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Autore: Ode To Joy    06/04/2022    1 recensioni
[Dazai & Mori Centric]
[Spin-off di “Poems By A Ghost”]
Dazai non aveva la minima idea di chi fosse Mori Ougai, ma non vi era alcun timore nel modo sfacciato in cui lo scrutava. Starnutì.
Nel silenzio assoluto della stanza, suonò come un colpo di pistola. Mori saltò come una molla e la lametta gli tagliò la pelle. Poche gocce di sangue caddero nel lavandino, andando a mischiarsi a quelle che rimanevano del vecchio Boss.
Brutto presagio.
“Oh, ti sei distratto,” commentò Dazai, con voce incolore. “Ma dalle cicatrici che hai sulla schiena, sei abituato a essere colpito alle spalle.”

[…]
Un passo indietro, all’inizio della storia, ai giorni in cui Mori muoveva i suoi primi passi come Boss e Dazai cominciava la sua educazione per divenire il più giovane dei cinque Dirigenti.
La nascita della Port Mafia come Yokohama la conosce oggi.
[Trans!Dazai] [Accenni Fukumori]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kouyou Ozaki, Nuovo personaggio, Osamu Dazai, Ougai Mori, Ougai Mori, Ryurou Hirotsu
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'These Brand New Pages'
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TW: scena di tentato suicidio 


 

V




A cinque mesi dalla morte del Boss Folle, Dazai sapeva leggere alla perfezione sia il francese che il tedesco. Nel processo, il ragazzino aveva smontato - verso per verso, paragrafo per paragrafo - diversi poeti e scrittori che avevano avuto l’ardire di puntare alla speranza come concetto cardine delle loro opere. 

Che Dazai non fosse un ottimista era ormai chiaro anche ai muri.

Mori si era sempre considerato un realista, ma quel quattordicenne portava il pessimismo a tutto un altro livello. Era certo che se avesse accompagnato Dazai in un campo di fiori, questi si sarebbero appassiti tutti al suo passaggio. Nel suo passato, aveva conosciuto un dotato di abilità con un potere simile, il quale non aveva potuto vantare la più allegra delle vite. Eppure, Mori era pronto a giurarlo su Elise stessa, la sua personale tragedia non lo aveva mai portato a toccare i toni scuri di Dazai.

Ovviamente, il ragazzino impiegò tempo zero a rendersi conto delle sue capacità. Decise in completa autonomia che non aveva più bisogno di alcuna lezione da parte del nuovo Boss della Port Mafia.

“Voglio la cassetta rossa.” Dazai esordì con quelle parole una mattina. Non lasciò a Mori nemmeno il tempo di sedersi accanto a lui, le mani occupate dalla loro colazione ancora impacchettata - l’incombenza di nutrirli regolarmente era ricaduta sul povero, fedele Hirotsu, che portava loro le migliori leccornie dai locali più famosi della città.

A quella richiesta - forse più un ordine - Mori rispose con un “no,” secco.

Dazai non parve particolarmente sorpreso. “I patti erano chiari.”

“Non scendo a patti con un bambino capriccioso,” ribatté Mori, spingendogli la colazione sotto al naso. “Mangia.”

Il quattordicenne non si mosse. “Potrei prenderla senza che te ne accorga.”

Un sorriso divertito comparve sulle labbra del Boss. “Mi minacci, moccioso?”

“Tu hai mentito.”

“Non troveresti nulla d’interessante in quella cassetta.”

“Allora perché nascondermela?”

“Sei tanto intelligente. Arrivaci da solo.”

“È qualcosa di personale.” Dazai non dovette nemmeno rifletterci. “Qualcosa che ti è caro, ma è quel genere di ricordo bello che fa male.”

Mori si finse impressionato. “Già, ero poco più grande di te quando è scoppiata la guerra in Europa. Intuire che io abbia vissuto qualcosa di tragico in Germania è da veri detective.”

Dazai sbuffò. “Sono lettere di un amante morto?”

“Forse.”

“Oh, è un sì.”

“No, è un forse.”

“Che vuol dire sì.”

Mori sollevò la tazza di cartone su cui era scritto il suo nome, in modo che fosse ben visibile anche al ragazzino. “Ora, io berrò questo caffè in santa pace,” disse, gelido. “Questo significa che tu non dovrai aprire bocca per tutto il tempo.”

Dazai alzò gli occhi al cielo. “Perché sennò cosa mi farai?” Domandò, mentre un sorrisetto derisorio compariva sulle sue labbra. “Voglio morire, ricordi? Anche se minacciassi di sgozzarmi non-“ 

Dazai non vide Mori estrarre la pistola, né ebbe il tempo di reagire quando si ritrovò la canna lucida a meno di mezzo metro dalla testa. L’unica cosa che il suo cervello registrò fu lo scoppio. La pallottola colpì il muro, ma Dazai ebbe l’impressione di avvertire lo spostamento d’aria provocato dal suo passaggio all’altezza dell’orecchio. Era incolume, non aveva neanche un graffio, ma non riusciva a respirare.

Nel silenzio totale che seguì, Mori rimase con la pistola puntata - la teneva con la mano sinistra - mentre sorseggiava il suo caffè nel modo più rumoroso possibile. Quando ebbe finito, lasciò la tazza di cartone sul tavolo e scoppiò a ridere.

“Tu vuoi morire?” Domandò, tra una risata e l’altra. “Guardati, sei terrorizzato.”

Dazai avrebbe voluto replicare ma non ci riuscì. Non appena dischiuse le labbra, si accorse che tremava da capo a piedi.

“Tranquillo.” Mori allungò la mano per spettinargli i capelli, poi ripose la pistola. “Non c’è nulla di male nell’aver paura della morte.”

Lo sguardo di Dazai si tramutò d’atterrito a rancoroso nel giro di un istante. Mori ne ebbe la certezza: se quegli occhi scuri avessero potuto ucciderlo, lo avrebbero fatto senza esitare.

“È tardi.” Il nuovo Boss della Port Mafia si alzò in piedi. “Andiamo in ufficio, prima che-“

Dazai lo superò con ampie falcate e corse al piano di sopra. La sua fuga si concluse con una porta che veniva sbattuta. 

Mori strinse le labbra e allargò le braccia. “Vorrà dire che andrò in ufficio da solo.” Non poteva negare che una pausa da Dazai gli serviva.

Prima di andarsene, si attardò nella stanza dei libri per recuperare il contenuto della cassetta rossa: un taccuino rilegato in pelle nera e alcuni documenti che risalivano alla guerra. Mise il primo nella tasca interna sinistra e i secondi in quella destra.

“Mangia la tua colazione, non fare il bambino capriccioso!” Disse ad alta voce, una volta arrivato nell’ingresso.

Dal piano di sopra, nessuno gli rispose.

“Adolescenti…” Borbottò Mori, richiudendosi il portone della clinica alle spalle.




 

Mori fu di cattivo umore per tutta la mattina. 

L’unico a cui fu concesso l’accesso al suo ufficio fu Hirotsu: al nuovo Boss serviva sapere come andavano le cose ai piani inferiori, se il Colonnello gli dava una buona impressione e se Kouyou si era sistemata a dovere nella nuova Casa dei Fiori.

“La signorina sarebbe un’ottima Dirigente, se mi posso permettere,” disse il veterano, una volta concluso il rapporto.

“Oh, non dirlo a me!” Esclamò Mori. “Glielo ripeto da quando ho fatto mia questa poltrona e continua a ridermi in faccia.” Non aveva guardato il leader della Black Lizard in viso per più di due secondi. Il suo cellulare lo fissava minaccioso dal centro della scrivania, dove lo aveva lasciato.

Lo schermo non si era mai illuminato.

Nemmeno un Vaffanculo in formato messaggio da parte di Dazai.

Beh, non era nello stile del ragazzino.

Quando Mori prese in mano l’apparecchio per controllare che la ricezione fosse buona, Hirotsu smise di parlare. 

“Qualcosa la turba, Boss?” Domandò il veterano.

“Sì, ho lasciato un quattordicenne da solo a casa e ho l’ansia!” Non appena si rese conto di averlo detto ad alta voce, Mori si bloccò e sollevò lo sguardo. “Hirotsu, confido che-“

“Nessuno lo verrà mai a sapere, Boss,” disse immediatamente il veterano, aggiustandosi il monocolo sull’occhio destro. “Le confido che anche io ero preoccupato per il signorino, quando non l’ho visto in sua compagnia.”

“No!” Mori sollevò l’indice con fare imperativo. “Signorino no. Dazai è tutto, meno che un signorino.” Senza pensarci troppo, compose il numero del non signorino in questione. Contro ogni sua aspettativa, rispose solo dopo tre squilli. “Dazai, hai mangiato la-?”

Tu-Tu-Tu

Mori sgranò gli occhi. “Mi ha attaccato in faccia,” mormorò, incredulo.

“È l’adolescenza,” commentò Hirotsu, con serenità. “Per mia esperienza, migliorerà verso i diciotto anni. Per quell’età sono più responsabili.”

Mori annuì distrattamente, poi gli venne il dubbio. “Stai parlando di me?”

Hirotsu scrollò le spalle. “Il suo è l’unico esempio di cui ho esperienza diretta.”

“Mi stai dicendo che io ero così?” Domandò Mori, sollevando il cellulare. “Avessi riattaccato in faccia a mio padre o a mia madre, mi sarei ritrovato senza gli arti inferiori non appena varcata la porta di casa!”

“Abbia pazienza con quel ragazzino,” disse Hirotsu. “È capitato di parlarne con la signorina Ozaki.”

Bene, ora anche Hirotsu faceva comunella con Kouyou contro di lui. Mori non poteva che esserne estasiato.

“Dazai sembra avere molto potenziale, a nostro avviso,” concluse il veterano. “Per quel che ho visto, mi ricorda molto qualcuno. In tempi come questi, non può che essere una buona cosa per la Port Mafia.”

Suo malgrado, Mori sollevò l’angolo destro della bocca in un mezzo sorriso. “Grazie del rapporto, Hirotsu.”

“Boss…” Dopo aver chinato la testa con rispetto, il veterano si congedò.

Rimasto solo, Mori sprofondò nella sua poltrona. Aspettò dieci minuti e poi provò a chiamare Dazai una seconda volta. 

Ci furono dieci squilli, poi partì la segreteria automatica.

Mori lasciò il cellulare sulla scrivania e aspettò ancora.

Terzo tentativo. Altri dieci squilli, poi la segreteria.

Allontanò l’apparecchio da sé e lo fissò con sospetto. 

Pensi davvero che vivere abbia qualche valore?

Dazai gli aveva posto quella domanda quando si era risvegliato nella sua clinica e, dopo un lungo momento di caos iniziale, Mori gli aveva chiesto il motivo per cui aveva fatto quello che aveva fatto.

“Pensi davvero che vivere abbia qualche valore?” Ripeté Mori, mettendosi a sedere più composto. Ricordava di essere passato per una fase simile, intorno ai vent’anni. Sì, c’era stato un momento per Mori in cui restare fermo ad aspettare la morte gli era sembrata davvero l’unica cosa da fare. Era allora che aveva conosciuto Natsume Soseki. Si poteva dire che gli doveva la vita, almeno quanto gliela doveva Dazai.

L’unica differenza era che a lui, a Mori, quel desiderio di autodistruzione si era tramutato in altro, qualcosa che si era nutrito della sua umanità, rendendolo il Demone che era ora. Pur avendo visto in faccia la morte, Dazai continuava a inseguirla, imperterrito.

Quel pensiero colpì il Boss come una pugnalata alla schiena.

Non si mosse per un lungo istante, poi fissò il cellulare a cui Dazai non aveva risposto. “Ho commesso un errore…” Si alzò in piedi di colpo, recuperando le chiavi dell’auto dal primo cassetto della scrivania. “Ho commesso un fottuto errore.”

Mentre si fiondava nell’ascensore e premeva il pulsante per scendere ai garage, Mori chiamò il veterano che aveva appena lasciato il suo ufficio. “Hirotsu, cerca Kouyou e portala da me, in clinica. Dille che è un’emergenza, lei capirà.”



 

Fu come precipitare in un’altra dimensione, una in cui Mori aveva sperato di non trovarsi mai più. Non vide se stesso guidare fino alla clinica. Il battito impazzito del proprio cuore lo accompagnò per tutto il tragitto in macchina, ma sarebbe potuto benissimo essere altrove: su di un campo di battaglia, con le bombe che esplodevano a pochi metri da lui, rendendo ovattato ogni suono, tranne quello del proprio respiro affannato.

Prima di uscire dalla strada principale, Mori si allentò il nodo della cravatta, come se lo soffocasse. Poco dopo, la lanciò sul sedile del passeggero.

Fermata l’auto, scese e lasciò lo sportello aperto. Si scagliò contro il portone con tanta forza che i cardini fecero un rumore spiacevole, come se stessero per cedere.

Mori era sudato, senza fiato, come se fosse arrivato fino a lì correndo a piedi, ma trovò comunque la voce per chiamare il nome del ragazzino. “Dazai!”

Nel silenzio dell’edificio, il rumore dell'acqua che scorreva arrivò alle orecchie del Boss della Port Mafia come un inno di morte. Proveniva dal bagno in fondo al corridoio, quello adiacente alla sala operatoria.

Come si avvicinò, Mori sentì l’acqua sotto i piedi e fu costretto a muoversi con cautela per non scivolare. La porta era aperta ma la luce era spenta. 

Trovare l’interruttore alla cieca fu facile. Non appena i neon si accesero, il capolavoro di Dazai si presentò in tutto il suo orrore.

C’era sangue ovunque. Sulle pareti coperte da piastrelle, sul vetro che divideva il bagno dalla sala operatoria principale, sul carrello operatorio lasciato per le emergenze. Il pavimento era un lago cremisi. L’acqua rossa usciva dal lavandino e Dazai era lì, con la guancia appoggiata al bordo di metallo, un polso reciso era abbandonato lungo il fianco e l’altro ancora sotto il getto dell’acqua.

Mori lo raggiunse con un paio di ampie falcate, rese goffe dal pavimento bagnato sotto i suoi piedi. Non appena riuscì ad afferrare Dazai, Mori scivolò, ritrovandosi con tutto il peso inerme del ragazzino addosso. 

Imprecò, mentre un dubbio terribile gli bloccava il respiro. Il medico infilò la mano sotto il mento del quattordicenne privo e lo costrinse a reclinare la testa sulla sua spalla: non vi era alcuna ferita sul collo.

Mori non si concesse neanche un respiro per sentirsi sollevato. 

“Dazai!” Chiamò a gran voce, stringendogli i polsi con tutta la forza che possedeva, in un disperato tentativo di rallentare l'emorragia - per fermarla era necessario ben altro. Il sangue di Dazai gli bagnò le mani e i vestiti. 

Da quanto tempo versava in quello stato? Quanto sangue aveva perso? Quando aveva controllato che non si fosse reciso la gola, Mori era certo di aver sentito il fantasma di una pulsazione. Era ancora vivo ma se non si fossero alzati da quel pavimento, non lo sarebbe rimasto ancora a lungo. Mori non riusciva a rimettersi in piedi, chiudere il rubinetto e sollevare Dazai, senza lasciare andare la presa sui polsi recisi.

Aveva bisogno di aiuto. Avevano bisogno di aiuto.

“Mori!” La voce di Kouyou lo raggiunse dall’ingresso. 

E Mori seppe che non sarebbe mai vissuto abbastanza per dimostrare tutta la sua gratitudine a Hirotsu. 

“Siamo qui!” Rispose. “In fondo al corridoio, stai attenta all’acqua!”

Kouyou comparve sulla porta e per poco non finì a terra anche lei - per fortuna, aveva abiti occidentali e scarpe senza tacco. Di fronte a quello spettacolo raccapricciante, sgranò gli occhi, atterrita. “Che cosa-?”

“Il rubinetto!” Ruggì Mori, con impazienza. “Chiudi il rubinetto!”

Nonostante il pavimento scivoloso, Kouyou impiegò pochi istanti a raggiungerli e a fare come le era stato detto. A Mori parve un’eternità.

Aggrappata al bordo del lavandino, Kouyou lo guardò dall’alto al basso. "Dimmi Che cosa devo fare!”

“Stringigli i polsi con tutta la forza che hai!” Mori era a tanto così da perdere completamente il suo autocontrollo. Gli servivano un ago chirurgico, del filo di sutura e delle garze sterili. Doveva concentrarsi su qualcosa che sapeva fare e doveva farlo in fretta. “Lo sollevo io! Dobbiamo portarlo di là, nella sala operatoria!”

Prima che fosse troppo tardi.




 

Una volta applicato l’ultimo punto di sutura, sia Mori che Kouyou tornarono a respirare. Il bip-bip regolare emesso dal monitor era un suono ipnotico, confortante. Lo era meno la sacca di sangue attaccata al braccio di Dazai e la maschera dell’ossigeno che gli copriva il viso.

Nessuno dei due disse nulla, mentre il medico afferrava il rotolo di garze sterili e vi fasciava entrambi i polsi del ragazzino. Una volta finito, Mori sollevò lo sguardo sulla vetrata che divideva la sala operatoria dal bagno adiacente. Qualcosa gli diceva che non sarebbe mai riuscito a ripulire tutto in modo efficiente, ma quel disastro gli offrì una buona via di fuga.

“Resta con lui,” disse a Kouyou, senza nessuna particolare intonazione nella voce. Aveva bisogno di restare solo, di prendere le distanze da Dazai e di occupare la mente con qualcosa di pratico. E, sì, il sangue era difficile da mandare via anche su superfici facilmente lavabili. Quel lavoro lo avrebbe occupato per un po’, forse fino a notte inoltrata - anche se non sapeva nemmeno che ore fossero.

Mori lasciò cadere il cappotto nero su una sedia vicino alla porta e uscì dalla sala operatoria: il corridoio era mezzo allagato e dovette procedere con cautela. Tutto quello che gli serviva era nascosto nella lavanderia adiacente alla cucina.

Da dove si trovava, Kouyou lo vide sparire in direzione dell’entrata e tornare con un secchio e uno scopettone stretti in una mano, una bottiglia di varechina e una spugna nell’altra - entrambe ricoperte con guanti di lattice.

Allungò una carezza tra i capelli bagnati di Dazai, poi si allontanò. Il battito riportato sul monitor era ancora regolare.

Kouyou si affacciò sul bagno e vide gli utensili da pulizia abbandonati in un angolo: Mori era impegnato a gettare diversi strumenti chirurgici in un contenitore apposito. Si lamentava a bassa voce.

“Che cos’hai?” Gli chiese, diretta.

Quando Mori non parlava, l’atmosfera diveniva impossibile da tollerare per chiunque gli stava intorno. Kouyou non pretendeva che fosse di buon umore, ma spezzare quel silenzio sarebbe stato utile a tutti.

“Quanti diavolo di bisturi ha usato?” Sibilò il Boss della Port Mafia, gettandone tre nel sacco per rifiuti ospedalieri. “Eppure, quel moccioso lo sa quanto costa sia in tempo che in soldi trovare del buon materiale da usare!”

Kouyou appoggiò la schiena all’architrave della porta, per tenersi salda sul pavimento scivoloso. Mori non era realmente arrabbiato per i bisturi sprecati - o forse un po’ sì - ma non era la ragione per cui parlava tra sé e sé, invece di lagnarsi con tutti come era suo solito.

“Ti sei spaventato?” 

Essere diretta era uno dei maggiori pregi che Mori riconosceva a Kouyou, ma non ne aveva bisogno in quel momento. Non rispose, si limitò a ripulire il carrello operatorio da tutti gli strumenti non più utilizzabili, poi allungò la mano verso lo scopettone.

La giovane gli afferrò il polso con gentilezza. “Lasciati aiutare.”

Mori glielo concesse.

Ci vollero diverse ore per arrivare a un buon risultato e quando dichiararono l’impresa finita, il sole era calato da un pezzo dietro le montagne di Yokohama.

“Dazai hai i vestiti sporchi di sangue,” disse Kouyou, lavandosi le mani nello stesso lavandino su cui il ragazzino aveva tentato di dissanguarsi. “E sono bagnati. Non può dormire così o si prenderà un-“

Mori appoggiò un paio di forbici sul primo ripiano del carrello operatorio, senza alcuna gentilezza. “Almeno queste si sono salvate,” disse, dando le spalle alla giovane donna. “Vado a prendere dei vestiti in camera e te li lascio in corridoio. Quando hai finito di cambiarlo, lo spostiamo in uno dei letti. Non ci tengo a mettergli di nuovo le mani addosso per farmi dare del maniaco.”




 

Una volta pulito e cambiato, Dazai fu trasferito nella camerata dei degenti. Kouyou gli rimboccò le coperte, stando attenta a non toccare l’ago che collegava la sacca di sangue al braccio. Era certa che non si sarebbe svegliato ancora per un po’, ma era tornato un po’ di colore su quelle guance pallide. Accese la lampada sul comodino e lo lasciò riposare.

Trovò Mori seduto sulle scale, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e il mento alle dita intrecciate. Fissava un punto nel vuoto di fronte a sé. Aveva ancora i capelli legati, ma le ciocche più lunghe si erano liberate, incorniciandogli il viso. I polsini della camicia erano completamente rossi, e le gocce di sangue erano scivolate fino al gomito. Era da buttare. 

Kouyou non aveva bisogno di chiedere il permesso, si sedette sullo stesso gradino del Boss, lasciando tra loro mezzo metro di distanza. Non fissò il suo profilo: lo avrebbe messo sotto una pressione ulteriore e non era il caso. 

“Devi lavarti quel sangue di dosso,” disse, schietta. “Devi rimetterti in piedi. Domani la Port Mafia sarà ancora dove l’hai lasciata.”

Mori lasciò andare un sospiro stanco. “Sono già in piedi.”

“Bene,” commentò lei. “Che cosa è successo?”

“Era chiaro, vero?” Domandò Mori di rimando, come se non l’avesse udita affatto.

Kouyou inarcò le sopracciglia. “Di cosa stai parlando?”

“Del sangue,” rispose il Boss della Port Mafia. “Nell’immaginario delle persone è di color rosso vivo,” gli sfuggì un sorriso. “Nella vita di tutti i giorni, le persone non ne versano più di qualche goccia e in modo completamente casuale o, in taluni casi, fisiologico. In realtà, quando è in grande quantità, il colore si avvicina di più al nero. Suonerà assurdo, ma il colore scuro fa meno paura. Dazai ha versato una grande quantità di acqua, per questo il sangue sul pavimento era così rosso.” Mori inspirò aria attraverso il naso. “Peserà quarantacinque chili, se va bene… No, è sottopeso, forse meno. Non gli serve perdere una gran quantità di sangue per collassare e-“

Kouyou gli schioccò le dita davanti agli occhi e il medico sobbalzò. Un istante dopo, gli occhi scuri erano su di lei e la guardarono come se la vedessero per la prima volta.

“Ti eri perso nella tua testa,” disse lei. “Che cosa è successo?” Domandò di nuovo. “Perché lo hai lasciato a casa da solo? Sapevi che non era sicuro.”

“Abbiamo litigato,” raccontò Mori. “O meglio, lui mi ha irritato, io gli ho dato una lezione e lui si è arrabbiato.”

“Che genere di lezione?”

“Gli ho sparato.”

Il modo in cui Kouyou lo guardò bastò a esprimere il suo pensiero. “Che vuol dire che gli hai sparato?” Si alzò in piedi, portandosi di fronte a lui.

Mori allargò le braccia. “Pensi che sia facile conviverci?” Domandò. “Io so cos’è la morte. L’ho toccata e, te lo confesso, c’è stato un momento in cui l’ho anche desiderata, ma lui non fa che parlare di questo.”

Kouyou dischiuse le labbra, ma non seppe che cosa replicare.

“Sì, ho insistito io perché parlasse. Lo rendo partecipe dei miei piani per la Port Mafia perché voglio che impari. Lo distraggo con lezioni sulle lingue straniere che conosco perché, in realtà, è curioso!” Esclamò. “Gli piacciono i libri, gli piacciono i segreti… Prova interesse! Lui dice di voler morire ma, in realtà, ci prova ancora! Cerca qualcosa che non riesce a trovare, penso si sia convinto che non la troverà mai!”

“Perché gli hai sparato?” Kouyou alzò la voce.

Mori lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. “Volevo provargli qualcosa,” rispose. “E ci sono riuscito: tremava come un pulcino. L’ho spaventato ed era quello che volevo: l’ho messo davanti al fatto che è umano e ha paura della morte.” Una pausa. “Si è tagliano le vene per dimostrarmi il contrario.”

“Era una sfida?” Kouyou non riusciva a credere alle sue orecchie. “Hai sfidato un ragazzino con tendenze suicide a farsi del male per contraddirti?”

Mori alzò gli occhi al cielo. “Non è stata la migliore delle mie azioni.”

“Prima di pensare alle tue azioni, chiediti se vuoi che Dazai resti vivo,” replicò Kouyou, scendendo gli ultimi gradini che la separavano dall’ingresso. “Perché la tua terapia d’urto non è stata molto utile!” Aggiunse, astiosa, mentre tornava dal ragazzino nella camerata dei degenti.




 

Al sorgere del sole, Dazai mostrò i primi segni di coscienza. Accanto a lui, quando riuscì ad aprire gli occhi scuri, trovò l’ultimo figlio maledetto della Port Mafia ad accoglierlo.

“Ben tornato,” disse Mori, con un sorriso gentile che faceva a pugni con l’oscurità riflessa nelle sue iridi. Indossava la giacca da Boss della Port Mafia, ma la camicia costosa era stata sostituita con una maglietta nera a caso. 

Restarono a guardarsi per quella che parve un’eternità, poi le labbra screpolate di Dazai si dischiusero,

“Non pronunciare una parola,” disse Mori, recuperando un bicchiere d’acqua dal comodino accanto al letto. “Prova a dire qualcosa e giuro che rovino questo tuo bel faccino a suon di schiaffi.”

Nonostante le parole minacciose, quelle mani aiutarono Dazai a sollevare la testa e a ingoiare un paio di sorsi d’acqua. Nessun ringraziamento, non che l’altro se lo aspettasse.

Mori se ne stava appollaiato su uno sgabello regolabile, che cigolava a ogni suo minimo movimento. Continuava a sorridere ma aveva la morte negli occhi.

Ti sei spaventato? Aveva chiesto Kouyou. Non aveva avuto voce per risponderle che il lusso di provare paura lo aveva lasciato in Germania, con le spoglie di Rintarou. 

“Devi essere maledettamente orgoglioso per arrivare a questo punto, pur di non darmi ragione,” commentò Mori, “di per sé è una caratteristica che apprezzo, ma tu porti tutto a livello estremo. Non mi piacciono gli estremismi.”

“Fino a che non sei tu a compierli.”

Il dorso della mano di Mori si abbatté sul giovane viso con tanta velocità che il medico stesso se ne sorprese. Si pentì del suo gesto ancor prima che Dazai avesse il tempo di lamentarsi del dolore. “Scusa,” disse, comprendo la guancia lesa col palmo. “Ho agito d’impulso, non avrei dovuto.” Fu attento a non mostrare alcuna emozione, come se si stesse scusando con un suo superiore sul campo di battaglia. La carezza sul giovane viso era un dettaglio su cui non si attardò a riflettere.

“Hai la mano calda,” commentò Dazai, il viso ancora girato di lato, verso quegli schermi che indicavano il suo battito cardiaco, il livello di saturazione del suo sangue e altre cose. “Non credevo avessi le mani calde.” 

Se ce l'aveva con lui per lo schiaffo ricevuto, Mori non riuscì a comprenderlo. “Non ti chiederò cosa ti è passato per la testa,” disse il medico.

“Non ti chiederò se sei arrabbiato,” ribatté Dazai.

Suo malgrado, gli angoli della bocca di Mori si sollevarono. Allontanò la mano dal viso del ragazzo e quei due grandi occhi scuri cercarono immediatamente i suoi. “Fino a nuovo ordine, non sarai più lasciato da solo,” comunicò Mori. “Io sono in clinica, tu sei in clinica. Io devo restare in ufficio, tu resti in ufficio.”

A fatica, Dazai si mise seduto contro il cuscino. “E cosa farò tutto il giorno? Ho imparato le lingue che volevi imparassi.”

“Strategia.”

Dazai fece una smorfia disgustata. “Strategia?” Ripeté.

“E filosofia. Avrai tanto tempo da spendere e ci sono tante cose che voglio insegnarti. Dici di conoscere il russo, parli e scrivi giapponese come un madrelingua, ma che altro puoi dirmi della tua educazione?”

“Ho appena tentato il suicidio e tu ti preoccupi della mia educazione?”

“Sto pensando a come colmare l’infinita noia che ti affligge. Hai un’intelligenza fuori dalla norma, ma questo devono avertelo già detto.”

Dazai annuì per confermare.

“Chi ti ha cresciuto, Dazai?” Mori se lo era chiesto dal primo giorno, ma non aveva mai trovato il coraggio di fare una domanda tanto diretta. Un fanciullo non ancora sbocciato che respirava violenza come se fosse aria, parlava russo e non dava alla vita alcun valore: tutto preannunciava una storia dell’orrore.

“Non me lo ricordo,” Dazai rispose senza esitare, guardandolo dritto negli occhi. Non stava mentendo, non c’era nulla di meccanico nel modo in cui pronunciò quelle quattro parole. Per la prima volta, Mori notò un riflesso di tristezza in quelle iridi scure. Era la verità.

Il nuovo Boss della Port Mafia avvicinò lo sgabello al letto. “Qual è il tuo primo ricordo?”

“Non saprei dirlo,” rispose Dazai. “Ho delle immagini, ma sono frammentate. Alle volte, può capitare che un suono, un odore o qualcos’altro attragga la mia attenzione. Credo di essere cresciuto in Russia, ma non saprei dirti qualcosa di preciso neanche volendo.”

Mori si accorse che stava artigliando la stoffa dei suoi stessi pantaloni, inspirò dal naso e rilassò le dita. “La memoria funziona in un modo che la scienza non è ancora in grado di spiegare del tutto,” spiegò. “Forse non ricordi i fatti, ma sai leggere e scrivere normalmente. Alle volte, forse neanche te ne rendi conto, usi parole piuttosto forbite, questo mi porta a pensare che tu sia stato abituato a testi di un certo calibro fin da bambino.”

“Non mi piace ricordare,” disse Dazai, di colpo.

Mori inarcò un sopracciglio. “Non hai il desiderio di sapere chi sei?”

Il nulla,” rispose il fanciullo, sicuro.

Mori scosse la testa. “Tu sei Dazai Osamu.”

“Dazai Osamu è il nulla, cosa cambia?”

“Il nulla non può essere partorito, Dazai,” ribatté Mori. “E qualcuno ti ha portato in grembo, ti ha messo al mondo e-“

“Sì, in una casa di accoglienza da una donna che, con ogni probabilità, si presentava lì a partorire ogni due o tre anni… Solo i feti di cui non riusciva a liberarsi da sola, ovvio.”

Mori si passò una mano sul viso: quel genere di scene non gli erano nuove - tanto in Europa quanto lì, a Yokohama - e le trovava più disturbarti di molte altre che aveva collezionato sul campo di battaglia. “Questa è la storia che ti sei raccontato?”

Continuando a guardare di fronte a sé, Dazai inspirò aria dalla bocca. “La mia mamma non mi ha cercato, ma mi voleva bene,” persino il tono della sua voce era diverso, suonava come un bambino che non ha più nessuna speranza a cui aggrapparsi ed è sul punto di scoppiare a piangere. “La mia mamma non mi ha tenuto con sé perché non avrebbe saputo come crescermi. La mia mamma ha rinunciato a me per permettermi di avere un futuro migliore.”

Mori si sentì gelare da capo a piedi. Se Elise era inquietante per chi gli era vicino, quello come avrebbe dovuto descriverlo? La voce e l’espressione di Dazai erano quelle di un bambolotto rotto che emette ancora un rantolo sul fondo di un armadio, nella vana speranza che qualcuno si accorga di lui, lo prenda tra le braccia e lo riempia di calore.

Tutto finì con un sonoro sbuffo. “Che noia!” Esclamò Dazai. “Tutti gli orfani hanno la loro personale favola con cui cullarsi la notte. Io non perdo tempo con certe cose.”

“No,” confermò Mori, infilando la mano nella tasca destra della giacca. “Certo che no.”

Dazai non fu interessato a quel che stava facendo, fino a che l’uomo non gli porse il taccuino rilegato in pelle nera. 

“E questo cosa dovrebbe essere?” Domandò il fanciullo.

“Volevi avere l’ultima parola e darmi torto, no?” Disse Mori. “Sebbene io abbia molto da ridire sul modo in cui lo hai fatto, non posso negare che tu sia riuscito nell’impresa. Questo è il tuo premio.”

Dazai lo prese tra le mani e Mori non poté fare a meno d’indugiare lo sguardo sulle fasciature strette intorno a quegli esili polsi. 

“Questo è il tesoro che nascondevi in quella cassetta rossa?” Domandò il fanciullo.

Mori pensò ai documenti custoditi in segreto nella tasca sinistra del suo cappotto, quelli di cui Dazai non doveva conoscere l’esistenza. “Questa è la favola con cui mi cullo la notte,” ammise. “Solo che non è quella di un orfano triste, è accaduta davvero. È accaduta a Rintarou ed è l’unica cosa di lui che conservo.”

Si scambiarono uno sguardo che conteneva un sacco di sfumature impossibili da tramutare in parole, poi Dazai aprì il taccuino e cominciò a leggere.

Alla luce calda dell’abat-jour sul comodino, Mori Ougai, nato Rintarou, rimase a guardare mentre Dazai Osamu leggeva la più intima delle sue confessioni, sebbene non avesse scritto neanche una parola di quelle contenute in quelle pagine.

Quando ebbe finito, il fanciullo richiuse il piccolo quaderno e lo appoggiò con cura sulle sue ginocchia.

“Non il tuo genere, vero?” Intuì Mori, con un sorrisetto. “Troppo amore, troppo destino, troppo struggimento.”

“Mi è piaciuto, invece,” disse Dazai, con una timida nota di sorpresa nella voce.

Mori non riuscì a parlare per almeno mezzo minuto. “Quelle parole non sono un inno alla morte,” disse, nel dubbio che al ragazzino fosse sfuggito il significato. “Parlano di amore e di vita, speranza!”

“Ma sono vere,” ribatté Dazai, guardandolo. “Non sono per un pubblico. Sono per qualcuno.” Restituì l’oggetto al legittimo proprietario. “Sono per te, non è vero?”

Gli occhi scuri di Mori vennero ricoperti da un velo di dolce amarezza. “Sì, sono per me.”

Dazai non riusciva davvero a capire. “Perché consegnarmi un oggetto di un valore simile?” Domandò. “Tutto solo per mantenere la parola data?”

Mori ripose il taccuino nella tasca interna della giacca. Avrebbe pensato dopo a rimetterlo al suo posto. “Mi hai chiesto perché, tra tutti, Natsume Soseki ha deciso di affidarti proprio a me. Io stesso gli ho posto la stessa domanda e non ho ricevuto alcuna risposta. Tuttavia, me ne sono data una da solo.” Una pausa a effetto. “Siamo legati allo stesso destino, io e te.”


 
   
 
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