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Autore: JSGilmore    29/03/2022    2 recensioni
Melinda e Daniel sono due fratelli, nati e cresciuti a Mason Street, una via degradata di Brixton. A causa del lavoro a tempo pieno dei genitori hanno dovuto guardarsi le spalle a vicenda da quando sono piccoli e hanno stretto, da subito, un legame molto profondo. Tutto è sempre filato a meraviglia, fino al quattordicesimo compleanno di Melinda, in cui la ragazza scopre di provare un attaccamento morboso per suo fratello maggiore. Un attaccamento che presto si trasformerà in una dolcissima ossessione. Lei non avrebbe dovuto innamorarsi di lui, e lui non avrebbe dovuto amarla a sua volta, ma nonostante i tentativi di allontanarsi alla fine non potranno fare a meno che cedere... E le conseguenze del loro amore non tarderanno ad arrivare....
La storia racconta della vita di due persone, dall'adolescenza fino all'età adulta e di come un amore proibito è in grado di segnare indelebilmente intere esistenze. La storia racconta di un incesto tra fratello e sorella, quindi se siete sensibili al tema vi sconsiglio caldamente la lettura.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Incest | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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Chapter 9: Ritrovamenti



«Melinda», disse Daniel in procinto di uscire dalla cucina, «ti va di fare due chiacchiere di là?»

Aveva deciso di parlarmi, di interagire con me. Lo odiai, perché avrei preferito di gran lunga l’indifferenza totale, a quella scostanza.

Iniziai a sentirmi impacciata con le mani e con gli occhi; non avevo più quattordici anni, non ero più un’asse da stiro (più o meno), e non mi veniva più voglia di piangere quando mi guardavo allo specchio, eppure stavo morendo schiacciata sotto il suo sguardo. Una cimice puzzolente sotto lo scarpone di un muratore. Farfugliai un qualcosa tipo sì.

«Ricordati che domani c’è scuola, signorinella», disse nostra madre, una voce lunga, puntuta e distratta. Aveva finito di lavare i piatti ed era china sul portatile al tavolo della sala pranzo. Le sue mani correvano alla testa, al suo caschetto parigino, che tastava come se indossasse una parrucca.

Da quando avevo compiuto diciassette anni eravamo diventate ufficialmente acerrime nemiche. Da qualche mese aveva preso a chiamarmi signorinella. Il periodo corrispondeva, grosso modo, a quando ero stata colpita dall’epifanica illuminazione che mia madre non era che una donna normale, con una vita matrimoniale parecchio da riesaminare e con due genitori peggiori dei miei.

Prima di seguire mio fratello di là, rubai dal frigo una gazzosa.

Attraversai il salone facendo da ombra a mio fratello e, in confronto alla sua eleganza sinuosa, io ero decisamente molto goffa. Davanti alla porta esitò a entrare. Si assicurò che fossi ancora dietro di lui. Varcata la soglia, il calore di quella stanza mi avvolse, come un mantello. Dalla sua camera si intravedeva il cortile ora deserto; nelle ore più calde era pieno di bande di ragazzini che giocavano a pallone come uno sciame impazzito di calabroni. Gli enormi palazzoni di Mason Street soffocavano il cielo.

Daniel diede un’occhiata in giro e si allarmò. «Ma che disordine qui… Scusa.» Si sistemò il letto e il suo tocco da soldato fu evidente. Si guardò attorno ancora, perlustrò i mobili e la libreria come alla ricerca disperata di qualcosa da mettere a posto, poi i suoi occhi si posarono su di me, sempre esaminatori. «Allora, Mel, come va? A scuola?»

Qualcosa di diverso, mio fratello ce l’aveva: una calma congelata nello sguardo.

Cominciai a parlare a vanvera. «Il Coach Carter pensa che io abbia un talento nel basket. Una volta, per puro caso, è successo che mi ha messa a fare dei tiri liberi e i palloni entravano uno dietro l’altro, come una magia. Mi ha detto di essere rimasto sbalordito.»

Mi ascoltava con estremo interesse. «Quindi ti stai allenando? Stai mettendo su un po’ di ciccia?»

Avvampai. «Ma che allenando. Non ho intenzione di entrare nella squadra della scuola, ma lascio che il Coach continui a sognare ancora per un pochino.»

I suoi due occhi verdi brillanti erano ancora al loro posto. Ci furono istanti problematici, in cui pareva che avessimo già esaurito gli argomenti di conversazione. Daniel si mise le mani in tasca e rilassò le spalle. «Quel libro dalla copertina sgargiante in salotto è tuo?», chiese.

«Oh, sì», dissi con enfasi, «L’ho iniziato e finito in un paio di giorni»

Era il primo romanzo che terminavo da mesi, sebbene lo sforzo non potesse definirsi erculeo dal momento che il libro era stato concepito per ragazzini dagli undici ai quattordici anni; in più, era pieno zeppo di illustrazioni, ma non era il caso che conoscesse certi dettagli, «Anche a te la cena è rimasta sullo stomaco?»

Daniel mi sorrise con una velata complicità. «Sì. La carne era bruciata e le patate immangiabili», aprì la gazzosa e riempì due bicchieri; me ne passò uno: non riuscii a bere, le croste sulle labbra mi bruciarono. «Dovremmo chiederle di non cucinare più. Imploriamola, mandiamole lettere anonime... Non so, facciamo qualcosa per tenere nostra madre lontana dai fornelli.»

Ci trovavamo a una distanza tale che per non renderla imbarazzante fu necessario sorriderci e guardarci ogni tanto a vicenda. «Non ci ascolterebbe», dissi, «per lei preparare un pasto cotto a settimana ci assicura di rimanere una famiglia unita quantomeno fino alla domenica.»

«Famiglia unita…», fece Daniel tra il sarcastico e malinconico, «Lo siamo mai stati? Quand’è che siamo rimasti tutti insieme nella stessa casa per più di…Un’ora? Forse giusto in vacanza.»

«Meglio così. Papà che si aggira per casa tutto il giorno proprio non potrei sopportarlo.»

Sorrise. «Cos’hai combinato alle mani?»

Incespicai con le zampe della scrivania e posai il bicchiere di plastica sul tavolo. Analizzai le mie dita: avevo lo smalto nero, spennellato sopra unghie mangiate fino a sanguinare e il fatto che lui le aveva notate me le fece mettere in discussione. Era troppo punk, quello smalto. Feci mente locale su cosa indossassi e la maglietta grigio malaticcio era in linea con i miei esuberanti e sconsiderati diciassette anni, età della celebrazione della depressione e della scarcerazione dei corpi. Io non facevo eccezione. Forse era per questo che avevo in mente di frequentare psicologia all’università.

«Tributo ai Goatwhore», mormorai. Sembrava confuso. «Sono un gruppo Metal», specificai in fretta.

«Una volta amavi band meno… energiche. Tipo i Keane», disse, «A proposito…Ci sei più andata a quel concerto?»

Non riuscii a stabilire un nuovo contatto visivo con lui e rimasi a fissare la presa elettrica, in basso, sotto la finestra. «Sì»

«Da sola?»

L’ultima volta che eravamo stati nella sua stanza, se la ricordava? Mi aveva cacciata via malamente, gli avevo letto l’odio in faccia, il ribrezzo, la repulsione, la vergogna.

«No, non da sola.»

«Con chi sei andata?»

Feci lo sforzo deliberato di non ascoltarlo, mi concentrai sulla sua bocca. Era la solita, bella bocca carnosa che ricordavo; quella su cui una volta mi ero buttata, impavida, sfrontata e strafottente: avevo allungato il collo e l’avevo baciato. Chissà come si era sentito lui. Consolava la sua sorellina e, di colpo, gli era arrivato un bacio irruento come un cazzotto sferrato all’improvviso.

Chissà perché mi aveva chiesto di venire in camera sua? Voleva sbattermi in faccia quanto insignificante fosse stato quel momento intimo che avevamo avuto, oppure, al contrario, era smanioso di riprendere da dove avevamo lasciato tre anni prima? Avrei dovuto prevederlo? Indossavo un intimo dozzinale, ma mi ero depilata meticolosamente gambe e ascelle, le quali erano anche schifosamente imbiancate di deodorante.

Tuttavia, c’era una terza opzione.

Daniel poteva avermi portata lì per mettermi in difficoltà. Così, giusto perché la situazione lo divertiva. Il giorno in cui l’avevo baciato non mi aveva fermata subito, aveva aspettato che infilassi la mano dentro i suoi pantaloni…

Mi era capitato di riflettere molte volte su noi due, come amanti. Succedeva la notte, con un cuscino premuto sul viso, a trattenere le lacrime e soffocare i pensieri. Io e mio fratello avevamo sempre vissuto a stretto contatto, tutto il mondo crollava ma noi due no. Proprio perché lui mi era familiare – analizzai avidamente il colore dei suoi occhi, associati a un certo tipo di bagliore maniacale, le sue labbra piene e ruggenti, il suo sconosciuto mi attraeva. Le due cose non erano in conflitto tra di loro, anzi, nella mia mente si assemblavano con un’eccitante perfezione. Avrei potuto avere tutto, con una sola persona. Il passato, il presente e il futuro si sarebbero potuti fondere e fare i fuochi d’artificio.

Daniel era impaziente, si avvertiva dalla sua voce. «Allora? Con chi sei andata a quel concerto, Mel?»

«Ci sono andata con Lennox»

«Ah.»

«Non sapevo con chi andare», spiegai e provai una profonda fitta al petto. L’avevo chiesto a Lennox perché la verità era che stare vicino a Lennox era un po’ come mantenere viva una parte di Daniel e l’avevo appena realizzato. Quel pensiero mi creò uno scompenso.

«Non avevi nessun altro? Che so, le tue amiche…», deglutì appena.

«I biglietti erano solo due»

Chinò la testa. «Tu e Lennox… Siete amici?» Alzò veloce lo sguardo su di me, con aria pacifica. Sembrava soltanto curioso.

«Qualcosa del genere, immagino. Adesso si è trasferito con Giselle a Birmingham e non ci vediamo più. Ti ricordi di Giselle?»

La notizia lo sorprese. «Si è messo con la tua amica? Ma non è un po’ piccola?»

«Ha la mia età», sottolineai, «Lennox non te l’ha detto?»

Incrociò le braccia. «No. Non mi ha detto né di lei né del trasferimento»

«Pensavo foste migliori amici…»

«Da quando mi sono arruolato non ci sentiamo molto spesso», disse con voce asettica, monocorde, «Anzi, quasi mai. E quando parlavamo, mi raccontava di te. Avevi una cattiva influenza su di lui», ridacchiò.

Eravamo ancora in piedi. Non riuscivamo a sganciarci da quella rigida posizione frontale. Daniel non aveva mai avuto amici, escluso Lennox e ora si era lasciato alle spalle anche lui; non riuscivo ad accettare che Daniel sembrasse sempre più solo e abbattuto. Si era sempre rinchiuso in se stesso, era sempre stato come intrappolato.

Solamente nell’atto di guardarlo ora, composto nella sua stanza, mi resi conto di qualcosa che mi era sfuggito per anni.

Era plausibile che la sua riservatezza, la sua timidezza verso il mondo esterno, la risolveva con me, che non gli facevo alcuna paura. Gli strazianti tentativi di tenerezza che aveva avuto nei miei confronti e che avevo ingigantito, rimuginandoci sopra negli ultimi anni, erano soltanto un esercizio, una prova, un addestramento. Con me poteva dire quello che voleva, non lo avrei sbandierato a nessuno, sarebbe rimasto tra noi, come un segreto, anche e soprattutto le cose imbarazzanti o difficili. Non lo avrei giudicato, non lo avrei deriso con i suoi amici di convenienza, o con le sue ragazze occasionali. L’avrei tenuto per me, perché ero debole, e lui questo forse lo sapeva.

Mi sentii sopraffare da una gradevole desolazione: i momenti di sofferenza emotiva arrivano così, insensati o quantomeno indecifrabili. Daniel si era approfittato della mia accondiscendenza perché gli aveva fatto comodo. Nessuno sbattimento. Melinda: comoda, facile e veloce, direttamente in casa sua.

«Perché?» gli domandai e il silenzio in cui piombò sembrò contenere un mondo, un mondo che ormai era chiaro volesse mantenere distante da me.

«Perché» disse, imbambolato a fissarmi, e quella sua apatia mi irritò.

«Perché l’esercito, Daniel?», ma la mia voce aveva perso via via il vigore iniziale, «Insomma, non potevi semplicemente andartene?»

«Semplicemente?» ripeté, «Me ne andavo per poi fare che, Mel.»

Daniel. Quel blocco compatto di muscoli e sangue. Quella bellezza e intelligenza che gli avrebbero spalancato qualsiasi porta, che gli avrebbero fatto ottenere ogni tipo di gratificazione e riconoscimento possibili.

Scrollai le spalle. «Sto solo cercando di capirti. Potevi fare qualsiasi altra cosa, invece hai scelto di fare il militare. Perché? Non mi risulta che ti sia mai importato un’accidenti della carriera da soldato…»

«Non ti risulta…» Fece scorrere gli occhi su di me, prima sul mio viso e poi sul mio corpo. Nei suoi tratti irregolari intravidi avvilimento. «Allora, dimmi. Cos’è che ti risulta?»

«Poco, in effetti.»

Sollevò gli angoli della bocca in un sorriso tetro. «Se hai qualcosa da chiedermi, fallo.»

Rimasi in silenzio e poi sospirai. «L’ho appena fatto, Dan. Voglio sapere perché l’esercito.»

Si grattò la testa. «Fare il soldato mi ha rimesso in riga. Tutto qua. Non era una mia aspirazione, però mi è servita»

«Tipo una punizione?»

Mi sorrise, triste. «Una specie»

Poi qualcuno bussò e sia io che mio fratello ricercammo nel nostro modo di stare in piedi una scioltezza che non trovammo. «Posso?» domandò mamma, ma era già dentro. Rimase impalata sulla porta. «Io e vostro padre siamo un po’stanchi. Oggi è stata una giornata movimentata, anche a lavoro, ci ritireremo a breve.»

«Certo, mamma» disse Daniel con calma, «Non vi preoccupate. Andate pure a dormire.»

Non se ne andò. Ci soppesò con aria materna e fece un largo sorriso. «Sentite, vi capisco. Tutti questi anni lontano… Non dev’essere stato facile, per voi. Avrete di sicuro tante cose da dirvi… Però avrete modo di raccontarvi tutto nei prossimi giorni. Ora forse è il caso che entrambi vi riposiate. È un po’ tardi.»

A malincuore, salutai mio fratello e salii in camera mia. Quella notte non chiusi occhio. Avrei voluto confessargli ogni cosa, quanto l’avevo pensato, quanto avessi sofferto la sua lontananza, ma non ce l’avevo fatta. Forse avevo bisogno di parlarne con qualcuno, dirlo a qualcuno e basta, vomitarlo.

Uno psicologo, magari.

Mi avrebbero rinchiusa in un manicomio? Oppure non mi avrebbero più fatto vedere Daniel. Anche soltanto l’idea era intollerabile. Perché non potevo tornare a quando ero in quinta elementare?



Note
Grazie per essere sempre qui. Spero di ritrovarvi nello spazio recensioni, ci vediamo presto con il prossimo capitolo.
Con tantissimo affetto,
JSGilmore.
   
 
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