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Autore: Flying_lotus95    16/04/2022    1 recensioni
[Capitoli dal 1° al 9° revisionati]
Giappone, inizio anni'60. Un gruppo di sei ragazzi affronta le proprie vicende quotidiane, combattendo con un passato che non vuole lasciarli liberi. Mario Minakami è intenzionato a scoprire chi si cela dietro l'omicidio di Rokurota Sakuragi, l'uomo che sei anni prima aveva preso lui e i suoi amici sotto la sua ala e li aveva reintrodotti nella società, affrontando non poche difficoltà; Joe Yokosuka, meticcio, è alle prese con un passato ingombrante, una sorella da salvare, e un amore da proteggere; Tadayoshi Tooyama è un soldato delle Forze Armate del Giappone, sposato con la dolce Mina. Tra sensi di colpa e paure, dovrà affrontare i suoi demoni una volta per tutte...
Assieme ai loro ex compagni di cella, Ryuji Noomoto, Noboru Maeda e Mansaku Matsuuda, i tre si ritroveranno faccia a faccia ad affrontare un pericolo comune, che minaccerà il loro futuro, la loro "terra promessa".
[Leggera presenza OOC]
Genere: Azione, Drammatico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: Lemon, Otherverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 4




-        Arcipelago delle isole Carolina, Oceano Pacifico, anno 20 dell’epoca Showa (1945)
 
L'acqua del ruscello era talmente limpida e cristallina che rifletteva i raggi solari come uno specchio.
I suoi flutti lambivano le gambe di Mariya come tante piccole benedizioni. 
La sensazione di freschezza che provò sulla pelle fu qualcosa di inimmaginabile.
La ragazza rideva mentre immergeva le mani a palmo aperto nell'acqua fresca, godendosi tutta la pace che le aleggiava attorno, serena.
Si accovacciò in essa, sostenendo tra i denti i lembi della sottana, bagnandosi fino alla vita.
A vederla, sembrava una bambina che aveva visto per la prima volta il mare.
Quando era piccola, effettivamente, vi si era recata spesso con la famiglia, l'aria salmastra faceva bene ai polmoni malati di sua madre. Ricordò di come lei e sua sorella minore giocavano a schizzarsi l'acqua addosso e a costruire castelli di sabbia, sotto gli occhi vigili e pazienti del padre.
Non c'era giorno che Mariya non pensasse a loro, che non rivolgesse una preghiera al cielo affinché stessero tutti bene. In particolare, pensava a suo figlio. Sua sorella le scriveva sempre di lui, aggiornandola su qualsiasi evento o novità su quel figlio che era stata costretta ad abbandonare per non metterlo sulla bocca di tutti. 
Era stata una decisione sofferta, ma necessaria, quella di affidarlo ai suoi familiari quando ancora il piccolo era in fasce.
Mariya si sfregò le cosce con le mani bagnate mentre osservava di sottecchi il giovane soldato, appostato sotto ad un grosso albero. Era stato lui a portarla lì, aveva scoperto quel posto incontaminato per puro caso. Fu un vero miracolo che nessuno nell'accampamento si accorse della loro assenza.
Mariya si perse a studiare il profilo altero ed elegante coperto di terra del giovane, che a braccia conserte si guardava intorno, con la schiena appoggiata al tronco e il fucile abbandonato ai suoi piedi.
Uno scatto repentino, e il ragazzo voltò il capo verso lo sguardo incuriosito della giovane. Probabilmente aveva percepito il suo sguardo addosso in quel breve lasso di tempo. Le sorrise calorosamente.
Mariya lo vide staccarsi dal tronco e raggiungerla verso la riva ad ampie falcate.
Le tese una mano, incoraggiandola ad uscire dall'acqua.
Lei avrebbe preferito restare ancora un po' lì, lasciandosi trasportare dallo scrosciare persistente e a godere della luce filtrata del sole tra i fitti rami del bosco che coprivano parzialmente la visuale celeste.
Tuttavia, afferrò la mano che le era stata tesa, sorridendo alla volta del giovane proprietario, riconoscente. Il soldato, però, fu troppo occupato a vedere dove Mariya mettesse i piedi. 
Lui aveva gli stivali, lei invece era scalza, aveva lasciato gli zoccoli accanto alle radici rigogliose dell'albero.
Senza rendersene conto, Mariya si ritrovò sollevata di peso, tra le braccia del soldato.
«Cosa fai?» domandò sorpresa.
«Potresti inciampare, mettimi giù!».
Il giovanotto iniziò a risalire la duna erbosa, stringendosi la ragazza al petto, sordo alle sue proteste.
Era dimagrito anche lui in quei mesi, e negli ultimi tempi aveva dato tutte le sue scorte di cibo a Mariya, non curandosi affatto della propria salute.
Raggiunto in fretta l'albero secolare, Mariya si ritrovò seduta su di una radice rialzata.
Vicino a lei, l'altro estrasse dallo zaino un asciugamano, porgendoglielo gentilmente.
«Ti saresti sporcata i piedi e le gambe. A quel punto il bagno nel fiume sarebbe stato vano» spiegò il giovane soldato guardandola negli occhi.
Mariya si sentì risucchiata da quelle bellissime iridi, col tempo erano diventate più docili e stanche. La guerra aveva contribuito a renderlo sempre più adulto, sempre più stanco.
Lei chinò il capo di fronte a tanta premura.
Dopo essersi asciugata con calma, prendendosi il suo tempo per riassettarsi, il ragazzo fece un'osservazione che la fece sobbalzare.
«Ho sentito che i Russi stanno arrivando da Taiwan» disse lui, con aria distratta, come se le avesse comunicato una sciocchezza.
Mariya restò in silenzio, aspettando il seguito. 
«Gli americani invece si sono buttati con il paracadute sulle montagne ad est. I nostri superiori ci hanno ordinato di ucciderli tutti, nessuno escluso».
La sua voce risultò totalmente piatta ed inespressiva.
«E questo cosa comporterebbe?» chiese poi Mariya, a mezza voce. Temeva moltissimo la risposta del soldato.
«Per noi, se loro vincessero, la prigionia assicurata. Per le donne... non ci voglio neanche pensare». Indurì lo sguardo il ragazzo a quella constatazione amara.
Mariya non potè fare a meno di stringersi nelle spalle, mordendosi nervosamente un labbro. 
Il giovane si voltò ancora una volta verso di lei, eliminando ogni distanza fra loro.
Inginocchiatosi di fronte a lei, le prese le mani, poggiandovi sopra di esse la fronte, con aria stanca.
«Ti devo far fuggire di qui prima che accada» sussurrò sommesso. Mariya lo sentì deglutire sonoramente. Alle sue orecchie, sembrava più una vana speranza che una decisione vera e propria.
«C'è un villaggio poco lontano da qui, al cui porto arrivano e partono navi giapponesi. Se riesco a recarmici, ti faccio sapere come potremmo imbarcarci. Ovviamente, se io non dovessi farcela, tu dovrai salpare lo stesso, mi hai capito?» 
Il giovane strinse più forte le mani attorno a quelle più piccole di Mariya. 
Lei lo guardava interdetta, riluttante quasi.
«Non vado da nessuna parte senza di te. Preferisco essere presa in ostaggio con te piuttosto che lasciarti qui in balìa del nemico!»
Sul viso dell'altro comparve un sorriso spezzato.
«Io me la caverei in ogni modo, anche con la morte se necessario. Ma tu, tu e tutte le altre, non verrete risparmiate neanche un secondo!»
«Sono abituata a voi, ormai. Posso sopportarlo». Il viso di Mariya era imperturbabile. Era stato ingiusto da parte sua includere anche lui in quella velata accusa, dal momento che non si era mai permesso di sfiorarla neanche con un dito, a differenza degli altri soldati. 
Ma lo aveva fatto affinché capisse. Comprendesse quanto fosse disposta a pagare, pur di non sopportare un’ulteriore lontananza. 
Il giovane scosse il capo inorridito di fronte a quell’eloquenza.
«Sono io a non volerlo. Ora che ci siamo rincontrati, non voglio che tu ti venda ancora a qualcuno». La voce del giovane era supplichevole, tremante.
«Una volta tornati in Giappone, ci sposeremo e-»
«Una volta tornati in Giappone tu sarai un disertore ed io una donnaccia». Mariya non avrebbe voluto dirla quella verità, soprattutto se avrebbe significato far crollare quel piccolo muro instabile di sogni che il giovane si era costruito con le proprie forze, più per incoraggiare lei che sé stesso.
«Non possiamo cambiarla questa realtà. Io sono già rovinata, almeno tu... Vorrei che non ti sporcassi ulteriormente a causa mia».
Il soldato la fissò in silenzio, assottigliando lo sguardo. Il berretto sulla testa rasata gli aveva fatto ricadere un'ombra sul bel viso affilato. 
«Io ci proverò lo stesso. Deve pur aver significato qualcosa il nostro esserci ritrovati».
Il giovane si alzò da terra, costringendo Mariya ad alzare lo sguardo color ebano e cerbiattino per continuare a guardarlo, supplichevole.
Lei scosse il capo, volle cacciare dalla mente tutti i pensieri felici che le provocava la sua sola presenza. 
Non ci sarebbe mai stato un futuro per loro. E poi, lei non era sola. Il viso del figlioletto amato le apparve nei ricordi, molestandola.
Possibile che doveva sempre rinunciare a tutto ciò che amava soltanto a causa della sua sorte maledetta?
Non si accorse del bacio a stampo che il giovane gli impresse sulle labbra, troppo presa a combattere contro quei pensieri funerei. 
«Mi hai fatto una promessa Mariya, ricordi?»
Mariya ricordava eccome. A quella promessa ci si era aggrappata con tutta sé stessa.
«Sei stato tu a dire che ce ne saremmo andati insieme da qui. Se mi lasci concedere il beneficio del dubbio sulla tua sorte, allora tu sei il primo che la sta infrangendo».
Lui deglutì, socchiudendo le palpebre.
«Farò tutto il possibile».
«Lo farò anch'io».
I loro occhi s'incontrarono in una danza triste.
«M'impegnerò affinché tu non finisca nelle loro mani».
«M'impegnerò a fare lo stesso».

Il bacio che ne seguì fu molto meno casto del precedente.

 
-  Kanazawa, Prefettura di Ishikawa, anno 35 dell’epoca Showa (1960)
 
Joe si era guardato le mani, inorridito.
Il sangue ancora fresco colava a fiotti tra le dita piccole, era talmente denso e nero da sembrare cioccolata.
Voleva correre, correre così tanto da strapparsi i polmoni dal petto.
È colpa tua!
Quella voce cavernosa non smetteva di urlargli quella verità.
È colpa tua!
Si era guardato intorno, aveva il fiatone e il cuore gli pulsava così forte da rimbombare perfino nelle orecchie. Era tutto scuro, la vegetazione intorno sembrava un mare in tempesta. Onde che lo avrebbero di lì a poco divorato, distrutto, spolpato come una carcassa.
Papà! Papà, dove sei?
Un battito di ciglia e si trovò in una mansarda, le mani inspiegabilmente pulite dal sangue.
Aveva avvertito il pianto di un bambino, o meglio, di una bambina.
«Meg!» esclamò a bassa voce, facendosi più attento.
Sentì anche dei colpi sordi, seguiti da urla e lamentele.
«Brutta schifosa! È solo colpa tua se Joseph è morto!»
Joe riconobbe la voce della madre di Meg, quella voce tanto stridula quanto familiare. Sebbene ormai fossero passati anni dall’ultima volta che l’aveva sentita, gli provocò lo stesso brivido di paura e disgusto di allora. 
Si alzò dal pavimento, e con uno scatto raggiunse la porta socchiusa, spalancandola con una manata.
Tsuyo, no, non farlo!
Di colpo però lo scenario era cambiato di nuovo.
Joe si era ritrovato all’aperto, completamente solo. Il cielo era coperto da nubi che promettevano pioggia.
Si era portato le braccia al petto, sentiva un freddo che gli penetrava le ossa con noncuranza. Aveva scorto il filo spinato dalle mura della prigione, il terreno brullo e secco e un silenzio strano, assordante.
Aveva avvertito una mano sulla spalla e, nel girarsi di scatto, si era ritrovato improvvisamente al chiuso, in quella stanza che conosceva troppo bene, purtroppo.
Ne ricordava ancora i drappeggi alle tende, il profumo di gelsomino e papavero che impregnava le pareti e le lenzuola…
No. No. NO!
Si girò verso la porta della stanza, che era chiusa a chiave.
Spaventato, Joe iniziò a colpire la porta con furia, le mani piccole di ragazzino che battevano a palmo aperto sul legno resistente.
Non è normale, Joe.
Joe scosse il capo, voleva zittire a tutti i costi quella voce.
Quando sarai più grande capirai cosa significa amare ed essere amati.
Un urlo disperato aveva tuonato nell’aria.
È morto per colpa tua! Non hai fatto niente per aiutarlo!
«NO!», Joe continuava a battere imperterrito le mani sulla porta, invocando aiuto.
Rokurota-san! Rokurota-san, ti prego perdonami… non lo farò più, ma non mi mandare via… non mi lasciare qui, ti prego!...
Le forze cominciavano a venirgli meno, le ginocchia erano diventate pesanti, e il peso al petto continuava a schiacciarlo, a togliergli aria nei polmoni.
Mi dispiace, Rokurota, mi dispiace…
 
Joe si svegliò in preda alla paura, a notte fonda. 
Si portò una mano sul petto concitato, il cuore gli galoppava forte nel petto. Aveva fame d’aria, non respirava in modo normale.
Accanto a lui, Namie accese l’abate-jour sul comodino, tirandosi le coperte sul seno scoperto. 
«Joe!» lo richiamò lei, spaventata. Non era la prima volta che il ragazzo si svegliava urlando nel suo letto, in preda agli incubi. Nonostante ci fosse abituata, non poteva fare a meno di sobbalzare ogni volta che veniva svegliata a quel modo a dir poco brutale.
Cercò di scuoterlo energicamente, dandogli dei buffetti sulle guance accaldate per farlo riprendere. Ma Joe sembrava non sentirla, non percepire neanche la sua presenza.
«Non vedo» fu l’unica cosa che riuscì a mormorare, scuotendo il capo come un ossesso. «Non ci vedo! Non vedo più niente!». Il tono di voce era diventato preoccupante, allarmato.
Namie non perse tempo ad agire.
Con un agile scatto, balzò fuori dal letto, indossò la vestaglia e rovistò tra le sacche dei pantaloni e della giacca di Joe, in cerca delle sue pillole. Fortunatamente le trovò in fretta.
«Apri la bocca Joe, su! Su, da bravo!» lo incitò Namie, trafelata e tremante.
Con una mano cercò di abbassargli la mascella, mentre con l’altra gli fece prendere la pillola, assicurandosi che la potesse ingoiare. Precipitatasi in cucina a prendere un bicchiere d’acqua, glielo fece trangugiare con una certa fretta. A giudicare dal movimento del pomo d’Adamo, Namie comprese che Joe stava rispondendo allo stimolo del bere.
Passò giusto qualche minuto, prima che la pillola iniziasse a fare effetto. Namie aspettò che si calmasse del tutto, prima di dirigersi nel salotto, verso l’apparecchio telefonico.
 
Passate un paio d’ore, Namie sentì dalla cucina un bussare fragoroso alla porta d’ingresso.
Sistematasi meglio la vestaglia, andò ad aprire, ben conscia di sapere chi si sarebbe trovata dinnanzi.
Non fece neanche in tempo ad aprire completamente la porta, che Mario fece capolino nella stanza come un tornado.
«Dov’è?» disse serio alla volta della donna, rimasta sorpresa da quell’agguato improvviso. Aveva il viso sbiancato e la mascella serrata, il respiro corto per l’evidente corsa che aveva appena fatto.
«Buonasera anche a te, Minakami!» rispose piccata Namie, stringendosi nella sua vestaglia fucsia. «Joe è di là, sta dormendo ora», aggiunse, cercando di restare composta. Ma il ragazzo non le degnò ulteriormente attenzione, precipitandosi verso il letto dove era steso l’amico.
Namie stava per chiudere la porta scuotendo il capo interdetta, quando si accorse della presenza di Noboru, che la salutò gentilmente sull’uscio.
«Oh, prego Maeda, scusami! Ma il tuo compare mi ha totalmente stravolto!» rimbrottò lei, invitando Noboru ad entrare nell’appartamento.
Era stata lei a chiamarli, preoccupata. La telefonata l’aveva presa Ryuji, che si era premurato immediatamente di avvisare Noboru, affinchè raggiungesse l’appartamento di Namie per accertarsi che Joe potesse avere bisogno di aiuto. Mario gli era corso dietro nonostante le proteste di Ryuji e Junko. 
Non aveva capito più niente, le gambe si erano mosse da sole.
«Non sapevo a chi rivolgermi, mi dispiace se vi ho fatto preoccupare» si scusò Namie, portandosi le braccia sotto al petto abbondante. Si era poggiata sullo stipite della porta, dando tutta la sua attenzione a Noboru.
«Hai fatto bene a chiamarci» le rispose il giovane, con il suo fare corrucciato che gli usciva naturale. «Conoscendolo, avrebbe dato di matto se si fosse fatto visitare da un medico sconosciuto» aggiunse poi, lo sguardo rivolto verso il letto in cui Joe si trovava steso e Mario seduto lì a fianco.
Namie non riusciva proprio a spiegarsi l’avversione che Joe provava contro i medici in generale. Probabilmente era a causa delle sue esperienze passate legate alla sua salute che gli aveva provocato il rigetto, ma la donna aveva intuito potesse esserci qualcos’altro sotto. Qualcosa che il ragazzo non le avrebbe confessato neanche sotto tortura.
«Gli ho dato la sua pillola e si è calmato, per fortuna. Altrimenti non avrei saputo cosa fare» commentò dispiaciuta.
Noboru annuì distrattamente, abbassando lo sguardo.
Mentre i due continuavano a conversare sull’uscio della porta, Mario si era seduto sul materasso, poggiando la mano sinistra sulla fronte di Joe.
Il ragazzo dormiva profondamente, e aveva la fronte madida di sudore. Le ciocche bionde erano bagnate, appiccicate sulle tempie e sulla nuca. Il petto nudo si alzava e abbassava ritmicamente, il respiro era pesante e cadenzato.
«Almeno non hai febbre» sussurrò Mario, visibilmente più sollevato.
Joe si rigirò in un fianco, aprendo gli occhi con fatica. 
«Mario» mormorò il ragazzo, strofinandosi una mano sugli occhi, con aria stanca.
Di rimando, l’amico digrignò i denti, inspirando profondamente.
Non era certo quello il momento per colpirlo con un rimbrotto epocale.
«Ci hai fatto prendere un colpo!» sbraitò comunque Mario, fissando il tappeto persiano ai piedi del letto.
Joe mosse le labbra in un sorriso storto.
«Ma dai! Ti ho fatto preoccupare, mamma?» lo prese in giro, cacciando fuori la lingua.
Mario rise debolmente a quella battuta. 
«Fai poco lo spiritoso!» rispose seccato, dandogli un buffetto sul mento con la mano guantata.
«Ti ha fatto vedere le stelle la tua amica?» continuò Mario, cercando di stemperare l’ansia accumulata.
Joe emise una risata gutturale, sospirando stanco.
«Namie mi fa sempre vedere le stelle!» commentò lui, sornione.
Mario scosse leggermente il capo, increspando le labbra con disappunto.
«Le avevi prese le pillole?» chiese poi, rabbuiandosi di poco.
Joe si sistemò meglio a pancia in su, portandosi un braccio dietro la testa.
«Ho avuto un incubo, Mario, non una convulsione» cercò di spiegarsi, allontanando con stizza lo sguardo chiaro da quello più scuro dell’amico di sempre.
«E cosa hai sognato?», la voce del bruno era piatta ed incolore, come se apparentemente non gli interessasse affatto.
Joe deglutì prima di rispondere.
Le mani sporche di sangue, Meg, la stanza del bordello, Rokurota…
Non era la prima volta che sognava tutto questo.
Ed ogni volta che accadeva, gli veniva una gran voglia di urlare fino a strapparsi le tonsille a mani nude.
È colpa tua.
Non sapeva esattamente di chi fosse la voce che gli era riecheggiata in sogno, ma non era stata solo frutto della sua immaginazione.
Mario gli aveva urlato paradossalmente quella stessa frase anni prima, accusandolo della morte di Rokurota Sakuragi.
Joe aveva tenuto il capo chino, aveva sopportato in silenzio le sue accuse, la sua rabbia. Aveva affrontato sempre tutto così nella vita, sopportando e pregando che tutto passasse in fretta. Anche quando veniva preso da quegli uomini senza scrupoli che lo avevano comprato con il solo scopo di divertirsi.
In quei momenti, Joe si estraniava dal suo corpo fino a non percepire più niente, nemmeno il sangue che perdeva in mezzo alle gambe alla fine di tutto.
Era stato facile, più facile di quanto si era aspettato, abituarsi a quella vita. A quello schifo.
Anche insieme a Namie capitava di estraniarsi, ma era diventato piuttosto bravo a camuffare, ad interpretare il ruolo di bravo amante. 
Il sesso per lui non era mai stato piacere, sempre e solo dovere, una merce di scambio.
Anche gli abbracci e le carezze non avevano più avuto significato dopo i suoi primi otto anni di vita. Ricordava distrattamente gli abbracci di suo padre, le mani grandi che gli carezzavano la testa prima di addormentarsi, quando lo faceva sedere sulle sue gambe mentre suonava il pianoforte. Agli occhi di Joe, suo padre era parso un eroe, un gigante buono venuto da lontano per prendersi cura di lui.
Della sua infanzia, prima che cominciasse l’inferno, ricordava solo questo. 
«Perché ti sei imbronciato adesso?» chiese Mario, guardingo. Scrutò il volto del biondo meticolosamente, avrebbe voluto carpire qualsiasi notizia Joe gli volesse volutamente celare. 
«Era davvero così brutto il sogno che hai fat-»
«Tu ce l’hai ancora con me?».
Mario sobbalzò a quella domanda, posta da Joe in modo così naturale da spaventarlo.
«Perché ora dovrei avercela con te, scusa?».
Mario si sentì piuttosto confuso, come se qualcuno lo avesse spinto giù dalle nuvole senza preavviso.
«Per Rokurota-san».
E allora Mario comprese, anche se con fatica, a cosa l’amico stesse facendo riferimento. Gli si gelò il sangue nelle vene a quella risposta buttata così, di getto.
«Ma stai ancora pensando a quella vecchia storia?»
Non ce l’aveva mai davvero avuta con Joe, solo una piccolissima parte del suo cuore lo aveva reso responsabile di quanto fosse accaduto al soldato.
Joe, per una serie di sfortunati eventi, si trovò lì quando fu rinvenuto il corpo. Lui, così piccolo ed indifeso, in mezzo alla folla che si era adunata per pura curiosità attorno a quel corpo spappolato al suolo.
Joe aveva sognato quella scena raccapricciante per mesi.
E Mario fu solo capace di urlargli contro di non essere intervenuto, di non aver fatto nulla per evitare che Rokurota facesse quella fine.
Se ne era pentito amaramente, ma non era riuscito a chiedergli scusa. Pensò che i gesti e le accortezze sarebbero potute bastare a far colmare quel senso d’inquietudine che Joe si portava dietro da tre anni a quella parte.
Pensò che avrebbe dovuto immaginarlo. Mario avrebbe dovuto immaginare che le sue parole, le sue accuse avrebbero provocato delle conseguenze, seppur invisibili ad occhio nudo.
«Ero solo un moccioso arrabbiato col mondo. Prendermela con te era stata la via più semplice» confessò poi Mario, abbassandosi maggiormente la coppola sul viso. Sentiva le guance ardere e i denti stridere tra loro per l’attrito.
«Ma figurati se dovessi avercela ancora con te. Sei mio fratello, dopotutto».
Un guizzo vitale proruppe nelle iridi d’acquamarina di Joe, abbozzando un sorriso tremulo. Il biondo avvertì il cuore più leggero a quelle parole.
Allungò piano una mano verso quella guantata dell’amico, stringendola leggermente.
Joe lo aveva sempre cercato così, in silenzio.
Sarebbe bastato solo allungare una mano, e Mario sarebbe sempre stato lì a ricambiare quella stretta.
«Siamo tutti fratelli. E ci saremo sempre, l’uno per l’altro» sussurrò stanco Joe, mantenendo fermo il sorriso sulle labbra,
«Quanto vorrei che Meg la pensasse come te».
Ed eccola, un’altra verità scomoda. Quella verità che gli pesava sul collo come la peggiore delle condanne mai inflitte all’essere umano.
Per Mario era certamente più facile dimenticare, soprassedere.
Ma per Meg no, non sarebbe mai stato lo stesso.
L’aveva lasciata sola in mezzo ad un branco di lupi, ancora bambina ed indifesa. Le aveva promesso che sarebbe tornato e non l’aveva più fatto. Meritava in pieno tutto il suo odio, il suo astio.
Mario alzò un sopracciglio, comprensivo.
«Questo non potrai mai saperlo, se non le parli».
«Se fosse dipeso da me, non starei di certo qui a rigirarmi i pollici» rispose Joe, un po' più duro nella voce.
«Mi devo accontentare solo delle notizie che mi rifila Lily-san, per il resto, posso solo sperare che non si cacci nei guai».
Mario annuì increspando le labbra, fissando un punto impreciso della stanza.
«In questi giorni dovrei recarmi alla base. Jimmy-san vuole farmi vedere i progressi di alcuni marines, smania dalla voglia di farli gareggiare sul ring» prese parola Mario, con un tono di voce rassicurante, quello tipico che usava per introdurre una qualche soluzione ottimale ad un problema fastidioso.
«Posso provare ad avvicinarlq» concluse poi, sussurrando quasi. Non ci fu bisogno di aggiungere altro.
Joe sorrise a quella proposta, la mano ancora stretta a quella dell’altro, rafforzando la presa.
«Non sei costretto» sussurrò Joe in risposta, infinitamente grato.
Mario gli sorrise appena. Avrebbe voluto dirgli che si fasciava la testa per niente, ma conoscendolo sarebbe stato completamente inutile. 
Si limitò a stringergli una spalla, incoraggiante.
Fu in quel momento che si accorse della mancanza di qualcosa.
«Dov’è la tua piastrina?» chiese Mario, guardando l’amico interdetto.
Joe si portò una mano sul petto, tastando con le dita la base del collo.
A Mario parve strano che Joe non si fosse minimamente accorto di averla persa.
Persino in prigione aveva dato di matto quando un gruppo di bulletti gliel’aveva trafugata senza il minimo riguardo.
«L’avrò persa al Rainbow, possibile?» domandò Joe, visibilmente in ansia.
Era sicuro di averla avuta al collo fino alla sera della retata. Era stata in base a quella che quel soldato lo aveva scambiato per un componente della fazione nemica.
Joe ritornò momentaneamente col pensiero al momento esatto in cui, fuori dal locale, si era scambiato con lui quello sguardo strano; celava curiosità e diffidenza al tempo stesso. Dopotutto era abituato a riceverne: era pur sempre un meticcio.
«Si, ti sarà caduta lì… Magari diamo una controllata domani con gli altri» propose Mario, cordiale. Cercò di sedare sul nascere le sue ansie ancor prima che prendessero il sopravvento.
Joe era molto legato a quella piastrina, era l’ultimo ricordo che gli era rimasto di suo padre.
Il biondo si passò una mano sulla fronte, sbuffando con stanchezza.
«Ti lascio riposare ora».
Mario non fece neanche in tempo ad alzarsi del tutto dal letto, che Joe lo afferrò per la giacca, costringendolo a farlo rimanere seduto.
Mario lo guardò con aria interrogativa, perplesso.
«Mi tieni la mano finchè non mi addormento?» soffiò Joe, gli occhioni azzurri erano languidi, come sempre. Mario lo conosceva bene quello sguardo ferito, ma che celava in sé una forza incredibile. 
«Preferiresti la mia compagnia a quella della tua amichetta?» lo prese in giro Mario, accennando un sorriso. Sdrammatizzare avrebbe sicuramente aiutato a rilassarlo.
In tutta risposta, Joe si spostò dalla sua posizione, invitando Mario a stendersi vicino a lui.
L’altro non batté più di tanto ciglio, tra di loro quello era sempre stato un gesto naturale.
Sia in prigione che alla grande villa, le notti in cui Joe non riusciva a dormire, le aveva passate tutte accoccolato a Mario o a Tadayoshi.
Dei tre era il più piccolo anagraficamente, e si sentiva sempre al sicuro accanto a loro. Nessun orco o creatura mostruosa avrebbe potuto trascinarlo nelle tenebre, se si ritrovava a stringere le loro mani.
Stesosi di fianco al biondo, Mario gli poggiò goffamente la mano guantata sui capelli, imitando ruvide carezze.
Gli riaffiorò in mente l’immagine di Rokurota che con quel suo stesso gesto, aveva cercato di placare l’ennesima crisi di pianto di un Joe quindicenne e in preda a mille paure. 
Anche se lo aveva desiderato con tutto sé stesso, Mario non sarebbe mai riuscito ad emularlo. Inconsciamente, in Tadayoshi lo rivedeva maggiormente, e la cosa lo aveva turbato non poco.
Nel frattempo Joe si era appisolato sulla coscia di Mario, respirando con la bocca semi aperta. Mario continuò ad accarezzargli i capelli, con aria impacciata. Si sentì osservato dagli altri due, che avevano smesso di parlare per osservare cosa stesse accadendo nella stanza. Mario si limitò ad increspare le labbra, infastidito. Stava per sbottare loro che non avrebbe sopportato a lungo quello sguardo insistente addosso, quando Joe chiamò nel sonno suo padre e Rokurota.
«Non te ne andare Rokurota-san, resta qui. Anche tu papà, resta qui con me».
Joe biascicò quella frase mentre una lacrima solitaria gli rigò impunemente la guancia. Tutto il nervosismo di Mario svanì all’istante.
Per certi versi, Joe era ancora quel ragazzino spaventato di allora.
Quel ragazzino pieno di dubbi e incertezze che scrutava il mondo con i suoi occhi chiari e limpidi, macchiati indelebilmente dalla crudeltà degli adulti.
«Credi che dovremmo avvisare il dottor Tenko?» intervenne Noboru, avvicinandosi cauto. Namie rimase dov’era, ferma ad osservare quella scena insolita, con una punta di gelosia nello sguardo.
«Non ce n’è sarà bisogno stasera» confermò Mario, lo sguardo da cerbiatto arrabbiato puntato sul capo dell’amico addormentato.
«Non ti crea fastidio se resto qui, vero?» chiese Mario a Namie, rimasta in disparte. Non aveva alcuna intenzione di chiederle il permesso di restare al fianco di Joe, ma lo fece ugualmente. Dopotutto si trovava pur sempre in casa sua, anche la sua sfacciataggine aveva dei limiti.
«No, fai pure. Se dovesse succedere di nuovo, almeno tu sapresti cosa fare» gli concesse Namie, chiudendosi l’ampia vestaglia sul petto incrociando le braccia sotto il seno.
Mario si limitò ad annuire, rivolgendo nuovamente l’attenzione a Joe, il cui respiro si era fatto regolare.
Le ombre di quell’incubo erano state risucchiate lontano da quella stanza, assieme a quelle di un passato troppo duro da dimenticare.
 

* * *
 

Corri, corri pure. Tanto non andrai da nessuna parte.
Meg correva a perdifiato, intorno a lei c’era soltanto buio. Non c’era nulla di riconoscibile, nulla che potesse aiutarla ad orientarsi in quella nube nera in cui si trovava prigioniera.
Non ci sarà posto in cui non ti scoverò, piccola sgualdrina!
Meg si coprì le orecchie impaurita, digrignò i denti fino a farsi male la mascella. Avvertiva un peso sulle spalle che la schiacciava al suolo, che non le lasciava scampo.
Tu mi appartieni. Tu e il tuo moccioso bastardo!
No! Non ti appartiene! Lui non ti appartiene!
Meg scosse il capo più volte, rabbiosa. La voce di quell’uomo dalle sembianze di un grosso rospo la perseguitava ovunque.
Avrebbe voluto invocare suo padre, aggrapparsi alla sua divisa, nascondersi tra le sue braccia come faceva da bambina…
All’improvviso, delle mani le afferrarono le braccia e le gambe, costringendola al suolo. Meg cercò di divincolarsi, ma era tutto inutile.
Quel buio la stava risucchiando, non aveva scampo.
Qualcuno mi aiuti!...
Una risata cattiva di donna le arrivò ai timpani distorta, sfacciata, senza un vero e proprio motivo.
La tua vita non vale niente, Meg.
No, non è vero. Non è vero!
Sì che è vero! Io ti ho messa al mondo e io posso decidere della tua sorte…
No…
Le lacrime rigarono copiosamente le guance della ragazza, stremata.
Ti prego, papà! Joe… Vi prego, almeno voi, aiutatemi!
 
Meg si svegliò di soprassalto, con il cuore in gola. Aveva il fiatone, e il corpo le tremava vistosamente.
Nascose la testa tra le gambe, cercando di soffocare le urla strazianti. Se avesse potuto, si sarebbe strappata quell'incubo dalla testa a mani nude.
Non appena si calmò, sentì dei piccoli mugugni provenire dalla sua destra: si rese presto conto di aver svegliato Kouki con le sue urla disperate. 
Il bimbo la chiamava tirandole la sottoveste nera. Era come se stesse condividendo il suo stesso stato d'animo. Come se in qualche modo, avesse percepito le sue paure e avesse voluto piangere con lei.
Meg lo guardò con la testa tra le mani, sfinita. 
«E ora cosa ti manca?» chiese Meg a vuoto, con voce rauca.
Si sentiva troppo stanca mentalmente per reggere alle lamentele del figlio.
Il piccolo aveva cominciato ad agitarsi, stringendo sempre di più il tessuto della sottoveste nel suo pugnetto. 
«Mæma!» 
Aveva da poco cominciato a parlare, Lily e le altre ragazze non facevano altro che fargli ripetere vocaboli random, mamma lo aveva appreso quasi subito.
Meg continuò a fissarlo, le sembrava un mostriciattolo intento a disturbarla con i suoi lamenti primordiali. Era il suo mostriciattolo, dopotutto.
Dopo qualche minuto, scattò dal letto come una molla, prese il figlioletto svogliatamente in braccio e uscì dal suo alloggio.
Una volta trovatasi fuori la stanza di Lily, cominciò a battere a palmo aperto sulla porta, sperando di richiamare l'attenzione della più grande. Kouki nel frattempo non aveva smesso un attimo di piangere.
Dalla finestra dell'alloggio vicino, spuntò fuori una delle donne più grandi, Nijiko, intenta a capire da dove provenisse tutto quel baccano.
«Lily-san non c'è, è con il colonnello» le aveva detto la giovane, stringendosi nel suo cardigan rosato. 
«Ti serve una mano Meg?» le chiese poi cordialmente, intuendo in fretta il nocciolo del problema.
Meg imprecò tra i denti, portandosi una mano sulla fronte.
«No, non fa niente. Me ne vado».
Meg non era tipa da elargire troppi convenevoli, era sempre scostante con tutti, e a volte questo creava acredine con le altre ragazze. 
All'altra non rimase che annuire e rientrare, non dopo averle rivolto la buonanotte, sebbene Meg fosse già lontana.
Fuori l'aria era piuttosto rigida, la ragazza si era poggiata uno scialle di lana bianco sulle spalle nude. Kouki lo aveva semplicemente avvolto alla bene e meglio con un altro scialle trovato per caso sull'uscio, lasciato a terra chissà da quanto.
Aveva provato a cullarlo, ma ogni suo tentativo era risultato vano. Questo la rese maggiormente nervosa e agitata.
Il chiacchiericcio in lontananza dei soldati non fece che accrescere il suo malumore, elevandolo ai massimi livelli.
«Dannazione, ma perché non la smetti di fare così?» borbottò Meg in preda alla disperazione più nera. 
Ogni volta che si trovava a cullare Kouki tra le braccia le veniva la nausea. Le faceva piuttosto comodo la presenza di Lily in quei momenti; lei sapeva sempre come prenderlo, come calmarlo. Meg invece perdeva facilmente le staffe, ed iniziava ad urlare più forte di lui, ottenendo poi risultati disastrosi. Reazioni esagerate che la portavano a vomitare e a rannicchiarsi sul pavimento, scoppiando in un pianto isterico.
«Ci sono problemi?»
Meg avvertì quella voce profonda, maschile, alle spalle, e come per riflesso divenne tesa come una corda di violino.
Temeva che Terence avesse trovato il momento giusto per importunarla, per farla incavolare maggiormente.
E dopo l'incubo che aveva fatto non era per niente propensa ad avvicinare ed avvicinarsi a nessuno. 
«Meg, stai bene?» insistette la voce, poggiando una mano sulla spalla di lei, coperta dallo scialle. 
Quel tocco però lei non lo gradì affatto.
«Non mi toccare, stro-*»
Si bloccò immediatamente quando, nel voltarsi, riconobbe la presenza sicura e pacata di Vince. 
Il cuore le si calmò di poco, ritraendosi lo stesso come un gatto arruffato. 
Senza volerlo, si era stretta Kouki al petto con più forza.
«Tranquilla, sono io*» sussurrò l'americano, alzando le mani in segno di resa.
Ma Meg rimase sulle sue, fissandolo con aria di sfida. 
Kouki continuava a lamentarsi senza sosta, riempiendo così il silenzio imbarazzante che si era creato tra loro.
Vince osservò il bimbo dimenarsi tra le braccia della ragazza, piangeva come un ossesso. Più che madre e figlio, al giovane sembravano una bambina imbronciata che si stringeva al petto il proprio pupazzo.
«Che cos'ha?*» chiese, visibilmente preoccupato. 
«Non lo so*» ammise Meg, sconfortata. Probabilmente sarebbe scoppiata in lacrime anche lei, maledicendo il giorno in cui lo aveva messo al mondo.
«Non la smette di piangere! Continua ad urlare come se gli stessi strappando i capelli. Non mi sopporta, per questo fa così! Lo detesto a morte!» 
Meg era talmente infuriata che Vince temette seriamente che lo avrebbe scaraventato a terra senza troppi complimenti.
«Magari ha freddo», provò Vince col suo rustico giapponese, avvicinandosi piano, provando a poggiare la mano sulla testolina nera di Kouki. «O forse avverte il tuo nervosismo. I bambini sono molto empatici, sai? Soprattutto con le loro mamme» il volto di Vince si aprì in un sorriso caldo, cercava di essere gentile.
Meg si ritrasse nell'udire quell'ultima parola. Più che un complimento, lei la percepì come un'offesa, una velata condanna.
Il buio riuscì a nascondere bene il rossore che le si dipinse in faccia. 
«Posso provarci io, se ti fidi! Aiutavo mia madre e le mie sorelle a cullare i miei fratellini più piccoli, me la cavo abbastanza con queste cose!».
Vince sorrideva nell'esporre quel breve resoconto, era un ragazzo di buon cuore e gentile, con Meg lo era in particolar modo.
Ma lei non lo aveva risparmiato da quell'astio che nutriva dentro verso il mondo intero. O meglio, in quel momento stava combattendo contro l'idea che si voleva far largo di cederglielo, non per sfinimento, ma per curiosità. Curiosità nel vederlo cullare Kouki, vedere che espressioni avrebbe fatto e che cosa avrebbe pensato e detto. 
«I don't want your mercy» mormorò con durezza. Lo sguardo cristallino sembrava aver assunto sfumature oscure.
Vince rimase interdetto a quella frase, pronunciata in un perfetto inglese, tra l'altro.
Non voglio la tua pietà.
Tuttavia, il soldato insistette ancora una volta, porgendogli in silenzio le sue braccia muscolose.
«It’s not mercy. I would really like to help you».
Per un brevissimo istante, Meg ricordò quanto calore avesse provato tempo prima, stretta in quelle braccia. Quanto amore avesse percepito, quanta protezione l’avesse investita.
Ancora persa in quel ricordo, affidò il bambino ancora piangente all'altro, che lo prese saldamente, aprendo il volto in un grande sorriso.
Meg li osservò imbronciata, stringendosi nel suo scialle bianco. L'aria frizzantina della sera le aveva fatto accapponare la pelle delle gambe nude.
Quel particolare a Vince non sfuggì affatto.
«Perché state qui fuori al freddo?» chiese, incuriosito.
Meg avrebbe preferito rispondergli che non erano fatti suoi, ma preferì tacere.
«Non ci voglio tornare lì dentro. I'm afraid of nightmares» rispose invece, facendo spallucce. 
Vince annuì confuso. Kouki si stava pian piano calmando, sostituendo al pianto leggeri mugugni.
«Sarei uscita fuori da sola, ma... lui non mi lascia in pace» continuò Meg mesta, umettandosi le labbra.
Vince rivolse uno sguardo dolcissimo al bimbo che stringeva tra le braccia. Due grandi iridi azzurrine lo fissavano incuriosite, afferrando con una manina la camicia verde scura del soldato che lo sorreggeva.
Quasi gli stesse ordinando implicitamente di metterlo giù, perché voleva tornare ad infastidire la sua mamma.
Vince avvicinò il suo naso a quello più piccolo di Kouki, sfregandoglielo appena. Il bimbo sbuffò a quel gesto.
«Ama dare fastidio come te» la prese in giro Vince, schioccandole un occhiolino.
Meg gli rivolse invece uno sguardo glaciale, incrociando le braccia al petto.
«Fuck off» ringhiò lei, tra i denti.
«Provaci tu a stare una giornata intera dietro ai suoi capricci e alle sue grida! Non dureresti nemmeno mezzo secondo».
Meg aveva alzato il mento con sufficienza, proprio a sottolineare l'inettitudine di Vince davanti a quell'eventualità.
Il marine scoppiò a ridere in risposta.
«Beh, puoi sempre guidarmi tu! Chi meglio di te, che sei la sua mamma e lo conosci bene?»
Non voleva essere una presa in giro, o un’offesa, ma Meg la percepì come tale, rabbuiandosi ulteriormente.
«La smetti di ripetere quella parola? Io non-»
Non mi considero affatto una madre. 
Non so cosa significhi essere mamma.
«-non credo di essere la persona più adatta per questo».
Meg indietreggiò, spostando lo sguardo altrove, oltre il recintato.
Kouki sbadigliò stiracchiando le piccole braccia, accoccolandosi placido tra le braccia di Vince, sereno come un piccolo re.
In lontananza, un gruppo di cinque soldati chiacchierava davanti alla palestra militare, bevendo e fumando. Uno dei loro cani abbaiò contro un rumore molesto avvertito per caso fuori dalla base.
«Dovresti rientrare. Il tuo bimbo non può prendere freddo» le ordinò con un leggero tono fermo.
Ma Meg rimase ostinatamente lì sul posto, a braccia conserte, stretta nel suo scialle.
«Portacelo tu, visto che ti piace tanto» borbottò con voce instabile.
«Tanto non è una novità per te giocare alla balia o mi sbaglio?».
Meg gli diede le spalle, non ebbe il coraggio di vedere l'espressione che gli si sarebbe dipinta sul viso a quella provocazione. 
Normalmente sapeva sputare veleno verso chiunque, senza provare alcun tipo di rimorso. Con Vince non riusciva ad avere lo stesso distacco. Lui la rendeva debole, più nervosa ed esposta, proprio come suo figlio. Qualsiasi sentimento strano provasse nei loro confronti, Meg aveva affermato a sé stessa che si trattava semplicemente di puro odio. Un odio così profondo da risultare, in qualche modo contorto, qualcosa di simile all'affetto.
Li odiava, perché semplicemente non sapeva come amarli. 
Non lo voleva fare, perché ogni volta che aveva amato, aveva perduto tutto. A cominciare da suo padre e suo fratello. L'amore li aveva consumati, li aveva annientati. Aveva preferito di gran lunga sua madre e le sue prepotenze, almeno non aveva corso il rischio di affezionarsi.
Vince colse quella frecciatina scoccata a tradimento, ma fece finta di nulla.
Sapeva a cosa Meg stesse alludendo.
«Lo so che sei stato tu a soccorrermi l’altra sera, e a mettere a dormire Kouki. Non capisco perché tu debba prodigarti tanto per me e poi comportarti come se nulla fosse. Non hai nessuna responsabilità nei miei confronti».
Impercettibilmente, Vince si strinse Kouki un po' più vicino al petto. Il bimbo strofinò il viso paffuto nella casacca militare di Vince, completamente a suo agio.
«Se non vuoi tornare nel tuo alloggio, allora venite nella mia stanza».
Meg si decise a dargli la sua completa attenzione, di fronte a quell'offerta.
«Ma non sei di guardia? E i tuoi superiori, cosa direbbero?» chiese lei, sulla difensiva.
«Non ci vorrà molto» tagliò corto Vince, e le diede subito le spalle, dirigendosi verso la propria stanza assieme a Kouki.
Le gambe di Meg si mossero come attratte da una calamita molto forte.
 
Kouki si era addormentato dopo qualche ora, cullato dalle braccia possenti del soldato.
Meg si era rannicchiata come una gatta sul materasso sfatto. Non si era persa nemmeno un attimo di quella tenera scena davanti ai suoi occhi.
Vince canticchiava Twinkle little Star a voce bassa, stonando in alcuni punti. Il viso pienotto del bambino era rilassato, perso nei suoi dolci sogni.
L'ombra di un lieve sorriso apparve sul bel viso di Meg. 
Anche lei da bambina si addormentava così tra le braccia di suo padre.
Immaginò che sarebbe stato felice di cullare anche il proprio nipotino, canticchiando canzoncine straniere con quella voce grossa e stonata, ma calda e gentile.
«Sei fin troppo paziente tu» constatò Meg, stringendosi nel suo scialle pesante.
Vince le sorrise, avvicinandosi a lei.
Poggiò il bambino sul suo letto, spostando le coperte. 
Meg si era chiesta del perché Vince si sprecasse in così tante inutili premure.
Lui non le doveva niente, lei non le aveva chiesto nulla, non aveva avanzato nessuna pretesa o aspettativa.
Per quanto le riguardava, le andava bene anche la sua sola presenza per rendere quel posto abbastanza accettabile e vivibile. 
«Visto? Adesso dorme come un ghiro» esclamò Vince, sistemando le coperte sul corpicino addormentato.
Gli regalò una carezza ruvida sulla fronte, con gli occhi sembrò baciargliela con affetto.
Improvvisamente Meg avvertì una strana sensazione alla bocca dello stomaco a quella vista.
Una sorta di fastidio misto ad una voglia incontrollata di coccole e affetto.
«Perchè ci sai fare, a quanto pare» soffiò Meg, distogliendo lo sguardo, infastidita.
Sulla guancia accaldata, avvertì il tocco ruvido delle dita di Vince. Le accarezzò piano la guancia. Era un gesto innocente, privo di alcun fine.
«Dovresti smetterla di fare il broncio. Sei più bella quando sorridi» fece lui, teneramente. Le dita che ancora le accarezzavano la guancia con una dolcezza tale da farle sciogliere qualcosa dentro. Meg ringraziò il cielo di ritrovarsi già seduta.
Ma due secondi dopo, per tutta risposta, decise di alzarsi di scatto dal letto, facendosi scivolare dalle spalle lo scialle bianco, che cadde morbidamente sul pavimento.
Si ritrovarono presto vicini, l'uno davanti all'altro.
Una distesa d'acqua azzurrissima che s'infrangeva nell'immensa pianura verdeggiante dello sguardo del giovane marine.
Meg osò poggiare le mani tremanti sul suo petto, il fiato le si mozzò in gola.
Vince seguì quel gesto in silenzio, serrando la mascella.
«Baciami» soffiò Meg sulle labbra dell'altro, poco prima di rubargli un bacio lieve a tradimento.
Le mani scivolarono verso i bottoni della camicia, con l'intento di aprirla e rivelarle la canottiera che indossava al di sotto.
Vince rispose debolmente a quel bacio, stanco di tutta quella finta indifferenza che si era imposto nei suoi riguardi.
Meg sentì la sua grande mano massaggiarle la schiena, si sentì spingere verso il corpo caldo dell'altro, attratta come una calamita. 
Per riflesso, prese l’altra mano di Vince e se la portò tra le cosce nude. Desiderava essere toccata da quelle dita, voleva sentirle muovere dentro di sé, fino a farla impazzire, fino a perdere quel poco di dignità che le era rimasta.
Ma Vince ritrasse la mano e si scostò dal bacio, come risvegliatosi da un incantesimo.
Meg lo guardò interdetta, non capì dove avesse sbagliato o cosa avesse fatto di così increscioso.
«Meg, non possiamo» sussurrò Vince, rosso in viso. «Il bambino...»
«Il bambino dorme! Io sono sveglia invece, e ti voglio con tutta me stessa!» ruggì in risposta la ragazza, quasi in procinto di piangere.
Lo sguardo della ragazza era diventato profondo, perso in un mare di sfumature bluastre e intense.
Aveva dovuto appellarsi a tutte le sue forze per confessargli ciò che covava dentro di sé, quell’istinto animale che non riusciva a placare né andando a letto con tutti i soldati della base, né bevendo alcool a fiumi.
Anche lo sguardo smeraldino di Vince si era incupito dal desiderio. Ma non avrebbe ceduto. Non poteva, e non voleva.
«Possibile che non ti venga mai voglia di trascinarmi qui nella tua stanza? Di strapparmi i vestiti di dosso e di non farmi avvicinare a Terence neanche per sbaglio?».
Sì, Vince la voglia di trascinarsela nella stanza e fare l'amore con lei ce l'aveva avuta eccome. Come anche la voglia di riempire di pugni la faccia di Terence, e levargli quei sorrisetti maliziosi dalla faccia, mentre lo sentiva etichettare Meg come una puttanella da quattro soldi che si lasciava fare di tutto.
«Non sono venuto qui per portarmi a letto la prima donna che mi capita a tiro» gli concesse Vince, apatico.
«Due anni fa non la pensavi così, però! O hai dimenticato tutto?».
Vince si sentì con le spalle al muro, ma non glielo diede a vedere. Sarebbe morto prima che fosse accaduto.
«Le cose cambiano, Meg».
Non era vero niente, non era cambiato niente nel suo cuore.
Continuava a guardare Meg come la ragazza timida ed indifesa che aveva incontrato in quel night club, a desiderarla come allora.
Meg non smise di fissarlo, a muso duro.
«Allora evita di fare tanto il galante con me o con il bambino! Te l'ho già detto, non la voglio la tua stupida pietà!» incalzò lei, cercando di allontanarsi. Ma Vince fu più lesto di lei: dopo essersela tirata a sè, la baciò con trasporto, andando volutamente contro tutti i suoi muri e i suoi principi.
Meg strinse tra le dita la stoffa della casacca, aggrappandovisi come ad una scialuppa di salvataggio.
Le labbra si morsero a vicenda, cercandosi e scontrandosi le une contro le altre, dando vita ad una danza tribale molto animata e sentita.
Poi Meg si sentì afferrare il viso, e soffrì la lontananza dalle labbra di lui. Afferrò i polsi di Vince per liberarsi dalla sua presa, ma non ottenne alcun risultato.
«Non farmi questo, Meg» supplicò il soldato, ansimando a pieni polmoni.
Se la tirò contro, stringendola in un abbraccio pregno di scuse silenziose, che Meg non ricambiò, ostinata. Rimase rigida come un tronco, combattendo contro la voglia irrefrenabile di poggiare la fronte sulla sua spalla. Serrò i pugni per disperazione.
«Io... non... I'm so sorry. Forgive me
Fu tutto quello che Vince riuscì a dirle.
Non posso farti questo.
Tu sei molto di più che un giocattolo da usare e buttare via.
Dopo aver sciolto l’abbraccio, con le mani indugiò cauto sulle spalle nude di lei. Nell'impeto di poco prima, la spallina della sottoveste era caduta, mostrandogli il seno sinistro piccolo ma perfettamente tondo. Vince avrebbe voluto sfiorarlo con una carezza, ma serrò il pugno al solo pensiero. 
Meg, dal canto suo, non fece nulla per sistemarsi davanti a lui. Sentì che non ne sarebbe comunque valsa la pena.
Tanto lui non l'avrebbe guardata. O almeno, non come lei avrebbe desiderato.
Vince la superò di fretta, uscendo dalla stanza ad ampie falcate. 
«Potete restare qui a dormire, non vi disturberà nessuno» dichiarò il marine, poco prima di richiudersi la porta alle spalle.
Meg rimase immobile, avvertì un forte nodo alla gola che le impediva di respirare correttamente.
Non voleva piangere, ma quelle maledette lacrime uscirono ugualmente, bagnandole indecorosamente le guance. 
Perchè non mi vuoi? 
Perchè ti faccio tanto schifo?
Meg non poteva neanche immaginare quanto in realtà Vince la desiderasse e l'amasse con tutto sé stesso. Due anni non sarebbero bastati a cancellare i ricordi di un sentimento tanto forte quanto prezioso.
Il senso d'impotenza che provava tutte le volte che la vedeva civettare con i suoi compagni, e i continui giochi seduttivi che lei attuava con Terence e qualche altro soldato, lo facevano uscire di testa più del normale. Ma aveva preferito far finta di nulla, sorvolare su tutto, piuttosto che farsi prontamente il sangue amaro per ogni piccola cosa.
La boxe era stata una perfetta alleata in questo. Lo aveva aiutato a distrarsi e a sfogare la rabbia e l’indignazione sferzando ganci destri alla sacca da boxe, allenandosi con i suoi compagni di turno.
Meg si strinse nelle braccia, soffocando un singhiozzo. Mai come in quel momento avrebbe desiderato l'abbraccio caldo e amorevole di Lily.
A lei non aveva detto niente di Vince, non lo aveva detto a nessuno. Temeva che il solo parlarne avrebbe rovinato tutto, avrebbe perso tutta la sua magia. Avrebbe percepito quei sentimenti sfuggirgli tra le dita come piccoli fili di seta.
S'inginocchiò al suolo, distrutta dentro.
Le lacrime trasformate in fiumi esondati. 
Il calore di quella stanza lo detestava, sentiva di non meritarlo nemmeno un po'. 
Alzò infine lo sguardo verso il suo bambino, che dormiva nel letto di Vince, ignaro di tutto.
Accasciatasi sul bordo del letto, col viso rivolto a Kouki, Meg allungò due dita e accarezzò la sua manina sporgente. 
Gli invidiava quel sonno profondo e placido, quella tranquillità tutta infantile che nei bambini di quell’età era piuttosto comune.
Meg si chiese se anche suo padre o Joe si fossero soffermati ad osservarla così quando era piccola, quando era ancora troppo presto per cadere vittima degli incubi.
Impercettibilmente, Meg strinse le sue dita attorno a quella manina indifesa. Se solo ripensava a come quel pugnetto aveva stretto con forza la sua sottoveste e la camicia di Vince, le veniva da ridere. 
Così piccolo, e già così forte e caparbio.
Meg quella sera si rese conto di vedere suo figlio per la prima volta, una creatura bellissima e fragile in apparenza, ma che sarebbe diventata forte e testarda col tempo.
Meg appoggiò il viso accanto al pancino di Kouki, udì il suo respiro ritmato e veloce, ma rilassato, tranquillo.
«Non ti ringrazierò mai abbastanza, amore mio».
In un altro momento, Meg avrebbe dato la colpa all'alcool per quella confessione inaspettata, uscitale dal cuore senza permesso. 
Ma si limitò a chiudere le palpebre, continuando a stringere le dita nella manina del figlioletto.
E intanto sognò un giovane dai capelli neri e gli occhi verdissimi, la postura allenata e il sorriso magnetico.
Si rivide persa nei suoi abbracci, e le sembrò udire un soffiato I love you tra i capelli, come una carezza gentile.
Non ti ringrazierò mai abbastanza per questo piccolo dono che mi hai lasciato. Anche se non lo merito affatto.
In quella stanza, neanche il ricordo terribile del suo passato avrebbe potuto ferirla.
 

* * *

 
La ricerca della piastrina militare fu più ardua del previsto, e non portò a nessun risultato soddisfacente.
Joe mise a soqquadro il Rainbow, insieme ai tre fratelli Yoshida e a Mansaku, ma la piastrina di suo padre non era saltata fuori da nessuna parte.
«Ma sei proprio sicuro di averla persa qui?» chiese Mansaku, detergendosi il sudore dalla fronte con la propria maglietta.
Joe si portò le mani sui fianchi, sfiancato anche lui da quella ricerca sconclusionata.
«Non saprei in quale altro posto avrei potuto perderla» esclamò, con una punta di disperazione nella voce. 
Facendo mente locale, Joe era arrivato alla conclusione che doveva averla perduta la sera della retata al Rainbow, in mezzo a tutto quel trambusto.
«Perchè non proviamo a chiedere se al New Japan l'hanno vista? Ci siamo esibiti lì qualche sera fa, ricordi?» propose Wakao, assottigliando lo sguardo.
Joe scosse il capo, risoluto.
«Ci siamo esibiti lì due sere prima che avvenisse la retata, e sono sicuro di essere uscito da lì con la piastrina ancora al collo» affermò il meticcio, schioccando la lingua con disappunto.
«Daisy invece? Ti ha dato novità?» domandò Junko, sistemando una sedia.
Joe scosse il capo, sconfortato.
Proprio in quel momento, la porta del Rainbow si aprì, facendo sobbalzare tutti i presenti. Ma nel riconoscere Tadayoshi, tutti sospirarono dal sollievo, tranne Joe. Il pensiero di non ritrovare quella maledetta piastrina lo rendeva terribilmente teso.
«Buonasera ragazzi!» salutò Tadayoshi con cordialità, ricambiato da Mansaku e Junko. Wakao e Shigeo si limitarono ad osservare i due soldati che l'uomo si era portato dietro.
«B-buonasera! Siamo i sottoposti del capitano! Io sono Shunichi Iwasaki, soldato semplice, e lui è Katsuya Hitomura, anche lui soldato semplice! Ed anche mio amico, si capisce!»
Iwasaki si sentì in dovere di buttare fuori tutta d'un fiato quella strampalata presentazione, accompagnandola con una pacca sulla spalla abbastanza fragorosa alla volta del povero Katsuya, rigido come una statua.
«Da quando in qua siamo amici, io e te?» sbuffò Katsuya, visibilmente imbarazzato da quello slancio d'entusiasmo infantile, tipico di Iwasaki.
«Perché, vuoi forse dire che non lo siamo?» esclamò Shunichi, guardandolo fisso in faccia sgranando gli occhi come un bambino appena rimproverato dal fratello maggiore.
«Su voi due, smettetela di fare chiasso! Sedetevi ad un tavolo, io vi raggiungo subito» ordinò Tadayoshi, con il suo solito fare duro, che ricordava più un rimprovero paterno che un ordine vero e proprio. I due ragazzi annuirono e si avvicinarono al tavolo accanto al finestrone che affacciava sulla strada.
«Non a quel tavolo, ragazzi!» si affrettò a bloccarli Junko, lesta.
«Quel tavolo è riservato alla signora Chieko Miyasugi. Viene qui tutte le mattine a fare colazione, e non vuole che il suo tavolo venga occupato in sua assenza» spiegò la ragazza, intenta a scusarsi a capo chino. 
Nel sentire quelle parole, Tadayoshi si voltò sorpreso verso i tre ragazzi.
«Hai detto "Chieko Miyasugi", Junko? Vuoi dire che...»
«La nobile Chieko Miyasugi si reca qui a fare colazione la mattina? Lo trovo alquanto inverosimile!» esclamò Katsuya, bloccando sul nascere la curiosità che Tadayoshi stava per esporre.
«Cosa vorresti insinuare?» s'intromise il piccolo Shigeo, gonfiandosi il petto con orgoglio. «Mica ci vengono solo i delinquenti qui da noi?» aggiunse impettito, aggrottando la fronte.
Junko lo zittì con uno sguardo, invitando i due ragazzi a scegliere un altro tavolo e a soprassedere alle parole del fratello minore.
I ragazzi non protestarono oltre, e si lasciarono guidare dalla ragazza verso una nuova postazione.
Appoggiato al bancone, Tadayoshi era rimasto di sasso nell'apprendere quella novità. Non sapeva se ridere o preoccuparsi all'idea che la nonna di sua moglie si recasse lì, tutta impettita, a sedersi a quel tavolo, sorseggiando il suo thè speziato con fare elegante in compagnia della sua governante, nonostante i suoi quasi ottant'anni suonati.
Gli venne da chiedersi se Mina fosse a conoscenza di quella storia. Probabilmente lo sapeva, ma non aveva avuto modo di comunicarglielo. D'altronde negli ultimi tempi, Tadayoshi aveva trascorso più tempo in caserma che in casa, e al rientro le studiava tutte pur di non avere chissà quante interazioni con lei. Il solo pensiero di non riuscire a resistere a quella scia profumata di lavanda che Mina lasciava dietro di sè, per poi pentirsene amaramente, faceva precipitare Tadayoshi in un tormento continuo, senza attimi di pace.
«Ryuji sta ancora stampando i documenti, saranno pronti tra pochi minuti» lo informò Mansaku, a bassa voce, distogliendolo dai suoi pensieri.
«Perchè ti sei portato i tuoi uomini dietro? Lo sai che è rischioso se ci scoprono» suggerì poi, con aria allarmata.
Tadayoshi agitò la mano sinistra come a scacciare un insetto fastidioso dalla faccia.
«Avevano semplicemente finito il turno, e gli ho chiesto se volevano venirsi a bere un goccio qui. Sono innocui, non sospetteranno nulla» lo tranquillizzò Tadayoshi, risoluto.
Il suo sguardo poi ricadde su Joe, intento a rovistare nella custodia degli strumenti musicali insieme a Wakao, trafelato.
«Che cos'ha Joe?» chiese corrucciato.
Mansaku sospirò con enfasi prima di dargli una risposta sensata.
«Ha perso la piastrina di suo padre. Non riusciamo a trovarla da nessuna parte» rispose mortificato, come se il danno lo avesse commesso lui in prima persona.
Tadayoshi emise un ringhio gutturale, cercando di registrare prontamente l'informazione. 
Tutti loro erano a conoscenza dell'importanza di quella piastrina. In particolar modo lui e Mario ne avevano ricevuti cazzotti pur di difenderne l'incolumità, sia in prigione che fuori. Sapevano quanto Joe ci tenesse, quanto prezioso fosse per lui l'ultimo ricordo che suo padre gli aveva lasciato.
«L'ha persa oggi?» indagò, con aria seria.
«Mario si è accorto ieri sera che non la portavo più al collo» s'intromise Joe, avendo ascoltato il dialogo dei due amici.
«Sto così fuori di testa in questi giorni che non mi sono neanche reso conto di averla persa! Sono un coglione!» si diede in testa il meticcio, grattandosi nervosamente il capo. Sulle prime, Tadayoshi si stupì di quanto Mario riuscisse ad essere tanto perspicace a volte, tanto da notare particolari a cui nessuno darebbe importanza sul momento. Nonostante il comportamento burbero ed indomito, Tadayoshi dovette ammettere che per Mario non esistevano segreti di nessuna natura. Probabilmente aveva intercettato qualcosa anche riguardo alla sua turbolenta situazione con Mina, e se non aveva affrontato l'argomento in sua presenza, era soltanto per accortezza nei suoi riguardi. Quando decideva di portare rispetto a qualcuno, Mario lo faceva fino in fondo. Così come il contrario, di conseguenza.
«Sta' tranquillo, Joe! Non può essersi volatilizzata in un batter d'occhio! Sarà sicuramente qui, da qualche pa-»
«Scusate l'intrusione».
Tadayoshi, Mansaku, Joe e Wakao si voltarono sorpresi verso il giovane soldato che si era intrufolato nella loro conversazione.
Joe era stato talmente impegnato nella sua ricerca, da non far caso minimamente a chi fosse entrato assieme a Tadayoshi.
Quando si era accorto che erano due facenti parte delle Forze Armate, era rimasto un attimo atterrito, sulla difensiva. Gli puzzava il fatto che quei due fossero venuti al Rainbow di loro spontanea volontà. Qualcuno avrebbe potuto ordinare loro di sorvegliare Tadayoshi in incognito, poteva essere che dalla sera della retata qualcuno si fosse accorto di qualche suo movimento sospetto.
Ma non appena lo riconobbe, Joe sgranò gli occhi più del necessario.
Quel giovane soldato era lo stesso che aveva sorpreso lui e Namie in cantina durante la retata.
«Mi è sembrato di capire che state cercando una piastrina» affermò Katsuya placidamente, con un lieve tremolio nella voce. 
«Esatto, sì! Il mio amico Joe l'ha persa, ci tiene così tanto! Apparteneva a suo padre» buttò fuori di fretta Mansaku, ricevendo prontamente l'occhiataccia storta di Joe, Tadayoshi e Wakao. 
Mansaku comprese di aver parlato troppo, e si ammutolì all'istante, grattandosi la fronte con l'indice, imbarazzato.
Senza perdersi in chiacchiere, Katsuya estrasse dal marsupio che portava legato alla cintola una catenina metallica, da cui pendeva una piastra rettangolare. Su di essa vi era inciso un nome e dei numeri.
«Potrebbe essere questa?» chiese Katsuya, porgendo l'oggetto ad un Joe privo di fiato. Era proprio la piastrina di suo padre, non c'erano dubbi. Il graffio sull'estremità ne era una prova inconfutabile.
Joe la prese tra le mani, sfiorando inavvertitamente le dita dell'altro. Avvertì una strana scossa nel cuore a quel gesto, un sentore molesto, familiare. Le ginocchia, per un solo singolo istante, avevano tremato impercettibilmente.
Quando lesse il nome di suo padre inciso sulla piastrina, Joseph Jakowsky, per poco non gli scappò un urlo di gioia.
«È proprio lei! Non posso crederci!» esclamò Wakao, scuotendo energicamente il braccio di Joe. L'acquamarina dei suoi occhi era in tumulto dinnanzi a tale spettacolo.
«Come mai ce l'avevi tu?» chiese Tadayoshi, ancora sbigottito di fronte a quella risoluzione inaspettata.
Katsuya abbassò il capo, le guance gli si colorarono di un lieve porpora.
«Era a terra, vicino alle scale che portavano alla cantina. Gli era caduta proprio mentre stavamo risalendo, dopo che avevamo perquisito lui e la ragazza.
Mi trovavo dietro di lui, l'ho raccolta e ...»
Ho avuto paura di incrociare di nuovo i suoi occhi.
«... e non ho fatto in tempo a restituirgliela. Poi, durante il trambusto, l'ho perso di vista. E alla fine, me la sono tenuta.»
Era preso dalla sua amica, sarei stato di troppo.
«Non avrei dovuto. Ti chiedo scusa»
Katsuya riportò i fatti con precisione, mentre manteneva lo sguardo puntato a terra, strofinandosi convulsamente le mani. Come a voler cancellare il ricordo tattile delle dita di Joe dalle sue.
«Te ne sono grato! Ti ringrazio infinitamente!» esclamò Joe, ancora euforico dopo il ritrovamento della piastrina.
«La prossima volta, vedi di stare più attento» borbottò in risposta Katsuya, e con le mani in tasca, si allontanò dal gruppo per raggiungere Shunichi, che stava seguendo la scena a distanza.
Tadayoshi ipotizzò immediatamente che fosse stato lui a spingere Katsuya a farsi avanti, conoscendo il suo carattere schivo.
Joe lo seguì con lo sguardo, si sentiva decisamente più sereno in quel momento.
«Ordinate tutto quello che volete, Tada, offro tutto io» si sbilanciò entusiasta il biondo, mentre Wakao lo aiutava ad allacciarsi la catenina al collo.
«Non ci pensare neanche! Semmai dovrei essere io a offrirti da bere per l'ansia che ti ho involontariamente procurato!» ribatté Tadayoshi, bonario.
Proprio in quel momento, Junko gli si accostò con naturalezza, porgendogli una busta gialla di media grandezza.
«La ricetta per vostra moglie è pronta, Tooyama-san» esclamò lei, facendogli l’occhiolino.
Tadayoshi prese la busta in silenzio, ringraziandola con un cenno del capo, dopodiché la nascose nella tasca interna della giacca.
Mansaku buttò inavvertitamente l'occhio sui due soldati, intenti a chiacchierare e a sorseggiare la loro birra scura. 
«Sei sicuro di poter andare tu dal dottor Tenko? Joe darebbe meno nell'occhio, visto che è suo paziente».
La presenza dei due soldati rendeva Mansaku più inquieto del solito.
«Ci penserà Setsuko a consegnargliela. Lei può incontrarlo facilmente in ospedale.
E poi quei documenti servono urgentemente» tagliò corto Tadayoshi, alzandosi dallo sgabello su cui si era momentaneamente appoggiato. Setsuko non amava particolarmente impicciarsi in quegli affari, ma era stata una questione piuttosto urgente, improvvisa. Tadayoshi si era solo ritrovato in mezzo.
Il fatto che poi si fossero uniti all'uscita anche Shunichi e Katsuya era stata semplicemente pura casualità.
«Tadayoshi sa quello che fa, Mansaku» affermò Joe, sicuro di sé. Con la piastrina di suo padre di nuovo tra le mani, si sentiva nuovamente al sicuro, aveva ritrovato il suo equilibrio. Tuttavia non riuscì a distogliere lo sguardo dal giovanotto dall'aria imbronciata che gli aveva restituito la catenina. Per un brevissimo istante, il mare nero e opaco delle pupille di Katsuya s'infranse fragorosamente nel lago cristallino dello sguardo di Joe. Quest'ultimo accennò nuovamente un sorriso, ancora grato del gesto, seppur goffo e impacciato. Quando vide però che l'altro non rispose a quel sorriso, come accadde la sera della retata, uno strano senso di colpa invase completamente il cuore di Joe.
«Proviamo un po' prima che torni papà?» gli propose Wakao, distogliendolo dai suoi pensieri. 
«Sì, certo, prendi la chitarra!».
E mentre Joe aveva finalmente deciso di dargli le spalle, Katsuya tornò a fissarlo timidamente. Le dita strinsero un po' troppo forte attorno al vetro del bicchiere.
 

* * *

 
Il fumo di sigaretta nella stanza aveva creato una cappa visibile ad occhio nudo.
Meg era stesa dando le spalle a Terence, persa nei suoi pensieri.
Il marine invece era steso supino alla sua sinistra, intento a fissare il soffitto mentre fumava con aria soddisfatta.
Il braccio destro era bloccato sotto la testa della ragazza, ma pareva non preoccuparsene molto a riguardo.
«Certo che sei una continua sorpresa per me, bambolina» dichiarò Terence, compiaciuto di sè.
«Quando vuoi, ci dai dentro alla grande! Sono proprio curioso di sapere chi ti ha insegnato certe cose...», continuò, avvicinandosi all'orecchio di Meg con fare da predatore. 
La ragazza, dal canto suo, non era molto disposta a dargli chissà quanto retta.
«Ti ho seguito solo perchè Mieru non avrebbe potuto accontentarti. Lily le ha ordinato riposo tassativo, non so bene perchè. Tanto per te, una vale l'altra» disse Meg con aria apatica, estraniata. 
In parte era vero, Meg era intervenuta dopo aver visto Terence ronzare attorno a Mieru con aria lasciva. Sapeva dell'operazione a cui era andata incontro, tra le ragazze non esistevano segreti. Aveva anche sentito che Lily le aveva consigliato di non avere rapporti intimi in quelle due settimane. Siccome Mieru era la più piccola tra le ragazze lì presenti, faticava a dire di no davanti alle lusinghe dei soldati, soprattutto se poi la riempivano di paroloni, facendo commenti sui suoi vestiti, i suoi capelli, il suo sorriso...
Meg quelle tattiche aveva imparato a conoscerle bene, tanto che ormai non le facevano più alcun effetto.
Si alzò lentamente dal letto, liberando il braccio di Terence, che si era ormai intorpidito.
«Te ne vai già?» si lamentò l'americano, spegnendo la cicca sul bordo della testiera di metallo.
«Devi dare la pappa al tuo bebè?» La prese in giro poi, con una leggera punta di cattiveria.
Per la prima volta dopo ore, Meg gli rifilò uno sguardo glaciale, duro. Se fosse stata in possesso di zanne ed artigli probabilmente lo avrebbe assaltato come una gatta in preda ai suoi istinti primordiali.
«O vai a piangere da Vince e lo supplichi in ginocchio fino a quando non te lo ficcherà da tutte le parti?» 
Il soldato era talmente tronfio e sicuro di sè, da provocare in Meg una fortissima nausea.
«Dammi retta, quello pensa soltanto alla boxe. Sa fare l'uomo solo quando mena qualcuno sul ring».
«Questo lo dici tu!» ribatté placida Meg, sistemandosi il vestito viola sui fianchi, lo sguardo imbronciato puntato sul pavimento. 
«Parli solo per invidia» sibilò poi, ricambiandolo con la sua stessa moneta.
Ma Terence non stette troppo alla sua provocazione.
«Fattene una ragione, le cattive ragazze come te non gli interessano» rispose piccato Terence, alzandosi con il busto nudo dal materasso. 
Meg si limitò soltanto a guardarlo, con disprezzo. Alla fine, era uguale a tutti gli uomini che lo avevano preceduto, si dava arie da playboy e riteneva di possedere il mondo ai suoi piedi. A persone del genere bisognava solo lasciarglielo credere, questo era il pensiero ricorrente che aiutava Meg a non rimuginare troppo e a non uscirne provata ogni volta.
«Sai quanto m'interessa del suo giudizio!», e afferrato lo scialle nero, uscì dalla stanza senza minimamente salutarlo o degnarlo di uno sguardo. Il cuore troppo ferito per poter reggere a quella sua stessa bugia senza subirne le conseguenze.

Le ragazze cattive come te non gli interessano.
Sai quanto m'interessa del suo giudizio.
Stretta nel suo scialle, Meg tornò più volte col pensiero a quelle parole. 
Vagava per il campo senza meta, mordendosi l'interno delle guance per trattenere le lacrime dal nervoso. Neanche il sole primaverile riusciva a scaldarla.
Era più che consapevole del fatto che si era fatta avanti con Terence non solo per l'incolumità di Mieru, ma anche perché la rabbia che covava dentro da quella sera la stava divorando viva. Il rifiuto di Vince non l'aveva lasciata indifferente. Lo stomaco e il fegato le torcevano al solo ricordo. 
Aveva avuto bisogno di sfogare in qualche modo, e Terence le aveva servito l'occasione perfetta su di un piatto d'argento. 
Le veniva da ridere se pensava che le era risultato piuttosto facile fingere il piacere con lui. Terence si dava così tante arie riguardo alle sue fantastiche prestazioni, da convincersi ad essere il migliore degli amanti mai esistiti. 
O forse non era davvero lui il problema.
Il problema probabilmente era proprio lei, perché dopo Vince nessuno era riuscito a farle toccare il cielo con le dita e a darle quella sensazione di benessere e protezione che l'avevano fatta sognare senza imporsi dei limiti. Sognare una speranza, un futuro diverso.
Quel pezzo di futuro a cui si era aggrappata quando aveva scoperto di essere rimasta incinta.
Probabilmente aveva continuato ad aggrapparvisi anche dopo la nascita di Kouki, senza volerlo.
Era troppo spaventata dal mondo per poter ammetterlo senza difficoltà.
In quel momento avrebbe solo voluto tornare nella sua stanza, chiudere gli occhi e dormire, dimenticandosi del suo cuore spezzato non solo dall'amore, di Vince, di Kouki, di chiunque le ronzasse intorno. Era stanca e avrebbe solo desiderato sparire per un po'. 
Nel voltare lo sguardo, Meg si accorse di trovarsi nelle vicinanze della palestra militare. Il pensiero che Vince si stesse allenando lì dentro, le fece salire la voglia di scappare via a gambe levate. Ma dopo qualche attimo, pensò invece che avrebbe potuto sfruttare la situazione a suo vantaggio. 
Materializzò in mente la goduria che avrebbe provato nel vedere dipinta la gelosia sul volto di Vince, sempre se avesse abboccato al suo amo.
Quell'idea la stuzzicò a tal punto da desiderare ardentemente quella piccola rivincita personale.
Voglio proprio vedere se le ragazze cattive ti piacciono oppure no, pensò Meg, con un sorrisetto malizioso stampato sulle labbra.
 
«Mantieni il mento alto! Il gancio è troppo basso!»
La voce tonale di Jimmy Brown risuonò per tutta la palestra, superando addirittura i rumori dei pugni sferrati contro le sacche da boxe. 
Mario ammirava tutta quella tempra, quel suo fare calmo che all'occorrenza riusciva ad infondere un certo rispetto. Lo conosceva da anni, eppure continuava a stupirsi di come riuscisse a tenere testa a quei discoli come quando lo aveva conosciuto per la prima volta, da ragazzino.
Si stava godendo quell'incontro appoggiato al ring, con lo sguardo sognante. 
Avrebbe potuto esserci lui lì sopra, avrebbe sistemato l'avversario con due o tre ganci e si sarebbe dato arie da vincitore fino al prossimo match.
Un formicolio molesto alla mano destra, quella offesa, lo riportò tristemente alla realtà. Nella realtà in cui avrebbe soltanto potuto ammirare le vittorie degli altri da lontano, zittendo ogni rimpianto.
«Se la stanno cavando bene, non è vero, campione?» lo beffeggiò il vecchio Jimmy, con benevolenza. 
Mario gli rivolse la sua solita occhiata torva, grugnendo all'epiteto "campione".
«Continui a chiamarmi campione, nonostante siano anni che non salgo più su un ring se non per allenare i tuoi allievi sfaticati!» brontolò, senza però risultare troppo scontroso.
Jimmy soffocò una risata gutturale, non distogliendo lo sguardo dai ganci perfetti di Vince, che centravano il bersaglio con una leggiadria impeccabile.
Il povero Peter faticava a fargli da sparring partner: la serie di colpi che il suo compagno stava attuando erano perfetti, ma anche molto veloci. Una minima distrazione, e si sarebbe trovato uno di quei pugni in posti indesiderati.
«Vince sta migliorando, non trovi?» affermò il vecchio, con un'espressione compiaciuta dipinta sul volto. Mario annuì di rimando, convinto delle sue parole.
Apprezzava il fatto che Jimmy gli parlasse in perfetto giapponese. 
Mario l'inglese ormai lo capiva, il problema restava il parlato. Qualche volta Lily era venuta in suo aiuto per tradurre i discorsi che faceva con loro, ma in sua assenza si era sforzato per lo meno di capire il linguaggio base. 
Aveva stressato Joe fino all'inverosimile per insegnarli qualche espressione tipica della lingua inglese. Per fortuna il biondo era sempre stato un insegnante paziente, sapeva come prendere Mario senza che lui sbroccasse dietro a vocaboli ostici e grammatica incomprensibile. 
Anche grazie all'aiuto di Clara, la giovane infermiera americana che lavorava alla base, si era sciolto abbastanza, quando non era troppo occupato a baciarle ogni centimetro di pelle, durante quei lunghi pomeriggi trascorsi a conoscersi intimamente l'un l'altro.
«Mi piace come boxa. Non è mai aggressivo, i suoi colpi sono rapidi ed indolore. Anche chi non è del mestiere potrebbe accorgersene senza problemi» suggerì Mario, osservando i due soldati allenarsi con molta concentrazione.
Jimmy soppesò le sue parole, dovette riconoscergli che aveva davvero occhio per quello sport. E forse non era solo per quello.
«Per un attimo, mi è sembrato di sentir parlare il kamikaze al posto tuo» confessò Jimmy. Cercando lo sguardo torvo di Mario, volle capire se avesse colto. 
Sulle prime, il ragazzo rimase interdetto, ma quando ricordò l'origine di quel soprannome, non poté non lasciarsi andare ad un sorriso amaro.
Con quell'epiteto, Rokurota si era fatto conoscere alla base per il suo senso di sfida e alterigia che avevano addirittura fatto piegare il comandante Andrew Sanders al suo volere. Ed era stato così che si era poi guadagnato anche la stima di Jeoffrey, e la sua profonda lealtà.
Rokurota Sakuragi aveva lasciato dietro di sé poche vittorie, ma tutte a dir poco grandiose, degne di tale nome. Chiunque lo avesse conosciuto, non avrebbe mai potuto affermare il contrario.
«Lo dice anche Lily. Glielo ricordi molto. E anche se non lo ammette, so che la cosa la intristisce molto».
Jimmy non poteva sapere che in quei giorni, l'argomento "Lily" per Mario era un campo minato. Un passo sbagliato, e sarebbe saltato tutto per aria.
«Lily dovrebbe pensare più alle sue ragazze che a me» brontolò Mario, accigliato. 
«Gli stai dando troppo da pensare allora» sottolineò l'uomo, con un ghigno di rimprovero. Mario lo squadrò in silenzio, non voleva ammettere che le parole di quel vecchio settantenne di colore avevano quasi centrato il punto. 
Sarebbe stato come ammettere la sconfitta, gettare la spugna prima ancora di sferzare il colpo migliore del suo repertorio.
«La settimana scorsa ho fatto una cazzata» si ritrovò a dire poi, mogio, lo sguardo corrucciato fissava il bordo del ring.
«Ho saputo. Le voci corrono» esclamò Jimmy, compiaciuto.
La cosa non rasserenò minimamente il giovane moro. Si limitò ad osservarlo, ammutolito e pieno di vergogna.
«Jeoffrey?». Mario trovò incredibile quanto fosse impiccione quell’americano.
«Stava cercando di calmare Lily. Era davvero adirata, è stato un bene che tu non fossi nei paraggi» confessò l'uomo, tra lo scherno e il preoccupato.
«Ho temuto seriamente per la tua incolumità in quel momento! Come quella volta che era salita sul ring e ti ha preso a schiaffi perché ti eri incaponito ad affrontare quel match, nonostante le tue condizioni di salute! Te lo ricordi, vero?» ricordò il vecchio Jimmy, prorompendo in una risata canina.
Mario non avrebbe mai potuto dimenticare quella sfuriata avvenuta anni prima.
Aveva la febbre quel giorno, ma non si sarebbe perso un match per così poco. E quella era stata la prima volta in cui aveva visto Lily diventare una belva davanti alla sua cocciutaggine. 
Ricordò come lo aveva preso di peso - all'epoca Mario aveva poca massa muscolare, e portato nella sua stanza, costringendo Rokurota a chiamare Tenko per visitarlo.
Assottigliò le labbra a quel ricordo, non sapeva esattamente se volesse riderne o dimenticarsi tutto.
Mario avrebbe mentito spudoratamente se avesse detto di non aver mai apprezzato tutte quelle attenzioni da parte di Lily.
Proprio mentre si era deciso a dare una risposta sensata al coach, due mani femminili gli occultarono la vista per pochi secondi. Un profumo di cannella gli inondò le narici.
«Indovina chi sono?» squillò una vocina giuliva, allegra. 
Mario sorrise a quell'entusiasmo.
«Una fata? Si, direi che sei proprio la mia fatina!» esclamò il ragazzo, togliendosi delicatamente le mani dagli occhi. 
Nel voltarsi, il sorriso allegro e divertito di Mieru lo accolse festante.
«Hai sentito Miki? Sono la fatina di Mario-kun!» squittì Mieru alla volta della compagna, lì accanto a lei. Era più composta e silenziosa, ma sorrise ugualmente alle parole della più piccola.
«Non dovresti riposare tu?» intervenne Jimmy, come un nonno premuroso. 
Mieru si strinse nello scialle color terra, mettendo su il broncio. «Mi annoiavo, Jimmy-san! Ho chiesto a Miki di fare due passi, e siamo venute a vedere gli allenamenti» civettò la ragazza, giocando con una lunga ciocca di capelli.
Indossava un vestitino piuttosto scollato tutto a fiorellini, e delle scarpette col tacco basso. A Mario sembrava che si fosse preparata per andare a ballare. 
«Perché dovresti stare a riposo? È successo qualcosa?» chiese poi, alzando un sopracciglio.
La ragazza indugiò prima di rispondere, il sorriso le si smorzò leggermente.
«Ho avuto un piccolo pensiero che mi ronzava per la testa. Ma adesso è tutto apposto, Mario-kun!» raccontò Mieru, con la sua solita aria allegra. Non ci fu molto altro da aggiungere. Quel "piccolo pensiero" era stato facilmente intuibile. Mario non aveva avuto bisogno di ulteriori spiegazioni. Non gli sfuggì neanche la stretta di Miki sulla spalla della più giovane. 
Come se la stesse ragguardendo silenziosamente.
Poi il suo sguardo cerbiattoso incontrò quello dolce e grande di Mieru. Gli occhi erano arrossati e notò un principio di occhiaie violacee, nascoste inutilmente dal fondotinta. 
Spontaneamente, Mario si ritrovò ad accarezzarle il ventre piatto, con delicatezza. Non disse e non chiese nulla. 
Prima di finire in carcere, era abituato a ricevere le carezze e gli abbracci di sua zia Yuzuki, ma dopo la scarcerazione, il contatto fisico lo ripugnava. Si sentiva indegno di ricevere e dare affetto attraverso gesti come le carezze o le strette di mano. In quel momento, si sentì di fare l'unica cosa che gli riusciva meglio: manifestare quel briciolo di empatia e vicinanza che gli era rimasta con una stupida carezza, proprio come la sera prima aveva fatto con Joe. 
Non avrebbe cancellato in loro alcun dolore, e nemmeno aveva avuto la pretesa di poter fare la differenza. Era stato un gesto di cuore, uno dei tanti che manifestava, sia nel bene che nel male. Proprio come quando era andato sotto casa di Sakuragi ad urlargli tutto il suo infinito disprezzo. Discutibile, ma pur sempre un gesto dettato dal cuore, istintivo.
Mieru carezzò enfaticamente la mano sana di Mario poggiata sul suo ventre, tirando leggermente su col naso. 
Fin da quando si erano conosciuti, lo reputava come il fratello maggiore che non aveva mai avuto. Le piaceva scherzare con lui e commentare le partite di boxe insieme a Jimmy e alle ragazze.
Lo considerava ormai di famiglia. Parte di quella nuova famiglia in cui si era ritrovata a vivere nel giro di poco tempo.
«Vieni qua fatina, vediamo quei due che si menano a vicenda. Siediti su questo umile trono!», fu tutto quello che Mario le disse, non aggiunse altro.
Se la tirò gentilmente a sé, facendola sedere sullo sgabello dove stava seduto pochi minuti prima. Scambiò un veloce sguardo d'intesa con Miki, un flebile sorriso apparve sul volto della giovane, un sorriso che possedeva il potere di un grazie sussurrato, ma potente. Un grazie per aver avuto tatto e per non aver messo a disagio l'amica.
Un gesto di gentilezza fatto nei loro confronti non sarebbe mai stato considerato scontato ed inopportuno. 
Mieru non allontanò la mano del ragazzo dal suo ventre neanche per un istante. La tenne stretta tra le sue mani, come un piccolo tesoro a cui non avrebbe voluto rinunciare per niente al mondo. Aveva saputo nascondere bene l'amarezza e la paura sotto quel sorriso gioioso ed infantile.
Nel frattempo, Mario continuò ad osservare Vince e Peter allenarsi, tra le urla di Jimmy e i commenti giulivi delle due ragazze, piuttosto incuriosite dai due soldati.
 
Qualche minuto più tardi, entrò nel loro campo visivo una ragazza bellissima, dai colori piuttosto insoliti. 
Indossava un vestito viola succinto, un lungo scialle le copriva le spalle e aveva gli zoccoli ai piedi che ad ogni passo rimbombavano nella grande sala.
I suoi lunghi capelli dorati non sarebbero passati inosservati a nessuno.
«Ohi ohi, prevedo guai» esclamò Mieru, stridendo i denti. 
Quando Mario notò che quella bellezza mozzafiato stava raggiungendo proprio loro, rimase alquanto stupito. Deglutì senza volerlo.
«Signorina Meg, anche tu sei venuta ad assistere agli allenamenti? Di solito non ti fai vedere molto in giro» la salutò Jimmy, con sguardo sornione. 
Un campanello suonò alle orecchie di Mario. 
Meg. Quel nome non gli era affatto nuovo.
La ragazza ricambiò il sorriso del vecchio, provocativa. Poggiò il gomito sulla balaustra del ring, buttando uno sguardo di troppo sul quadrato dove Vince si stava allenando con Peter. Pareva alquanto soddisfatta di trovarselo lì, a pochi centimetri di distanza.
«Sì Jimmy, volevo prendere un po' d'aria, visto che sono stata impegnata fino ad ora» esordì Meg, con teatralità evidente.
Mario comprese poco delle sue parole, non solo perché la ragazza si era espressa in un perfetto inglese, ma anche perché, inspiegabilmente, verso l'ultima parte della frase aveva alzato significativamente il tono di voce. Nella sua ignoranza, Mario constatò che probabilmente quella splendida ragazza stava lanciando una frecciatina non proprio troppo velata alla volta di uno dei due soldati.
«Com'è andata con Terence?» le chiese Mieru innocentemente, porgendosi in avanti. Nel sentire quel nome, Mario proruppe in una smorfia di disgusto. Più di una volta aveva sfiorato una rissa con quell'insopportabile yankee, stroncate prontamente sul nascere dall'intervento di Lily o Jeoffrey.
Il solo pensiero che quella bellezza fosse giaciuta con lui, fece crescere in lui ammirazione e stupore, per il solo fatto di essere riuscita a sopportarlo per più di tre secondi di amplesso.
«Bene, anzi, benissimo!» esclamò Meg, con il viso rivolto ostinatamente ai due giovani marines, che si erano fermati, non appena l'avevano vista entrare in palestra.
«Terence non delude mai! Lui sì che sa accontentare le donne! Almeno non le lascia a bocca asciutta sul più bello».
Meg non stava minimamente degnando di uno sguardo le ragazze, Jimmy e Mario. La sua attenzione era esplicitamente rivolta ai due soldati, in particolare ad uno solo dei due.
Con la coda dell'occhio, Mario notò il viso di Vince contrirsi leggermente a quelle parole. 
«Sei sicura Meg? Davvero si è comportato bene?» parlò Miki per la prima volta, accigliata e con voce mite.
Meg ghignò spavalda alle sue parole.
«Come si doveva comportare, secondo te? Ha fatto quello che qualsiasi uomo con un briciolo di cervello avrebbe fatto».
La situazione stava diventando surreale. Mario non levò gli occhi di dosso da Vince, che sudava copiosamente, e guardava a terra furente, i guantoni ancora indosso, le braccia lasciate morbide lungo i fianchi.
Mario percepì tanta stanchezza nella sua postura, e non era stanchezza da allenamento. Quella era sicuramente stanchezza morale. 
Quando però il suo sguardo si posò su Meg, notò che la spavalderia della giovane stava leggermente vacillando, come se fosse in attesa di qualcosa che forse non sarebbe arrivato. La sicurezza stava lasciando il posto al nervosismo più nero.
«Tu cosa ne pensi, Vince? Come pensi si sia comportato Terence con me?».
Qui non finisce bene, fu il pensiero che balenò nella mente di Mario. 
Per quel poco che conosceva di Vince, non gli sembrava il tipo da cercare rogne. Anzi, preferiva evitarle ad ogni costo. 
L'americano raggiunse piano la balaustra dove era appoggiata l'incantevole bionda, e si accovacciò per guardarla negli occhi. 
Meg si allontanò di qualche centimetro, come scottata, ma lo sguardo azzurro era puntato dritto in quello verdissimo di Vince.
Non era arrabbiato, neanche deluso. Probabilmente era solo tanto stanco e combattuto.
Quei minuti di silenzio impregnarono l'aria rendendola pesante.
«Spero per lui che si sia comportato bene».
Fu una frase tranquilla, detta con calma calcolata. Ma l'accento posto su quel lui risultò quasi una velata minaccia. 
Meg trasalì a quella frase. Il petto iniziò ad alzarsi ed abbassarsi ritmicamente, come se avesse ripreso fiato all'improvviso dopo ore di apnea.
I suoi occhi azzurri stavano implorando disperatamente di essere guardati, di non essere abbandonati al loro destino. 
Volevano essere salvati da quelle iridi pure ed innocenti, tanto stanche quanto invulnerabili.
«E se non lo avesse fatto? Cosa gli faresti se non lo avesse fatto, Vince?» sibilò Meg, la voce tagliente andava a cozzare con gli occhi ormai pregni di lacrime.
Ma Vince pensò bene di finirla lì. Non le avrebbe concesso altra soddisfazione a riguardo. Si alzò da terra e scese dall'altra parte del ring, diretto verso la pera d'allenamento. Meg non sembrò prendere bene quell'ennesimo rifiuto, strinse così forte i pugni da far diventare le nocche bianche.
«Ma sì, pensa alla tua boxe! Devi pur dimostrare di essere uomo in qualche modo, visto che le donne ti fanno così schifo! E se devo proprio dirla tutta, non saresti capace di farne godere una nemmeno se ti ci mettessi d'impegno, fetido stronzo di uno yankee!», e concluse quell'invettiva violenta sputando sprezzante nella sua direzione. 
Vince non si voltò, continuava a darle le spalle. Incassò tutto in silenzio, accettò tutte le sue offese, lasciando che gli bruciassero lo stomaco senza pietà. 
Nel suo angolo, Mario assistette a quella scena immobile. Fossero stati diretti a lui tutti quegli improperi, dubitava fortemente che avrebbe sopportato tutto in silenzio senza divorarsi verbalmente la controparte. Rimase fortemente colpito dalla forza d'animo di Vince, probabilmente non era neanche la prima volta che accadeva un litigio simile tra loro due, doveva esserci abituato.
Inferta la sua ultima stilettata, Meg girò i tacchi e si allontanò a passi svelti dalla palestra, inviperita.
Solo allora Vince si decise a guardarla, sospirando affranto.
Accanto a lui, Peter cercò di tirargli su il morale, con qualche frase d'incoraggiamento detta in inglese, che a quella distanza Mario non comprese molto bene. 
«Sempre la solita esagerata» commentò pacatamente Miki, a braccia conserte. «Per un attimo ho davvero pensato che si fosse concessa a Terence per allontanarlo da Mieru, e invece era soltanto per un suo tornaconto personale» continuò, abbassando lo sguardo con mestizia.
Mieru le rivolse uno sguardo muto, assente. Continuava a giocherellare con le mani di Mario, non era davvero interessata ad affrontare quell'argomento. 
A quel punto, però, lui volle saperne di più a riguardo. Una strana idea gli si fece largo in testa.
«Sembra diversa da tutte voi. Insomma, non sembra giapponese» chiese, osservando le due ragazze con sguardo affilato.
«È meticcia, mezza americana credo» rispose Miki, sempre col solito tono. «È venuta qui qualche tempo fa, io ero arrivata qui pochi mesi prima, Mieru invece ancora non ci stava. Lily-san sembrava già conoscerla invece» rivelò poi, ponderando le parole una per una, onde evitare di dare false informazioni.
Il mistero sembrava infittirsi alle orecchie di Mario. Quella ragazza era bionda, bellissima, occhi azzurri e per giunta meticcia. E in più si chiamava Meg, aveva lo stesso nome della sorella di Joe. Non poteva trattarsi di una semplice coincidenza. 
Solo però non gli tornava il fatto che con Lily già si conoscessero in precedenza...
«Scusatemi, devo fare una cosa» si scusò il ragazzo, allontanandosi cautamente dalla stretta di Mieru. «Torno subito Jimmy» e corse verso il portone aperto.
«Fossi in te non ci metterei troppo il pensiero, Mario-kun. È molto lunatica, ti farebbe spazientire nel giro di due secondi» lo mise in guardia Mieru, con la sua solita vocina lieta.
Ma Mario era già abbastanza lontano per darle retta.
 
Meg era una furia. Non aveva capito più nulla dopo le parole lanciate addosso a Vince come pietre acuminate.
Voleva ferirlo, umiliarlo, invece come al solito, era stata lei ad uscirne sconfitta.
Si sentì improvvisamente sporca ed insulsa, un relitto vivente. 
Se solo tornava col pensiero a qualche ora prima, mentre Terence le veniva tra le gambe senza un briciolo di grazia, e aveva chiuso gli occhi pensando al suo bel marine italoamericano, ricordando come in passato le sussurrasse tutte le scuse del mondo quando spingeva troppo forte dentro di lei e l'abbracciava per calmarle i tremori causati dall'eccitazione, le montava una rabbia irrefrenabile. 
Voleva solo buttarsi in una vasca piena d'acqua e sapone e levarsi di dosso il puzzo di sigaretta che Terence gli aveva lasciato, insieme agli umori ancora presenti nella sua intimità.
Quando si sentì chiamare senza preavviso, per un attimo sperò che Vince l'avesse seguita fuori dalla palestra. Non importava se lo avesse fatto per litigare o chiarire, avrebbe solo voluto girarsi e trovarselo lì, dietro di lei. 
Ma le sue speranze risultarono vane quando capì che non era Vince il ragazzo che l'aveva seguita fuori.
Un giovanotto dai capelli bruni che fuoriuscivano dalla coppola la chiamava per nome a gran voce, intimandola di fermarsi.
Meg, lì per lì, non capì quali potessero essere le sue intenzioni. Ma era sicura che se si fosse attaccato a farle un pippone, gli avrebbe risposto per le rime.
«Cosa vuoi?» domandò lei, non appena il ragazzo le si fermò dinnanzi, piegato in avanti per riprendere fiato.
«Certo che starti dietro è proprio un'impresa!» esclamò il ragazzo, respirando a fatica.
Meg continuò a guardarlo severa, col mento alzato. Non si fidava degli sconosciuti, ragion per cui evitava di averci molto a che fare.
«Sono Mario, Mario Minakami. Non ci siamo mai visti prima, ma... Ho sentito che ti chiami Meg, giusto?» chiese l'altro, il respiro gli era tornato quasi normale.
Meg si accigliò nel sentirsi rivolgere quella domanda.
«Mi dispiace, cercati qualche altra puttana con cui spassartela! Per oggi ho già dato!» e gli diede le spalle senza troppi complimenti.
«Sei la sorella di Joe, non è così? Joe Yokosuka! Ti dice niente questo nome?».
Tuttavia, nel sentir pronunciare il nome di suo fratello così dal nulla, Meg s'immobilizzò di colpo. Per un attimo, le sembrò di non sentire più le gambe e le braccia, che tutto intorno le stesse girando così vorticosamente da farle perdere l'equilibrio.
Si voltò di scatto alla volta di quello sconosciuto, gli occhioni azzurri sgranati ed impauriti. 
Adesso che lo vedeva bene, a Meg parve familiare la sua fisionomia. Le aveva ricordato qualcuno che aveva conosciuto tempo addietro e che, come lui, le aveva detto di conoscere suo fratello.
Indietreggiò spontaneamente, atterrita.
Mario avanzò un passo verso di lei, non staccandole gli occhi di dosso.
«Somigli davvero un sacco a tuo fratello! Siete due gocce d'acqua, non può essere una coincidenza!» esclamò Mario, faticando a restare lucido per l'emozione. Sarebbe voluto correre via da lì per dire al suo amico che sua sorella stava bene ed era diventata una donna bellissima, anche se un po' troppo indomita.
Meg rimase sulla difensiva, il fatto che qualcuno l'avesse riconosciuta non andava assolutamente in suo favore. Poteva essere una trappola, il passato che tornava a bussare prepotentemente alla sua porta...
«Tu non conosci mio fratello! Stai bluffando!» rispose Meg, agitata. Iniziò ad avere seriamente paura.
«Ti manda quel porco di Maerata, non è vero? Pensa di ingannarmi affinché torni strisciando da lui? Ma non accadrà mai! Diglielo pure che è tutta fatica sprecata! Se solo osa ad avvicinarsi qui, lo aspetterà un plotone intero pronto a sparargli a vista!», sbraitò in seguito, completamente sbiancata in volto. Mario non comprese a cosa la ragazza stesse alludendo, non conosceva nessun Maerata dopotutto.
«Perdonami, ma non so di cosa tu stia parlando» affermò allora, sconcertato.
Meg era sempre più in preda al terrore, iniziò a tremare vistosamente.
«Allora ti manda lui?», Meg sospirò quella frase con voce instabile, facendo preoccupare maggiormente Mario, che la osservava senza muovere un muscolo.
«Non dirò niente, non so niente! Non ho visto chi l'ha ammazzato! Quindi per favore, digli che mi lasciasse in pace! Che non ho bisogno di essere minacciata! Tanto non parlerò, non dirò niente!».
Meg aveva iniziato ad urlare, portandosi le mani tra i capelli. Istintivamente, Mario le si avvicinò, tentando di calmarla e di rassicurarla. Ma la ragazza reagì in modo violento alla sua vicinanza.
«Non mi toccare! Non mi toccare, aiuto! Aiuto Lily, qualcuno mi aiuti!» urlò Meg, completamente fuori di sè. Mario però tentò ancora una volta un approccio con lei, cercando di andarci cauto, per quanto la situazione lo concedesse. 
«Cosa stai dicendo? Chi hanno ammazzato? Cosa hai visto Meg?». Mario non era davvero sicuro se quello che la ragazza stesse dicendo fosse verità o solo allucinazioni dettate dall'ansia. Forse era un ricordo in cui era coinvolto anche Joe, forse...
«Non ho visto niente! Non ho visto chi ha ucciso Rokurota-san... Attilio mi aveva detto di non dire niente, e non ho detto niente…non so niente, non dirò niente, l'ho promesso sul mio bambino, non dirò niente!».
Non appena Mario sentì pronunciare quel nome, gli mancò il fiato per qualche minuto. A quel punto, lui doveva sapere. Sapere cosa c'entrasse la sorella minore di Joe in quella storia, con Rokurotae sapere chi diavolo fosse quell'Attilio. A Mario restò impresso come nome, perché era non comune, straniero.
Era la prima volta che sentiva qualcun altro, oltre lui, parlare di omicidio riguardo alla morte di Rokurota. Che Meg fosse stata una testimone inconsapevole? Che si fosse trovata nel posto sbagliato al momento giusto? E come faceva a conoscere Rokurota?
Mario doveva dare una risposta a tutti quei quesiti, anche se avrebbe significato farle riaprire vecchie ferite e riaffiorare antiche paure. Ma quella dichiarazione avrebbe potuto indicare una svolta, un passo avanti.
Una conferma importantissima.
«Cosa vuol dire? Che significa, Meg? Tu eri lì? Eri lì con lui? Conoscevi Rokurota? dimmelo, cazzo, dimmelo! Devo saperlo, per favore!» 
In preda al nervosismo, iniziò a scuotere Meg per le spalle, senza alcuna premura. Quel gesto contribuì ad accrescere il malessere della giovane, sempre più scossa e spaventata.
«AIUTO! Qualcuno mi aiuti! Questo qui è pazzo, aiutatemi!»
Le urla incontrollate di Meg fecero accorrere i soldati di guardia al cancello seguiti da Jeoffrey, convinto si stesse trattando di un litigio tra le ragazze. Non era un avvenimento nuovo per lui, tra l'altro. Anche Lily era accorsa, trovandosi nelle vicinanze. Aveva sentito le urla di Meg e aveva subito ipotizzato il peggio. Rimase piuttosto stupita nel vedere Mario totalmente stravolto stringere con forza le esili spalle della giovane meticcia. 
Jimmy e Peter erano corsi alla volta di Mario, cercando di dividerli.
Meg continuava ad urlargli contro, invocando aiuto alla cieca, e senza accorgersene, si ritrovò tra le braccia di Lily, stringendola in un forte abbraccio.
Dal canto suo, la donna non smise di fissare il ragazzo con aria terrorizzata.
«Che le hai fatto, Mario?» disse Lily, stringendosi Meg al petto.
Mario scosse il capo più volte, sconvolto.
Si era sentito disorientato, come lanciato a razzo in mare aperto. Non si era minimamente accorto dei richiami di Miki e Mieru, le mani di Jimmy e Peter addosso.
Nella sua testa continuava a vorticare un solo nome, una sola frase.
Rokurota-san.
Non ho visto chi l'ha ucciso.
Cosa mai poteva saperne quella ragazza? Cosa sapeva in più a lui e ai ragazzi?
Perchè la terrorizzava così tanto parlarne?
Nel frattempo Meg continuava a blaterare frasi sconnesse tra di loro, aggrappata al cardigan bianco di Lily, come una bimba piccola che cerca di aggrapparsi al seno materno.
«Mandalo via, Lily! Mandalo via! Vuole portarmi via! Ho paura Lily, ho paura!».
«Non devi avere paura, Meg! Qui nessuno vuole farti del male!» e continuò a guardare Mario ostinata, quasi volesse estrapolargli col pensiero la verità, il motivo che aveva scatenato in lei tanto panico. 
I suoi occhi da cerbiatta incontrarono quelli persi di Mario, pieni di rabbia, domande, turbamenti.
Fecero così male, che non riuscì a reggere quel contatto a lungo.
Tornò a baciare i capelli di Meg, incurante di averle lasciato l'impronta del suo rossetto vinaccia fra le ciocche. Meg continuava a delirare, ad urlare, e le forze a Lily cominciarono a venire meno. 
L'arrivo provvidenziale di Vince sembrò riequilibrare gli animi di tutti.
Corse alla volta di Meg, staccandola docilmente dalla presa ferrea della donna, non mostrandogli troppa resistenza.
Meg, di riflesso, si aggrappò al petto del marine, stringendo tra le dita la sua T-shirt giallognola. Le sue mani grandi e calde le percorsero la schiena e le spalle, sciogliendo in lei tutti quei nodi che le si erano formati negli anni. Quei nodi che le avevano bloccato il normale flusso delle sue emozioni.
Bastava così poco, Vince. Bastava così poco.
Quella frase però morì tra le labbra tremule della ragazza, e calde lacrime le rigarono finalmente le guance. 
Ricordò solo in quel momento di avere ancora addosso l'odore di Terence, non avrebbe voluto che Vince lo avesse annusato neppure per sbaglio. 
Cercò di allontanarlo, ma con scarsi risultati, la stretta del ragazzo era più ferma e sicura.
«Va tutto bene, Meg, respira» la incitò Vince, non mollando la presa alle sue deboli proteste. 
Il calore che Meg provò in quell'istante fu qualcosa di indescrivibile. Non sentiva le voci dei soldati e di Lily, non vedeva i volti di nessuno. La voce calda e pacata di Vince aveva occultato tutto il resto, aveva attutito ogni rumore, zittito ogni brutto ricordo. 
«Vuole farmi del male, Vince, aiutami!» singhiozzò Meg, confusa e frastornata.
«No- non è vero! Non le ho fatto nulla! Ha iniziato a dire cose assurde, nominare gente a caso... Credimi Vince, non avrei avuto alcun motivo-»
«I believe you, Mario. Ti credo», l'americano bloccò l'invettiva del ragazzo, sapeva che lui non rappresentava alcun problema. 
Strinse più forte la ragazza a sè, scostandole i capelli dagli occhi arrossati di pianto. 
«Proteggimi, ti prego Vince! Proteggimi» continuò lei, ancora in stato di shock, aggrappata al suo petto come una cozza attaccata allo scoglio.
«Andiamo dal tuo bambino, uhm? Ti porto da Kouki» le sussurrò Vince di rimando, prendendole il viso bagnato tra le mani. Erano ruvide, ma regalarono frescura alle sue guance accaldate.
Meg annuì, mettendo su il broncio come una bambina.
«Però non mi lasciare da sola. Resta con noi, per favore, anche se sei arrabbiato con me. Mi sento al sicuro se ci sei tu con me» lo implorò, aggrappandosi ai suoi polsi. 
Vince si voltò verso Lily, una richiesta implicita, muta.
«Va' con lei, non preoccuparti». Non ci fu bisogno di aggiungere altro.
Vince sollevò di peso Meg, che nascose il viso nell'incavo del suo collo, continuando a piangere in silenzio e a sussurrargli convulsamente scusa.
Non appena si furono allontanati, Lily chiese gentilmente alle due ragazze lì presenti di seguirli. Mieru, nel passare accanto a Mario, gli diede una carezza d'incoraggiamento sulla spalla. La stessa carezza d'incoraggiamento che gli aveva rivolto lui alla sua pancia soltanto qualche momento prima. 
So che non hai fatto niente di male, sembrò comunicargli con quel gesto. Mario riuscì soltanto a guardarla sperduto, troppo scosso per parlare in modo decente.
Una volta andate via anche le due ragazze, Peter e Jimmy cercarono di tirargli su il morale, dicendogli qualcosa sul non darle troppa retta, che svalvolava sempre senza un vero motivo, e così via.
Ma Mario non era più lì con loro, era lontano anni luce dai loro discorsi incoraggianti.
Non ho visto chi ha ucciso Rokurota-san.
Gli si materializzò davanti il ricordo del funerale, la pioggia fitta che bagnava i loro vestiti, le lacrime, quelle maledette lacrime che non scendevano. E i numerosi attacchi di panico che lo avevano colto i mesi successivi, tutte le notti. La tachicardia che gli saliva al solo mettere piede fuori dalla propria stanza, al solo pensiero di non imbattersi nel viso sornione e beffardo di Rokurota, dell'uomo che aveva considerato e reputato un padre degno di tale nome.
Le volte in cui aveva maledetto il nome di Atsumichi Sakuragi, augurandogli pene atroci e disumane. 
L'odio che era cresciuto di pari passo con gli anni.
La sentì tornare di nuovo, quell'oppressione al petto, la paura di non riuscire a sentire braccia e gambe, e la testa che vagava senza una meta, verso posti oscuri.
Nel vederlo così, Lily e Jeoffrey gli si avvicinarono apprensivi. Lily afferrò il suo viso tra le mani, richiamandolo al presente.
«Mario, guardami! Sei qui con me, respira piano!» lo incitò, quello sguardo dolce indurito dal tempo piantato nelle iridi tremolanti del più giovane.
«È stato ucciso... lo sapevo...» Mario non riusciva a pensare ad altro in quel momento.
Probabilmente Meg aveva visto Atsumichi uccidere il figlio e la stava ricattando, minacciandola di farle del male se avesse parlato. 
E quell’Attilio sarebbe potuto essere tranquillamente un complice di Sakuragi padre. 
Ma c'erano altre cose che non tornavano, altri collegamenti che gli sfuggivano. Soltanto Meg avrebbe potuto sbrogliare quella dannata matassa.
«Devo parlare con lei! Lei lo sa-»
«Mario, fermo! Dove vai in queste condizioni?»
«Lei sa chi ha ucciso Rokurota! Era lì, lo ha visto! Ha visto in faccia quel figlio di-»
«Adesso calmati per favore. Non sai quello che dici», Lily e Jeoffrey cercarono di calmarlo, con scarsi risultati.
Mario cercò di divincolarsi alle loro strette, ma fu tutto inutile.
«Se vai adesso da Meg succederà il putiferio! Lascia perdere, dammi retta!»
«Tu lo sapevi? Ne eri al corrente? Lo sapevate tutti quanti, per questo la tenevate nascosta qui dentro!» inveì Mario alla volta prima di Lily e poi di Jimmy e Jeoffrey. La testa gli girava vorticosamente, provò a bloccarsela con le mani. Perse l'equilibrio e cadde in ginocchio al suolo.
«Mario!» gridò Lily, preoccupata. Si accovacciò davanti a lui, richiamando la sua attenzione. Poi incitò Jeoffrey e Peter non molto pacatamente a chiamare il medico del campo, mentre Jimmy rimase con lei, ad assistere Mario.
Al ragazzo venne un improvviso conato di vomito, ma non buttò fuori nulla, a parte la sua stessa saliva.
«Mario, sono qui! Sono qui, va tutto bene!» incalzò Lily, frizionandogli la schiena e il collo.
«Forza campione, non è successo nulla!» diede man forte il vecchio Jimmy, scombinandogli i capelli con fare paterno.
Dai Mario, fa' un bel respiro. Lo so che ne sei capace.
Quella voce gli si materializzò nella mente come una brezza leggera, rinfrescante. 
Lui era lì, sempre accanto a lui.
Gli dimorava dentro, nel sangue.
Fece un tentativo, respirò lentamente ed in profondità.
Nel frattempo, due braccia esili lo strinsero a sè. Un profumo caldo di vaniglia e fiori d'arancio gli accarezzò le narici con dolcezza. Un odore familiare, delicato.
L'odore che impregnava i kimono di sua zia Yuzuki, che da bambino aspirava a pieni polmoni, ogni volta che si rifugiava tra le sue braccia.
«Bravo, così... respira piano...» sussurrò Lily al suo orecchio, baciandogli la tempia.
Così, ragazzo mio, così, la voce di Rokurota nella sua testa cullava il suo respiro. 
Il cuore gli si alleviò di poco, zittì tutto il resto. 
La consapevolezza che le sue non erano soltanto fantasie dettate da quel briciolo di speranza a cui si era aggrappato per tre anni, che tutto poteva assumere una forma diversa da quella data, crearono in Mario un misto di emozioni scomposte. Dalla soddisfazione di aver avuto sempre ragione sulla morte di Rokurota e la rabbia e l'impotenza di non aver potuto agire prima, di non aver potuto bloccare gli ingranaggi di quel gioco mortale e prevederne le conseguenze disastrose. 
Ammaliato dalle note di quel profumo che per lui sapeva di casa, e da quella voce indelebile ormai presente nel cuore, Mario calmò il respiro e tutto intorno divenne buio. 
Sprofondò in una notte calma e pacifica, il respiro ricreò il rumore lento delle onde del mare, illuminate dalla flebile luce di una luna silenziosa e incantevole. 
 

***

 
Il vociare circostante dei passanti era piacevole da ascoltare. Trasmetteva buon umore e pace, anche in quelle sere frenetiche ed oberanti di lavoro.
Appoggiato al muro, Joe osservava la vita notturna che scorreva davanti ai suoi occhi, il fumo della sigaretta rendeva l'atmosfera quasi sognante e senza tempo.
Un suono di sax usciva dalle finestre di uno dei locali notturni, la colonna sonora perfetta per immortalare quel momento. 
Si ritrovò a pensare a Namie, tutt'ad un tratto. Dopo la serata, sarebbe andato da lei, probabilmente per spassarsela. Ma una piccola parte di lui avrebbe voluto restare appoggiato a quel muro, e godersi quella pace tutto da solo, senza intromissioni di alcun genere. Con la sigaretta tra le labbra, si rigirò la piastrina tra le dita, strofinando col pollice sul graffio che per poco non aveva cancellato il cognome di suo padre, Jakowsky
Col passare degli anni, Joe si era ritrovato a pensare che era stato un bene che quel giorno suo padre fosse morto sotto le macerie di quel palazzo. Almeno non aveva dovuto assistere allo scempio in cui si sarebbe tramutato il suo primogenito tanto amato.
Una prostituta, un delinquente e poi...
E poi un traditore. Un bugiardo cronico, con sé stesso e con gli altri.
Un essere ignobile ed indegno. Un fratello maggiore che era venuto meno ai suoi doveri, abbandonando la propria sorella e voltandole le spalle senza alcun riguardo.
T'infliggi troppe colpe, Joe, gli avrebbe sicuramente detto Rokurota, se avesse ascoltato tutto ciò che gli ronzava per la mente.
Anche tu sei una vittima di tutto questo, hai pagato lo scotto più alto per proteggere chi amavi.
Joe reclinò la testa all'indietro, chiudendo gli occhi.
Rokurota gli mancava come l'aria, ma a differenza di Mario e gli altri, non lo aveva rivelato mai a nessuno. Se l'era tenuto dentro, sperando che svanisse da solo, da qualche parte. Preferiva mostrarsi tranquillo, pacato, gentile con tutti. 
Tadayoshi aveva attuato il suo stesso metodo, chiudendosi in un silenzio impenetrabile.
Almeno c'era qualcun altro con cui poteva condividere la stessa presa di posizione idiota e inconcludente.
Nel riaprire gli occhi, dall'altra parte della strada notò un volto familiare.
Un giovanotto aitante con i capelli scuri e lo sguardo torvo che tentava di riavviare la sua motocicletta senza successo. 
Non era proprio sicuro che si trattasse del soldato venuto al Rainbow assieme a Tadayoshi, ma in ogni caso, come spinto da una molla, decise che gli si sarebbe avvicinato. Joe non seppe spiegarsi il perchè di quel gesto, sentiva soltanto una forza estranea che lo stava risucchiando, lo stava invitando ad agire.
«Tutto bene?» chiese, allungando lo sguardo dove l'altro stava armeggiando per capire dove fosse il problema.
Il ragazzo alzò lo sguardo, sobbalzando di colpo. 
Joe sorrise impercettibilmente nel riconoscerlo. Era proprio lui, il soldato dall'aria corrucciata di quel pomeriggio. Era in borghese e probabilmente anche un po' brillo.
Il giovane si portò la mano alla cintura, dove di solito indossava la federa della pistola d'ordinanza, ma realizzò immediatamente che non avrebbe trovato quello che cercava. Sbuffò sconsolato. 
«Tranquillo, non voglio derubarti» alzò le mani Joe, divertito. Era cosa nota purtroppo durante quelle serate di baldoria. «Ti ho visto in difficoltà con la motocicletta e ho pensato di darti una mano», ammise, affabile.
«T'intendi di motori, tu?» bofonchiò il moro, squadrando Joe dalla testa ai piedi. Sembrava che il suo sguardo volesse posarsi ovunque meno che sui suoi occhi.
«No, a dire il vero. Ma Mansaku sì, potrei chiamarlo e dirgli che-»
«Non serve, faccio da solo» lo stroncò l'altro, con aria scontrosa. Joe non se la prese più di tanto.
«Era solo per ricambiarti il favore» aggiunse soltanto, le mani in tasca e il mento alto, la tipica espressione che attuava quando capiva di aver attirato le attenzioni di qualcuno.
«La tua amica non c’è stasera? Ti ha lasciato solo?» domandò Katsuya, inarcando un sopracciglio. Joe si leccò il labbro inferiore per non scoppiargli a ridere in faccia.
«Per tua fortuna, no, non c’è. I suoi baci mi avrebbero distratto dalla tua motocicletta bisognosa d’aiuto» dichiarò il biondo, buttando la cicca a terra ancora accesa.
«Magari ha solo bisogno di una spinta» osservò, in un sussurro.
Il giovane soldato si decise finalmente a guardarlo in faccia. Lo infastidiva quel suo modo di fare pacato e affabile, quel suo comportarsi come chi è perfettamente consapevole di piacere a tutti, senza esclusione di colpi.
«È vecchia, perde colpi ogni tanto. Ma quando parte va che è una meraviglia» puntualizzò lui, con una punta di risentimento nella voce.
Joe annuì inarcando le sopracciglia. Un'insana voglia di stuzzicarlo si fece largo nel suo inconscio.
«Allora lascia che ti aiuti a spingerla» si fece avanti il biondo, rimboccandosi le mani della camicia. Il soldato lo guardò storto per due minuti buoni, ma non appena Joe mise le mani sul manubrio, spostando con un piede il cavalletto, glielo lasciò fare senza protestare oltre.
Accompagnò Joe nella spinta del veicolo, e dopo qualche tratto, il motore tornò a rombare con prepotenza.
Il giovane rimase visibilmente stupito alla vista della sua motocicletta tornata in vita. 
«Ma come hai fatto?» chiese, fissando per la prima volta l'altro negli occhi.
«Le mie mani fanno magie» lo prese in giro Joe, con un sorrisino di scherno stampato sul volto.
Guardandosi le mani, però, si rese subito conto che quella battuta stava assumendo sfumature infelici, legate a ricordi ancora più infelici.
Ricordi legati alla sua vecchia vita fecero capolino nella sua testa, prepotenti.
Come per riflesso, si pulì le mani sui pantaloni, scacciando quel ricordo orribile.
«In tutto ciò, ancora non conosco il tuo nome» tossicchiò Joe, cercando di nascondere il disgusto che si gli era manifestato in volto senza volerlo.
«Mi chiamo Hitomura Katsuya, molto piacere» fece il soldato, grattandosi la nuca più per darsi una svegliata che per l'imbarazzo. 
«Katsuya... si scrive con i kanji di "uomo" e "vittoria", giusto?» domandò Joe, piuttosto interessato. 
«Sì, esatto! Come fai a saperlo?» ribadì Katsuya, sorpreso.
«È un nome degno di un soldato» rispose Joe, divertito. «Io sono Yokosuka Joe. Il mio è un nome piuttosto banale».
«È straniero» obiettò Katsuya, assottigliando lo sguardo.
Joe annuì alla sua osservazione, prorompendo in un risolino compiaciuto.
«Trovo che ti stia bene. Ti da' fascino. Le donne impazziscono dietro ai tipi affascinanti» commentò il soldato, sedendosi in sella alla motocicletta accesa, e indossando il casco in contemporanea. 
Joe non accolse quelle parole come un insulto, anzi: erano state come un balsamo spalmato su una zona lesa della pelle. Una frase del genere Rokurota l'avrebbe detta senza farsi troppi problemi. Forse fu quello il motivo per cui sorrise alla volta di Katsuya, con gratitudine.
Dall'altra parte, il ragazzo rispose fievolmente a quel sorriso, sciogliendo di poco lo sguardo arcigno che metteva su in modo del tutto naturale. 
«Adesso il favore è stato reso» affermò Joe, a braccia conserte. 
Katsuya annuì distratto.
«Adesso siamo pari» dichiarò, a bassa voce.
Diede gas al motore, e cercò lo sguardo cristallino di Joe, prima di partire.
Era talmente bello da mozzargli il fiato in gola ogni volta.
«Ci si vede, Yokosuka Joe» e la motocicletta partì, non aspettandosi alcun saluto di rimando.
Joe restò lì impalato a seguire con lo sguardo la motocicletta che rombava per la strada, perdendo nuvolette di gasolio qua e la'. 
«Ci si vede, soldato vittorioso» mormorò Joe, dandogli definitivamente le spalle. 
Per tutta la sera, non riuscì più a levarsi quel sorriso da ebete dalla faccia.
Ignaro della tempesta che avrebbe travolto lui e tutti quanti loro nei giorni a venire.

 

*Le battute in grassetto/corsivo sono pronunciate in inglese.
 

//Revisionato in data 29/11/23 //

 
Buonasera, buongiorno, buonsalve in generale!
Arrivo giusto in tempo per lasciarvi la sorpresa dell’uovo di Pasqua! Sfruttatela al meglio, perché il prossimo capitolo potrebbe venire molto più in là, lo dico magari soprattutto per chi è arrivato a leggere il terzo capitolo e vuole continuare la lettura 😉
La storia non verrà abbandonata, ma in questi mesi potrei avere battute d’arresto causa corsi ed esami universitari.
Questo capitolo già è stato reduce da un blocco di scrittura piuttosto forte, Joe mi ha dato qualche problema a livello di stesura. Trovo che sia un personaggio tanto bello ed interessante, quanto criptico e inavvicinabile. Quando pensi di riuscire a comprenderlo, lui trova sempre il modo di stupirti, sia in positivo che in negativo :D 
Per quanto riguarda il resto, sono sincera, non so se questo capitolo mi piaccia o meno. Avevo in mente tutt’altra cosa, e mi è uscito fuori questo. Non lo disdegno, però lo sento diverso dal mio solito scrivere, uno scrivere più criptico, intimo quasi. Sarà che entrare nel cervello di Joe ha reso il capitolo, a sua volta, a sua immagine e somiglianza. O sarà anche stata colpa di questo blocco, che mi ha creato non pochi problemi. In ogni caso, ringrazio caldamente chi continua a leggere la storia. Vedrete che a breve ci saranno risvolti interessanti (ma anche qui sono usciti fuori altarini XD).
Detto questo, vi auguro una buona Pasqua, e buona lettura.
À bientôt!
   
 
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