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Autore: Nariko_koi    26/04/2022    2 recensioni
Regione dello Hubei, 1939.
Dopo essere stato ferito sul campo di battaglia e congedato, Wang Yao, tenente dell'esercito Nazionalista, si trova costretto a scortare il proprio aguzzìno lontano dal fronte. All'incarico di per sé insolito si aggiunge il fatto che Honda Kiku, l'ostaggio, non è un volto nuovo nella vita di Yao. Dopo aver condiviso un'estate sulle sponde rigogliose del Fiume Azzurro, i due si ritrovano a distanza di anni a camminare fianco a fianco indossando divise di schieramenti tra loro opposti. Yao è sfuggente, impenetrabile e pieno di collera, una collera di cui Kiku, incorruttibile e legato alla propria causa, non comprende fino in fondo la motivazione. Due spiriti fratelli, entrambi brillanti e inquieti, un ricordo che emerge da dietro la devastazione attorno ai passi dei due soldati, due nazioni senza speranze.
Sulla strada per Chongqing, il passato tornerà a chiedere la resa dei conti, e Kiku e Yao saranno costretti ad affrontare i loro demoni, nel tentativo di preservare la loro scarna, sofferta, umanità.
[NiChu/ChuNi] [Accenni ad altre coppie e personaggi]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi, Slash | Personaggi: Cina/Yao Wang, Germania/Ludwig, Giappone/Kiku Honda, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo VII
Il distacco
 
Kiku era agitato. Yao l’aveva capito dal modo in cui si toccava le dita col pollice, una dopo l’altra, partiva dal mignolo fino ad arrivare all’indice e poi tornava indietro. Aveva osservato in silenzio quel gesto ostinato mentre dal teatro si dirigevano in macchina fino a casa, e dai finestrini la luce intermittente dei lampioni proiettava quadrati gialli sulle sue mani.
«Nervoso?»
Kiku non rispose subito, smise di giocare con le dita come se si fosse accorto dell’origine di quella domanda. Si voltò verso il finestrino. «Non sono mai stato a una festa.»
Si erano tolti le giacche e le tenevano sui rispettivi grembi, divisi tra l’insofferenza per il caldo e il terrore di stropicciare il tessuto. Così il colletto lasciava intravedere una porzione del collo di Kiku e la camicia gli modellava le spalle solide. In quel momento Yao ebbe l’impulso improvviso di toccarlo, di infilargli una mano sotto a quell’involucro bianco e piantargli le unghie nella schiena. D’istinto si pizzicò la mano, si sciolse i capelli per legarseli meglio in una serie di movimenti frenetici, la bocca gli si inaridì. Per un attimo lo assalì la paura che Kiku potesse avergli letto la mente, era un’idea che lo afferrava ogni volta che si trovava preda di pensieri insoliti.
Si sistemò un ciuffo dietro alle orecchie. «Cerca di prenderla con leggerezza.»
Si sentì un ipocrita dopo aver detto una frase del genere, proprio lui che da qualche anno aveva perso l’interesse per quelle adunate tra membri dell’alta società, un mondo che da tempo iniziava a presentarglisi come un teatrino di spettri il cui unico interesse consisteva nel segnare un confine sempre più netto tra se stessi e gli altri, e che per quel fine perseveravano nella ricerca di motivazioni per gonfiare il proprio ego. O forse la verità era da quando aveva compiuto vent’anni tutti i traguardi per cui fino a pochi anni prima veniva piazzato su un piedistallo avevano perso di valore, così come il titolo di enfant prodige che gli aveva assegnato proprio quella cerchia di pavoni che tanto disprezzava.
Quando scesero dall’auto Yao non lo guardò, e così fin quando non varcarono la soglia del salone e si immersero nella luce dei lampadari elettrici. Anche dopo che il gruppo degli attori che lo aveva accompagnato sul palco si strinse loro attorno non gli rivolse uno sguardo, invece sorrise al volto incipriato di Yi Lin.
«Ecco la nostra Wang Zhaojun.» trillò lei, prima di stampagli un timbro di rossetto sulla guancia. Yao si passò il dorso della mano sull’alone vermiglio.
«Sei invidiosa perché ti ho soffiato la parte.»
«Direi piuttosto che ti ho concesso un attimo di notorietà. Non ci presenti il tuo amico?»
Yao lo indicò con la mano aperta. «Lui è Kiku, è nostro ospite per l’estate. Kiku, la compagnia teatrale con cui lavoro.» Con la coda dell’occhio vide Kiku piegarsi in un inchino. Yi Lin si sporse subito in avanti per prenderlo sottobraccio.
«Siediti con noi, Kiku-san, raccontaci un po’ di te.»
Yao sputò un “vi raggiungo”, ignorò l’occhiata che Kiku gli rivolse, come a voler cercare un appiglio in mezzo alla marea. Il pensiero di starlo punendo per una colpa che non aveva gli stringeva il petto, e pur di soffocare quella morsa lasciò che sua madre lo trascinasse su un divano accanto alle finestre. Lì con lui sedevano Wang Long e un manipolo di visi che Yao ricordava di aver visto a feste del genere e nell’ufficio del padre, ma che in realtà gli apparivano come un unico volto. Anche Honghui era con loro, seduto sulla poltrona accanto a Yao, e a differenza sua non era stata Lanhua a gettarlo su quei cuscini, c’era andato di sua spontanea volontà per ascoltare conversazioni su investimenti e affari.
Yao non seppe dire quanto tempo passò in silenzio con le mani sul bracciolo del divano a osservare il neo sulla guancia del signor Yuan – o era il signor Zhang? – fatto sta che la ragazza al pianoforte aveva già cambiato più di quattro canzoni e lui doveva aver detto sì e no tre parole da quando aveva preso posto con loro. Dopo la sesta canzone al pianoforte la ragazza aveva lasciato il posto sul piccolo palco a un gruppo jazz e Lanhua si era volatilizzata. Un cameriere allungò loro un vassoio che reggeva una schiera di bicchieri flûte, Yao ne prese uno e fece un cenno con la testa per ringraziare l’uomo che glielo porgeva.
«Come mai la signorina Wang non festeggia con noi?»
A parlare era stato il signor Liu, Yao ricordava il suo nome perché anni prima avevano avuto modo di discutere di politica. Allora la conversazione era stata troncata sul nascere dall’intervento repentino di Lanhua, ma nonostante avessero avuto poco tempo a disposizione a Yao era stato chiaro sin da subito che si trattava di un conservatore di prima categoria, così scoprire che faceva parte di quella fetta di uomini che ancora pagavano per comprare giovani donne da chiudere in una camera da letto non lo aveva sorpreso1.
«È troppo giovane per feste di questo tipo.» rispose lapidario. Non gli servì voltarsi a guardare Long per sapere che non aveva gradito questo intervento. Si portò il bicchiere alle labbra e vide con la coda dell’occhio che Honghui teneva lo sguardo lontano da loro.
«È un vero peccato. Hai più considerato la mia offerta, Wang?»
Non gli ci volle molto per capire che non parlavano di lavoro. Yao si fece scappare un ghigno: pensò che quel vecchio doveva aver fatto confusione con le pillole se pensava che Long avrebbe contribuito ad ampliare la sua collezione di bamboline.
«Parliamone con calma domani.»
Per un momento Yao rischiò di perdere la presa sul bicchiere. Si voltò con uno scatto a cercare gli occhi di suo padre, non si premurò di non darlo a vedere e non fece caso ai colpi di tosse dei presenti. Long non lo guardava, fumava in silenzio osservando la massa di seta colorata e profumo che danzava di fronte ai loro occhi.
Yao si alzò e si stirò le pieghe dei pantaloni con le mani aperte. «Con permesso.» farfugliò, e si diresse verso il bancone dietro al quale un barista bianco scecherava alcolici. Si sedette su uno sgabello e solo dopo aver ordinato si accorse che l’unica testa bionda trai presenti gli sedeva accanto.
«Brutta serata?» Arthur biascicava, era evidente che quello che reggeva in mano non fosse il primo bicchiere. Yao lo ignorò. «Prima che arrivassi tuo fratello mi ha spennato a poker2. Sto parlando con te, you wanker.»
«Che cosa vuoi?»
«Perché quel muso da cavallo?»
«Non sono affari tuoi.»
Arthur si mise a osservare il fondo del bicchiere con un ghigno. «Il tuo amichetto ti ha dato il due di picche?»
A quel punto Yao si girò a guardarlo. «Ma di che parli?»
Arthur gli lanciò un’occhiata, poi liberò un risolino grave. «Non fingere di non capire. Lo guardi come se volessi spolparlo.» Yao non disse una parola, ma capì che doveva essere arrossito dal calore che lo afferrò alle guance. «Ah! Allora vedi che hai capito?»
«Che cosa vuoi, Arthur?» ripeté.
«Di’ un po’, il ragazzino lo sa come passavamo il tempo a Oxford? Come credi che reagirà quando scoprirà che mi mettevi le mani nelle mutande?»
«Mi fai schifo.»
«Io? Da quel che ricordo almeno con te sono stato onesto, tu invece cerchi un altro bel giocattolino da corrompere.»
Yao strinse il bicchiere al punto di sentire il vetro scricchiolare. Aveva seppellito tutte quelle vecchie questioni talmente in profondità da non aspettarsi che Arthur le riesumasse e che gli svuotasse addosso la bara in cui le avevano rinchiuse. In quei momenti capiva perché aveva deciso di rinunciare ad Oxford, perché la presenza di Arthur, Arthur che sembrava provare un malsano piacere nel rinfacciargli i propri errori e fallimenti, con le sue continue scortesie, lo soffocava, gli faceva mancare il respiro. «Sei una persona orribile, Arthur.»
Arthur prese un altro sorso di scotch e si guardò alle spalle. «Qualsiasi cosa tu gli abbia fatto direi che non l’ha presa bene.» Yao seguì il suo sguardo: dall’altra parte della stanza Kiku rideva scomposto accanto a Yi Lin. Da come sedeva e gesticolava era intuibile che avesse preso qualche bicchiere di troppo.
«Cazzo.» sibilò a denti stretti. Posò il bicchiere sul banco e si lanciò verso di lui a grandi falcate. Kiku era seduto di profilo e rivolgeva il viso a una ragazza alla sua destra, parlava con un tono di voce troppo alto per lui. Quando gli fu vicino Yao gli posò la mano sulla spalla e Kiku si voltò di scatto. Aveva gli occhi acquosi e le guance rosate come la peluria delle pesche, e la nube d’alcool rendeva ancora più evidente il velo di tristezza che gli nuotava sul fondo dell’iride. Forse Arthur aveva ragione, forse stava solo per corromperlo senza possibilità di rimedio. «Dobbiamo andare.»
Kiku non disse nulla, Yao non riuscì a decifrare il suo sguardo. Forse aveva capito di essere stato punito senza motivo. Accanto a lui Yi Lin posò il bicchiere sul tavolino. «Meglio che lo ascolti, non hai una bella cera.»
Kiku distolse lo sguardo da lui, bofonchiò un saluto e si alzò, forse con troppo impeto, perché per poco non cadde sul tavolino. Yao lasciò che gli si appoggiasse al braccio. Camminava scomposto, quasi rischiò di andare addosso a un cameriere. Dal modo in cui si mise la mano sotto al naso Yao capì che moriva d’imbarazzo. Quando furono nella stanza degli ospiti Yao lo aiutò a sedersi sul letto, Kiku aveva tenuto gli occhi bassi per tutto il tragitto. Yao gli tolse le scarpe, Kiku disse che ce la faceva da solo. Poi Yao cercò il jinbei3 nella valigia, lo estrasse e glielo posò sul letto.
«Ti aiuto a svestirti?»
«Ce la faccio.»
Yao mise una teiera a bollire sul caminetto, e dopo aver versato il tè nel filtro disse che sarebbe tornato presto e uscì. Il porticato interno disegnava un quadrato che ospitava la luna, dall’edificio principale giungevano ovattati il vociare degli ospiti e le note del pezzo jazz. Yao infilò la porta della cucina, se la richiuse alle spalle e prese a frugare dentro agli stipetti. Nilufar usava le boccette vuote di salsa di soia per conservare un medicinale, serviva soprattutto per curare la sbornia. Yao lo trovò dietro a una busta di miglio, svitò il tappo per accertarsi che fosse la bottiglia giusta e la smorfia che fece nel riconoscerne l’olezzo gli confermò che aveva trovato quello che cercava.
«Xiǎohuǒzi
Per poco la boccetta non gli cadde dalle mani, nel girarsi batté la testa contro allo sportello. Nilufar aveva l’hijab sistemato alla bell’e meglio sul capo canuto. «Va tutto bene?»
Yao si massaggiò la nuca. «Scusa, mǔmā, non volevo svegliarti – sollevò la boccetta – è per Kiku, ha alzato un po’ il gomito.»
Nilufar si lasciò scappare una risatina, si scostò i capelli dalla fronte. «Davvero non me l’aspettavo. Sembra un tipo così composto.»
«Già – Yao sorrise in risposta – credo che la festa l’abbia provato.»
Rimasero in silenzio per un po’, durante quel tempo fu chiaro a tutti e due che Yao sentiva il bisogno di dire qualcos’altro, e che Nilufar attendesse di aver qualcosa a cui rispondere. C’è un ragazzo nella stanza degli ospiti. Ecco cosa voleva dire. C’è un ragazzo nella stanza degli ospiti, mǔmā, un ragazzo come me, con le mani venose come le mie, la gola larga come la mia, le spalle ampie come le mie, c’è un ragazzo nella stanza degli ospiti e io muoio dalla voglia di baciarlo.
«Hai mai pensato di tornare in Afghanistan?»
Nilufar lo guardò con un sopracciglio alzato. «Come mai questa domanda? – non aspettò che Yao rispondesse – Ci ho pensato, sì.»
Yao spostò il peso da un piede all’altro. «E perché non… sì insomma… è per il lavoro oppure…?»
«Anche se potessi tornarci non lo farei.» A questo punto Yao inclinò di poco la testa. «Vedi, xiǎohuǒzi… nella vita a volte ti capiterà di sentirti fuori posto. Succede, non è una cosa che puoi controllare. E se c’è una cosa che ho imparato è che certe cose puoi sforzarti di farle funzionare quanto ti pare, ma alla fine i pezzi dei puzzle hanno sempre un loro posto, non puoi forzarli a entrare dove non devono stare. Rischi di deformarli, di piegare il cartone, capisci che intendo?»
Yao annuì. Nilufar si sciolse in un sospiro. «Lo so che stai soffrendo, xiǎo-Yao. Non ne conosco il motivo, ma so che non stai bene dove stai. So che in questi casi la cosa più facile da fare è aspettare che passi da sé, ma io non amo questo genere di consigli. Non ti dirò di non toccare niente. Ho passato una buona parte della mia vita ad aspettare che il mondo attorno a me si aprisse per farmi spazio, ma non è così che funziona.»
Yao rimase ad osservarla in silenzio, notò che al buio diventava strabica, anche se non era troppo evidente. Fino ad allora aveva sempre pensato che la sua condizione di recluso, di isola, fosse troppo rara per essere condivisa da altri nelle sue estreme vicinanze. Aveva sempre visto Nilufar come un ingranaggio ben oliato di una macchina che lavorava in armonia, e aveva talmente dato per scontato questo assetto da non aspettarsi che quell’ingranaggio un tempo facesse parte di una macchina che non poteva accoglierlo. Forse questa nuova consapevolezza avrebbe dovuto rassicurarlo, eppure in quel momento un nuovo timore si faceva strada in lui: era l’idea di non saper scegliere la giusta occasione per trovare il suo posto nel puzzle, di non saper riconoscere il momento giusto e la scelta esatta. O peggio, l’idea di non avere il coraggio necessario per saltare dalla finestra nella notte, come aveva visto fare a Nilufar milioni di volte nella sua testa.
«E come fai a capire quando sei nel posto giusto?»
Nilufar gli sorride.
«Lo capirai.»
 
Durante il tragitto per la stanza degli ospiti Yao si fermò di fronte alla porta di Mei. Da dietro il legno scuro passava la melodia ovattata di un brano di musica classica, ascoltando con attenzione poteva sentire il fruscio della puntina sul disco. Socchiuse la porta, attraverso lo spiraglio vide Mei in camicia da notte e a piedi nudi mentre si sollevava sulle punte e piroettava su se stessa.
Una volta avevano visto uno spettacolo di danza classica a Nanchino, era qualcosa di Tchaikovsky di cui Yao non ricordava il titolo. Invece ricordava gli occhi brillanti di Mei seduta accanto a lui, il modo in cui osservava i passi misurati delle ballerine russe in calzamaglia coi loro muscoli asciutti e tesissimi, lo svolazzare di tulle e rasi, i gesti delle loro mani lunghe. All’epoca Mei aveva sette anni e aveva pregato Lanhua di farle fare un corso di danza classica. Yao non avrebbe saputo spiegare la rapidità con cui era passata dal girare su se stessa con piccoli passetti da pulcino ad allungarsi in spaccate vertiginose. La sera tornava a casa sudata e con lo chignon spelacchiato, Nilufar le portava una tinozza d’acqua e le lavava i talloni che con gli anni avevano preso a sanguinare. Certe serate passava ore a tenersi premuta una busta di ghiaccio sulle caviglie, e poi, un paio giorni dopo, sembrava dimenticare il dolore alle articolazioni e le imprecazioni trai denti. Si rivestiva e si sistemava i capelli per la lezione.
Yao cercò di imprimersi nella mente l’immagine di lei che svolazzava scalza per la stanza, giovane e libera, le ginocchia ruotate verso l’esterno mentre salutava il pubblico dietro alle palpebre dei suoi occhi. Quando si voltò verso la porta saltò sul posto, trattenne a stento un’imprecazione.
«Ma che diavolo fai!»
Yao sbuffò una risata dal naso. «Passavo di qui e ti ho sentita saltellare.»
«Non stavo… non importa, va’ via.»
Yao raddrizzò la schiena e guadagnò qualche centimetro in altezza. «Modera i toni. Tchaikovsky?»
«Come?»
«La canzone, era Tchaikovsky?»
Mei incrociò le braccia sotto al seno piatto, scosse la testa con le labbra serrate. «Stravinsky.»
«L’uccello di fuoco
«Petruška. Lascia stare, sei una frana.»
Yao alzò gli occhi al cielo. «I balletti russi suonano tutti uguali.»
«Non sai di cosa parli. Petruška è tutta un’altra cosa, è pieno di dissonanze, frasi melodiche brevi e senza sviluppo, ha un ritmo serrato e poi attinge a canzoni popolari e valzer, insomma non c’entra proprio nulla con quello che hai detto tu.»
«Come fai a sapere tutte queste cose?»
A quel punto Mei esitò, le labbra dischiuse le diedero un’aria sorpresa ma durò solo un’istante, perché abbassò il capo e stirò la faccia in un sorriso. «Un paese ha bisogno di donne pensanti per progredire – disse, col mento sollevato e le mani sui fianchi – Lo hai detto tu.»
Yao stette in silenzio per un po’. Dall’altra parte del cortile arrivava una canzone tradizionale della zona di Nanchino. «Tanto per cambiare, ho ragione.»
Mei fece una smorfia di scherno, si sistemò i capelli dietro la spalla e si voltò. «Sei sempre il solito. Ora vai, torna pure ad agitare i fianchi e…» Le sfuggì un urletto di sorpresa quando Yao le arrivò alle spalle per circondarla con le braccia. «Ma perché sei così?» aveva squittito lui trai denti prima di sollevarla da terra in quella specie di abbraccio, mentre lei gli urlava nelle orecchie di metterla giù. Così Yao la assecondò, ma non riuscì subito a lasciarla. Perché Mei aveva sedici anni e sedici anni non sono abbastanza per partecipare a una festa tra adulti, non sono abbastanza per mettersi il rossetto e allora, si chiedeva, allora come possono essere abbastanza per rinunciare alla propria vita?
«Gē-ge
In quell’istante qualcosa tra loro era cambiato, Mei aveva tirato fuori un tono da adulta, da donna. La puntina si era incantata sul disco e ronzava come a chiedere di essere risistemata.
«Non crescere mai, mèi-mei
«Gē-ge, va tutto bene?»
Yao si staccò da lei e le mostrò un sorriso. Poi le mise una mano dietro alla nuca e la attirò a sé per baciarle la fronte. Le diede la buonanotte e uscì.
 
Incontrò Wang Long in corridoio. Quando lo vide chiudersi alle spalle la porta del bagno Yao si chiese se quella serie di incontri non fosse stata in qualche modo orchestrata da qualcuno di più grande di lui, o se il caso fosse solo un gran bastardo. In ogni caso fu contento che la stanza di Mei fosse lontana. Non poteva dire lo stesso della camera degli ospiti.
Wang Long si sistemò il colletto della camicia mentre lo fissava. Indicò la boccetta che Yao teneva in mano: «Quella a che ti serve?»
«Kiku non sta bene.»
«Per questo hai lasciato la festa di tua madre?»
Yao non rispose, invece si appigliò all’unica arma che gli era stata lasciata fin da bambino. Ha imparato molto presto a chiudersi in silenzi duri come armature, perché già allora sapeva che non poteva essere punito per qualcosa che non avrebbe detto. In quei giorni, quando Lanhua decantava un nuovo monologo sulla commiserazione e le mancanze del maggiore dei suoi figli, o quando Wang Long spariva per giornate intere dietro alle mura del suo ufficio, a Yao non restava altro da fare se non guardare. E quando guardava allora si assicurava di farlo bene, senza emettere un fiato, senza fare una smorfia. Guardava e basta. Lanhua impazziva, iniziava a camminare avanti e indietro per la stanza e qualche volta aveva anche tirato qualcosa di fragile contro a un muro. Una volta che cominciava, Yao non riusciva a fermarsi, la voce non tornava.
«Non fare aspettare gli ospiti.» disse a suo padre mentre lo superava.
«Yao.»
Yao si voltò con un unico movimento, come un ballerino.
«Ti prego, cerca di capire.»
«Mā-ma lo sa?»
«Non è necessario. Non c’è ancora nulla di deciso.»
Yao lasciò uscire una risatina dal naso. «Oh, allora è tutto a posto, immagino.»
In un’altra situazione Long avrebbe già alzato la voce da un pezzo, Yao immaginò che dovesse essersi ripetuto di stare calmo sin da quando l’aveva visto apparire nel corridoio. «Vedi di non esagerare.»
«Esagerare? Mei è una bambina! Dicevi che l’avresti mandata all’università e ora…»
«Ora basta! – Long si piazzò di fronte a lui con l’indice sulle labbra – basta, non voglio più discutere con te di questa storia. Stiamo vivendo tempi assurdi, Yao. Domani potremmo svegliarci e scoprire di aver perso tutto quello che abbiamo costruito perché l’ultimo arrivato improvvisamente è diventato imperatore o che so io4. Io passo tutta la mia giornata, ogni santo giorno, a cercare di prevedere qualsiasi possibilità di fallimento per tenere in piedi questa famiglia, e intanto tu mi dai lezioni su come fare il padre mentre te ne vai in giro conciato come un sovversivo!»
«Se sono tanto una delusione per te allora perché non vendi anche me a qualche vecchio bavoso per quattro –
Yao non finì di parlare, lo schiaffo gli fece voltare il capo di lato. Long si era avvicinato, da quella distanza poteva sentire l’odore della pipa e del vino. «Non permetterti mai più di parlarmi in questo modo, hai capito? Sei un ragazzino senza vergogna.»5
Così si sistemò il panciotto con un gesto secco e lo superò. Quando il rumore dei suoi passi sparì dal corridoio Yao carezzò le porte della camera degli ospiti e vi scivolò all’interno. Trovò Kiku con le ginocchia al petto e lo sguardo piantato sul muro, il jinbei aperto sul petto. Il caminetto era spento e la finestra spalancata. Yao posò boccetta e cucchiaio sul tavolino accanto al letto, poi si sedette di fronte a lui sul materasso.
«Che cosa hai sentito?»
Kiku non lo guardò, sembrò rimpicciolirsi contro al cuscino. «Mi dispiace, Yao.»
Yao si morse il labbro e distolse lo sguardo, con una mano si carezzò il collo. «Hai chiuso male il jinbei. Aspetta, ti do una mano.»
Così Yao gli sistemò lo scollo del vestito sul petto bianco, quando sollevò di nuovo il viso vide che Kiku lo osservava con gli occhi acquosi. «Ma quanto hai bevuto?»
Kiku abbassò di nuovo il capo. «Non ne ho idea, non reggo bene l’alcool – aveva la lingua impastata – sono un’idiota.»
Yao gli sorrise, mentre si allungava per recuperare la boccetta e il cucchiaio. «Prima o poi capita a tutti.»
«Ti ho rovinato la festa. Scusa.»
Yao rise. «Non scusarti, mi hai dato un pretesto per abbandonare quello strazio.»
Allora Kiku sorrise di rimando, ma fece una smorfia quando Yao gli piazzò il cucchiaio sotto al naso. «Ma che diavolo è?»
«Non fare il bambino.»
Kiku gli prese il cucchiaio dalle mani e ingoiò la medicina con due dita sul naso, poi strizzò gli occhi e tirò fuori la lingua. Yao soffiò una risata debole, poi chiuse la boccetta e la posò su un tavolino insieme al cucchiaio, infine gli passò una tazza di tè che ancora conservava il calore del bollitore. Mentre si passava le mani sui pantaloni, Yao parlò di nuovo. «Dovrei scusarmi io.»
«Per cosa?»
«Non saprei, credo di essere stato scontroso con te – mentre parlava capì di stare per dire qualcosa che Kiku non avrebbe dovuto sapere, e che ormai era tardi per rimangiarsi le scuse – È che a volte io… non voglio giustificarmi, ma qualche volta mi sembra che tutto sia così distante. Non so se capisci cosa intendo, forse non dovrei neanche fare questi discorsi con te a quest’ora. Lascia stare, è una cosa stupida.» Le cose che stava vomitando addosso a Kiku Yao le pensava davvero, ma non era quello il motivo per cui lo aveva allontanato tutta la sera, non era questo che doveva confessargli. Ho paura, Kiku. Questo, avrebbe dovuto dirgli.
Kiku si passò una mano sul muso. «È come avere un muro di vetro tutto attorno.»
Yao rimase ad osservarlo per qualche secondo. «Sì. Sì, è così. È come tenere la testa sott’acqua.»
«Mentre tutti gli altri stanno in superficie e tu sei l’unico a non capire di cosa parlano. Sì, credo di capire.»
Yao si ritrovò ad ascoltarlo con lo smarrimento di un bambino in mezzo a una foresta di bambù, senza una bussola, senza un segnale. «E ti capita spesso?»
Kiku si guardò le mani. «Tutto il tempo. Tranne quando sono con te.»
A Yao sembrò che la stanza girasse su sé stessa, forse per questo si sporse a stringere il polso di Kiku, per cercare un appiglio, per non venire sbalzato da una parete all’altra. Forse fu come premere un grilletto, perché a quel punto Kiku scattò in avanti senza alcun preavviso e lo baciò. A Yao scappò un grugnito sgraziato, strinse più forte quel polso sottile mentre le mani di Kiku gli si spostavano dalla faccia alla nuca, gli tiravano il nastro via dai capelli. Yao si abbandonò al suo calore, all’odore dell’acqua di colonia e al tatto delle sue spalle sotto alle proprie mani, al battito cardiaco nelle orecchie. Kiku si muoveva come se lo conoscesse da una vita, come se sapesse cosa cercava. Ebbe l’impressione che quel momento fosse già avvenuto milioni di volte, che le labbra di Kiku prima di essere le sue fossero state di guerrieri e imperatori, di monaci e di letterati. Fu come baciare se stesso.
Ma poi Yao avvertì il retrogusto alcolico della bocca di Kiku e la stanza smise improvvisamente di girare, e lui ebbe l’impressione di schiantarsi contro a un muro. Qualcosa di orribile lo investì, e quel qualcosa poteva essere la consapevolezza di stare offendendo qualcuno, forse Kiku stesso, di starlo per corrompere, di macchiarlo. D’un tratto si sentì sporco, la paura che lo aveva avvolto in macchina era tornata ad attaccarlo.
«Kiku – Kiku non lo ascoltava, allora Yao gli prese il volto nelle sue mani – Kiku, non posso»
Lo guardò con quei suoi occhi appannati, il petto gli si alzava e abbassava in intervalli scanditi, la fronte aggrottata. Deglutì. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma uscì solo una specie di suono indistinto.
«Non posso. Scusami, non posso.» E così Yao si alzò dal letto e uscì.
 
 
 
___
Note:
  1. Si riferisce alla pratica del concubinato, che in Cina perdurò fino al ’48 (quando venne instaurata la dittatura comunista). In sostanza, un uomo poteva sposare più di una donna cedendo una somma di denaro alla famiglia. Questa condizione di sottomissione è stata raccontata dall’autore contemporaneo Su Tong, nel romanzo Mogli e concubine, da cui è stato tratto il film del 1991 Lanterne rosse, diretto da Zhang Yimou. Nel periodo storico in cui è ambientata questa fanfiction, tuttavia, il concubinato inizia ad assumere una valenza controversa, che divide le famiglie tradizionaliste dalle personalità più moderne e avanguardiste.
  2. È un piccolo dettaglio: nel manga viene menzionata la fortuna di Macao nel gioco d’azzardo.
  3. Indumento estivo giapponese, tradizionalmente di colore blu o verde, composto da una giacca e un paio di pantaloni abbinati. Si usa in diverse occasioni, anche per dormire.
  4. In questo periodo la Cina, che da poco più di un decennio è diventata una repubblica, vive una situazione politica molto tesa e complessa. In questo panorama il territorio cinese appariva frammentato in zone meno ampie che subivano l’influenza dei signori della guerra locali, a ciò si aggiungeva una guerra civile tra nazionalisti e comunisti che ebbe esito solo nel ’48. Nel ’29, anno in cui è ambientata questa linea temporale, si è verificata una condizione di stallo molto fragile e breve, interrotta due anni dopo dai vari casus belli messi in atto dal Giappone.
  5. Mi sembra d’obbligo fare alcune precisazioni per spiegare il comportamento di Wang Long in queste righe. Bisogna tenere presente che la società e la famiglia cinese sono da sempre regolate da una forma mentis di stampo confuciano. Il confucianesimo, infatti, teorizza la divisione della società e della famiglia in una gerarchia molto rigida, in cima alla quale svetta la figura del padre, seguito dalla madre e dai figli in ordine decrescente di età. Dunque, per quanto la famiglia di Yao mostri un atteggiamento teso al rinnovamento, sarebbe assurdo se le loro interazioni non fossero influenzate, anche in minima parte, dal periodo storico e dalla morale confuciana.
  
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