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Autore: drisinil    18/04/2022    3 recensioni
[Nishinoya versus Hoshiumi Character Study] Nishinoya Yuu ha mollato la pallavolo. Avrebbe potuto giocare da professionista, portare la maglia della nazionale. Invece, ha deciso di no.
Hoshiumi Korai forse non era tagliato per fare il centrale. Avrebbe potuto rassegnarsi, puntare a un altro ruolo o un altro sport invece si è votato alla pallavolo come a una religione.
Esiste un punto dove scelte così opposte si toccano?
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Kourai Hoshiumi, Yuu Nishinoya
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Per Nishinoya Yuu alto e basso non sono mai state qualità, bensì direzioni
Alto è da dove la palla arriva: un bolide che viaggia alla velocità della luce su una qualsiasi delle infinite traiettorie possibili; basso è dove la palla non deve cadere, anche se l’intero pianeta pretende che accada.
Ed è tutto lì. Semplice e complicato insieme, come le cose importanti della vita. 
E in qualche modo anche circolare, perché alto e basso sono complementari, l’uno definisce l’altro e la palla non viene rialzata ad altro scopo che quello di ricadere, meglio se nel campo degli altri.
Yuu non hai mai pensato di essere basso. E’ vero che gli altri sono tutti più alti di lui, comprese tutte e tre le sue sorelle, ma è questo che significa essere bassi?
No, per niente. Essere bassi significa non riuscire ad arrivare dove si vuole, e questa è l’unica definizione possibile. Dove poi si voglia arrivare, è un altro conto.
Yuu si volta indietro a guardare le sue orme stampate sulla sabbia, un ricamo effimero sulla linea di colmo della duna, e si chiede per l’ennesima volta dove stia andando.
Non ne ha idea. Ma forse la risposta non è così importante; senz’altro lo è di meno del prossimo passo, di aprire le mani al vento, di sentire sabbia e sole scorrere fra le dita. L’odore è di cose riarse, dure, spezzate, libere.
Mature, pensa, sorridendo. Ed è la parola che spinge ogni passo al successivo.

«Hai capito?» gli chiede il ragazzino, con quella sua espressione scontenta e anche spietata. Ha la sua età, dodici anni difficili e testardi. Yuu lo ha conosciuto lì al lago, solo pochi giorni prima. E’ anche lui in vacanza ed è un tipo strano; ti guarda con due occhi grandissimi e penetranti, poi inclina la testa da una parte, come un uccello. 
Yuu non lo sa se ha capito, fa una smorfia vaga e si stringe nelle spalle.
Sono seduti su un muretto che guarda il lago. Scalzi entrambi, perché fino a pochi minuti prima hanno giocato a pallavolo sull’erba. Il ragazzino uccello è veramente bravo.
«Allora, hai capito o no?» gli assesta un calcio sulla caviglia.
«Ahia!» 
«Sei stupido oltre che nano?»
«Non sono nano. E nemmeno stupido. Ma la tua storiella non ha tanto senso.»
Il ragazzino uccello, che non gli ha ancora detto come si chiama, lo guarda con sufficienza. «Certo che ce l’ha. Tu sei come la volpe: sei bravo, ma vuoi fare il libero solo perché sei troppo basso e non ti lascerebbero fare nient’altro. Non ci arrivi all’uva e allora ti accontenti e fai quello che vogliono loro.»
Lo dice come se accontentarsi fosse un crimine. Il ragazzino uccello è intelligente, ma parecchio incasinato; dietro lo specchio dei suoi occhi enormi ardono una collera, una brama, una tensione che gli crepitano addosso e che Yuu non riesce a decifrare.
«Io faccio quello che mi pare. E poi chi sarebbero loro?» domanda Yuu.
Lui ci pensa un attimo. «Quelli alti» risponde. Nella categoria vive un piccolo universo di no, di forse e di vedremo come barriere insormontabili, contro cui non fa che schiantarsi con forsennata disperazione.
«Alti quanto?»
Il ragazzino uccello perde la pazienza facilmente, socchiude gli occhi, si morde il labbro, emette una specie di sibilo e solleva il mento in un  gesto teatrale, fino a piegare la testa all’indietro. 
Il giorno che si sono conosciuti hanno fatto a botte e, per la prima volta nella sua vita, Yuu ne ha prese quante ne ha date ed è tornato a casa con il labbro spaccato.
«Sai una cosa?» gli dice Yuu. «Forse la tua storia l’ho capita. E la volpe sei tu, che aspetti che siano gli altri a dirti se l’uva è matura. Te ne frega così tanto di quello che pensano o di quanto sono alti? Perché deve essere qualcun altro a dirti cosa puoi fare?»
Il ragazzino uccello si alza, come se non lo stesse neppure ascoltando. Ma invece ascolta. Stringe i pugni. 
«Come hai detto che ti chiami?»
«Nishinoya Yuu.»
«Sai Nishinoya? Mi sa che hai ragione: l’uva è matura, se io decido che è matura. E la volpe - questa volpe - è ostinata.»
Yuu si alza a sua volta. «L’uva è matura!» ripete, urlandolo, con le mani a coppa intorno alla bocca.
Il ragazzino uccello ride, poi all’improvviso salta giù dal muretto e si lancia in avanti, verso la riva. E’ agile, quando corre e allarga le braccia sembra che l’aria lo spinga e debba spiccare il volo.
Si volta appena prima di entrare in acqua. «L’uva è sempre matura!» grida, correndo all'indietro e lasciandosi cadere.

In un parco pubblico, da qualche parte in Italia, Yuu gioca a pallavolo. Ha mollato lo zaino sotto una panchina e si è unito a cinque ragazzini. E’ un tre contro tre, sono giovani, sembra si divertano, ma nessuno di loro ci sta mettendo l’anima. Stanno solo giocando. 
Uno di loro indossa la maglietta di una squadra famosa; il numero è il venti; la scritta sopra, in caratteri latini dice: Kageyama. Yuu non aveva idea che Tobio-kun giocasse in Italia; gli viene da ridere così forte che gli avversari segnano un ace sotto al suo naso, su un servizio semplicissimo. Si scusa, ma nessuno sembra farci caso, pare che gli importi più di sghignazzare, gesticolare, sudare e insultarsi, che di vincere la partita. 
Il vento soffia aria salmastra dal porto, il cielo è tappezzato di un azzurro invincibile. E Yuu si sente in pace. Finalmente, anche lui sta solo giocando.
Ed è bellissimo.

Yuu ormai sa che il ragazzino uccello si chiama Hoshiumi Korai e non si stupisce affatto di incontrarlo dove in effetti lo incontra, in uno spogliatoio che odora di candeggina e Salonpas.
Si sono rivisti già una volta al liceo, al secondo anno, ai nazionali dello spring. Si sono riconosciuti subito, ma non avevano niente da dirsi che non si potesse dire meglio senza parole. Korai sembrava ancora un uccello e portava sempre una ginocchiera sola. Yuu una sola gomitiera. 
Davvero non serviva a niente parlare.
Due anni dopo, invece, in quello spogliatoio angusto, qualcosa è cambiato.
«Quanti ne hai ricevuti?» chiede Korai, mentre si infila un paio di calzini di spugna. Non lo ha neppure salutato.
«Di cosa?»
«Inviti ai provini» risponde, come se fosse ovvio. E per lui lo è. Quelle grandi ali che aveva da ragazzino sono cresciute piegate a un unico volo.
«Tre.»
«Io sei. Ma questo è l’unico che mi interessa.»
Yuu non sa cosa dire. Anche a lui interessa, o non sarebbe lì.
«Non sei cresciuto tanto» aggiunge Korai.
«Nemmeno tu.»
Sorridono tutti e due; sfiorate dal sole obliquo del primo mattino, le loro due ombre che si fronteggiano sono lunghissime.

Yuu guarda il provino di Korai dalla panchina. Un servizio con un salto che sembra prendere un vento che non esiste, una bomba, precisa come il colpo di un cecchino a un millimetro dalla linea di fondo. Oh, se è matura l’uva del ragazzo uccello!
Lo guarda ricevere, passare, alzare e poi spiccare un salto potente e diritto, con la mano tesa verso il grappolo più alto, e lì esplodere una schiacciata che è un fuoco d’artificio. Il suono dello schianto rimbomba nel futuro. 
La pallavolo è delirio di onnipotenza. Questo Yuu lo capisce, se lo sente nelle ossa. Le sue non sono cave, ma piene, solide, ancorate al suolo.
Gli piacerebbe stare in squadra con il ragazzo uccello, ora che le sue ali sono enormi e tutta quella collera che gli abitava negli occhi è diventata fame e determinazione. Gli piacerebbe guardargli le spalle, proteggere i suoi voli, condividere i trionfi a metà fra terra e cielo, dove i loro regni si toccano.
Si sorprende a immaginarsi quella vita, il sapore dolcissimo dell’uva sul palato. Nello spazio di un minuto, Yuu la vive per intero, mese dopo mese, anno dopo anno. Dietro l’angolo c’è la maglia rossa della Nazionale. Le Olimpiadi forse. Un contratto, un appartamento, uno sponsor, risate, bevute, una rissa, un’infiammazione ai legamenti, una vittoria (o molte vittorie), una sconfitta (o poche sconfitte), una stanchezza, un infortunio, un’esaltazione, cento, mille, diecimila palle impossibili recuperate all’ultimo istante, dopo un muro, dopo una schiacciata, dopo un servizio. Il ruggito di uno stadio che esulta come una bestia viva e fa ribollire il sangue, una medaglia, un podio alto come un grattacielo.
E mentre guarda la schiena inarcata di Hoshiumi, il suo sguardo rivolto al soffitto, le ginocchia piegate, le suole blu delle sue scarpe, proprio allora Yuu le vede.
Sottili, traslucide, lontane. Ma sono lì, confuse fra gli spalti, le luci e il cielo oltre lo stadio: le sbarre di una gabbia enorme.
Sbarre fatte di giornate tutte identiche, di tragitti fissi su strade note, di allenamenti monotoni, disciplina fisica e morale, emozioni rilasciate a pillole in singoli istanti fulgidi, come psicofarmaci a rilascio rapido, una serenità con punte di esaltazione, che avvelena poco a poco, mutando il destino in abitudine.
Quando Korai si volta sorridendo, Nishinoya è sparito.

Poco fuori Luxor, dove non arrivano i pullman e le navi da crociera, Yuu mangia pane e formaggio seduto a gambe incrociate sotto un’acacia.
Gli piace molto guardare quel fiume blu che scorre come una vena pulsante nella terra gialla. Dal suo sangue fioriscono giardini; poche decine di metri più in là si stende un selvaggio nulla fatto di rocce, zolle crepate, cespugli aridi e monti lontani che sfumano nella polvere.
Yuu ha scoperto di amare i contrasti. Gli piace come stridono, come sorprendono, come fanno tremare il cuore e le ginocchia.
Fruga nella tasca dello zaino in cerca di una biro, toglie il tappo tirandolo via con le labbra e inizia a scrivere un indirizzo di Tokyo sul retro di una cartolina.
Qualche giorno fa gli è arrivato un messaggio, da un numero che tanti anni prima aveva registrato sul telefono, alla voce della rubrica: Pennuto.
In una dozzina d’anni è il primo messaggio che gli arriva.
In realtà c’è un motivo: è stato lui a scrivere per primo.
Ha inoltrato una foto del ragazzo uccello con la maglia della nazionale, trovata per caso su internet. E’ la pubblicità di una fit-band o qualcosa del genere.
“Sei diventato abbastanza alto?” gli ha scritto.
“E tu?” ha risposto il pennuto. E’ il tipo di persona a cui piace ribattere a una domanda con un’altra domanda. Per di più, una complicata e ambigua.
Yuu ha inviato un selfie in cui, a contrasto con uno dei colossi di Memnone alle sue spalle, sembra minuscolo come una formica. “Io lo sono sempre stato” ha scritto sotto.

“Dimmi perchè” ha scritto di rimando Hoshiumi. Non c’è un punto interrogativo, non è una domanda: è una richiesta, una pretesa. Un dubbio che gli è rimasto bloccato in gola come una lisca di pesce tutti questi anni.
Non c’è bisogno che aggiunga altro, Yuu ha capito benissimo cosa vuole sapere: perché hai mollato?
E’ curioso questo fatto, che si intendano tanto bene pur essendosi frequentati, in effetti, pochissimo. Ci sono fra loro affinità così profonde che superano le differenze. La prima e la più importante è l’ostinazione. La seconda è quella corsa pazza, quella danza sfrenata, sempre sul limite dei propri limiti. Solo gli orizzonti sono diversi: chiuso fra quattro pareti di uno stadio, netto e abbagliante di luci artificiali quello di Korai, srotolato nell’infinito, diluito e immateriale, quello di Nishinoya.
Yuu vuole rispondere, ma non con un messaggio. Ha scelto una cartolina; una di quelle brutte, un po’ vecchiotte, divisa in riquadri e piena di inquadrature scontate della città, della Valle dei Re, del tempio di Amon. Non sa bene perché, ma doveva essere quella.
Riflette un attimo su come formulare una risposta, mordicchia il fondo della penna, assaggia la resistenza della plastica fra i denti.
Ognuno porta in tasca la chiave della propria gabbia.

 

«Pronto?»
«Ciao. Sono… quello che ti ha spaccato la faccia.»
«Lo so. Che vuoi? Hai idea di che ore sono?»
«Sì. Volevo dirti che domani parto.»
«Ah.»
«…»
«Dov’è che abiti?»
«A Nagano. Tu a Sendai?»
«A Osaki, veramente.»
«E dove sta?»
«A mezz’ora da Sendai.»
«Un buco di culo, praticamente. Ecco perché parli con quell’accento da sfigato. Comunque noi domani partiamo presto.»
«Presto quanto?»
«Presto che a fare quei servizi prima di colazione non riesco a venirci.»
«Ah.»
«Sai dire solo ah
«Che ti devo dire?»
«Boh. Qualcosa tipo che ti sei divertito questi giorni.»
«Secondo te se non mi divertivo passavo dieci ore a farmi tirare palle in faccia?»
«Mi sono divertito anch’io.»
«Ehi, lo leggi monthly volleyball?»
«Certo.»
«Anche gli inserti di marzo sulle scuole?»
«Ovvio.»
«Allora fra un anno o due leggi bene, vedrai che il miglior libero delle medie lo conosci.»
«Tu guarda bene la copertina di quell’inserto, scommetto che ci mettono uno schiacciatore che lascia tutti a bocca aperta.»
«Cioè tu? Figuriamoci. In copertina ci finiscono solo quelli alti
«Te ne ho tirate troppo poche, di palle in faccia.»
«Senti, pennuto, torni qui la prossima estate?»
«Non credo.»
«Ah.»
«Piantala con questi ah. Senti, nano, ti volevo dire una cosa: abbiamo fatto casino con le gomitiere e le ginocchiere, me ne sono accorto prima.»
«In che senso casino?»
«Che ti sei preso il mio ginocchio sinistro al posto del gomito. E il tuo gomito ce l’ho io.»
«E’ colpa tua, mi hai tirato in faccia anche le gomitiere.»
«Pensavo di scambiarle domani, ma mi sa che non facciamo in tempo.»
«Fa niente, tanto il braccio sinistro non mi fa mai male. Tienitelo per ricordo delle gomitate che non ho fatto in tempo a darti.»
«Che idiota. Vedrai se non ti piazzo una parallela sul piede alla prossima occasione.»
«Non vedo l’ora, giuro.»
«Allora ciao.»
«Ciao, pennuto. Non diventare troppo alto.»
«Sempre più di te.»

L’alta montagna è un silenzio fatto roccia, una maestosa solitudine. Yuu all’inizio la temeva, poi ha imparato ad amarla. E’ ancora vero quello che diceva il nonno, ossia che aver paura di qualcosa prima di provarla è solo uno spreco di tempo e di energie.
E’ anche vero che Yuu preferisce il mare, gli orizzonti lunghi e distesi, il vento che sussurra canzoni e risate sconosciute. La montagna è un’esperienza di qualità diversa. Un esercizio di ascolto, un ritmo cui accordare il passo, respiro dopo respiro.
Yuu cammina e pensa, cammina e sente. Cammina insieme alla propria ombra (e alle proprie ombre) e ha imparato a portarsele in spalla.
Non è vero che tutta l’uva è matura. A volte l’uva è acerba e la volpe troppo ostinata per lasciar perdere, ma sono cose che si imparano con il tempo e con gli anni. Cadendo tante volte, alzandosi tante volte.
Quello che Yuu ancora non sa è se le sbarre ci siano comunque, da qualche parte, se non sia solo molto più grande la voliera. E forse sono proprio quelle, che continua a cercare, sperando di non trovarle mai.
E se le trovasse a un certo punto?
Ha capito un po’ di cose della vita e tante ancora no. E inizia a pensare che forse, alcune delle risposte che vuole le sta cercando nel posto sbagliato. 
L’ultimo messaggio di Korai era la foto di un biglietto aereo, per una destinazione oltre ogni possibile idea di turismo.
Sono passati quasi vent’anni e alti non sono mai diventati, nessuno dei due.
Tutto è cambiato. Niente è cambiato. Ed è proprio così che funziona.
Le altezze più sconfinate sono quelle ancora da scalare e sono dentro.


NOTE: 
Questa OS è il frutto degli eccessi pasquali e anche della lettura di moltissimi charachter study davvero belli (quasi tutti preziosi suggerimenti di @speechlessback), con i quali però non posso confrontarmi. Il mio è un tentativo maldestro, più che altro una scusa per rispondere alle mie stesse domande: il dubbio sul perché un giocatore dotato e orientato alla vittoria come Noya avesse mollato mi perseguitava e volevo proprio saperlo da lui, come fosse andata. Cosa c'entri il pennuto me lo sto ancora chiedendo, ma ci si è infilato di prepotenza.

   
 
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