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Autore: Adeia Di Elferas    29/03/2022    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Ti dico, invece, che è un'ottima cosa.” insistette la Marchesa di Mantova, evitando di guardare il marito Francesco: “Nostro figlio Federico non potrebbe aspirare a una moglie migliore.”

L'uomo fissava Isabella in silenzio. Anche se la promessa di matrimonio tra il loro primo figlio maschio e la figlia di Cesare Borja era stato già firmato da un paio di giorni, il Marchese si trovava a stupirsi continuamente di aver accettato.

Era stata l'Este a insistere, a volere con tutte le sue forze quell'unione e il Gonzaga, nel profondo, non capiva tutta quell'ostinazione. Gli sembrava, anzi, che legarsi a filo doppio al figlio del papa fosse un gioco pericolosissimo e che dare proprio il loro erede designato in pasto a un'alleanza tanto vincolante coi Borja fosse un azzardo imperdonabile.

“Ma ti rendi conto che se il Valentino conquisterà davvero mezza Italia, prendere anche Mantova sarà una cosa da niente, se sua figlia sarà la Marchesa?” domandò Francesco, non appena ritrovò la voce: “E poi... Hanno la stessa età! Quando nostro figlio sarà un uomo maturo, si troverà accanto una racchia!”

“Preferivi dargli in sposa una donna di vent'anni più giovane, che lo facesse divertire e basta?” fu lo sbuffo di rimando dell'Este che, ancora seduta alla sua scrivania, continuava a tenere gli occhi fissi sul foglio che aveva davanti: “Non hai lungimiranza, non l'hai mai avuta. Solo perché sai agitare in aria una spada, credi di sapere come gira il mondo...”

La donna, che aveva in realtà trovato di buon auspicio il fatto che sia Federico, sia Luisa fossero nati proprio lo stesso giorno, ossia il 17 maggio del 1500, sapeva bene che parte delle ritrosie del marito erano legate a quella coincidenza. Superstizioso com'era, la trovava una diavoleria e non un segno del destino.

“Io...” balbettò a quel punto lui, diventando paonazzo: “Io non ho altro da dire. Sappi che questo matrimonio l'hai voluto tu e tu dovrai gestirne le conseguenze.”

“Lo so benissimo.” rimbeccò lei, intingendo intanto la penna nell'inchiostro e cominciano a intestare la lettera che voleva scrivere fin da prima che il Marchese andasse a disturbarla: “A cominciare dalla rafforzata parentela che ora hai con quella sgualdrinella di una valenciana... Mi sarà ancora più difficile biasimarvi pubblicamente, se vi vedessi troppo in confidenza.”

L'allusione a Lucrecia Borja raggelò il Gonzaga. Aveva perfino evitato i festeggiamenti a Ferrara, per non irritare la moglie e per trattenersi. Non sapeva, in tutta onestà, come avrebbe reagito, nel vedere la bellissima figlia del papa, ma aveva così tanta paura del Valentino, in quel momento, da non voler rischiare le sue ire, che, sommate a quelle di Isabella, l'avrebbero per certo annientato.

“Adesso vattene. Devo scrivere una lettera al nostro futuro consuocero.” concluse perentoria l'Este, cominciando a grattare febbrilmente con la punta del calamo sul foglio.

L'uomo, non osando nemmeno chiedersi cosa dovesse scrivere la moglie al Duca di Valentinois, lasciò subito lo studiolo, senza più profferire parola.

Isabella, di nuovo libera di concentrarsi, si dedicò al messaggio destinato a Cesare. Il contenuto era semplice: voleva, in ragione dei loro recenti accordi e della loro amicizia, che lui le tenesse da parte e le inviasse, quando lei lo avesse ritenuto lecito, un Cupido e una Venere molto antichi che sapeva essere nel palazzo di Urbino. I Montefeltro, in fondo, non ne avrebbero avuto più bisogno, mentre lei agognava quei pezzi d'arte da anni.

Mentre firmava in calce, si chiese se Guidobaldo sarebbe rimasto a Urbino a combattere o, come riteneva più probabile, sarebbe arrivato lì a Montova, ad attaccarsi alle sottane della moglie Elisabetta. Se così fosse accaduto, ovviamente, la Venere e il Cupido avrebbero dovuto aspettare ancora un po', prima di lasciare la loro vecchia dimora per quella nuova. Sarebbe stato un bell'imbarazzo, per la Marchesa di Mantova, far vedere ai cognati che le loro preziose statue ormai erano sue...

Con un sospiro soddisfatto, la donna firmò la missiva, la sigillò e la preparò per farla spedire. Una volta lasciato lo studio, raggiunse la cognata Elisabetta, che l'attendeva paziente in una delle zone più fresche del palazzo ducale, e, prendendole la mano con tono accorato, le chiese se avesse notizie da Urbino.

Tra un singhiozzo e l'altro, la Gonzaga scosse il capo e le riferì: “Sembra che mio marito sia riuscito a scappare, ma sono notizie ancora così incerte...”

Con un sorriso plastico in volto, Isabella rispose: “Sai bene che in me avete un'amica. Fai in modo che vanga qui, almeno per i primi tempi... Vi terrò volentieri miei ospiti...”

 

L'aria rarefatta odorava di polvere da sparo e sangue. Caterina sentiva qualcosa di scivoloso, sotto ai propri piedi, ma non aveva bisogno di abbassare lo sguardo per sapere il motivo di quella orribile sensazione. Era ben cosciente della quantità spropositata di cadaveri su cui stava camminando, e sapeva bene che se avesse osato guardare, anche solo per un istante, avrebbe visto solo volti che conosceva bene...

Avanzava, senza sapere dove stesse andando. Teneva in mano una lancia spuntata e una spada senza filo. Tutt'attorno a lei c'era solo confusione e le mura di Ravaldino non si vedevano quasi più per colpa della nebbia di guerra.

Sentiva il bisogno di raggiungere in fretta la sua meta, ma non sapeva da che parte dirigersi. I suoi occhi si muovevano incerti tra la folla che la circondava, gridando e lottando, ma nessuno sembrava accorgersi di lei, quasi fosse già un fantasma.

Poi, in mezzo alla polvere e ai buio, intravide in modo distinto una figura immobile e dritta. Lo riconobbe a fatica, ma nel momento stesso in cui capì che a fissarla era suo figlio Livio, cominciò a correre. Sapeva che se l'avesse raggiunto, tutto sarebbe passato: il dolore, la paura, la fatica, perfino la stessa guerra.

Più provava a correre, però, più si allontanava da lui. Provò a lanciare in terra le armi inutili che teneva in mano, la sembravano esserlesi incollate alla pelle. Mentre inciampava, tra i cadaveri, gridò, ma dalla sua gola non uscì nulla, nemmeno un sussurro strozzato.

Provava a rimettersi in piedi, ma le sue mani, che si muovevano come rallentate, si impigliavano in una bocca aperta, in un cranio fracassato, in un torace squarciato, in un mare di orrori...

“Svegliati!” la voce di Fortunati arrivò stranamente autoritaria, ma all'orecchio della Tigre non sarebbe potuta suonare più dolce.

“Grazie...” riuscì a mormorare, mentre cercava di capire dove fosse.

Era in un bagno di sudore, ma sentiva la propria pelle fresca. C'era buio e la stanza era illuminata da un paio di candele e basta: doveva essere notte. La Sforza ci mise qualche minuto a collegare tutti quegli indizi, e poi capì.

“Per... Per quanto tempo sono stata incosciente?” chiese, guardando il piovano, che era seduto come una guardia attenta accanto al letto.

L'uomo, allungando una mano per prendere quella della donna, rispose: “Un paio di giorni. Si iniziava ad aver paura, ma Bianca diceva che anche in passato ti è successo così e...”

Alla milanese non era sfuggito il vago tremito della voce di Francesco, né i suoi occhi un po' lucidi.

Non era la prima volta che un uomo era tanto in apprensione per lei, ma in quel frangente provò nei suoi confronti una tenerezza molto profonda. Se Giacomo, anni prima, era stato in pena per lei, ma anche spaventato per il proprio destino, Fortunati non dava quell'impressione, anzi, il suo trasporto era palesemente legato solo alle sorti della Leonessa.

“Adesso la febbre dovrebbe essersene andata... Vado a chiamare tua figlia. Mi aveva chiesto di farle sapere quando...” fece il piovano, muovendosi per alzarsi, ma Caterina lo fermò.

“Aspetta...” gli disse, con voce roca: “Dammi un po' d'acqua...”

In realtà avrebbe voluto chiedergli di stendersi accanto a lei, ma si rendeva conto di essere stesa su lenzuola troppo umide per accogliere gradevolmente il suo amante. Non voleva costringerlo ad accettare per gentilezza una situazione di disagio.

Solerte, Fortunati prese un calice e lo riempì, porgendolo poi con cura alla Sforza, che, puntellandosi un po', si mise a sorbire l'acqua fresca un sorso alla volta.

“Ti abbiamo dato la tua pozione per la febbre – spiegò, intanto, l'uomo – e tua figlia s'è messa davvero d'impegno, sai? Te ne metteva poche gocce per volta tra le labbra, e anche se eri incosciente, così le prendevi...”

“Mettiti qui accanto a me.” cedette alla fine la donna, dopo aver bevuto tutto il calice.

Malgrado il nobile ragionamento di poco prima, mentre sentiva quel racconto sulle cure offerte da Bianca, le era tornato in mente l'incubo appena fatto, e il volto di Livio. Si era resa conto, tutto d'un colpo, che più o meno ricorreva l'anniversario della sua morte, e quell'epifania le aveva messo addosso un freddo tremendo, ancor più annichilente dei brividi dati dalla febbre alta.

Francesco, che in realtà non aspettava altro che il permesso della sua amata per starle più vicino, non si fece pregare. Dopo aver rimesso a posto il calice vuoto, si sistemò prontamente accanto a lei, stringendola un po' a sé con un braccio.

“Prima... Prima che stessi male...” cominciò a dire la Sforza, con la gola un po' riarsa, ma la ferma decisione di pensare ad altro, allontanando l'angoscia che la visione di Livio le aveva messo: “Hai detto che stavano... Che stanno succedendo tante cose... Parlamene.”

“Forse è meglio che prima tu ti riprenda un po' di più...” provò a dire lui.

“Ti ho detto: parlamene.” il tono perentorio della Tigre era lo stesso che anni e anni di comando avevano plasmato e dunque il povero piovano non poté far altro che eseguire l'ordine.

Le parlò delle notizie che arrivavano dal fronte di guerra, prima di tutto. Le raccontò di come ad Arezzo, dopo la conquista a opera del Vitelli, fosse arrivato niente meno che Piero Medici, cugino di Lorenzo, detto il Fatuo. Le raccontò delle voci sulla caduta di Urbino, e sugli ultimi ragguagli circa la fuga di Guidobaldo. Parlò con amarezza della ritirata del Commissario fiorentino, Antonio Giacomini, che dopo aver perso il campo ad Arezzo, si era ritirato fortunosamente a Montevarchi.

Arrivò poi a elencare le ultimissime notizie, quelle che gli avevano riferito mentre era già lì alla villa, ossia di come Vitellozzo stesse per prendere – o avesse già preso, era poco chiaro – Cortona, mentre Cesare Borja diceva già sua non solo Urbino, ma anche Città di Castello.

“Tuttavia, l'ambasceria di Soderini a Milano, al re di Francia, deve essere servita a qualcosa, perché nel Mugello sono arrivati i francesi, e sembra che sia proprio la loro presenza a evitare che Vitellozzo dall'aretino scenda verso Firenze in armi.” concluse Fortunati: “Il papa non se la sente di attaccare una città che è difesa in modo tanto plateale da Luigi XII.”

“Così, però, Firenze diventa di fatto una serva della Francia...” fece notare la donna, che, per qualche minuto, era riuscita a concentrarsi solo sulla voce del piovano, ma che stava già per precipitare di nuovo nel proprio personalissimo sconforto: “E Lorenzo dovrebbe pensare a come la Signoria prenderà questo nuovo risvolto, invece che fare la guerra a me...”

L'uomo non disse nulla, limitandosi a stringerla ancora un po' di più a sé. Con lentezza, sistemandosi meglio, si mise più comodo. Affondò per un istante il viso nel capelli della Tigre, incurante del fatto che fosse anch'essi umidi di sudore febbrile, e poi le diede un veloce bacio sulla guancia, accoccolandosi contro di lei con un sospiro.

“Sono così felice che tu stia meglio...” disse, cambiando completamente tono e discorso.

“C'è altro di cui devi parlarmi?” indagò la Leonessa.

Di malavoglia, ma sapendo che alla fine la milanese gli avrebbe comunque estorto a forza quel che c'era ancora da dire, l'uomo annuì appena e disse: “Sembra che stanotte, o domani al massimo, il Vescovo di Volterra e Machiavelli incontreranno il Valentino.”

“Per dirgli che cosa..?” senza volerlo, Caterina aveva ricominciato a sudare freddo, come se il solo riportare alla mente il viso del Duca di Valentinois bastasse a farle provare dolore fisico.

“Immagino per chiedergli che intenzioni abbia e per fargli presente che Firenze è protetta da re Luigi...” valutò il fiorentino: “Il Vescovo, che è, lo sai, Francesco, fratello di Pier Soderini, ha una bella lingua, e Machiavelli non è da meno...”

La Tigre ricordava molto bene Machiavelli, anche se le pareva passata una vita intera, da quando l'aveva incontrato la prima volta. Quando lui era stato ambasciatore presso la sua rocca, aveva avuto ben modo di conoscerne la pochezza. Tuttavia si rendeva conto che, per Firenze, restava un uomo adatto a quel genere di incarichi, benché lei personalmente lo ritenesse un inetto.

“La trovo una missione inutile.” disse in fretta: “Il figlio del papa vuole Firenze, non c'è bisogno di chiederglielo. Per il momento, però, se i francesi si sono schierati tanto apertamente, non può prenderla, fine. Non avrebbe nemmeno senso accettare degli accordi con lui: suo padre non gli darà mai il permesso di continuare la campagna, se così facendo si inimicasse re Luigi.”

Il piovano si grattò il mento. Era sorpreso dalla sicurezza con cui la donna aveva parlato. In città c'era molta incertezza su quella vicenda, mentre lei pareva avere le idee più che chiare.

“Per quella questione...” riprese poi la Leonessa, corrucciandosi: “Non stavo scherzando, sai?”

“Quale questione?” domandò confuso il fiorentino.

“Voglio andarmene da qui. Non dico in via definitiva, ma almeno per qualche settimana.” si spiegò meglio lei: “E tu devi aiutarmi.”

Fortunati, in effetti, nelle lunghe ore di veglia, aveva ragionato su come fare, nel caso in cui lei avesse insistito con la pretesa di lasciare la villa per un po'. Suo malgrado, era arrivato a una soluzione e aveva già provato a mandare, a titolo esplorativo, un paio di lettere alle persone giuste.

“Va bene.” le disse quindi, soprattutto per non farla agitare: “Ti aiuterò. Anzi, sto già cercando un posto sicuro.”

“Davvero?” chiese lei, stupita dall'improvvisa resa dell'uomo.

“Sì.” fece lui: “Ho capito che hai l'occhio più acuto del mio, su certe cose, quindi faremo come dici tu.”

Sospinta da un moto di gratitudine, misto all'affetto che provava verso il piovano, si protese verso di lui e gli diede un bacio sulle labbra. Francesco avrebbe voluto prolungarlo, ma si accorse subito di quanto lei fosse ancora debole. Ripensò alla prima volta in cui si era prestato alle sue attenzioni, a come fosse stato in fondo facile lasciare che lei gli insegnasse come muoversi e cosa aspettarsi, ma il desiderio che sentiva crescere dentro di sé nel riportare alla mente tutte quelle immagini, andava per il momento represso.

“Appena starai bene – disse, quasi a volersi ricordare una volta di più dello stato di momentanea infermità della Leonessa – ti sposterai nella nuova casa...”

“Faresti un'altra cosa per me?” domandò poi Caterina.

“Tutto quello che vuoi.” rispose Francesco, e non si trattava di una mera frase fatta.

“Andresti a dire a Bianca che sto meglio? Così che lo faccia sapere anche agli altri... Ma, ti prego, dille che per il momento sono troppo stanca e che li vedrò tutti domattina...” disse la donna.

“Va bene...” annuì lui, lasciando controvoglia il letto: “Allora... Allora se preferisci stare sola, ti lascio poi in pace anche io.”

“No. Tu torna.” ordinò lei, conscia del fatto che non avrebbe potuto passare quella notte da sola, non con la paura di fare di nuovo certi incubi.

Fortunati sorrise, senza dire nulla, e lasciò la stanza con passo veloce, desiderando di essere già di ritorno.

 

“Siamo in viaggio assieme ormai da giorni e non vi ho nemmeno chiesto come stia vostra vostra moglie Marietta...” fece, distrattamente, il Vescovo Soderini.

Niccolò non lo ascoltò nemmeno: in quel momento non riusciva a pensare ad altro se non all'uomo che si accingevano a incontrare, il Duca Valentino, colui che stava tenendo sotto scacco l'Italia intera, colui che aveva fatto cadere Urbino senza nemmeno toccare la spada, colui che era riuscito a sottomettere, umiliare e distruggere la Tigre di Forlì.

“Non credo di averla mai vista con voi, o, almeno io non...” riprese Francesco Soderini, ma Niccolò lo fermò con un gesto imperioso della mano, perché, finalmente, qualcuno era arrivato ad accoglierli.

Nel momento stesso in cui la guardia aprì loro il portone, Machiavelli non riuscì a trattenersi e cominciò ad allungare il collo verso l'interno del salone, per vedere subito il figlio del papa.

Il palazzo d'Urbino era illuminato a giorno ed era come se gli uomini del Valentino avessero vissuto lì da sempre. C'erano soldati dappertutto e nell'ambiente molto ampio in cui il Vescovo e l'altro fiorentino erano appena stati ammessi, non si vedevano altro che uomini in mezza armature e donne in abiti discinti.

“Noi dovremmo vedere il Duca per una questione di grande serietà e urgenza...” disse, quasi tra sé, Soderini.

Niccolò, invece, era rapito da quello che aveva dinnanzi. Sapeva che la vita dell'uomo d'armi era fatta in buona parte di brutture e sangue, ma era allo stesso tempo conscio che pure quei momenti di gozzoviglio e stravizi facevano parte della quotidianità di un condottiero. O, almeno, di un condottiero vincente...

Affascinato dalla mollezza di quello spettacolo, fu certo di aver visto per primo Cesare Borja, ma tenne per sé quell'impressione, per evitare che il Vescovo rovinasse quel momento di ammirazione precipitando i tempi.

Il Valentino, perché di certo era lui, era vestito con abiti sobri, ma estremamente fini. Era mezzo sdraiato su dei cuscini, circondato in egual misura da soldati, che ascoltavano la sua voce come ipnotizzati, e da giovani donne, che lo fissavano in modo inequivocabile. Malgrado quella fosse una chiara ostentazione di arroganza – perché accogliere così degli ambasciatori era solo ed esclusivamente quello – per il fiorentino era la dimostrazione comprovata dalla forza e della sicurezza di sé di quell'uomo, tanto giovane eppure tanto spregiudicato e abile.

Niccolò guardava il suo profilo, e capiva finalmente cosa intendesse chi lo paragonava a un serpente, tuttavia lo trovò attraente, nobile, fiero. Il suo corpo, le spalle larghe e perfino il suo volto segnato irrimediabilmente dal mal francese, tutto in lui sprigionava potenza e sensualità.

Di punto in bianco il Valentino guardò proprio verso di lui. Borbottò qualcosa a quelli che gli stavano vicini, sollevando una mano per farli stare zitti e poi, battendo le mani fece segno a tutti di andarsene.

Alzandosi con un movimento fluido, mentre tutti gli altri lasciavano frettolosamente il salone, Cesare raggiunse i due fiorentini. Gli sembravano spauriti e stanchi dal viaggio. Di colpo fu felice di aver messo in scena quell'accoglienza tanto spiazzante, e anche di aver accettato di vederli solo a quella tarda ora di notte. Era stato molto nervoso, all'idea di dover parlamentare direttamente con dei portavoce di Firenze, ma adesso si sentiva decisamente superiore a entrambi.

Il primo, che doveva essere il Vescovo di Volterra, dato il crocifisso che portava e il pesante anello con cui giocherellava, sembrava un pesce fuor d'acqua. Si guardava in giro come se si stesse chiedendo da che parte scappare, se le cose fossero andate peggio del previsto. Quello accanto, invece, molto più brutto e vestito peggio, aveva lo sguardo acceso e lo teneva fisso sul Borja.

“Venite con me.” ordinò il Duca di Valentinois, impedendo loro di presentarsi, e cominciando a camminare, non dando tempo a nessuno dei due fiorentini di dire mezza parola.

Li portò in una stanza molto più piccola, con un tavolo di legno grezzo e quattro sedie in tutto. Era, probabilmente, un ambiente di servizio, ma il Valentino si mostrò molto a suo agio. Sedutosi, accavallò le gambe e si abbandonò allo schienale, facendo un cenno a Soderini e Machiavelli affinché lo imitassero.

Intimiditi, i due eseguirono subito, e poi fu Niccolò il primo a trovare il coraggio di parlare: “Siamo qui per portarvi le domande e le dichiarazioni della Repubblica di Firenze.”

“Sono tutt'orecchi.” ribatté Cesare, con un sorrisetto furbo che intrigò ancora di più Machiavelli.

Erano più o meno le due di notte e il clima immobile di quell'ora rese le parole del fiorentino molto ovattate e lente. Il Duca non dava l'impressione di essere annoiato dal suo lungo discorso, tuttavia, di quando in quando, dava una breve risata, come se trovasse tutta quella situazione paradossale, per poi, però, far cenno a Niccolò affinché proseguisse.

Malgrado tutto, il figlio del papa trovava interessante quell'uomo. I suoi capelli scombinati, il suo naso adunco e le sue mani dalle dita lunghe e nervose. C'era qualcosa, nell'animosità pedante del suo esprimersi che glielo faceva assimilare a un uccello di fiume, uno di quelli con le zampe lunghe ed esili, il becco affilato e lo sguardo distante, che, dopo mille movimenti non finalizzati, riuscivano con un colpo solo a tuffare il muso e uscire dall'acqua con un pesce enorme da mangiare.

Dopo che Machiavelli ebbe esposto quanto gli competeva, spettò al Vescovo Soderini fare altrettanto. Questa volta il Valentino davvero si scocciò presto di sentirlo parlare e così, dopo appena una decina di minuti, sollevò entrambe le mani e invocò scherzosamente pietà.

“Adesso vi dirò io cosa fare e cosa dire alla Signoria.” tagliò corto, sistemandosi meglio sulla sedia e fissando con attenzione prima Francesco e poi, con più intensità, Niccolò: “Firenze firmerà una lega con me, altrimenti la considererò mia nemica.”

Soderini ebbe un fremito e cominciò a protestare: “Ma cosa state dicendo? Con i francesi nel Mug...”

“Porteremo la vostra proposta a Firenze – si intromise Machiavelli, che sapeva quanto fosse cruciale non insistere troppo sulla presenza dei francesi nel Mugello, per non dare l'idea che fossero davvero pagati e voluti dalla Repubblica e che i Borja non fossero considerati nemici, non per il momento, almeno – ma dovete darci qualche giorno, per far capire a tutti quanto sia buona la vostra proposta.”

“Sarà meglio, con il Governo che vi ritrovate...” sbuffò Cesare, trovando in Niccolò un interlocutore elettivo.

Da lì il discorso continuò solo tra loro due, toccando vari punti e sfiorando appena quelli che sarebbero stati fondamentali per entrambe le parti. Era come una danza armata, a cui il Vescovo Soderini assisteva senza potervi davvero capire granché.

Dopo quasi due ore di discussione, il Valentino dichiarò concluso l'incontro. Pregò i due ospiti di seguire una delle guardie fuori dal palazzo e di volersi cercare un alloggio per quel che restava della notte, a meno che non volessero ripartire subito per Firenze.

Machiavelli avrebbe voluto fermarsi in Urbino, ovviamente, nella speranza di poter conversare di nuovo con il Duca il mattino seguente, Soderini, invece, fu più propenso a togliere l'incomodo e lasciare il perimetro della città, fermandosi qualche ora in una locanda sulla strada.

“Avremo modo, spero, di incontrarci ancora.” concluse il Borja, soddisfatto di quella soluzione.

Niccolò ebbe l'impressione che, nel dire quelle parole, il giovane figlio del papa stesse guardando solamente lui. Era come un richiamo di sirena, o, ancor meglio, come la profezia di una pizia. Non era un modo signorile di congedarsi, ma una promessa.

Ritiratisi, i due fiorentini ripresero le loro cavalcature e lasciarono Urbino. Arrivati nella locanda che il Vescovo aveva eletto come loro rifugio momentaneo, Machiavelli non perse tempo e annotò alcune cose che doveva necessariamente includere nel resoconto che avrebbe presentato a Firenze.

Fece una breve descrizione del Valentino, della sua fascinosa arroganza, della dissimulazione che metteva in atto di continuo e, di contro, della franchezza che sapeva dimostrare, quando diceva: 'che la città vostra non ha buono animo verso di me, anzi mi lacera come un assassino'.

Lo esaltò più del dovuto, nel parlarne, se ne rendeva conto, perché sapeva bene che quell'ambasceria per la Repubblica non era stata né risolutiva né positiva. Tuttavia era come riprendersi una rivincita personale... Scrivere che il Borja era idolatrato dai suoi soldati e che il suo acume militare prevaricava qualsiasi altro genio, per Niccolò, era come dare uno schiaffo morale a Caterina Sforza, la donna che il Valentino aveva sconfitto, la stessa donna che, anni prima, aveva osato prendere per i fondelli lui, Machiavelli, un ambasciatore fiorentino, trattandolo come l'ultimo degli ignoranti. Esaltare colui che l'aveva resa poco più che una schiava era per lui un modo tardivo, ma abbastanza soddisfacente per prendersi la sua rivincita.

Per quanto animato da un insieme ingovernabile di esaltazione e brivido, Niccolò dovette piegare comunque il capo al suo ruolo ufficiale, nel trascrivere le parti salienti dell'incontro di quella notte.

Stringendo gli occhi per vedere meglio il foglio illuminato solo da una piccola candela di sego, riportò, il più fedelmente che poté, le severe parole usate da Cesare nel parlare di Firenze: 'Questo governo – aveva detto – non mi piace et io non mi posso fidare di lui; bisogna lo mutiate et mi facciate cauto della osservantia di quello mi promettessi: altrimenti voi intenderete presto presto che io non voglio vivere ad questo modo: et se non mi verrete amico, mi proverete nimico.'.

Posando la penna sulla piccola scrivania, Niccolò rimase un attimo immobile. Sapeva bene che Firenze poteva contare sulla Francia, anche se quell'alleanza rischiava di trasformarsi in un cappio molto stretto, e sapeva anche che Vitellozzo Vitelli era pronto a ritirarsi, se le truppe di re Luigi non avessero lasciato il Mugello. Tuttavia c'era qualcosa, nei toni del Duca di Valentinois che l'aveva messo in allarme in modo molto serio. Era un uomo fuori dal comune, non era difficile rendersene conto, ma, soprattutto, era chiaro che avesse poche remore, pochi ostacoli morali e forse anche poca cognizione delle proprie reali forze. Quelle tre caratteristiche, messe assieme, lo rendevano uno degli uomini più pericolosi al mondo.

Con un sospiro pesante, Niccolò guardò verso la finestrella che dava sulla via principale. C'era ancora buio, e il sole ancora non si vedeva, ma Macchia sapeva che stava per albeggiare: il 24 giugno era già iniziato. A conti fatti non avrebbe dormito nemmeno dieci minuti, quella notte. Poco gli importava, tanta era l'eccitazione che ancora aveva nel cuore per aver potuto parlare a quattrocchi con un individuo che, nel bene e nel male, stava facendo la Storia.

 

Caterina si svegliò di soprassalto. Aveva il respiro corto e teneva gli occhi spalancati, cercando nel buio della stanza qualcosa che la riportasse alla realtà presente.

“Tutto a posto, stai tranquilla.” la voce di Fortunati, steso accanto a lei, la calmò subito, anche se non l'aiutò a levarsi dalla mente l'immagine di suo figlio Livio, tanto mano la sensazione strana del suo ultimo abbraccio, l'unico suo abbraccio di cui avesse veramente memoria.

“Che giorno è oggi..?” domandò, la voce un po' impastata, la donna.

Francesco, che dalla liberazione di Caterina si era abbastanza abituato a sentirsi rivolgere domande del genere nei momenti più disparati, rispose prontamente: “Tra qualche ora sarà l'alba del ventiquattro giugno.”

La Sforza si rimise coricata, fissando il soffitto e si rese conto di non ricordare con esattezza né la data in cui era morta sua madre Lucrezia, né quella in cui era morto Livio. Ricordava l'epidemia, la paura, la stanchezza, il sonno, il senso di vuoto profondo che aveva provato, ma non la data.

Senza dire nulla, si avvicinò un po' di più al piovano e lo indusse ad abbracciarla. Un po' interdetto, l'uomo non seppe come interpretare quel gesto. Si sentiva ancora paurosamente inadeguato, quando non sapeva interpretare le richieste silenziose della Tigre, perciò cercò una via di mezzo.

La strinse a sé con lentezza e poi le diede un breve bacio sulle labbra. Quando provò a farlo di nuovo, però, la Leonessa si sottrasse appena e gli si negò, voltandogli le spalle.

“Ho solo voglia di dormire.” spiegò lei, facendosi sì, comunque, che l'uomo le mettesse un braccio attorno alla vita, scaldandola, benché la notte fosse più che tiepida.

“Scusami.” sussurrò lui, felice, in fondo, che l'avesse fermato subito, permettendogli di non fraintenderla oltre: “Vuoi che resti comunque?”

“Sì.” soffiò lei.

Caterina chiuse gli occhi, cercando di riaddormentarsi, ma di colpo un ricordo la trafisse come un pugnale. Quando Livio era morto, Giovanni Medici l'aveva consolata proprio a quel modo, stringendola a sé, proteggendola, per quel poteva. All'epoca lei e il Popolano non erano ancora nemmeno amanti, ma per motivi contingenti, avevano diviso il letto per poter riposare. Era stato lui a starle vicino finché si era sciolta in pianto e poi aveva ceduto al sonno...

Quel paragone, così improvviso e inatteso, la fece scoppiare in lacrime all'improvviso. Ancora debole per la febbre passata da poco, si sentiva fragile, pronta a spezzarsi.

Il piovano, che stava cominciando a rilassarsi, tenne il colpo, restando abbracciando a lei, affondando il viso nei suoi capelli e sussurrandole qualche parola di conforto, pur non sapendo quale fosse davvero il motivo di quell'esplosione di dolore.

La milanese era squassata dai singhiozzi. Era disperata. Anche se pure in passato aveva sofferto per la morte di Livio, solo ora, a distanza di sei anni, pareva rendersi davvero conto di quello che era successo.

Francesco, paziente, lasciò alla Tigre il suo tempo. Era ormai l'alba, quando finalmente i singhiozzi si diradarono e il pianto si spense. Caterina bisbigliò qualcosa riguardo al figlio che aveva perso, alla sua incapacità non solo di salvarlo, ma anche di curarlo quando ancora era in vita, e finalmente Fortunati capì il motivo di tanto strazio.

“Io ho commesso tanti peccati – disse a un certo punto la donna, rigirandosi nel letto in modo da poter guardare in visto il fiorentino – ma quello più grande è stato verso mio figlio Livio.”

“Non dire così...” ribatté lui, fissando gli occhi rosso fuoco della sua amata, cercando un modo per alleviare la sua enorme pena: “Non l'hai ucciso tu, è stata la malattia... Non si poteva far nulla...” si trovò a dire, ricostruendo le vaghe voci che aveva sentito circa la morte di quel ragazzino.

“Non è questo...” scosse il capo lei, riprendendo a piangere e ritrovando la voce solo dopo qualche minuto, il fiato che le mancava di quando in quando, spezzando i suoi pensieri: “Il mio peccato è non averlo mai amato come avrei dovuto... Non ci ho nemmeno provato, io non... Io l'ho odiato come gli altri, quando è nato, e non ho avuto... Non ho avuto il tempo... Se n'è andato quando ancora io... Io non l'ho mai amato davvero...”

Rimasto senza parole, Fortunati le accarezzò la testa, premendosela poi contro il petto, quasi sperando che il battito del suo cuore potesse consolarla. Quella era un'affermazione molto pesante, ma, da come era stata detta, il piovano temette fosse anche molto vera.

L'uomo aspettò, forgiato da una vita di preghiere e silenzi. Avrebbe voluto parlarle del disegno divino, di tutte le cose in cui si era sempre sentito bravo e preparato, ma aveva paura a toccare certi argomenti con lei. Non si sentiva all'altezza di discutere con una madre addolorata non solo per la morte di un figlio, ma per non averlo amato abbastanza...

Ragionò in fretta e si disse che, per il momento, l'unica cosa che poteva fare era cercare di risollevarla, di distrarla dal suo dolore. Ci sarebbero stati altri momenti per affrontarlo. Era ancora debole per la febbre, era vulnerabile per le decisioni che stava prendendo per difendersi da Lorenzo... Non era il momento di affrontare questioni tanto dolorose e complesse.

Così, quando gli parve che fosse passato abbastanza tempo, Fortunati sussurrò: “C'è una cosa che ancora non ti ho detto... Forse non è il momento, forse vorresti parlare di tuo figlio, ma mi rendo conto ora che devo dirtelo, anche se si tratta solo di voci.”

“Che cosa..?” chiese Caterina, capendo il tentativo del suo amante di distrarla e provando a seguire quella strada, nella speranza di attutire un po' il dolore lacerante che sembrava volesse squarciarle il petto.

“A Firenze gira voce che Astorre Manfredi sia morto, anzi, che sia stato ucciso.” riferì, con voce piatta, Francesco.

Andava contro ogni sua convinzione cristiana, l'essere felice per la morte di un ragazzo, tuttavia sapeva quanto quell'eventualità fosse auspicabile, per la Tigre e la sua famiglia.

“L'hai già detto a Bianca?” chiese Caterina, asciugandosi un po' gli occhi con il dorso della mano.

“No.” ammise lui.

“E perché?” la donna era ancora concentrata su se stessa, tuttavia quella notizia inattesa la stava davvero riportando al presente, ai problemi contingenti, a tutto ciò che era ormai la sua vita, lontana da Ravaldino e dai fantasmi che infestavano la rocca e la sua mente.

“Perché, come ho detto, è solo una voce.” ribadì lui: “E secondo tanti è una voce infondata. C'è chi dice che l'abbiano messa in circolo i Borja, per spaventare Faenza e scongiurare una sollevazione che inneggi al ritorno di Astorre. Altri, invece, dicono che l'abbiano messa in circolo i detrattori dei Borja, per dimostrare quanto siano infidi e bugiardi, dato che ormai da anni vanno dicendo di avere Astorre ospite alla loro corte, servito e riverito come un principe.”

“Certo, come trattavano me da regina...” sbuffò la Leonessa.

Seguì un lungo momento di silenzio e poi la donna, puntellandosi sui gomiti, fece un paio di respiri profondi e chiese a Francesco di aprire la finestra, per far entrare un po' di aria fresca.

“Anche se sono voci, devo parlarne con Bianca, prima che vada in convento.” sentenziò: “Glielo devo. È una cosa di vitale importanza, per lei.”

Il piovano non disse nulla, tornando a letto, accanto a lei. Le sfiorò la fronte con la mano, trovandola sfebbrata del tutto, e poi le guardò un momento gli occhi arrossati.

Capendo cosa l'uomo stesse osservando, la Tigre gli disse: “Non voglio che i miei figli capiscano che ho pianto...” sospirò un paio di volte, dicendosi che l'unica da cui si sarebbe lasciata vedere così era sua figlia, e poi chiese: “Puoi dire a Bianca di venire qui, da sola, e di portarmi un po' della mia pozione per gli occhi rossi? Anche se l'avevo studiata per gli arrossamenti dovuti al vento e alla sabbia, dopo aver cavalcato, andrà bene anche stavolta...”

“Certo.” fece lui, abbozzando un sorriso e poi, andando alla porta, aggiunse: “Secondo me, calcolando tutto quello che ti è successo e che hai passato, non sei una cattiva madre.”

“Lo dici solo perché non hai provato a essere uno dei miei figli.” lo zittì lei e poi, guardando altrove, gli fece capire che non aveva più voglia di parlarne: “Vai a chiamare Bianca, per favore...”

   
 
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