente, meno che mai giapponesi. Hanno infranto le leggi dell’uomo e di Dio, e quel ragazzino, come lo chiama lei, ha aderito alle loro idee perverse. Altrimenti non sarebbe qui, non raccontiamoci idiozie.»
Yao sbuffa dal naso, la mascella contratta. «Dunque ha sentito di Nanchino.»
«È da lì che veniamo.» Con la coda dell’occhio Yao nota che il prete stende le dita e le richiude a pugno un paio di volte, sembra un gesto da nevrosi. Forse è un effetto della luce, ma sembra che gli occhi gli siano diventati lucidi. «Ho perso due studentesse a Nanchino, nel ’37. Gli uomini che le hanno uccise indossavano quell’uniforme.»
Yao si passa l’unghia del pollice sotto al naso. Ha fatto meno fatica a tenergli testa in fondo alle scale. Con uomini con quella presenza ti impegni tanto a restare di pietra in attesa di reazioni aggressive da rimanere impreparato di fronte alla fragilità. Yao non ha mai saputo come comportarsi in quelle situazioni, riesce a rendere imbarazzante qualsiasi pacca sul braccio, qualsiasi contatto fisico. Ha sempre mostrato distacco anche di fronte alle disgrazie dei compagni, ha preferito distruggersi le nocche sui muri alla vicinanza corporea.
«Con tutto il dovuto rispetto, padre, non credo che sia il caso del mio ostaggio.»
«Con tutto il dovuto rispetto, tenente, lei non può saperlo.»
Yao distoglie lo sguardo, si umetta le labbra. A questo punto sta diventando difficile contraddirlo. Dal bordo della balconata scorge la figura minuta di Kiku in ginocchio sul pregadio mentre si passa una mano sulla nuca scura. Sembra così piccolo, in mezzo a quella distesa di legno, così piccolo da poterlo schiacciare sotto alla suola di una scarpa. La sua speranza è che non sappia mai che sta indossando i panni del suo avvocato.
«Mi lasci dire, padre, e dovrebbe saperlo anche lei… che alcuni uomini ritengono di conoscere e perseguire il bene in ogni circostanza. Ma per come la vedo io, a prescindere dalla razza, a turno siamo tutti dei demoni per qualcuno e dei santi per qualcun altro. In fondo, la vita non è che una processione a piedi nudi lungo la quale ognuno di noi cerca l’espiazione. Siamo tutti alla ricerca della redenzione.»
Mentre parlava con tono monocorde ha continuato a fissare la schiena scomposta di Kiku. È più facile guardarlo da lì, lo fa sentire meno esposto.
«È salito fin qui solo per dirmi questo?»
«No. Abbiamo trovato la madre e la sorella delle bambine in una casa sul fiume, a sud. Le abbiamo coperte con delle lenzuola ma non abbiamo avuto modo di seppellirle. Sono lì da due giorni.»
Il prete resta in silenzio per una manciata di secondi. «Capisco» dice infine.
«Per favore, non dica nulla di tutto questo alle ragazze. Non sanno niente.»
«Me ne occupo io.»
A dire il vero all’inizio aveva pensato di chiedergli anche di lasciargli trascorrere la notte in chiesa, ma visto come si è sviluppato il discorso una richiesta del genere equivale a farsi accompagnare all’uscio a calci.
«E padre…»
«Was?»
«Conosce un posto dove pernottare in zona?»
Il prete lo guarda fisso per un po’, socchiude le labbra e poi le serra di nuovo.
«C’è una locanda a sud-est. Mi pare che si chiami… c’entrava col giallo.»
Yao si abbassa la tesa del cappello in segno di ringraziamento, poi imbocca le scale. Arrivato in fondo alla rampa si accorge che Kiku è ancora gettato sul pregadio, questa volta con le mani giunte davanti alla fronte. Yao si chiede se sia il caso di interromperlo. Sarebbe più facile restare in silenzio a ridosso della colonna e osservare la curva delle sue spalle. Nella sua vita ha visto tante persone pregare nei modi più svariati, ha visto soldati abbracciarsi da soli e mormorare a denti stretti cose incomprensibili, ha visto Nilufar inginocchiarsi con la fronte sul pavimento, lui stesso si è chinato milioni di volte di fronte ai ritratti dei suoi avi, ma la figura di Kiku in controluce è qualcosa di nuovo, sente che sarà indelebile.
Appena gli è accanto esita un po’ a toccarlo. Quando si convince a posargli la mano sulla spalla, Kiku ha un piccolo sussulto.
«Dobbiamo andare.»
Kiku resta a guardarlo per qualche secondo con quegli occhioni scuri da gufo, Yao si chiede che cosa veda. Poi si alza poggiandosi al legno della panca e facendola scricchiolare. Mentre percorrono la navata Yao vuole togliersi un dubbio: «Non sapevo fossi cattolico.»
«No, infatti»
 
***
 
Quando escono dalla chiesa il cielo ha già iniziato a farsi scuro. L’ammasso grigio che nel pomeriggio ha coperto il sole si è via via perforato fino a svanire quasi del tutto, e la sera si è tinta di blu e rosso. C’è un furgone azzurro nel cortile, ammaccato in qualche punto e arrugginito. A giudicare dalle valigie di attrezzi lì accanto sembra che il prete stia cercando di rimetterlo a nuovo, forse progetta di spostarsi a ovest. Kiku è stanco. Ha insistito per caricarsi lo zaino di Yao sulle spalle, finge che non gli pesi ma lui sa benissimo che è arrivato al limite. È giovane e sprovveduto, ma tenace. Almeno in questo non è cambiato.  
Yao si morde la nocca del pollice. Ma a cosa sta pensando? Anni come quelli che ha visto dovrebbero averlo temprato contro la volubilità della sua giovinezza, e quell’atteggiamento da paladino non fa che recare un torto a tutti gli uomini che ha visto sparire sotto ai colpi di mortaio. Se li ricorda ancora, quei ragazzi. Ogni notte ripete i loro nomi nella sua testa prima di dormire. Dimenticarli sarebbe un’alternativa facile, ma vile. Anche questo fa parte del contrappasso.
Si ridesta in tempo dal suo rimuginare per assistere al momento in cui Kiku perde l’equilibrio sotto al peso dello zaino. Yao lo afferra per un braccio prima che possa toccare terra, lo zaino però cade.
«Va bene, basta così. Lo porto io.»
«Non è necessario.»
«Non ti sto chiedendo il permesso.»
Kiku fa un sospiro e distoglie lo sguardo, si lecca le labbra. Si sposta lo stesso per aiutare Yao a infilare le braccia nelle cinghie. Appena imboccano una stradina si trovano di fronte un palazzo a tre piani che reca l’insegna “Zài Huáng Liàng”, “Al Miglio Giallo”¹, e il sottotitolo “Signore e Signora Meng”. Non ci vuole un genio per capire che si trattava della locanda di cui parlava il prete. Kiku si arresta prima che possano attraversare la strada.
«Senti, mi dai una sigaretta?» aggiunge: «Per favore.»
Yao tira fuori il pacchetto, lo scuote quel tanto che basta per far emergere un mucchietto di sigarette dall’apertura e lo allunga verso di lui. Dopo che Kiku prende la sua Yao si porta il pacchetto alla bocca per tirarne fuori un’altra con le labbra, e preso anche l’accendino si avvicina all’altro con la mano libera a coppa. Kiku inspira con le palpebre a fessura, quando si allontana sbuffa una nuvola di fumo. Yao si accende la sigaretta, deve provarci più volte perché il combustibile dell’accendino sta per esaurirsi.
«Ti ho portato sulla cattiva strada, eh?»
«Non so di che parli.»
«Non sai di che parlo? Non mi sembravi abituato a fumare quando ci siamo conosciuti.»
A Kiku il fumo va di traverso, prende a tossire come un motore guasto, e Yao sa di aver toccato un nervo ancora scoperto. «Ho un déjà-vu
«Vaffanculo.» sputacchia, piegato sullo stomaco.
Yao si accorge di star ridendo solo dopo qualche secondo. Prende un altro tiro scuotendo la testa, Kiku intanto sembra essersi ripreso, perché si rimette dritto. «Sai, – si schiarisce la voce rauca – non credo che quel tipo fosse un prete.»
Yao si gratta il labbro con l’unghia del pollice. «Già, nemmeno io.» Non gli chiede perché lo pensa, e nemmeno prova a motivare quella sentenza, restano in silenzio a guardare la ghiaia con le sigarette tra le dita e le mani lungo i fianchi. Dopo un po’ Yao lancia la sigaretta per terra e la schiaccia col tacco dello stivale, indica la locanda con un gesto del capo. «Sarà meglio muoverci.»
«Wang.» Yao alza lo sguardo verso di lui, Kiku dondola il braccio lungo il fianco in un gesto nervoso. «So che non dovrei chiedertelo.» Yao alza un sopracciglio. «Posso restare ancora un po’ fuori? Solo per finire la sigaretta, poi ti raggiungo.»
Yao lo squadra dall’alto verso il basso, indossa un’espressione marmorea. «Sta’ dove posso vederti.»
Così gli volta le spalle e attraversa la strada. Prima di abbassare la maniglia della locanda lascia un ultimo sguardo nella sua direzione, per trovarlo nella stessa posa rigida in cui l’ha lasciato. Se ne sta già pentendo.
«Permesso?»
La prima cosa che lo accoglie appena varcata la soglia è il tintinnio del campanello sopra l’ingresso. Subito si ritrova in un salotto con divani rossi illuminato dalla vetrata alla sua sinistra. In fondo alla sala un bancone di mogano si presenta sullo sfondo di una credenza e di uno scaffale con le chiavi delle camere. Tutta la stanza profuma di gelsomino, forse a causa del mazzo di fiori nel vaso bianco e blu che poggia sul tavolo da caffè al centro della stanza. Tutto l’ambiente sembra curato, ma in certi punti spoglio. È come se l’oste avesse dovuto in qualche modo recuperare la mancanza di alcuni oggetti mettendo delle toppe dove possibile.
Voltandosi verso la vetrata può vedere Kiku fumare dall’altro lato della strada. È di spalle, appoggiato con l’avambraccio a un palo della luce, il pugno chiuso. Si porta la sigaretta al viso, poi china il capo in una posizione che dà l’impressione che abbia le spalle vacanti, senza la testa in mezzo. Yao lo vede dondolare il piede sulla ghiaia.
«Buonasera, lǎozǒng²
Yao sussulta appena. Da dietro una tendina di perle di legno è apparsa una ragazza sulla trentina avvolta in un qípáo azzurro. Tiene i capelli avvolti in uno chignon ma ai lati della fronte le penzolano due ciuffi fuggitivi. Ha un sorriso gentile e le mani, curate ma forti, giunte sul grembo. Yao conclude che deve trattarsi della signora Meng.
Yao le sorride di rimando. «Buona sera, tài-tai². Tenente Wang.» Le porge la mano dopo essersi tolto il guanto, lei ha una stretta decisa.
«Cosa posso fare per lei, tenete?»
«So che è un po’ tardi, ma servirebbe una camera per due.»
«La signora è qui con lei?»
«Oh no – Yao soffoca l’imbarazzo con una risatina – è un viaggio di lavoro.»
«Oh! In questo caso…» Si volta verso lo scaffale delle chiavi e le passa in rassegna indicandole col dito. Qualcosa dev’essere andato storto, perché a un certo punto si gratta la testa e sbuffa.
«Qualcosa non va, tài-tai
La signora Meng si volta di scatto. «Oh, nulla che non si possa risolvere. Facciamo così: mentre io cerco una soluzione lei può gustarsi una tazza di tè. Lo gradisce al gelsomino?»
«Molto volentieri, grazie.»
La signora Meng si volta ancora verso la credenza e tira fuori una piccola chiave dal taschino, poi la gira nella toppa. Mentre si allunga verso il servizio di porcellana sullo scaffale in alto la campanella all’ingresso suona di nuovo.
«Buonasera, tài-tai.» dice il nuovo arrivato, e a Yao non serve voltarsi per riconoscere la voce di Kiku. Intanto la signora Meng è riuscita a tirare giù il vassoio col servizio con un certo sforzo.
«Tài-tai, le presento il mio –
Le tazzine e la zuccheriera si infrangono sul pavimento con un rumore sordo.
 
 
 
____
Note:
  1. Il nome della locanda fa riferimento all’opera teatrale di Ma Zhiyuan, Il sogno del miglio giallo (titolo originale Huáng Liáng Mèng), i cui eventi principali si svolgono all’interno di una locanda;
  2. Lǎozǒng è un appellativo formale usato soprattutto per rivolgersi agli ufficiali;
  3. Tài-tai: signora, formale.
 
 
  
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