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Autore: DrkRaven    31/03/2022    4 recensioni
IWAOI | (dal testo) Non sono pronto per quello che sta dicendo. Perché Oikawa non può trasferirsi in Argentina. Non può… dobbiamo andare all’università. Dobbiamo andare a Tokyo insieme, prendere un appartamento, studiare, laurearci… | ⚠ BOY X BOY ⚠ | Parole: 5.168
⚠Questa storia è frutto della mia fantasia.⚠
⚠Qualunque riferimento a trama, personaggi o eventi narrati in altre fan fiction di altri autori è assolutamente e del tutto casuale, ma vi prego di segnalarmelo se doveste riscontrare tale similitudine.⚠
⚠E' assolutamente vietato copiare e riprodurre quanto riportato in questa storia.⚠
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hajime Iwaizumi, Tooru Oikawa
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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- Iwa-chan, grazie di essere venuto. – mi dice alzando lo sguardo verso di me.

- Mardakawa, spero tu abbia un buon motivo per avermi tirato giù dal divano. Ti ho detto che per una settimana almeno non voglio fare niente. –

Mi accomodo al tavolo del bar dove Oikawa mi ha dato appuntamento. Tutto sommato sono contento di questa uscita, non lo vedevo da quando ci siamo diplomati, tre giorni fa.

- Sì, Hajime. Ho un buon motivo. –

Mi guarda con un cipiglio serio, ed ha immediatamente tutta la mia attenzione. Anche perché non mi chiama mai per nome, deve essere successo qualcosa di grave.

- Che cazzo succede? – domando preoccupato.

- Volevo che fossi il primo a saperlo. – Oikawa abbassa lo sguardo sulla tazza vuota davanti a sé, evidentemente era qui già da un po’ prima che arrivassi.

E prosegue.

- Tra tre giorni parto per l’Argentina. – dice con aria mesta, senza guardarmi negli occhi.

- Regalo per il diploma? Figata! A me hanno regalato questo orologio… - mi complimento con lui anche se non capisco il perché del suo tono.

- Non è il regalo per il diploma. Mi trasferisco. –

- Eh? – domando, certo di aver capito male.

Non sono pronto per quello che sta dicendo.

Perché Oikawa non può trasferirsi in Argentina. Non può… dobbiamo andare all’università. Dobbiamo andare a Tokyo insieme, prendere un appartamento, studiare, laurearci…

- José Blanco mi ha offerto il posto di alzatore titolare nel Club Athletico San Juan.  – dice piano, guardandomi finalmente negli occhi.

Mi accorgo solo ora delle sue occhiaie. La bellezza sfacciata di Tōru lievemente meno brillante del solito, con quello sguardo spento.

Mi guarda.

Lo guardo.

Non riesco a dire niente, non riesco nemmeno a connettere, a realizzare quello che sta succedendo.

Mi alzo ed esco dal locale. Cammino veloce con le mani in tasca lungo la strada buia, nella mia testa solo una parola.

No.

Che si ripete.

No! No! No! No…

Perché se lo ripeto abbastanza, forse quel ‘no’ prende forma.

Se lo ripeto, diventa vero, grande, potente, e annienta, distrugge la notizia che Tōru mi ha appena comunicato.

Sento qualcuno che corre dietro di me, immagino sia lui ma non mi fermo.

Non mi fermo nemmeno quando mi chiama.

Non mi fermo nemmeno quando mi prende per la spalla.

Mi libero con uno strattone e continuo a camminare, lo sguardo fisso sul marciapiede scuro davanti a me.

Tōru cammina insieme a me, non prova più a parlarmi, non prova più a fermarmi. Mi segue in silenzio, ad un passo di distanza.

Arriviamo davanti alla scuola.

Non so nemmeno io perché sono venuto fin qui.

Forse perché è qui che abbiamo vissuto gli ultimi tre anni, insieme. Sempre insieme. Qualsiasi cosa facessimo.

Insieme.

Mi volto verso Tōru, alzo lo sguardo sui suoi meravigliosi occhi scuri che mi fissano nella penombra, il volto mesto come mai mi è capitato di vederlo. Lui, sempre sorridente, strafottente, meravigliosamente pieno di sé anche nei momenti più difficili. Mai così. Spento.

- Perché? – gli domando soltanto.

Perché devi partire? Perché vai via? Perché mi lasci solo? Perché non mi ami? Perché non ti ho mai detto che ti amo? Perché è tutto così maledettamente doloroso?

- Devo farlo. – mi risponde a voce bassa.

- Non partire. Ti prego. Io ti amo. – gli dico tutto d’un fiato, senza nemmeno soffermarmi a pensare a quello che sto facendo.

Tōru mi fissa con un’espressione sorpresa, e poi un meraviglioso sorriso torna ad illuminare i suoi occhi.

Fa un passo verso di me e mi prende le mani. Sorride ancora, mi guarda e sorride, e mi tira verso di sé, le nostre bocche sempre più vicine, finchè le nostre labbra si uniscono.



- Cazzo! Ancora quel sogno… -

Cerco di sciogliermi dalle lenzuola attorcigliate alle mie gambe, e mi metto seduto sul bordo del letto. Accendo la lampada e prendo un sorso d’acqua dal bicchiere sul comodino.

Sono le 5.32.

Merda.

Ho di nuovo fatto quel sogno.

Sono quattro notti che sogno il giorno in cui Oikawa mi ha comunicato che sarebbe partito per l’Argentina. Da quando Ushijima mi ha detto che Tōru sarebbe tornato in Giappone per le vacanze estive, non faccio che sognarlo.

Ogni volta lo stesso sogno. Ogni volta un lieve particolare che cambia, ma sempre con lo stesso finale. Oikawa non parte.

Ma le cose non sono andate come nel sogno.

Lui non mi ha mai ricorso fuori dal locale.

Io ho passato la notte nella palestra della scuola, avevo ancora le chiavi. Ho pianto, come un disperato. Come non avevo mai fatto in vita mia. Ho urlato alla palestra vuota. Ho colpito centinaia di palloni.  Ho visto l’alba con gli occhi ormai secchi e la gola in fiamme.

Il giorno dopo Tōru mi ha scritto un lungo messaggio, in cui mi spiegava che doveva farlo, perché era l’occasione della sua vita, bla bla bla… ho smesso di leggere dopo poche righe.

Non mi importava quello che aveva da dirmi. Non mi sarebbe importato nemmeno se me lo avesse detto di persona. Nessuna motivazione mi avrebbe fatto stare meglio.

Non gli ho mai risposto. Non gli ho più scritto né ho risposto alle sue chiamate e nemmeno ai messaggi che nei primi tempi mi mandava.

Gli ho scritto solo una volta, dopo due anni, quando ho incontrato Ushijima in California, e lui ha insistito perché mandassimo a Tōru una foto insieme. Ma quella volta è stato Tōru a non rispondere. Ed è stato meglio così, perché non ce l’avrei fatta a riprendere i contatti con lui.

Perché ho passato gli ultimi tre anni a cercare di riprendermi, ed evidentemente non ho fatto un gran lavoro se sono ancora qui a tremare al solo pensiero di poterlo rivedere.

E mi rendo conto di quanto sto messo di merda perché questo stesso pensiero mi dilania per il suo doppio significato.

Tremo di rabbia e di paura, ma tremo anche di aspettativa e di emozione, al pensiero di incontrarlo magari per caso.

Spero che capiti e rifuggo l’idea, insieme, contemporaneamente.

Voglio vederlo e non voglio vederlo.

Lo amo.

Lo amo ancora. A dispetto di tutto, non riesco a non amarlo.

Lo odio.

Non sono riuscito ad uscire dalla merda in cui mi sono impantanato, nemmeno di un centimetro, negli ultimi tre anni. Ci sono dentro ancora come allora, cercando solo di non farmi sommergere. Cercando di tenere fuori la testa e respirare.

Sono stati tre anni di solitudine. Tre anni di dolore.

Mi sono buttato nello studio, nell’unico obiettivo che avevo oltre alla pallavolo. Credevo di essermi ricostruito una vita in qualche modo, mi sono laureato e faccio il preparatore atletico come ho sempre sognato; lavoro tutti i giorni con dei ragazzi giovani, entusiasti, con mille opportunità.
Li invidio. Invidio la loro energia, la loro fiducia cieca nella vita, nel futuro.
Perché per me il futuro è una merda. Il mio presente è una merda. E per quanto mi sforzi di andare avanti, non ce la faccio. Sono fermo. Bloccato. Spento.

Da quando Tōru è partito, io mi sono spento.

Maledetto bastardo!

Con che faccia ti presenti di nuovo in Giappone, ora, a sbandierare i tuoi successi come pallavolista?

Hai voluto andartene dall’altra parte del mondo, per affermarti. Hai sempre avuto paura di confrontarti con gli altri giocatori giapponesi, con Kageyama, con Ushijima… andare all’estero ti ha dato la scusa per non doverlo fare, per non doverti mettere in competizione con loro.

Codardo.

Vigliacco.

E quello che mi fa incazzare di più è questa rabbia che ancora ho dentro, come se fosse ieri il giorno in cui sei partito, il giorno in cui mi hai lasciato. Non vorrei stare ancora così male, vorrei essere riuscito a dimenticarti, ad annullarti, a provare indifferenza per te.

E invece ti odio.

Ti odio!

Ti odio Tōru!

Perché mi fai sentire così male.
Perché mi hai fatto diventare la versione peggiore di me stesso, anche a migliaia di chilometri di distanza.
Perché non riesco più a credere in me, nel mio futuro, nella possibilità di essere felice.

E ti odio perché sei tornato.

Solo il fatto di sapere che sei qui, in Giappone, che calpesti il mio stesso suolo, che respiri la mia stessa aria, mi sta logorando giorno dopo giorno.
Perché la possibilità di incontrarti per caso è reale, perché comunque alla fine frequentiamo lo stesso ambiente, perché i pochi amici che ho sono gli stessi che avevi anche tu prima di partire.

E’ una possibilità concreta.

E incontrarti sarebbe una tragica fatalità, o una fortunata opportunità?

Non lo so, nella mia testa ancora è tutto nebuloso, confuso.

Merdakawa, come cazzo fai a confondermi così, ancora, dopo tutto questo tempo?



Wakatoshi insiste che esca con lui a bere una birra. Non posso chiudermi in casa per evitare di incappare in Tōru per caso, dice; e so che ha ragione, ma l’idea di rivederlo mi sta distruggendo.

Ma Toshi sa davvero essere convincente quando vuole, e quindi lo raggiungo al parco dove andiamo a correre tutte le mattine; ho accettato di farci questa bevuta solo a patto di vederci qui, nell’area giochi per bambini che ovviamente a quest’ora è vuoto.

La sua figura massiccia incastrata nella minuscola altalena riesce a strapparmi un sorriso.

- Non è che la rompi e poi dobbiamo anche pagarla? – gli domando porgendogli una birra dalla confezione da sei che ho portato con me.

Ghiacciate, bellissime, con le goccioline di condensa che scivolano sul vetro. La miglior compagnia per la serata, oltre a Toshi, con il quale ci frequentiamo da quando ho conosciuto suo padre in California.

- Non credo. La catena mi sembra robusta. – mi risponde facendo tintinnare la sua birra contro la mia, mentre mi siedo sull’altalena di fianco.

Restiamo zitti per un po’, sorseggiando la birra ghiacciata e guardando il cielo ormai quasi completamente scuro. Non c’è nemmeno la luna, e le luci di Tokyo rendono sfuocate e lattiginose anche le stelle.

Non so perché ma mi viene in mente come si vedeva bene il cielo a Miyagi, quell’ultima sera dopo che avevamo perso contro la Karasuno. Io e Tōru camminavamo vicino ad un parco giochi simile a questo, e facevamo progetti per il futuro.

- Credo che dovresti parlargli. – mi dice di punto in bianco.

Le nostre conversazioni sono sempre molto telegrafiche, siamo entrambi di poche parole, ma entrambi troviamo conforto e piacere nella reciproca compagnia. Abbiamo scoperto di avere molte cose in comune, oltre alla pallavolo; e sicuramente il fatto che l’amore della nostra vita si è trasferito all’estero prima che potessimo dichiararci, è una di queste.

Forse dovrei imparare da Toshi, dalla sicurezza con cui crede che quando andrà a Parigi a dichiararsi a Satori, lui tornerà in Giappone e potranno finalmente stare insieme. Amo questo suo ottimismo. Mi fa sentire un po’ meno solo, un po’ meno depresso, un po’ meno amareggiato.

Ma ancora non è riuscito a contagiarmi, quello no, perché io ho definitivamente smesso di credere nel lieto fine con Oikawa.

Lui ha fatto la sua scelta, io ne ho pagato le conseguenze. Fine dei giochi.

- Perché? – torno a rispondere a Toshi. – A cosa servirebbe? –

- Non puoi saperlo finché non ci parli. – mi dice.

- Ma io non ho niente da dirgli. – ringhio di getto, incazzato ancora una volta con me stesso per come mi fa sentire, e perché mi fa rispondere male a Toshi che non se lo merita.

- Ma magari lui sì… – ribatte Toshi mentre si alza dall’altalena e si allontana sollevando la birra in un gesto di saluto.

Resto un attimo interdetto a fissare la sagoma massiccia di Wakatoshi che si allontana.

- Iwa-chan. Quanto tempo… -

Il mio cuore si ferma. Non è un modo di dire, ha davvero smesso di battere. Il cuore non batte, i polmoni non respirano, il cervello non elabora.

Oikawa si infila tra le due altalene e viene a sedersi al posto di Toshi.

Si aggrappa con le mani alla catena ed incrocia le sue lunghe gambe davanti a sé. Fissa il parco intorno a noi, poche chiazze di luce in cui brilla il verde rigoglioso dell’erba ben curata.

Mi lascia il tempo di riprendermi, e di questo gli sono grato. Ricomincio a respirare, ed ora il mio cuore batte furiosamente nel mio petto, così forte che sono sicuro che anche lui lo senta. Stringo la catena a cui sono aggrappato, e mi passo la bottiglia sulle guance per rinfrescare un po’ il bollore che le inonda.

E poi mi giro e lo guardo. Devo farlo. Non posso scappare, quel bastardo di Toshi mi ha teso una trappola e ormai ci sono dentro con tutte le scarpe.

Si accorge che mi volto e si volta anche lui, poggia la testa di sbieco contro la catena e mi sorride. Il suo sorriso sfacciato, il suo bellissimo sguardo di cioccolato che mi ha tormentato tante volte nelle mie notti più difficili, quegli occhi magnetici che ho cercato tra la folla in strada tante volte, prima di ricordarmi e ripetermi che non lo avrei più rivisto.

E invece adesso è qui, davanti a me, ancora più bello. Di una bellezza esagerata, come sempre, ma più adulta, più virile, seppur con quell’aura angelica che lo ha sempre reso ai miei occhi così meraviglioso.

Non riesco a rispondere al suo sorriso, perché dentro di me mi spacco. Mi spacco definitivamente.

E percepisco la sovrapposizione degli eventi come se vivessi contemporaneamente in mille universi paralleli.

Mi alzo e me ne vado, senza guardarmi indietro.

Mi alzo e gli grido in faccia tutto il mio disprezzo.

Mi alzo e gli tiro un pugno.

Mi alzo e gli offro una birra.

E in tutti gli altri universi, mi alzo e lo bacio.

Alla fine opto per la birra, che gli porgo in silenzio e che lui accetta allo stesso modo.

Beve un lungo sorso e poi schiocca le labbra.

- Scusa se ho chiesto a Wakatoshi di aiutarmi ma avevo bisogno di vederti. –

Le sue scuse mi fanno sorridere. Ricordo ancora come se fosse ieri quanto Tōru soffrisse la competizione con Ushijima, la sua nemesi, e mai avrei pensato che oggi si sarebbero alleati ai miei danni.

- Mi sono chiesto a lungo perché tu sia sparito dopo quella sera. - Tōru  riprende a parlare, forse incoraggiato dal mio silenzio - Non credevo di essermi sbagliato su noi due, e pensavo proprio che avresti capito e mi avresti sostenuto. Ad ogni modo, ormai l’ho superata, ho accettato la tua decisione, e mi ha fatto davvero piacere quando l’anno scorso mi hai scritto e mi hai mandato la foto con Ushijima. –

Mi guarda ancora, il suo sorriso ora un po’ triste e malinconico.

La mia decisione? Io non ho deciso un bel cazzo di niente! Io ho subìto e basta!

- Ma con che cazzo di coraggio ti presenti qui dopo tre anni e mi dici queste cose?!? Eh? – la mia rabbia esplode in un ringhio, mentre stringo le catene così forte che mi fanno male le mani.

- Speravo potessimo almeno tornare ad essere amici… - prova a controbattere Tōru, un’espressione confusa e ferita sul suo volto che non gli si addice per niente.

Perché lui non è mai confuso. Lui non è mai insicuro. Lui è sempre odiosamente sicuro di sé, delle sue decisioni, anche quando sono così palesemente sbagliate. Come quando al liceo si ammazzava di allenamenti per essere il migliore. Lui era sicuro, convinto, certo, che quello fosse il modo giusto, non gli importava che io gli dicessi che c’era un altro modo. Non ascoltava nessuno, nemmeno me. Solo sé stesso.

- Amici un cazzo! – mi esce di getto mentre mi alzo da questa maledetta altalena che mi sta facendo venire il mal di mare.

- Quanto ti fermi in Giappone, adesso? Una settimana? Due? – domando con rabbia.

- Due. –

- Ecco. Appunto. Che senso ha? – rispondo di getto.

- Speravo che, ora che lavori, potessi venire anche tu a trovarmi in Argentina, ogni tanto… - e sono assolutamente certo che qualcosa, qualcuno, si è impossessato del corpo di Tōru.

Perché non è lui.

Per quanto egoista, presuntuoso, arrogante, il mio Tōru avrebbe avuto almeno la decenza di non chiedermi di fare un viaggio intercontinentale di tanto in tanto solo in nome della nostra amicizia.

Amicizia, poi…

Dopo tre anni che questa amicizia l’hai sotterrata, che l’hai soffocata sotto allo spesso strato del tuo egocentrismo, come puoi pretendere che sia ancora viva, fiorente, tanto da portarmi a venirti a trovare in Argentina?

- Beh, mi dispiace, è meglio per tutti e due se lasciamo le cose come stanno. – gli rispondo a bassa voce.

E so che è la cosa giusta da dire. So che devo dare un taglio netto a questo sentimento che ancora alberga nel mio cuore.

Ma cazzo se fa male.

Fa un male cane!

Perché, per quanto in questi tre anni io abbia odiato Tōru con tutte le mie forze, e per quanto abbia odiato me stesso per il vortice di autocommiserazione in cui ero intrappolato, realizzo ora che dentro di me ancora speravo. Speravo che un giorno lui sarebbe tornato, che sarebbe tornato per restare, e che avremmo potuto forse cominciare a vivere quella storia che non è mai nemmeno iniziata.

E le mie parole ora stanno distruggendo anche questa possibilità.

Ma è la cosa giusta da fare.

Devo demolire, abbattere, annientare completamente tutto quello che provo per Tōru, se voglio ricominciare a vivere, ad amarmi, e forse, un giorno, ad amare qualcun altro.

Anche lui si alza, permettendomi ancora una volta di ammirare il suo fisico alto e snello in tutto il suo splendore. Per l’ultima volta.

I suoi occhi sono velati di lacrime. Prende l’ultimo sorso di birra e posa la bottiglia a terra accanto alle altre.

Si volta verso di me e per un istante, un solo istante infinitesimale, ho la tentazione di prenderlo tra le mie braccia. Di stringerlo a me e scacciare tutto quello che gli sta procurando quell’incredibile dolore che gli leggo dipinto sul volto.

Ma sono io. Quel dolore sono io. Le mie parole.

Ma perché?

Cazzo!

Come puoi soffrire così tanto per una situazione che hai deciso tu? Da solo.

Hai fatto tutto tu, cazzo!

E adesso assumiti le responsabilità delle conseguenze.

Un sospiro esce dalla sua bellissima bocca, un gemito quasi soffocato mentre le lacrime che si stavano raccogliendo nei suoi occhi strabordano e gli inondano le guance.

- Mi dispiace davvero Iwa-chan. Speravo che le cose potessero andare diversamente. Quello che ti ho scritto nella lettera è ancora vero. Ma forse è vero solo per me. –

Si volta e segue il percorso acciottolato dal quale è andato via anche Toshi poco fa.

Guardo la sua figura che scompare nel buio, che svanisce un passo dopo l’altro allontanandosi dai lampioni. E con lui scompare anche quell’ultimo barlume di speranza che potevo ancora avere dentro di me. Andato. Svanito.

Prendo un’altra birra, e mi siedo di nuovo sull’altalena mentre me la scolo tutto d’un fiato.

Mi sento frantumato, annientato, distrutto dalle mie stesse parole. E dalle sue lacrime, che mi hanno trafitto più di quanto abbia fatto il suo abbandono tre anni fa.

Perché se soffro io, va bene. Ma non voglio che soffra tu, Tōru. A dispetto di quanto io ti odi, io ti amo. Ti amo ancora, oggi come tre anni fa, come cinque anni fa, come ti ho sempre amato anche da bambino.

E posso accettare di soffrire io, se tu sei felice. Ma farei di tutto per non fare soffrire te.

Darei la mia vita per te, per quanto ti amo, per quanto ti appartengo.

Anche io speravo che le cose potessero andare diversamente. Tre anni fa, quando ci siamo diplomati, ero convinto che avremmo avuto un futuro felice davanti a noi, e poi in un attimo tu hai spazzato via tutto.

E te ne sei andato, lasciandomi una stupida lettera, qualche bit nel mio cellulare ancora presente nell’archivio, che non ho mai avuto il coraggio di cancellare né di rileggere.

Quello che ti ho scritto nella lettera è ancora vero. Ma forse è vero solo per me.

Certo che è ancora vero, tu hai ancora la stessa ambizione, la stessa voglia di migliorarti. Quello che in fondo io di te ho sempre amato, ma che non pensavo sarebbe stato il motivo per cui ti avrei perso.

Ma forse è vero solo per me.

Sì, Tōru, hai ragione.

Tu sei quello che ha preso in mano la sua vita, io sono un fallito. E mi odio per questo.

Mi odio.

Ti odio.

Ti amo.

Tōru.

Ti amo.

Le lacrime ormai sgorgano senza sosta dai miei occhi, non ho nemmeno la forza di asciugarle. Stringo con forza la catena, che sostiene anche la mia testa, persa ormai la forza di sorreggersi da sola, il mio corpo abbandonato e inerme in preda allo strazio, ad un dolore forte e pungente come quello di tre anni fa, ma più amaro, più profondo, perché vissuto con la consapevolezza di un uomo che ora sa che nella vita le cose non vanno mai come si vorrebbe.

Quello che ti ho scritto nella lettera è ancora vero…

Una minuscola scintilla di curiosità si accende nelle tenebre della mia anima.

Ormai ho distrutto tutto. Posso anche leggerla fino in fondo quella dannata lettera. E poi la cancellerò.

E cancellerò per sempre Oikawa Tōru dalla mia vita.


Iwa-chan,

non era mia intenzione scriverti, ma forse tutto sommato è meglio così.
Non sono sicuro che sarei riuscito a dirti tutto a voce. Ma ora, nel cuore della notte, nella mia stanza che è già un casino di valigie e vestiti che non so se metterò mai in Argentina, credo di poterti scrivere quello che forse non avrei avuto il coraggio di dirti a voce.

Lo sai anche tu che per me questa è davvero un’opportunità più unica che rara. Non avevo certo in programma di lasciare il Giappone, non subito comunque, abbiamo sempre parlato di andare insieme all’università. Ma la telefonata di Blanco ha cambiato tutto. Non posso lasciarmi sfuggire questa opportunità, so che me ne pentirei per tutta la vita. So che lo sai anche tu. Dopo la sconfitta con la Karasuno, sono state proprio le tue parole che mi hanno convinto a non mollare. E se voglio andare avanti a giocare a pallavolo, se voglio diventare il migliore, io devo farlo.

Ovviamente non ho preso questa decisione a cuor leggero, e ti confesso che sull’altro piatto della bilancia ci sei tu. La nostra amicizia. Il nostro rapporto così speciale. Tu mi conosci come nessuno, forse anche meglio di me stesso. E credimi, il mio cuore è dilaniato all’idea di stare lontano da te. Avevamo fatto progetti per i prossimi anni, e non poterci essere, non viverli con te, mi sta distruggendo. Perché vedi, Hajime, io lo so che quello che provo per te è lo stesso sentimento che tu provi per me. E poteva essere finalmente il momento giusto per viverlo, per viverci, per amarci. E così sto rovinando tutto.
Ma mi conosci, sai che sono anche un egoista egocentrico (quanto ‘ego’ in me!), e se rinunciassi a questa occasione, mi odierei per il resto della mia vita. E odierei te. Se rinunciassi per te, ho paura che in qualche modo odierei anche te. E io non posso odiarti. Perché io ti amo.

Scusami se non vado avanti a scriverti quello che provo, ma immagino che il nostro rapporto tra poco diventerà solo epistolare, e avremo altre occasioni per confrontarci.

Vorrei davvero che tu accettassi la mia decisione, che mi sostenessi come hai sempre fatto, e che passassi con me quanto più tempo possibile in questi tre giorni prima della partenza. Ne ho bisogno. Sì, come vedi sono sempre il solito egoista.

E ho un ultimo favore da chiederti, una specie di regalo; vorrei che mi accompagnassi tu all’aeroporto.
Sono i tuoi occhi che voglio vedere prima di salire su quell’aereo. Sono le tue labbra che voglio sentire sulla mia pelle insieme all’ultimo sole del Giappone.

Non ti saluto, quindi, non ti dico addio. Spero di vederti domani.

Tuo, Tōru.


Un tremore scuote le mie mani, il cellulare cade a terra e io lo seguo scivolando scomposto dal sedile dell’altalena.

Stringo tra le mani la sabbia sotto di me, mentre fisso ancora lo schermo a terra, la luminosità che si riduce piano, e poi si spegne.

Non ho mai letto quella cazzo di lettera.

Ho fatto tutto io.

Ho fatto tutto da solo.

Lui sarebbe partito comunque, ma sarebbe stato diverso. Altrettanto doloroso, immagino, ma di un dolore lenito dalla speranza, dalla consapevolezza che se anche ventimila chilometri ci avrebbero separati, i nostri cuori sarebbero rimasti uniti. Come credevo che fossero. Come sapevo che fossero.

Recupero il telefono e invio la chiamata.

- Dov’è? – ringhio senza dare a Toshi nemmeno il tempo di rispondere.

- Chi? –

- Tōru! Dove alloggia? Tu lo sai vero? Ti prego, dimmi che lo sai… -

- E’ al Keio Plaza Hotel. Ma cosa… -

- Grazie. Ti chiamo domani. – riaggancio e comincio a correre.

Conosco l’hotel, è a metà strada tra qui e la Stazione di Shinjuku.

Corro.

Corro come se ne andasse della mia stessa vita. Perché è così. E’ davvero così. Perché so che morirei, ora, adesso, se non riuscissi a rivedere Tōru.

Rivivo nella mia mente la nostra conversazione, con un senso tutto nuovo ora che so cosa c’era scritto in quella maledetta, fottutissima lettera.

Rivivo il suo dolore, lo strazio di aver preso una decisione così sofferta a nemmeno diciotto anni, e di essersi sentito abbandonato dalla persona che amava e in cui credeva che avrebbe trovato supporto.

Dio! Come ho potuto essere così egoista!

Sono io l’egoista tra noi, Tōru, non tu!

Perché ho avuto paura di leggere quella lettera? Perché?

Corro.

Corro a perdifiato.

Corro per me, per lui, per noi.

Spero che ci sia ancora un ‘noi’.

Per quanto difficile. Per quanto ancora complicato dalla lontananza, ma è un ‘noi’ per cui vale la pena lottare. Per cui sono disposto a combattere, a soffrire, a scendere a compromessi.

Entro nella hall come un fulmine e mi fermo solo quando sbatto contro al bancone della reception.

- La camera… di Tōru Oikawa… per favore… - chiedo tra un sibilo e l’altro dei miei polmoni che cercano di rifiatare.

- Chi devo annunciare? – mi chiede il receptionist, impassibile.

- La prego, mi dica il numero della stanza. – sibilo minaccioso.

- Mi dice il suo nome, per favore? – domanda ancora senza perdere un grammo della sua compostezza.

- Hajime Iwaizumi, un amico. – rispondo rassegnato.

L’uomo si ritira in uno stanzino dietro la reception e torna dopo un paio di minuti porgendomi un tesserino magnetico.

- Stanza 401, quarto piano. Questo le serve per gli accessi alle porte automatiche e agli ascensori. –

- Grazie. – recupero il tesserino e corro, ma non riesco ad aspettare l’ascensore, in fondo quattro piani di scale non sono nulla, sono allenato.

Arrivo in corridoio al quarto piano palesemente provato, devo aver sottovalutato la corsa di poco fa. O forse è l’emozione che mi sta stringendo il petto e che non mi consente di respirare come dovrei.

Tōru mi sta aspettando sulla porta, poggiato allo stipite con le braccia conserte, e un’espressione stupita negli occhi arrossati.

Muovo un passo dopo l’altro, ora con lentezza, mentre inspiro per recuperare. E mi rendo conto che non so cosa dire. Da che parte iniziare. Come spiegargli quello che è successo.

Tōru fa un passo indietro mentre mi tiene la porta aperta per farmi entrare, e se la richiude alle spalle per poi poggiarcisi contro.

Le braccia conserte, un sopracciglio che si inarca in una espressione interrogativa.

Dio, Tōru, quanto cazzo sei bello!

Come ho fatto a vivere in questi tre anni senza di te?

E la risposta è che io non ho vissuto. Sono stati tre anni spesi nell’odio, nella commiserazione, nel rancore, nel dolore.

Fermo. Bloccato. In pausa.

Ma ora che sei qui davanti a me, io ti guardo. Mi riempio gli occhi della tua immagine.

Ti contemplo, ti ammiro, ti adoro.

- Iwa-chan, che succede? – mi riporta alla realtà, la testa lievemente inclinata in quel suo modo tutto particolare che risuona ancora in me come se ci fossimo diplomati ieri.

Come se fosse ieri che ci siamo salutati battendo il pugno, dopo l’ultima partita con la Karasuno.

Quello che ti ho scritto nella lettera è ancora vero. Ma forse è vero solo per me.

- E’ vero anche per me! – gli rispondo di getto, a quella affermazione che ha fatto un secolo fa e che risuona ancora nella mia testa.

- Cosa…? –

Crollo.

Tutto in me crolla.

Le mie gambe cedono e mi ritrovo in ginocchio sul pavimento della sua stanza d’albergo.

Con le unghie che artigliano il tessuto dei jeans sulle mie cosce, esplodo in un pianto a dirotto.

- Quella maledetta lettera. Non l’avevo letta. Non fino a stasera… -

Ammetto d’un fiato la colpa di cui mi sono macchiato, la causa della mia stessa sofferenza di questi tre anni.

E della sua.

Mi rendo conto, anche della sua.

Chino la testa in preda alla vergogna, al rimorso, al dolore. Il mio petto è scosso dai singhiozzi, sussulti così violenti che credo che non si fermeranno mai, e che mi uccideranno qui, su questa moquette di lusso di un hotel a quattro stelle.

Le sue gambe entrano nel mio campo visivo. Tōru scende sul pavimento di fronte a me, le sue ginocchia che toccano le mie, e mi prende le mani.

Le sue belle mani, grandi, forti, calde, accarezzano le mie delicatamente e le stringono.

E in quella stretta c’è il perdono, c’è l’amore, c’è la felicità, c’è un futuro insieme.

Le tira leggermente verso di sé, un gesto fluido e delicato, senza alcun fine se non quello di attirare la mia attenzione, di farmi alzare il viso, di farmi sollevare lo sguardo da terra dove giace inchiodato dalla vergogna.

- Iwa-chan… - le parole più dolci del mondo.

Dio, quanto mi era mancato quel nomignolo!

- Merdakawa… - gli rispondo tirando su col naso – Ma la merda sono io, non posso più chiamarti così. –

Ride.

Bella, la sua risata. Roca, sporcata dal pianto. Bellissima.

Perché anche lui sta piangendo.

Alzo finalmente gli occhi sul suo viso e vedo le sue lacrime. Il suo viso meraviglioso che sorride mentre piange, gli occhi che scintillano e riflettono le luci dei grattacieli di Tokyo fuori dalla vetrata.

- Potrai mai perdonarmi? – l’improvvisa urgenza di farlo stare meglio, di sapere che c’è una possibilità per noi. Che ci potrà essere un ‘noi’.

- L’ho già fatto. – mi risponde mentre si sporge verso di me.

Ed io resto immobile, osservo i suoi occhi che si fanno sempre più grandi, fisso le sue labbra che si fanno sempre più vicine.

Tremano, le sue labbra, quando si posano sulle mie. Morbide. Calde.

O forse sono le mie che tremano. Come le mie mani. Come le mie gambe.

Il battito del mio cuore che preme nei miei timpani.

E riprendo a vivere.


✶.•*¨¨*•.✶


Questa One Shot partecipa al contest UBI TU, IBI EGO su Wattpad: https://www.wattpad.com/1191708528

La traccia che ha ispirato la storia:

Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

Odio ed amo. Perché lo faccia, mi chiedi forse.
Non lo so, ma sento che succede e mi struggo.


✶.•*¨¨*•.✶


Ti ringrazio di cuore per aver letto la mia storia. Spero che ti sia piaciuta e che vorrai lasciarmi le tue impressioni.

   
 
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