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Autore: LilithMichaelis    30/03/2022    0 recensioni
Ed è lì che so. È lì che capisco. Non mi è mai interessata una breve vita di gloria ed onori.
L'immortale esistenza accanto a Patroclo è tutto ciò che desidero.
«Patroclo» pronuncio. Pa-tro-clo. «Raccontami delle stelle» gli chiedo.
E lui racconta.
***
Sleeping At Last - Saturn
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Song: Saturn - Sleeping At Last: https://www.youtube.com/watch?v=dzNvk80XY9s
***
Non avevo mai immaginato quanto potesse essere noioso osservare una battaglia senza poterla vivere, senza poter sentire il calore di centinaia e centinaia di corpi in movimento, l'umido del sangue sulla pelle, il tanfo del sudore e del fango che ricoprivano i soldati, mentre questi sferzavano colpi uno dopo l'altro, incuranti dei dettagli, dell'igiene, troppo preoccupati di portare a casa la pelle.
Attendevo il ritorno di Patroclo così come lui attendeva il mio, sebbene io preferissi passare il tempo ad osservare le figure che si muovevano sulla collina, che attaccavano o fuggivano a seconda dello schieramento, mentre Patroclo si era sempre tenuto più occupato, prestando servizio alla tenda medica, o passeggiando con Briseide, insegnando o apprendendo.
Avevo visto Patroclo a lavoro, specie durante la pestilenza. Lo avevo osservato mentre si prendeva cura di ogni uomo malato, mentre chiudeva gli occhi ai cadaveri e mentre ricacciava indietro le lacrime, troppo impegnato ad occuparsi di un nuovo ferito per poter provare dolore per quei volti amici che ormai aveva perso. Sul monte Pelio, con Chirone, aveva appreso più arti mediche di qualsiasi altro greco. Mi resi conto di non avergli mai detto quanto ammiravo la sua dedizione, il lavoro instancabile, l'affetto con cui rimetteva in sesto ogni soldato e persino il modo in cui il suo cuore si stringeva dopo che la Morte aveva reclamato a sè uno dei nostri. Mi annotai mentalmente di farlo, una volta che fosse tornato a casa.
Ricordai la profezia e mi chiesi se avrebbe pianto per me, quando fossi morto. La mia vita dondolava sulla mia testa, come una spada di Damocle, ma non avevo mai considerato l'impatto che la mia morte avrebbe potuto suscitare sugli altri.
Certo, avrei ricevuto un funerale d'onore, degno dell'aristos achaion, ma mi chiedevo che ruolo avrebbe giocato Patroclo in quella circostanza.
L'idea che Briseide lo desiderasse come padre dei suoi figli mi consolava, sebbene, per un unico folle secondo, avessi desiderato ucciderla a mani nude per averci anche solo pensato. Mi dissi, però, che sarebbe stato un bene, per lui, avere qualcuno accanto... dopo.

Il mio sguardo fu attirato da uno strano groviglio lì, sulla collina. I soldati si erano affaccendati intorno al corpo di un caduto - un re o un principe - e combattevano per poterlo portare indietro. Mi chiesi chi fosse. Menelao? Odisseo? Magari proprio Agamennone, sarebbe stata la migliore fine per quell'intera situazione e io e Patroclo avremmo brindato alla sua morte, alla salvezza di Briseide, alla riuscita del suo piano. Ero contrario all'idea che potesse andare sul campo di battaglia e, soprattutto, che ci andasse senza di me, ma dovevo ammettere che tutto si stava svolgendo esattamente secondo le sue parole. Sorrisi pensando a come quel ragazzino tutto gambe e braccia che mi aveva rincorso al monte Pelio si fosse trasformato in un uomo fatto e finito, addirittura uno stratega.
Il respiro mi si spezzò nei polmoni, come se qualcuno mi stesse strizzando il petto, impedendomi di prendere fiato. Mi accasciai in ginocchio, e la crisi passò dopo un istante. Non capivo cosa fosse quella sensazione di vuoto che mi attanagliava, come se la morsa mi avesse strappato via qualcosa, ma non mi piaceva.
Continuai ad osservare la battaglia, un velo di preoccupazione negli occhi.
Torna presto gli sussurrai.

Odisseo zoppicava, probabilmente ferito, o forse solo acciaccato dalla sua vecchia cicatrice. Eppure non fu quello il dettaglio della sua andatura che mi parve peculiare. Camminava lento, a testa bassa, come se si stesse facendo strada nel fango. Accanto a lui gli altri re, persino quel sorcio di Agamennone. Menelao chiudeva la coda con un fagotto tra le braccia.
Li contai in fretta, ma non mi sembrava mancasse qualcuno all'appello. Non ero mai stato bravo a riconoscere le persone, così ricontai. Tutti presenti. E allora chi era quel fagotto tra le braccia di Menelao? Perché Patroclo non era ancora venuto a salutarmi? Era ferito?
Odisseo mi si avvicinò per poggiarmi la mano sulla spalla.
«Achille...» sussurrò stancamente. Non ci fu bisogno che finisse la frase.
Avvicinandosi, aveva lasciato il posto che occupava in testa alla processione, permettendomi di vedere meglio il corpo che giaceva tra le braccia di Menelao, coperto alla buona da un sudario lurido.
Un piede a penzoloni, indurito dai chilometri passati a camminare nei boschi. Mani dalle dita sottili, pratiche e svelte, che mi parve di sentire sulla pelle, lasciando scie infuocate e sanguinanti.
Una zazzera di capelli scuri, che avevo arricciato tante volte che ormai prendevano facilmente la forma delle mie dita.
E poi il suo viso, coperto di sangue, gli occhi chiusi e le labbra bluastre, ma ancora bello come la prima volta che l'avevo visto.
D'istinto la mano mi corse alla spada, ma si strinse intorno all'aria, mentre delle dita forti si chiudevano intorno al mio polso. Non mi resi conto di chi fosse finchè non alzai lo sguardo per incrociare quello di Antiloco. Nei suoi occhi vidi che era consapevole di ciò che volevo fare - mettere fine alla mia vita in quel preciso punto - e anche una muta richiesta di perdono, ma non me ne curai. Con uno strattone mi divincolai, sapendo che non sarebbe riuscito a trattenermi neanche se avesse davvero voluto.
In una frazione di secondo i miei occhi erano su Menelao. Eravamo lì per sua moglie - almeno ufficialmente, ma non ero lucido abbastanza per ricordare i motivi geo-politici - e per colpa sua ora Patroclo era... morto. La parola mi bruciò come fiele in gola e la allontanai dalla mia mente.
Il re portava ancora in braccio il corpo di Patroclo. Un corpo che solo io avrei dovuto stringere, un corpo che doveva essere tra le mie braccia, mentre le sue mi avvolgevano in risposta ed il cielo si tingeva di rosso.
Non mi resi conto di aver caricato finché non sentii il botto delle gambe di Patroclo che colpivano il terreno, mentre io cercavo di afferrarlo, dopo aver spinto via Menelao.
La mia pelle sentiva il freddo della sua. Non era mai stato così freddo, neanche nella caverna di Chirone, quando fuori nevicava e noi ci stringevamo sotto le pelli per scaldarci. La sua testa combaciava perfettamente con la curva della mia spalla, proprio come allora, ma i suoi occhi chiusi non cercavano i miei, le sue labbra non si posavano sulle mie, le sue dita non cercavano i capelli che io mi stavo torturando tanto da strapparli dal cranio, un sottile rivolo di sangue a solleticarmi lo scalpo.
Stavo urlando, lo sapevo. Mi bruciava la gola, i polmoni chiedevano aria e, intorno a me, il brusio delle scuse, dei benvenuti ai soldati, il clangore delle armi, si era zittito, mentre tutti osservavano il dolore dell'aristos achaion.
Patroclo... Patroclo... l'unico suono che sentivo nella mia mente era il suo nome. Lo stavo pronunciando, ancora e ancora, senza rendermene conto, finchè non divenne altro che un gemito incoerente, finché non divenne l'unica cosa che sapevo pronunciare.

Nel mio delirio udii qualcuno interrompere il silenzio funerario che era calato intorno a me. La voce di Odisseo era ruvida ai miei timpani, mentre a gran voce reclamava cibo e vino, incurante del sangue di Patroclo che macchiava le sue mani e le mie. Immaginai le mie dita sporche strette attorno alla sua gola, mentre le sue labbra diventavano blu, gli occhi si ribaltavano all'indietro e, lentamente, il suo spirito abbandonava il suo corpo, lasciandolo un guscio vuoto, come quello che stringevo.
Ma le mie mani non si mossero, tanto impegnate a cullare il mio amato, a nascondere la ferita con il sudario, affinchè potessi fingere per un ultimo istante di non essere più a Troia, di non stare piangendo su un cadavere, affinchè potessi allontanarmi dalla guerra, dalla morte, dal sangue.
Le mie mani non si mossero, e Odisseo visse.

I passi di Briseide si sentivano pesanti, mentre la ragazza correva intorno a noi, ma ancora più pesanti erano i suoi gemiti, gemelli dei miei, la voce di qualcuno che aveva perso la persona più amata. Non aveva diritto di piangere e gemere come me. Patroclo era stato mio e di nessun altro. Ma non era lei che occupava la mia mente.
«Chi è stato?» la mia voce si alzò, stridente come vetro in frantumi, non più quella di un soldato, meno ancora di un generale.
«Ettore» giunse ferma la voce di Menelao.
"Perchè dovei uccidere Ettore? Non mi ha fatto nulla di male" avevo ripetuto. "non ancora" avrei dovuto rispondere. In una sola mossa quel cane mi aveva distrutto, aveva distrutto la ragione per cui ancora vivevo, la ragione per cui combattevo quanto bastava a tornare a casa. Il mio compagno, il mio amato, la parte migliore della mia anima. Mi aveva portato via tutto in una sola mossa, come se per lui fosse un semplice mercoledì.
Fu l'ira a convincermi ad alzarmi, a lasciare cadere il corpo di Patroclo, a sostituire il suo peso - ormai così poco familiare - con quello rassicurante di una lancia.
Fui vagamente cosciente delle mani di Odisseo sulle mie spalle, della sua promessa.
«Domani lo ucciderai, te lo giuro. Adesso devi mangiare e riposarti»

Non fu la promessa di Odisseo a fermarmi. Né il bisogno di cibo e riposo. Non mangiai, non dormii. Feci portare il corpo di Patroclo nella nostra tenda. Lo cullai, lo vegliai. Non potevo più dirgli che lo amavo, non potevo più toccare il suo corpo, vedere la pelle d'oca che spuntava seguendo le linee tracciate dalle mie dita. Non potevo più annusare il profumo della sua pelle, dei suoi capelli, così unico e familiare che la sua assenza mi causava la nausea.
Ricordai come la notte, nella caverna di Chirone, gli chiedessi di parlarmi del cielo, di riconoscere le costellazioni, raccontarmi storie che avrei suonato con la lira, tutto pur di sentirlo parlare, troppo spaventato all'idea che mia madre avrebbe potuto fargli del male se mi fossi spinto oltre. Credevo che avrei dovuto mantenere il segreto fino alla morte.
Un peso più massiccio di quello che Atlante avrebbe mai dovuto sopportare, ma che avrei portato con grazia e riconoscenza, se mi avesse permesso di restargli vicino fino all'ultimo dei nostri respiri.
Non sapeva, non si era reso conto di quanto la sua voce mi infondesse forza, coraggio, di quanto il suo sguardo mi motivasse a combattere meglio, ad essere un uomo migliore, più gentile, più forte. Si era sempre considerato debole, solo l'ombra dell'aristos achaion, ma non sapeva. Non si rendeva conto di essere la fonte della luce che si rifletteva su di me, come se lui fosse il sole che rendeva il mio viso di luna visibile anche da lontano. Non ero nulla più che un corpo in movimento senza quella luce, non ero un semidio, non possedevo sangue divino. Ero solo un cumulo di cenere, soffiato via dal vento. Nulla di più.
Il coraggio che tanto mi ammirava, in realtà, era solo testardaggine. Tanta era la voglia di tornare da lui, di lasciare che le sue braccia spazzassero da me i ricordi della guerra, che mi lanciavo a capofitto nei miei doveri di soldato. Volevo che la gloria fosse la mia ragione di vita lunga, volevo rompere la profezia, scrivere il mio destino...
Ero stato cieco. Non era la gloria che rendeva me quello che ero. Era lui, era sempre stato lui.
La ragione per cui la mia vita era stata degna di essere vissuta non era mai stata null'altro che lui.

Giunse mia madre. La odiai. Le dissi le mie ultime parole, le sputai in faccia il destino di Patroclo, ma lei non si fece scalfire. Mi promise un'armatura e se ne andò.
Arrivò anche Briseide. La vidi indaffarata a pulire il corpo di Patroclo. Mi disse che non meritava di giacere così, sporco com'era di terra e fango. Aveva ragione, ovviamente, ma non la ascoltai. Non riuscivo a pensare ad altro che alle sue mani su di lui, pensiero che mi nauseava molto più degli odori che iniziavano a emanare dal cadavere. Le sue accuse bruciavano come le lame di un pugnale, ma non cedetti, non di fronte a lei, mentre incassavo ogni colpo, scacciandola malamente affinché non profanasse quel luogo per me sacro. Forse Patroclo mi avrebbe rimproverato, ma era morto e non poteva fermarmi.
Lo posai sul nostro letto e mi stesi accanto a lui, cercando conforto, coraggio di superare quella notte, di sopravvivere abbastanza da poter, finalmente, vedere versato il sangue di Ettore.
Non doveva andare così, mi dissi, sentendo il freddo della sua mano, che tenevo stretta contro le mie labbra. Ero io a dover morire. Per oltre dieci anni, Patroclo si era preparato alla mia morte. Io non avevo ricevuto la grazia neanche di un giorno. Avrei sfruttato tutto il tempo che mi rimaneva.
Pensai a Patroclo, il mio dolce Patroclo, incredibile con la spada, ma ancora più incredibile come guaritore. Un soldato tanto disgustato dalla guerra da aver sovvertito le regole più basilari per proteggere Briseide e le altre donne che, un giorno, avrebbero raccontato ai loro figli la vera storia di come il migliore tra i Mirmidoni le avesse protette.
Il migliore tra i Mirmidoni... mi resi conto solo in quell'istante della mia idiozia. Avevo preso le parole della profezia come le avrebbe interpretate un soldato. Il migliore combattente, qualcuno alla mia altezza. Ma, sebbene nessuno mi potesse eguagliare nella lotta, dentro di me sapevo che c'era un solo uomo che potesse definirsi mio superiore.
Patroclo.
Non importava quanto fosse precisa la mia mira, letale la mia spada, lui sarebbe sempre stato migliore di quanto io avrei mai potuto sperare di essere. Avrei dovuto saperlo, mi dissi. Gli dei non avrebbero lasciato impunite le mie azioni, ma speravo punissero me, uccidessero me, non lui.
Ci sarei dovuto essere io lì, con lui, al suo posto. Non meritava di morire così, da solo, lontano da me, dove non potevo proteggerlo. Aveva avuto paura? Aveva chiamato il mio nome? aveva cercato di farsi sentire da me, troppo pieno di me stesso per poter sentire le sue richieste di aiuto?
Mi sentii le mani umide di sangue, il suo sangue. Era colpa mia.

Tornai da lui trascinandomi dietro il corpo di Ettore. Ne feci scempio, trascinandolo col carro, l'esatto opposto della cura che avevo destinato al mio amato, all'uomo che era morto per il suo ferro.
Mia madre mi implorò di lasciare che Ettore fosse seppellito. Non meritava questa clemenza. Sarebbe dovuto vivere in un limbo eterno, avrebbe dovuto vivere sul suo corpo quello che io sentivo nel cuore.

Mi addormentai tanto esausto da non essermene neanche accorto. Il calore dell'abbraccio di Patroclo era così familiare che non mi resi conto di stare sognando. Mi chiese di lasciarlo andare, di dargli sepoltura... Ma non posso farlo, non posso. Se lo avessi lasciato andare avrei abbandonato l'ultima, infima, speranza che lui potesse tornare da me. Che qualche dio si dimenticasse della sua ira contro di me e fosse accecato dalla sua luce, che lo prendesse in simpatia tanto da soffiare la vita di nuovo nel suo corpo.
Mi svegliai con il suo nome sulle labbra, convinto di aver avuto un incubo, convinto che avrei potuto abbracciarlo una volta aperti gli occhi. Ma lui non era lì. C'era solo il suo corpo. Ero di nuovo da solo.

Mia madre tornò ad annunciarmi l'ira di Apollo. La notizia mi riempì di gioia, anche se non potevo dirglielo. Ogni momento che mi avvicinavo al dio era un momento in meno lontano da Patroclo. Mi implorò di lasciare andare Ettore. Minacciò - o forse promise - di portare qui mio figlio, il bambino che non ho mai voluto, affinché potesse diventare il nuovo aristos achaion. Che facesse quello che voleva. Se un tempo le avevo voluto bene come a una madre, l'ira spazzò via anche quello.
«Sono contenta che sia morto» disse. E in quel momento, giuro, avrei voluto ammazzare persino lei.

Priamo giunse nel cuore della notte. Per un attimo mi ricordò mio padre, inginocchiato e fragile com'era. La parte migliore di me gli offrì da mangiare e da bere e lo ascoltò supplicare.
«È il tuo amico?» mi disse, indicando Patroclo che giaceva sul letto, scomposto e putrefatto.
«Philtatos» lo corressi, bevendomi le sillabe come ambrosia, lasciando che la verità di ogni lettera mi si incidesse nella pelle con un pugnale arroventato. Il migliore degli uomini.
Patroclo. Philtatos.
Disse di essere desolato dalla mia perdita e qualcosa, forse l'innocenza di cui ero sempre stato rimproverato da bambino, mi spinse a credergli.
«È giusto cercare requie per i morti. Tu ed io sappiamo che non c'è pace per coloro che restano vivi»
E in quel momento mi resi conto che sapeva. Che comprendeva e conosceva il mio dolore. Che lo accettava e mi perdonava per avergli strappato il figlio, sebbene provasse un dolore di pari misura al mio. Non so come sapesse di noi, sebbene non avessimo mai fatto nulla per nasconderci, specie a Troia. Forse ci aveva visti, forse qualcuno ci aveva visti e lo aveva riferito, forse era stato Patroclo stesso, ma non mi interessava davvero. Lui sapeva, capiva. Non chiedeva la grazia dell'aristos achaion, del Principe di Ftia o del soldato Achille. Chiedeva la grazia di Achille uomo, ferito nell'anima, uno squarcio insaldabile.
Mi resi conto di aver preso la mia decisione ben prima che l'uomo varcasse la soglia della tenda, mentre lo invitavo a tornare a Troia, dove avrebbe ricevuto il corpo di suo figlio e, in minima parte, la mia commiserazione.

Mi voltai verso Patroclo e mi resi conto del male che gli stavo facendo, tenendolo ancorato al mondo dei mortali, troppo spaventato dall'idea di affrontare tutto da solo. Non era giusto, non lo meritava. Lui meritava l'amore che avevo sempre cercato di dargli. Meritava che gli baciassi le palpebre mentre lo portavo sulla pira, mentre lo accasciavo sul legno e accendevo il fuoco, con una preghiera sulle labbra affinché il viaggio fosse breve e tranquillo, la promessa di raggiungerlo presto, di non allontanarmi mai più da lui, se anche avessi dovuto fondere i nostri corpi e le nostre anime, come fossero una sola, perchè in realtà lo erano.
Attesi che il fuoco si esaurisse, prima di raccogliere le ceneri. Stringevo l'urna d'oro tra le mani, come la più preziosa reliquia, l'unica ancora che mi manteneva ancora in piedi, che mi permetteva di andare avanti, di prendere un altro respiro.
«Quando sarò morto voglio che mescoliate le nostre ceneri e ci seppelliate insieme»
L'ultimo comando ai miei uomini. La mia ultima volontà. Stare con lui finoltre il mondo mortale.

Un'ultima battaglia mi attendeva. La combattei senza pensarci, pronto a morire ad ogni colpo. Ma la morte non arrivava. Gli dei si dovevano ancora divertire, guardandomi danzare come una marionetta al loro servizio. E io adempii, nella speranza che si stancassero, o che uno di loro, finalmente, provasse pietà e mi lasciasse andare.
Sentii lo sguardo di Apollo vagare sulla mia schiena, scendere lungo la spina dorsale, come solo quello di Patroclo aveva avuto il permesso di fare, per fermarsi sui miei talloni. Sapevo che conosceva la verità, e mi voltai, sentendo il fruscio della freccia che veniva spinta dalla corda dell'arco. Attorno a me si fece il silenzio, rotto solo dall'aria mossa dalla freccia. Incrociai lo sguardo di Paride e annuii impercettibilmente.
Grazie pensai rivolto a lui. E poi arrivo, rivolto a Patroclo.

***

È freddo, buio. Esisto e non esisto. Non ho un corpo, ma posso sentire la forza vitale che solo un'anima possiede. Eppure mi sento vuoto, incompleto.
Non credevo che l'Ade esistesse veramente. Ero convinto che si smettesse di vivere e basta. Eppure sono qui, in una bolla scura.
Patroclo non c'è. Sono solo. Gli dei si sono presi un'ultima vendetta: un aldilà solitario, per sempre lontano dalla parte migliore della mia anima, per sempre incompleto.
Non è bastato permettere a Patroclo di riposare in pace. Mi sono privato degli ultimi istanti con lui, sperando di incontrarlo di nuovo nella morte. Ma non sono pentito. Non ora che posso rivedere i nostri ricordi, rivederlo insieme a me, vedere la bellezza del suo volto, come la luce lo illuminava, il suo sguardo concentrato nell'imparare, le migliaia di stelle che vegliavano su di noi.

Passano i millenni, ma continuo a riguardare i ricordi. Ci vuole un po' perchè noti che qualcosa sembra cambiare. Patroclo non è più al centro del sogno. Ci sono io, io e ancora io. Io che combatto, io che mi siedo ad un tavolo circondato da ragazzini, io che ne trovo uno nascosto, fuggito dalla lezione. Io che spunto da un albero, io che sorrido vedendo che Patroclo mi ha raggiunto sul monte Pelio.
Io vestito da donna, io soldato, io, io e ancora io.
Io che abbraccio il corpo esanime di Patroclo, io che gli sussurro addio nell'orecchio, prima di accendere la pira, io che pronuncio il suo nome, ultima parola che accompagna la fuoriuscita del mio spirito.
Mi volto e mi sembra di avere di nuovo un corpo. Sento l'erba bagnata sotto i piedi, il sole sulla pelle, il rumore del fiume un po' più in là. Vedo in lontananza la caverna di Chirone.
«Casa» dice una voce, eco dei miei pensieri.
Lui è lì. Davanti a me. Gli corro incontro, fermandomi a un palmo dal suo viso. Gli prendo la mano e me la porto sul viso. Posso sentire il calore del suo corpo quando mi tira a sé e mi abbraccia.
Corriamo insieme al fiume che avevamo abbandonato poco più che ragazzi. Ci lanciamo addosso l'acqua, lottiamo nudi l'uno contro l'altro. Ridiamo, finalmente felici, finalmente insieme.

Ed è lì che so. È lì che capisco. Non mi è mai interessata una breve vita di gloria ed onori.
L'immortale esistenza accanto a Patroclo è tutto ciò che desidero.
«Patroclo» pronuncio. Pa-tro-clo. «Raccontami delle stelle» gli chiedo.
E lui racconta.








***
Note Dell'Autrice
Avevo questa storia nascosta nel mio pc da un po'. La scrissi di getto dopo aver finito il libro, quando studiando con un'amica, mi resi conto che le parole della canzone si adattavano perfettamente a quelli che erano i miei pensieri.
Non è perfetto, ma è un pezzo a cui, in un modo o nell'altro, mi sono affezionata
Spero vi piaccia
Lilith

 
   
 
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