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Autore: Sweet Pink    02/05/2022    7 recensioni
Impero Britannico, 1730.
Saffie Lynwood e Arthur Worthington non si potrebbero dire più diversi di così: freddo quanto implacabile giovane Ammiraglio della Royal Navy lui, allegra e irriverente ragazza aristocratica lei. Dire che fra i due non scorre buon sangue è dire poco, soprattutto da quando sono stati costretti a diventare marito e moglie contro la loro stessa volontà e inclinazione!
Entrambi si giurano infatti odio reciproco, in barba non solo al fatto di essere i discendenti di due delle più ricche e antiche famiglie dell'Impero, ma pure alla vita che sono sfortunatamente costretti a condividere.
Eppure, il destino non è un giocatore tanto prevedibile quanto ci si potrebbe aspettare, poiché sono innumerevoli i segreti che li tengono incatenati l'uno all'altra; segreti, che risalgono il passato dei Worthington e dei Lynwood.
E se, con il tempo, i due nemici si scoprissero più simili di quanto avrebbero mai immaginato, quale tremendo desiderio ne potrebbe mai derivare?
Genere: Romantico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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Vi chiedo scusa per il ritardo, ma questo è stato uno dei capitoli più difficili che io abbia mai scritto.

Spero di vedervi in fondo alla lettura.

Sweet Pink





CAPITOLO QUATTORDICESIMO

IL SEGRETO DI AMANDINE

La fine, o l’altro passato.



Marzo 1724.


DIARIO

Il mio nome è Amandine Lynwood, vivo nel Northampton e non penso che riuscirò mai a uscire da qui



“Non è di certo la maniera più felice con cui iniziare a redigere un Journal” considerò Amandine, poggiando il pennino piumato sullo scrittoio in mogano e concedendosi al contempo un pesante sospiro. “Pure se non credo ci siano molte altre parole che possano descrivere la mia intera esistenza!”

Con un movimento lento e pieno di cauta attenzione, la figlia più piccola di casa Lynwood si lasciò andare contro lo schienale imbottito della sedia e chiuse gli occhi per un lungo secondo, lasciando al silenzio della camera il dovere di distrarre i suoi pensieri dalla sofferenza provocata non solo dalla fatica di immettere aria nei polmoni, ma anche dalla mancanza di Saffie nella vita di tutti i giorni.

Per lei la porta della gabbia è sempre stata socchiusa, non è così?

Un eccesso di tosse improvvisa la colse impreparata e indifesa, obbligandola a spalancare di botto le iridi turchesi sul muro bianco che aveva di fronte, sopra le due righe con cui aveva deciso di aprire il suo diario nuovo di zecca.

In fondo, avrebbe potuto cominciare scrivendo della sua malattia: erano nate insieme, lei e la frustrante condizione che l’obbligava a starsene rinchiusa fra quattro mura dorate. Certo, aveva passato i primi sedici anni di vita confinata entro i limiti di un’immensa e altrettanto lussuosa tenuta secolare, perdendosi fra i suoi corridoi e i suoi ricchi giardini, ma questo nulla toglieva al fatto che la proprietà era in realtà una vera e propria prigione.

L’eco dei colpi di tosse andò via via indebolendo e Amandine prese un respiro profondo, sofferente. I suoi occhi azzurri scivolarono sul bicchiere colmo d’acqua che Kitty le aveva tempo prima messo vicino allo scrittoio e la ragazza lo guardò con intensa rabbia, quasi lo volesse rompere con il pensiero. Odiava la malattia, la sua instancabile compagna fedele; non sopportava di dover sostenere in continuazione le invasive cure di medici indifferenti, che la lasciavano esausta per intere settimane e, ugualmente, la nauseava l’atteggiamento di superficiale preoccupazione con cui i Duchi si interessavano a lei: da quando ne aveva memoria, suo padre e sua madre nutrivano un morboso attaccamento per tutto ciò che la concerneva, comprese le più sciocche delle questioni.

Perché si parlava ovviamente di Amandine, la figlia che possedeva la bellezza di una Dea e che doveva quindi essere protetta a tutti i costi, celata al mondo di fuori.

Come se mi avessero mai vista e amata per ciò che sono davvero.

Una smorfietta di frivolo fastidio deturpò il suo bel visino e la ragazza voltò la testa bionda in direzione del piccolo mobile al suo fianco, su cui capeggiava un adorabile cestino di vimini pieno zeppo di lettere provenienti da Londra. Era partita già da due mesi, ma Saffie non aveva perso l’abitudine di inondarla di missive affettuose con cui provvedeva a descriverle nel dettaglio le meraviglie che la Capitale aveva da offrire.

Vorrei tanto fossimo insieme, sorella mia”, aveva scritto un giorno. “Ma descriverti le mie attività quotidiane mi fa credere tu sia qui con me per viverle. Guardi il cielo stellato, ogni tanto? Io lo faccio sovente, perché sei spesso nei miei pensieri.”

Amandine ricordò di aver riso delle parole scritte di tutta fretta dalla sorella maggiore. Insomma, Saffie avrebbe dovuto pensare a trarre più godimento possibile dal suo soggiorno in città e non indugiare troppo con la mente sulla povera malata che si era lasciata alle spalle insieme all’oppressione di Alastair Lynwood.

La ragazza strinse fra le dita bianche l’ultima lettera arrivata da Londra e pensò che sicuramente il Duca aveva sempre trattato con durezza finanche eccessiva la maggiore delle sue figlie ma, allo stesso tempo, Amandine non nutriva alcun dubbio su chi fosse la favorita fra le due. Saffie stessa non se n’era forse resa conto – impegnata com’era a tentare di ribellarsi alle sciocche convenzioni che regolavano il loro mondo – ma era più simile ad Alastair di quanto la minore delle Lynwood avrebbe mai potuto aspirare ad essere: la vivace intelligenza e curiosità che contraddistinguevano la primogenita, agivano infatti su loro padre come uno sprone, una leva per metterla alla prova ogni giorno con maggior forza.

Non l’aveva mai confessato, ma probabilmente egli vedeva molto di un giovane sé stesso nello sguardo allegro e scanzonato di Saffie, pure se era un eufemismo dire che aveva sempre dimostrato il suo affetto per la figlia in maniera pessima.

“Non che questo possa venire prima degli interessi del nostro Casato” considerò Amandine, girando la busta sigillata dall’altro lato e scrutando la grafia minuta della sorella con aria assente. “Almeno, la sua gabbia è ben più spaziosa della mia.”

Da una parte, la ragazza bionda era felice che a Saffie fosse stata finalmente concessa l’opportunità di mettere piede al di fuori dei loro domini, seppure quella nuova libertà fosse in funzione della ricerca di un buon partito con cui poter stringere una degna unione. Non a caso, i loro genitori avevano messo alle costole della sorella il povero Gregory – il maggiordomo più fidato e anziano di casa Lynwood – che aveva il compito di accompagnarla ovunque andasse e assicurarsi così l’integrità della futura Duchessa agli occhi della Società.

Un risolino divertito sfuggì dalle labbra rosee di Amandine, che ricordò una delle recenti lettere di Saffie: a quanto pareva, Alastair era stato purtroppo informato della brutta abitudine del suo servo di addormentarsi su praticamente ogni divano di Londra, lasciando in questo modo la preziosa primogenita incustodita e libera di vagare dove meglio credesse!

“Mi chiedo come si trovi Saffie in compagnia del suo nuovo Chaperon” pensò la ragazza bionda, decidendo di mettere da parte il diario regalatole dal padre per dare precedenza alla missiva della sorella. “Gli avrà fatto una buona impressione?”

Nell’istante in cui le sue dita stavano per rompere il sigillo in ceralacca, un suono discreto s’insinuò nella pace della stanza e la sedicenne si voltò in tempo per cogliere la figura raggrinzita di Kitty stagliarsi sulla soglia, i due occhietti ossequiosi puntati su di lei. “Perdonatemi, padroncina” esordì, chinando un capo avvolto da una morbida cuffietta bianca. “Il Duca desidera la vostra presenza dabbasso con una certa urgenza.”

Un lieve sbuffo scocciato fu la risposta che ricevette. “Ora?” chiese infine Amandine, corrucciandosi un poco. “Pensavo proprio di leggere le ultima notizie di Saffie, adesso.”

“La questione non può aspettare, signorina” fece di rimando la domestica, in ogni caso abituata agli atteggiamenti capricciosi della più giovane delle Lynwood. “Vostro padre vuole presentarvi una persona, visto e considerato che l’ultimo medico è passato a miglior vita poco tempo fa e vostra sorella non è qui per potervi assistere.”

Oh, perfetto. Un altro dottore dalla faccia smorta.

“D’accordo, allora” si arrese la ragazza, alzandosi faticosamente in piedi e rifiutando il braccio teso di Kitty, venutale incontro di tutta fretta per sostenerla. “Ce…ce la faccio da sola.”

“Come desiderate, padroncina.”

Quella giornata primaverile del 1724 era quindi iniziata non troppo diversamente dalle altre per la candida colomba del Casato dei Lynwood e nessuno, in fondo, avrebbe potuto prevedere quanto da lì in avanti il suo destino avrebbe subito un mutamento radicale, quanto il fato di altre persone ne avrebbe risentito in futuro. Era bastato un momento, e due famiglie erano state condannate all’infelicità.

Amandine scese lentamente la scalinata di marmo bianco che dava sul grande salone d’ingresso, una mano sottile che scivolava ipnotica lungo il corrimano e nello sguardo la malinconia di un animale imprigionato. Alzò il viso pallido sulla persona che attendeva al centro della sala e, in un battito di cuore, fu grande la sorpresa che agguantò il suo animo: era un giovane uomo molto alto e vestito di tutto punto, quello che ora stava togliendosi l’elegante soprabito verde smeraldo, lasciandolo nelle mani del maggiordomo con un leggero sorriso di distante cortesia stampato su un volto affilato, attraente.

La ragazza non poté fare a meno di arrossire dall’imbarazzo e così fermarsi a metà scala, timorosa di fare un altro passo in avanti. Le capitava di rado di vedere estranei in casa e, al di là dei suoi medici, i gentiluomini amici di suo padre erano tutte persone attempate per cui nutriva scarso o nullo interesse.

Il nuovo venuto sollevò gli occhi neri e la guardò nel medesimo istante in cui Alastair entrò in scena, accostandosi all’imboccatura delle scale a braccia spalancate. “Ah! La mia straordinaria creatura” esordì l’uomo, riferendosi alla figlia quasi come se ella fosse un raro trofeo di caccia. “Scendi, presto. Desidero farti conoscere il figlioccio del mio caro Simeon.”

Dietro due sottili occhialetti cerchiati d’oro, un paio di iridi oscure la osservavano attentamente ed era uno sguardo tanto intenso, che Amandine si sentì attraversata da parte a parte. “Certo, padre” asserì quindi, ubbidiente e compassata, cercando di scrollarsi di dosso la sensazione strana che lo sguardo magnetico dello sconosciuto le provocava.

“Worthington, ricordi?” continuò a cianciare il Duca, una volta che la sedicenne li ebbe raggiunti. “È lui che mi ha personalmente raccomandato il suo pupillo: dicono abbia compiuto veri miracoli quando serviva la Marina di Sua Maestà.”

“La Marina?” ripeté colpita Amandine, schiudendo la bocca e girando il voluminoso capo dorato in direzione del ragazzo al suo fianco.

Quest’ultimo si strinse nelle spalle e scosse con noncuranza la testa, schernendosi: “Non merito tali parole” commentò, lanciandole un’altra occhiata, questa volta velata di sarcasmo. “Ho solo compiuto il mio dovere di medico di bordo, ma ormai non faccio più parte della Royal Navy.”

“Su, su! Worthington si fida di voi al punto di lasciarvi in gestione temporanea la dimora che si erge a pochi chilometri da qui e, sopra ogni cosa, assumere il ruolo di nostro medico personale…dopotutto, avete pur sempre vent’anni!”

Di nuovo, la voce di Alastair Lynwood sembrò rimanere un suono ovattato in sottofondo, poiché la figlia minore continuava ad osservare l’alta figura del suo nuovo dottore con due meravigliosi occhi spalancati e il suddetto si trovò ad arrossire leggermente, dandosi prevedibilmente dello stupido.

“Un medico?” domandò ancora Amandine. “Alla vostra età?”

Lui sembrò divertito dalla sua ignara ingenuità, dal suo spensierato non sapere.

“Benjamin Rochester, per servirvi” si presentò infine, inchinandosi appena e ignorando al contempo le fastidiose ciocche di capelli biondo cenere sfuggite dal morbido codino basso. “Vi prego di non celebrare troppo i miei talenti: d’altronde, ho un fratellastro che è di gran lunga più interessante e meritevole di me.”

“Ah, sì: il legittimo erede dei Worthington” si intromise con leggerezza la voce del Duca, mentre un’ombra di freddezza parve passare veloce sul viso del dottor Rochester. “E come sta, il giovane Arthur? Ho sentito grandi cose di lui e delle sue ultime imprese.”

“Sanguinario come sua consuetudine, ma vivo e vegeto. Non siamo in contatto da parecchio tempo, pure se posso dire a mio padre di scrivergli i vostri saluti, Eccellenza.” gli rispose soavemente Benjamin, alzando il capo e mostrandosi indifferente di fronte al velato insulto del padre di Amandine che, comunque, era impegnato ad ascoltare più che altro sé stesso.

A conferma di ciò, l’uomo ignorò totalmente il figlio adottivo di Simeon e cominciò a spiegare, voltandosi verso una esterrefatta signorina Lynwood: “Non è notevole? Ventotto anni e già è stato nominato Commodoro. Certo, non ha un lignaggio paragonabile al nostro, ma debbo ammettere che le sue capacità gli rendono pienamente onore.”

“Papà, voi non avete ascoltato neanche una parola, non è vero?” pensò rassegnata Amandine, scuotendo impercettibilmente la testa piena di bei boccoli dorati; e stava per aprire bocca, se un suono bizzarro – uno strano e a malapena trattenuto grugnito – non l’avesse distratta all’istante: a neanche due passi da lei, Benjamin Rochester nascondeva un ghigno piuttosto ironico fra le lunghe dita aggraziate, mentre il Duca Alastair continuava imperterrito la sua tiritera celebrativa.

Le iridi nere del dottore incrociarono le sue e anche alla ragazza sfuggì un sorrisetto divertito, complice.

Ed era stato strano, perché aveva sentito subito di conoscerlo, malgrado non l’avesse mai visto prima.


§


Luglio 1724.


“Non siate capricciosa! È da escludere che io vi legga un’altra volta questa poesia!”

“Oh? Rifiutate di ubbidire a un mio ordine, dottor Rochester?”

“Il mio dovere nei vostri confronti è circoscritto alla vostra salute, cara signorina. Per tutte le altre esigenze, avete un nutrito stuolo di domestici pronto a leggervi qualsiasi sonetto desideriate e per quante volte voi lo riteniate necessario.”

“Se la mettete in questa maniera…ebbene, non prenderò la mia medicina fino a che non rileggerete la poesia in questione! Shakespeare piace anche a voi, se non sbaglio!”

Detto questo, Amandine Lynwood picchiettò l’indice sulle righe incriminate, voltandosi poi all’indietro e sfoderando un’espressione di innocente candore che non fece altro se non renderla ancora più bella. “Accettereste la mia proposta?”

“Questo è un ricatto, non un’offerta, lo sapete?”

Nascosti tra le lunghe ombre degli alberi, Amandine e Benjamin sedevano su due rozzi scalini di pietra coperti d’erba, incuranti del misterioso fruscio provocato dal sottobosco attorno a loro. E come avrebbero potuto, quando la reciproca vicinanza era un peso che premeva sul cuore, senza lasciare pace alcuna?

Erano passati quattro mesi dal loro primo incontro e i due avevano cominciato a passare via via sempre più tempo insieme, avvicinandosi e scoprendosi in questo modo due anime in fondo simili. Entrambi solevano vivere nella solitudine e, malgrado la sostanziale differenza dei loro natali, il dottor Rochester e la signorina Lynwood erano due secondi figli, due trofei che dovevano sopperire l’uno la scomparsa del fratello maggiore e l’altra le mancanze della sorella più grande.

Soddisfare aspettative di cui né Saffie, né Arthur si erano mai curati minimamente.

Così, se all’inizio i loro incontri erano motivati solamente da mere ragioni mediche, le settimane ormai trascorrevano veloci tra passeggiate in giardino e rendez-vous in biblioteca perché, per quanto insolito potesse sembrare, Amandine e Benjamin trovavano un toccasana la reciproca compagnia. Una fresca sorsata di acqua pulita, di quelle che ti fanno venir voglia di berne ancora e ancora.

“Sono la figlia di un Duca” commentò con un sorrisetto frivolo la ragazza, raddrizzando la schiena fra le lunghe gambe del medico, seduto dietro di lei. “Io non ho bisogno di ricattare chicchessia per vedere esauditi i miei desideri.”

I suoi occhi turchesi fissarono il volto serio del dottore, immerso nella calda penombra a poca distanza dal suo; e il cuore di Amandine saltò subito un battito, perché la sedicenne comprese in un attimo che era una strada pericolosa, quella che stava percorrendo con tanta sconsideratezza: stava dando i suoi primi sentimenti in pasto a un ragazzo che non avrebbe dovuto desiderare vicino…eppure, doveva essere ormai troppo tardi persino per prenderne consapevolezza, visto che non voleva tornare indietro sui suoi passi.

“Allora non fatelo. Nemmeno con me” le rispose Benjamin, sfoderando un’espressione malinconica. “Pure se non avete bisogno di subdoli ricatti, per potermi tenere nel pugno della vostra mano.”

Poco lontano, un passerotto cantò tra gli arbusti e la signorina Lynwood trattenne il fiato, chiedendosi se il dottore stesse ancora facendo riferimento ai suoi capricci e al sonetto di Shakespeare.

No. Stai parlando di noi, non è forse vero?

Fu un movimento inconscio, quello che la portò a schiudere le labbra e ad avvicinarsi lentamente al viso affilato di Benjamin. Amandine fece in tempo a sentire il respiro caldo del ragazzo sulla bocca e a vederlo sporgersi a sua volta verso di lei, prima che delle bianche dita non la bloccassero sul posto, premendo con dolcezza sulle sue spalle.

Di nuovo, quell’espressione così assurdamente triste non accennava ad abbandonare i lineamenti del signor Rochester.

“Non tentare un uomo disperato” le disse sottovoce, soffiando parole dolorose sulle sue belle labbra rosee.

E fu rinchiuso in un pesante silenzio che Benjamin si alzò in piedi e cominciò ad allontanarsi dalla ragazza bionda, lasciandola sola nel bel mezzo di un magnifico parco a lei improvvisamente sconosciuto.


§


Dicembre 1724.


Amandine Lynwood percorreva a passo di marcia i lussuosi corridoi immersi nella opaca oscurità della sera, i piccoli tacchi delle scarpette rosa che si abbattevano sul pavimento di marmo con rabbiosa frustrazione. Al di là dei vetri delle finestre, una gelida luna illuminava un volto bianco e irrigidito dalla tensione, ma allo stesso tempo bellissimo e irreale come quello di un’antica divinità.

“Ricordati cosa dice sempre tua madre, sciocca” si riproverò con rabbia, ricacciando indietro lacrime amare e traditrici. “Una signorina perbene non piange per chissà chi e, di sicuro, non lo fa a causa di un dottore di origini plebee!”

Malgrado il suo impegno e tutta la sua determinazione, l’oscuro sentimento che le stava mangiando il fegato da una mezz’ora a quella parte – e cioè dal momento in cui era letteralmente fuggita dal salotto gremito di gente – ancora non voleva saperne di lasciarla in pace.

Suo padre aveva chiamato presso di sé qualche amico della sua cerchia di importanti e tronfi aristocratici, presentandola ovviamente al loro cospetto con la solita aria fiera da cacciatore che mostra un animale impagliato e appeso alla parete. Tra il suo imbarazzo e i mormorii ammirati dei signori presenti, Benjamin Rochester era rimasto dignitosamente sullo sfondo e sorseggiava un bicchiere di vino con impresso negli occhi neri uno sguardo freddo, distante.

Un doloroso spasmo aveva stretto la bocca dello stomaco di Amandine, che l’aveva visto poi abbassare il capo biondo con indifferenza e rigirare fra le dita aggraziate il bicchiere di cristallo ormai vuoto. No, in realtà non era stato quello il momento che aveva rappresentato il colpo di grazia.

Sovrastando le vane chiacchiere del Duca di Lynwood, una delle poche dame presenti alla serata – una ammiccante Marchesa di nome Lottie Middleton – si era rivolta a Benjamin esclamando, con grande sorpresa: “Oh, certo! Ora ricordo dove ho già sentito parlare di voi: ma a Londra, ovviamente! Ho incrociato giusto un mese fa il Commodoro Worthington a teatro, cosa già di per sé rara…se non fosse per le notizie che portava con sé! È dunque vero che vostro padre sta pensando di accasarvi nel prossimo futuro, signor Rochester?”

Il viso dell’interpellato si era irrigidito per un secondo, mentre un’emozione strana era balenata nelle sue iridi oscure, dietro alla montatura sottile degli occhiali. “Se è ciò che mio padre desidera, non vedo alcun motivo per cui dovermi opporre al suo volere” aveva risposto infine il ragazzo in tono marmoreo, senza sognarsi di voltarsi nella direzione di una Amandine pietrificata.

Non tentare un uomo disperato.”

Era stato l’istante in cui la ragazza aveva scoperto come fosse stato del tutto inutile fare finta che quel giorno di cinque mesi prima non fosse mai esistito. Si era bendata gli occhi, ma aveva testardamente proseguito sulla pericolosa strada che l’aveva portata a sacrificare il suo primo amore a Benjamin Rochester, a cedergli il cuore senza nemmeno rendersene conto: avevano entrambi passato le settimane in una finta incoscienza, cercandosi con lo sguardo e con le parole proprio come avrebbero fatto due amici; mentre, durante la notte, Amandine non riusciva a fare altro che pensare a lui in continuazione.

E al desiderio vergognoso che ne derivava.

Anche se, avrebbe dovuto saperlo, non esisteva alcuna libertà di scelta per due figli trofeo come lo erano loro.

Di fronte al comportamento freddo del suo medico personale, la figlia di Alastair si era ritrovata impotente e altrettanto delusa; aveva deciso così di dare retta alle sue gambe tremanti e voltarsi di scatto, guadagnando poco educatamente l’uscio della stanza proprio mentre la Marchesa di Middleton scherzava con suo padre del fatto che, a questo punto, avrebbe potuto dare in sposa la primogenita al famoso Arthur Worthington.

“Oh, se solo sapesse di Earl Murray!” pensò di getto Amandine, continuando a fuggire chissà dove, a nascondersi fra le fredde ombre dei corridoi. Più che mai, la ragazza sentì l’impellente bisogno di vedere Saffie e confessare gli stupidi sentimenti che per mesi aveva nutrito nei confronti di colui che aveva il compito di occuparsi del suo stato di salute. Aveva pensato spesso di scriverle a proposito di Benjamin, in realtà; ma alla fine non ne aveva mai trovato il coraggio: era sicuramente stata una sciocca decisione, quella di voler custodire quel segreto tutto per sé. Il suo primo amore, un tesoro che doveva appartenere a lei sola.

Pensi che potrò anche io innamorarmi, un giorno?”

Così aveva scritto sul libro delle nostre fiabe diversi anni prima.

Certo che potrai.”

La luna brillava accecante nell’oscurità e la ragazza venne fulminata all’improvviso da un sentimento bruciante e terribile, che segnò le sue guance bianche di pianto. “Non la desidero questa sofferenza, che non riesco a comprendere” realizzò, portandosi le mani su due incredibili gemme turchesi e splendenti, tentando così di asciugarsi le lacrime in maniera patetica, infantile. “Preferisco il dolore della malattia, se vedere lui ogni giorno è una tortura che non riesco a sopportare.”

Amandine stava giusto decidendosi a prendere la via per le sue stanze e a trascorrere l’intera nottata a piangere tra il morbido conforto dei suoi cuscini, che il tocco deciso di cinque dita lunghe si fece sentire sulla pelle del suo braccio magro. Nel silenzio della notte, ella si voltò di scatto e fece in tempo a intravedere la sagoma altissima del dottor Rochester apparire alle sue spalle come un tormentato fantasma gotico.

“Potete essere più sconsiderata?!”

Quelle quattro parole incollerite le erano volate addosso nello stesso momento in cui Benjamin provvedeva a spingerla di lato e a imprigionarla senza troppi complimenti fra il suo corpo snello e la parete. “Non dovete correre” le sibilò poi in un tono di tremendo disappunto, chinando il viso su quello stravolto di lei. “Quante volte dovrò ripetervelo?”

“Lo dite solo perché siete pagato per occuparvi di me e della mia salute” ribatté subito la ragazza bionda, alzando uno sguardo bagnato e sofferente sul dottor Rochester. “Se è mio padre ad avervi detto di inseguirmi, beh…beh, po-potete dirgli che sto bene!”

Il suo tono si era fatto via via più esile ed incerto perché, di nuovo, il respiro di Benjamin s’infrangeva sulle sue labbra e la tentava, invitandola ad avvicinarsi alla bocca del ragazzo in questione.

Una mano premuta contro il muro e l’altra ancora stretta attorno al braccio di Amandine, il dottor Rochester si abbassò lentamente sulla ragazza e la sua fronte sfiorò quella di lei. “Siete in errore” le mormorò con una voce strana, non incollerita ma bensì assorta, quasi ammaliata. “Ha pensato steste male, ma io vi avrei raggiunta pure se lui non me l’avesse chiesto…”

Immerse nella stasi innaturale di pochi secondi fatali, le labbra dei due si tesero l’una verso l’altra disperatamente, quasi si fossero sempre cercate, appartenute.

“…perché condividiamo un tormento che ci è proibito provare.”

Gli occhi pieni di inesauribili lacrime, la signorina Lynwood si allontanò di botto da Benjamin e cercò di sgusciare via dalle sue braccia, ignorare il suono del suo stesso cuore infranto; riuscì solo a girare il viso bagnato e a puntare le sue mani sul petto del ragazzo, nel debole tentativo di respingerlo, allontanarlo.

Sono una stupida ragazzina malata che si è nutrita di inutili fantasie.

Ma, inaspettatamente, furono le dita di Benjamin a trattenerla, allungandosi sulle sue guance fredde e intrecciandosi con i bei boccoli dorati dell’acconciatura. “Troppo tardi” disse il dottore, obbligandola dolcemente a voltarsi di nuovo nella sua direzione. “Ormai, la tua stessa esistenza è una tentazione per me.”

Non tentare un uomo disperato.”

E raggiunse una bocca in attesa della sua, baciandola con una intensità dolce e lenta, piena di amore disperato.


§


Giugno 1725.


La porta della gabbia era chiusa. Sigillata.

Benjamin era stato chiamato fuori città per qualche giorno e lei era svenuta per la seconda volta nel giro di una settimana, spingendo due allarmati Alastair e Cordelia a chiamare un medico dalla contea più vicina, malgrado le sue insistenze per non farlo, per convincerli ad aspettare il ritorno del signor Rochester.

Amandine si rese conto di avere le dita pallide strette nervosamente attorno alle lenzuola pulite del letto su cui l’anziano medico aveva appena finito di visitarla; tremavano con violenza, le sue mani, come se avessero già previsto prima di lei ciò che di lì a poco sarebbe avvenuto. Pure i suoi occhi azzurri, spalancati d’ansia, se ne stavano inchiodati sulla porta chiusa della camera perché – non poteva esserci errore alcuno – al di là erano riuniti i Duchi di Lynwood e il dottore, ora impegnati a discutere animatamente.

Il cuore incastrato in gola, la ragazza udì una cacofonia di voci indignate esplodere all’improvviso e, sopra tutte, riconobbe quella isterica di Cordelia: “Oh, Dio!” aveva urlato sua madre, il tono incrinato da un pianto imminente. “Siamo rovinati, Alastair! Rovinati!”

Il suono prodotto da un susseguirsi di passi infuriati le arrivò subito dopo alle orecchie e uno spasmo di agghiacciante paura attraversò le sue viscere, causandole un senso di nausea crescente; qualcuno stava marciando lungo il corridoio, diretto verso la stanza in cui l’avevano abbandonata, e la signorina Lynwood già sapeva che si trattava del padre.

Benjamin…vieni a salvarmi, ti prego.

La ragazza bionda fece in tempo a farsi scudo con il lenzuolo, a stringerselo al petto scosso dai brividi, che la porta si spalancò e sbatté con violenza contro il muro, tanto forte da produrre un secco rumore di spaventosa condanna. Sulla soglia, incorniciato dalla luce soffusa proveniente dal corridoio, stava l’alta e demoniaca figura del Duca di Lynwood: l’uomo fissò su di lei due iridi intrise di un rancore glaciale, tremendo, mentre le sue labbra erano solo un taglio sottile che sembrava aver trasformato i suoi lineamenti in quelli di un pericoloso serpente. Un’espressione che la diciasettenne poteva dire di non aver mai visto faceva mostra di sé sul volto livido di Alastair…una furia che non avrebbe incontrato ostacoli di sorta.

“Pa-padre, vi pre…”

“Non parlare” la zittì l’uomo con un sibilo carico di veleno, tanto incollerito da farla sussultare sul posto. “Non una parola verrà mai pronunciata in questa casa, sulla vergogna che tu e quello sporco plebeo avete rovesciato su tutti noi.”

Gli occhi turchesi di Amandine si riempiono di lacrime, alla vista della mostruosità impossessatasi di suo padre ed ella si portò inconsciamente le mani sul grembo, come a voler proteggere una leggera rotondità a malapena visibile.

Arriva e portaci via da qui, ti prego.

“Che io venga dannato, se lascerò il mio Casato affondare; che io sia maledetto, se permetterò a un misero dottore di sporcare il mio nome” continuò imperterrito il Duca, parlando in una maniera alla figlia del tutto estranea, continuando a stare in piedi sulla soglia e a fissarla senza avere alcuna intenzione di avvicinarsi. “Oh, verrete puniti entrambi e farò in modo che nessuno al mondo possa più sentir parlare di Benjamin Rochester.”

Fu quello l’unico istante in cui la bianca colomba imprigionata provò a uscire dalla gabbia dorata, a volare via dalle possessive mani del suo padrone. “Lu-lui vuole sposarmi, padre!” urlò quindi, cercando di non fare caso al suo balbettio impaurito. “Essere figlio adottivo di Simeon Worthington gli garantisce il privilegio di poter aspirare alla mia mano! Lo-lo sapete, che è così!”

“Quanto sei ingenua, figlia mia” rispose con crudele ironia Alastair, sorridendo freddamente. “Tu e Saffie siete la mia eredità e io mi assicurerò con ogni mezzo possibile che lo restiate finché sarà conveniente e opportuno. Il Dottore, un Worthington? Non farmi ridere.”

“Benjamin mi ama!”

“Non ne dubito, ma il suo amore non vale niente ai miei occhi” sentenziò il Duca di Lynwood, tendendo un braccio verso il centro della camera da letto. “Ringrazia tua madre, che mi ha implorato di non farti rinchiudere in un convento. Rimarrai qui, confinata in quest’ala della casa fino al momento del parto. Non riceverai alcuna visita, né parlerai ad anima viva di questa storia, soprattutto a tua sorella maggiore.”

Un viso scavato ma bellissimo, incorniciato da una cascata di boccoli biondi, si aprì in un’espressione di perplessità dolorosa, spaventata. “E…e mio figlio?”

“Tu non hai un figlio” arrivò la risposta lapidaria di suo padre, e fece male come una coltellata dritta nel cuore. L’uomo le diede le spalle e fece per uscire dalla stanza, rinchiuso dentro a una corazza di spietato orgoglio; si fermò quel giusto per poter aggiungere, in tono piatto: “Prego tu sopravviva alla gravidanza, perché partorirai questo bambino, pure se non sarà mai tuo…come d’ora in avanti Benjamin Rochester sparirà per sempre dalla tua vita.”

“…e farò in modo che nessuno al mondo possa più sentir parlare di Benjamin Rochester.”

Incapace di sostenere oltre il dolore che si propagava ad ondate dentro di lei e, al contempo, di osservare le spalle di suo padre allontanarsi, la diciassettenne si sporse in avanti, affondando le mani nel materasso.

Almeno lui…che almeno lui possa vivere lontano e felice.

“Vi imploro di non fargli alcun male, padre!” singhiozzò infine, chinandosi sopra le sue stesse dita intrecciate e bagnandole di pianto; pareva stesse pregando una qualche terribile divinità, la bellissima Amandine Lynwood. “Lasciate che porti via il bambino con sé e se ne vada lontano, giurando di non far più ritorno!”

Alastair voltò appena il capo grigiastro e lanciò alla figlia un’occhiata di lontana indifferenza: inginocchiata e tremante, la ragazza piangeva lacrime di sofferenza straziante, nascondendo il volto sul dorso delle mani incrociate.

“Farò qualsiasi cosa voi mi chiediate!” aggiunse, disperata. “Qualsiasi cosa!”

Vivrò prigioniera per l’eternità, ma lasciatelo vivere questo mio primo e sfortunato amore.

Il silenzio calò pesante nella camera, interrotto solamente dai singhiozzi di Amandine e dal ticchettio anonimo della pendola. Poi, Alastair prese la sua decisione, fece la sua terribile scelta.

“Molto bene” acconsentì, annuendo appena con la testa. “Ma non dimenticare le tue parole, figlia, perché hai detto qualsiasi cosa.”

Detto ciò, se ne andò, chiudendo la porta dietro di sé e abbandonando Amandine alla consapevolezza orribile che si fece immediatamente strada nelle sua mente: non avrebbe mai più rivisto Benjamin…e non aveva nemmeno avuto la possibilità di dirgli addio.

Un dolore mortale la fulminò sul posto e lei si lasciò cadere su un fianco, il lungo corpo magro che s’aggrappava con forza alle coperte calde, ormai zuppe di pianto.

Io ti amo e ti amerò per sempre, fino alla mia morte.


§


Luglio 1725.


Il malvagio fato le diede molto presto l’occasione per cominciare a tener fede alle sue parole.

Similmente a ciò che era accaduto esattamente un mese prima, Alastair Lynwood fece irruzione nella camera dove Amandine se ne stava rinchiusa, cogliendola di sorpresa e del tutto impreparata. La ragazza sussultò spaventata, chiudendo con uno scatto nervoso il diario che era impegnata a redigere e coprendosi allo stesso tempo la pancia gonfia con una mano.

“Pa-padre, buongiorno” balbettò, lasciandogli un’occhiata cauta e altrettanto perplessa. In fondo, non lo vedeva dal giorno in cui gli aveva sacrificato non solo l’anima, ma anche la sua stessa esistenza.

“Voglio sapere chi è” esordì l’uomo, avanzando a grandi passi nella direzione in cui stava la figlia, rigidamente seduta davanti a un elegante piccolo scrittoio posto vicino alla finestra. “Se c’è qualcuno che ne è a conoscenza, allora quella persona sei sicuramente tu, Amandine.”

Il Duca la raggiunse in un attimo e la luce bianca che filtrava dalle vetrate illuminò il suo volto pallido, sconvolto da un sentimento di preoccupazione folle e oscura. La ragazza non ebbe bisogno di indagare oltre per comprendere a chi si stava facendo riferimento, perché solo una persona aveva il potere di far assumere a suo padre quel genere di espressione.

Saffie.

“Io non ho davvero idea di…”

“E io non sto scherzando affatto questa volta!” la ghiacciò l’uomo, abbattendo una mano aperta sulla superficie liscia del mobile, colpendolo con rabbiosa violenza e facendo sobbalzare la cancelleria che vi stava appoggiata sopra. “Non dimenticare l’obbedienza cieca che mi hai promesso, figlia.”

Due occhi turchesi si spalancarono sul vuoto e somigliarono proprio a quelli di una preda senza più alcuna via di fuga, spacciata.

“Esigo conoscere il nome di colui che ha osato toccare la mia preziosa primogenita, che l’ha sporcata” ripeté una seconda volta suo padre, tremando di una furia tenuta a malapena sotto controllo. “Dimmelo, Amandine. O farò ribaltare questa stanza da cima a fondo, pur di trovare il posto in cui hai nascosto le lettere di tua sorella.”

La diciasettenne schiuse le bianche labbra tremanti, colta da un’improvvisa incertezza. Il rancore che traboccava dall’uomo di fronte a lei era tanto terrificante da essere insopportabile da sostenere, perché era chiaro quanto il Duca fosse effettivamente fuori di sé, molto più di quando era venuto a conoscenza della sua relazione con il dottor Rochester e del frutto del loro vergognoso amore.

Ogni cosa doveva essere sacrificata sull’altare del Casato dei Lynwood.

Persa Saffie, il loro finto paradiso dorato avrebbe cominciato a cadere nell’abisso.

Inoltre, la primogenita era la preferita del Duca Alastair ed era evidente che gli accadimenti degli ultimi mesi non avevano fatto altro se non aumentare la considerazione dell’uomo nei suoi confronti, ora disattesa nella peggiore delle maniere: come aveva tentato di fare Amandine, anche lo sveglio passerotto si era illuso di poter abbandonare la cattività e aveva cercato di volare via, finalmente libero. Entrambi gli splendidi uccellini cresciuti da Cordelia e Alastair si erano ribellati al loro dominio, minacciando in questa maniera di rovesciare la gabbia e farla cadere dal tavolo, piegandone per sempre le sbarre.

Ma il padrone non avrebbe mai lasciato correre un’offesa del genere.

“Non posso farle questo” pensò di getto la ragazza bionda, abbassando lo sguardo lucido sulle sue stesse dita, intrecciate sul ventre rotondo. Le lacrime le annebbiarono la vista e lei pensò a Benjamin, al suo bambino, alla maledetta promessa che aveva fatto a suo padre. “Come posso farle questo?”

La voce imperiosa di Alastair si levò di nuovo, piombandole sulla testa e opprimendole il cuore. “Hai fatto un giuramento” le ricordò l’uomo, come se ce ne fosse veramente bisogno. “Se mi riveli il nome, io non farò alcun male a quel plebeo che Worthington ha avuto la disgraziata idea di presentarmi; rivelamelo, e lascerò che il bambino cresca con suo padre e non in un pulcioso orfanotrofio.”

Come posso tradirla così?

Avrebbe dovuto saperlo molto bene, che contro la volontà del Duca di Lynwood non poteva esserci né opposizione, né vittoria alcuna. Persino Saffie – che aveva ereditato il suo stesso ingegno – era impotente davanti a lui; quindi, come avrebbe potuto anche solo sperare di spuntarla lei, che era solo una ragazzina malata e compromessa?

Ovviamente, suo padre non aveva finito di parlare: “Dimenticavo” aggiunse soave, tornando di botto a parlarle con il tono carezzevole con cui era abituata a sentirlo. “Il tuo silenzio non sarà affatto d’aiuto a tua sorella: parla e io la riporterò qui nel Northampton, come è sempre stato. Altrimenti, credi davvero di poterla vedere un’altra volta?”

Amandine alzò la testa dorata di scatto e incrociò due iridi castane e immobili, che la osservavano dall’alto con una serietà tagliente e inamovibile. Nel profondo, l’anima esausta della diciassettenne tremò e si arrese del tutto, perché lei capì subito che perdere pure Saffie era un concetto semplicemente inconcepibile.

“…il venti di questo mese. È il giorno in cui io ed Earl abbiamo deciso di fuggire, per poter poi diventare marito e moglie.”

Perdonami, Saffie.

“Si tratta del vostro servo” fu infine la tremenda confessione, mormorata a bassa voce come si fa con un peccato mortale. “Colui che avete scelto per farle da accompagnatore. Earl Murray.”

Un’espressione di sorpreso disprezzo deformò i lineamenti aristocratici di suo padre in un secondo e la ragazza chinò di nuovo il capo, distrutta. “Saffie progetta di scappare con lui e di unirsi in matrimonio cosicché voi non possiate esercitare più alcuna influenza.”

Perdonami, ma non posso condannare mio figlio e Benjamin, né vivere in questa gabbia senza di te.

“Quando?”

“Il venti di questo mese.”

Un gelido istante e, in un baleno, la figura alta del Duca di Lynwood si staccò dallo scrittoio con un unico gesto violento, quasi cominciando a correre verso la porta della stanza; mentre un ghigno strano appariva sul volto sfinito di Amandine. “Già” pensò, guardando Alastair allontanarsi con la coda dell’occhio. “Il venti di Luglio è oggi.”

Non riuscirete a fermare la sua fuga, pure se già so che il Cielo mi punirà per questo tradimento.

All’ultimo, la sagoma riccamente vestita di suo padre rallentò la sua corsa ed egli si voltò sulla soglia della camera da letto, nello stesso modo in cui aveva fatto il mese precedente. “Trascinerò tua sorella a casa, pure se so già che non avrò bisogno di usare la forza per convincerla” le disse, sfoderando un sorriso agghiacciante. “Tu e Saffie imparerete una sonora lezione da tutto questo, perché pagherete le conseguenze di non aver dato il giusto valore al vostro posto

“Non-non sarà così facile per voi trovarla!” commentò la ragazza con forza, stringendo le mani bianche sulla veste da camera. “Nessuno è a conoscenza del luogo in cui si trova!”

L’uomo non batté ciglio e, anzi, guardò la figlia con una tenerezza strana, quasi egli si trovasse davanti un bambino un po’duro di comprendonio. “Direi che Simeon Worthington mi deve ben più di un favore, non credi?” asserì Alastair, marmoreo. “E suo figlio è ormai uno degli uomini più ricchi e influenti dell’Impero.”


§


Aprile 1728 – Ottobre 1729.


Si era trattato quasi certamente di un miracolo. Amandine l’aveva sempre creduto e continuava a ringraziare ogni divinità celeste per aver ricevuto un dono che non credeva di aver meritato.

Il piccolo era venuto alla luce prematuro, ed era nato durante una giornata di vento e pioggia del Settembre 1725. Distrutta dalla stanchezza e dal dolore, la ragazza aveva fatto in tempo a intravedere una minuscola creaturina coperta di sangue e a udire il suo primo vagito, che subito una delle levatrici aveva avvolto il neonato in una coperta ed era scomparsa dalla stanza per non farvi più ritorno.

Amandine pensava di sapere cosa significasse avere il cuore infranto ma, in quella manciata di secondi, ella conobbe con assoluta certezza il dolore vero e la sua anima morì quello stesso giorno, perché il legame con Benjamin e con suo figlio era ormai spezzato per l’eternità. Non avrebbe mai potuto baciare di nuovo le labbra del suo grande amore, né stringere fra le braccia il bambino frutto del loro sentimento proibito.

La sua anima era morta e lei aveva desiderato di essere portata via dalla malattia.

Eppure si parlava pur sempre di un oscuro miracolo. Infine, la sua compagna fedele si era rivelata più crudele e beffarda del previsto, poiché Amandine era riuscita a portare a termine la gravidanza e a partorire, sopravvivendo contro ogni pronostico. Da quel momento in avanti, però, il suo stato di salute non sarebbe mai più stato lo stesso e, anzi, le conseguenze della malattia si fecero ancora più gravi e pesanti da sostenere.

Non a caso, quando Saffie era finalmente tornata nel Northampton due mesi più tardi, la ragazza non si era ancora ripresa del tutto ma, comunque, aveva deciso di attendere l’arrivo della sorella appoggiata allo stipite della porta d’ingresso, la mano pallida aggrappata agli intarsi di metallo dorato.

Le due si erano abbracciate dopo fin troppo tempo e – da allora – una spessa riga di nero e incancellabile inchiostro era stata tracciata sugli avvenimenti accaduti nei due anni in cui erano state lontane.

“…né parlerai ad anima viva di questa storia, soprattutto a tua sorella maggiore.”

Forse era bastata e avanzata l’opprimente presenza del padre per ridurla al silenzio, proprio lei, che a Saffie aveva sempre detto tutto; oppure, si trattava di un desiderio puro e semplice: quello di dimenticare, poiché si era infine rassegnata a dover vivere fra le sue belle e inamovibili sbarre d’oro. Come aveva scritto sul quaderno che lei e la sorella avevano ripreso a compilare, solo una volta aveva provato a forzarle e ne doveva pagare le conseguenze, visto che le era stato strappato via ciò che più aveva di prezioso.

Non che Saffie si fosse interrogata troppo sul vero significato di quell’ultima frase.

Entrambe avevano in fondo compiuto false scelte, ma pur sempre terribili.

Erano in questo modo passati tre anni, giorni che si susseguivano l’uno dopo l’altro paciosi e apparentemente sereni, ore intrappolate in una bolla di finta spensieratezza che Amandine trascorreva fra le solite frivolezze dell’Alta Aristocrazia. Quando le capitava di soffrire a causa della malattia o di esser giù di morale – tutte cose che capitavano spesso – allora la ragazza si concedeva di pensare a Benjamin e al suo bambino: era stranamente confortante l’idea che i due fossero in quel momento insieme ed era certa che il dottore avrebbe un giorno parlato al figlio di sua madre, della ragazza sciocca di cui si era innamorato.

Poi, era accaduto.

Un mite giorno di primavera, uno di quelli in cui la sua malattia decideva di fare un passo indietro e lasciarla in pace, Amandine aveva corso di tutta fretta verso casa, interrompendo una delle sue rare passeggiate e facendo così irruzione nel salotto come un piccolo tornado. Questo perché Cordelia si era lasciata scappare il nome del gentiluomo che suo padre attendeva di ricevere in visita.

Arthur Worthington, il famoso fratellastro di Benjamin.

Era apparsa di fronte a sua sorella maggiore e al Contrammiraglio come la fanciulla più innocente e ignara del mondo, considerando subito che l’uomo era in effetti più attraente di quanto le avessero mai descritto. Talmente piacente, dal magnetismo intelligente e raffinato, che persino Saffie ne era rimasta ammaliata al primo sguardo: prima che i due si voltassero nella sua direzione, Amandine aveva fatto in tempo a notare un sorriso radioso aprirsi sulle labbra della sorella, un rossore leggero colorare il suo viso emozionato. Sì, l’aveva colta al volo, la complicità che sarebbe potuta nascere fra loro, ma non aveva comunque esitato a ignorarla, ad essere capricciosamente egoista.

Non era voluto molto tempo nemmeno a una fanciulla ingenua come lo era lei per comprendere quanto l’arrivo del Contrammiraglio non fosse una visita casuale, ma bensì il via agli ingranaggi di un piano matrimoniale che la vedeva come protagonista, diretta interessata nell’unione di due tra le famiglie più importanti dell’Impero.

Ed era stato un altro miracolo o, con più probabilità, una vera punizione divina.

Avrebbe calpestato i timidi sentimenti di una Saffie dal cuore ormai chiuso, perché solo sposando Arthur Worthington ci sarebbe stata la misera possibilità di incontrare nuovamente Benjamin, di poter vedere il piccolo che le era stato strappato dalle braccia; suo padre aveva forse deciso la sua punizione – il suo sacrificio – ma le andava bene anche solamente osservarli da lontano. L’avrebbe sopportato, come era pronta a farlo anche con il rancore che l’uomo di cui era sempre stata innamorata avrebbe potuto nutrire nei suoi confronti.

Sarebbe stata la mansueta moglie di un Worthington che – similmente a tutti gli altri – non riusciva a vedere oltre alla sua bellezza, perché in quel modo pure Saffie avrebbe ritrovato la sua tanto amata libertà: con il tempo, Alastair avrebbe riconosciuto alla sua preziosa figlia maggiore il permesso di tornare nella Capitale, visto che non vi era più alcuna utilità nel tenerla isolata nel Northampton; la primogenita dei Lynwood era infatti tenuta in alta considerazione da molte delle famiglie nobili di Londra e questo non poteva essere dimenticato.

Non trovi che sia bellissimo, Saffie?”

Tutti avrebbero dovuto pensare che lei stessa era la più contenta all’idea di quel matrimonio combinato. Tutti, ma soprattutto sua sorella maggiore che, per qualche ragione, non riusciva ad andare affatto d’accordo con Arthur Worthington. Amandine la conosceva meglio di chiunque altro: se le avesse dimostrato di essere veramente infatuata dell’uomo e di stravedere all’idea di una vita insieme a lui, allora Saffie non avrebbe sofferto per la questione e, anzi, ne sarebbe stata felice.

Avrebbe lasciato stare la sua inutile e non corrisposta attrazione.

D’altra parte, si era trovata spesso sola in compagnia del Contrammiraglio che, alla stessa stregua di suo padre e del signor Simeon, non pronunciava mai parola alcuna su Benjamin Rochester o su ciò che era accaduto. Non sembrava nemmeno egli avesse un fratello adottivo, quasi come se lo avesse dimenticato per strada; eppure, pensava la ragazza bionda, l’uomo doveva conoscere per forza di cose le circostanze in cui tutto aveva avuto inizio.

Aveva osato sondare il terreno una volta sola, ma senza alcun effettivo risultato. Complice una lunga passeggiata nel labirintico parco della tenuta, Amandine aveva trovato il coraggio necessario per fermarsi davanti alla vecchia fontana e per commentare, con una voce esile e apparentemente vaga: “Se…senza dubbio la mia famiglia ha molto di cui esservi grato, contrammiraglio! Ecco, è un gran servizio quello che ci avete reso!”

La ragazza aveva sperato che Worthington sarebbe stato incline ad aprirsi sugli avvenimenti di tre anni prima e su Benjamin, se fosse stata lei la prima a parlarne. “A quale servizio vi riferite, piccola signorina?” le aveva detto invece con una divertita gentilezza l’uomo, chinandosi appena nella sua direzione e guardandola con due incredibili iridi verde scuro, incrociando le braccia dietro la schiena con fare elegante.

“Oh!” aveva esclamato allora la ragazza, unendo le mani in grembo. “Parlo della mia amata sorella Saffie, ovviamente: non avrei sopportato di esserne separata per sempre e sono a conoscenza del fatto che…”

§

Keeran alzò gli occhi neri di scatto e li portò subito sulla persona che sedeva al suo fianco, sulle assi dure del pavimento di legno. Nel giro di un istante, il suo viso bianco e pieno di tensione si tramutò in una maschera di impaurita ansia, perché vide un sentimento nuovo e aberrante impossessarsi dello sguardo perso di Saffie Lynwood: la padroncina tremava tutta, da capo a piedi, mentre ancora non osava alzare il capo castano dal diario della povera Amandine; sembrava non essersi accorta né della preoccupazione della sua domestica, né dell’oscurità in cui il suo cuore stava precipitando.

Gira pagina, Keeran” le ordinò con una voce che, sul serio, poteva provenire da un altro mondo. Di nuovo, i suoi occhi spalancati non si allontanavano dal foglio e dalla grafia ordinata della sorella.

La domestica allora ubbidì in silenzio, pentendosi di aver aperto quel maledetto baule.

§

“…siete stato voi a trovarla in due giorni scarsi, riportandola così fra le mani di nostro padre.”

“Ho fatto solo il mio dovere di gentiluomo e di Ufficiale dell’Impero” aveva glissato con noncuranza Arthur, scuotendo la testa scura e dimostrandole in questo modo di non esser particolarmente incline a voler parlare di Saffie. “Ma accetterò in ogni caso il vostro ringraziamento.”

Amandine aveva alzato gli occhi turchesi sul suo volto tanto attraente quanto irreprensibile, ed aveva pensato che non sarebbe riuscita ad ottenere alcuna informazione da lui. Un silenzio strano era calato fra loro e la ragazza si era sentita in dovere di sporgersi verso l’uomo e baciarlo sulle labbra, così da suggellare l’unione desiderata dalle due famiglie; ed era tanto presa da questo unico pensiero, che non fece nemmeno caso al lontano rumore di misteriosi passi che scricchiolavano sul sentiero di ghiaia e al loro interrompersi improvviso.

Annunciato il fidanzamento, doveva solo attendere con pazienza che passassero i mesi e che Worthington potesse essere libero di tornare per portarla all’altare, ma era stato in un triste giorno d’Ottobre che il Cielo aveva deciso infine di far cadere sopra alla sua testa la punizione, di farle scontare le vere conseguenze dei suoi peccati e delle sue bugie, dei suoi tradimenti: a poche settimane dalla cerimonia, Arthur – ormai divenuto Ammiraglio – non si era presentato all’appuntamento e aveva così infranto il suo giuramento, senza neanche degnarsi di inviare un servo o una nota a giustificarne il motivo; ed era stato il cuore impaurito di Amandine a tradirla proprio sul gran finale, perché il panico si era impossessato di lei e l’aveva spinta a correre fuori casa…in attesa dell’uomo che avrebbe dovuto salvarla, riportarla da coloro che amava.

“…e se non volesse sposarmi più?”

In quell’istante, aveva creduto che ogni speranza fosse stata vana, che non li avrebbe più rivisti.

E la sua malattia ne aveva approfittato crudelmente, punendola infine con la morte.

“Questa è anche la mia, di punizione” si continuava a ripetere nei giorni d’agonia dove, come era sempre stato, solo Saffie aveva il coraggio necessario per rimanerle accanto. “In questo modo finisce, la mia vita da colomba imprigionata.”

Non aveva alcun dubbio su come sarebbe andata a finire, non ne aveva mai avuti. Forse per questo si era decisa a non rivelare nulla alla ragazza che da una settimana non abbandonava il suo fianco ma, anzi, aveva scritto di tutta fretta un’ultima misera pagina del suo doloroso diario, prima di avvolgerlo nella stola che Saffie le aveva regalato per il suo sedicesimo compleanno e nasconderlo così tra le stoffe di un abito inutilizzato da tempo.

A cosa servirebbe, aggiungere adesso altra sofferenza nel cuore della mia tanto amata sorella?

Sono stata ingenua e sciocca, capricciosa ed egoista, persino crudele; ma se c’è una persona che amo alla stessa stregua di Benjamin e del mio piccolo, questa è proprio la mia povera sorellona. A che scopo, rivelarle un’altra terribile realtà, questo tremendo passato?

Non sei tu Saffie, ma tutti noi che dobbiamo chiederti perdono, per le parole che non abbiamo avuto il coraggio di pronunciare; perdonaci e perdona anche l’ambizione di Arthur Worthington, poiché so bene cosa accadrà quando non sarò più qui.

Perdonalo, poiché in questi mesi lui è stato molto buono con me e mi ha sempre scritto tante lettere cariche d’affetto. Perdonalo perché, in una qualche strana maniera, egli mi è stato amico ed è grazie a te e ad Arthur se me ne vado felice.

Sconto la mia punizione in pace. Accetto il giudizio della mia fedele malattia, perché sapere che Benjamin e il mio bambino sono insieme è la consolazione più grande. Non desidero andarmene con l’odio nel cuore.

Mi auguro tu non venga mai a leggere queste righe ma, se così dovesse essere, ti prego di dire a Benjamin che l’ho amato fino all’ultimo respiro – cosa imminente, temo – e che nostro figlio è sempre stato nei miei pensieri. Cielo, prego Dio perché tu possa incrociare il loro cammino!

Ti voglio un bene immenso,

Tua Amandine.”



§



“…e visto tramite i tuoi occhi, sorella mia. È stato grazie a te e ad Arthur, se me ne vado felice.”

Non erano rimaste che poche pagine vuote, oramai. Del diario di Amandine era già stato letto tutto, svelato ogni mistero e rivelate verità di cui Saffie poteva dire di non aver mai saputo o sospettato assolutamente nulla; perché sua sorella minore aveva in fondo perfettamente ragione: si trattava di una realtà diversa, in cui la primogenita dei Lynwood era stata non solo un’ignara spettatrice, ma anche una stupida pedina.

Una marionetta manovrata e ingannata da tutti, sorella compresa.

No, Saffie non si diede nemmeno la pena di dare ascolto alle esitanti e preoccupate parole di una Keeran ancora al suo fianco, poiché tutto intorno era solo buio, oscurità accecante. Lo stesso corpo della ragazza non reagiva al suo vortice di pensieri e continuava anzi a tremare con violenza, seppure inchiodato al pavimento freddo mentre lei – povera creatura sperduta – riusciva solo a fissare ad occhi spalancati i fogli scritti da Amandine.

Devi crederti così superiore agli altri, signorina Lynwood”

Le iridi castane della Duchessina scattarono meccanicamente verso l’alto, a studiare le piatte forme della parete come se non l’avesse mai vista prima di allora. Solo il frastuono assordante di un cuore trafitto le rimbombava nei timpani e riempiva tutta la stanza, pure se Saffie poteva dire di sapere a malapena dove si trovasse in quel momento. Non che fosse inesatto, pensò follemente lei, poiché all’improvviso tutto era diventato estraneo, sconosciuto.

Era difatti un oscuro sentimento ghiacciato a scuoterla con forza, facendole provare un freddo intenso e mortale. Un freddo tanto implacabile e doloroso da lasciarla attonita; e, in un attimo, fu come se Saffie si fosse risvegliata sul fondale di un profondo abisso, lo stesso che aveva ingenuamente creduto di poter risalire.

Usata da Arthur Worthington, che non ha fatto altro se non prenderti in giro.

Come pensavo. Sei un eccellente bugiardo, Ammiraglio.”

Nella mente stravolta della ragazza, ogni cosa divenne cristallina nel giro di un atroce secondo: la fiaba scritta da Amandine, il contegno pieno di superiorità con cui l’ammiraglio l’aveva giudicata fin dall’inizio, la rabbia del dottor Rochester nei confronti di quest’ultimo e, infine, la straziante sofferenza con cui lui stesso le aveva confidato come Keeran gli ricordasse una persona del suo passato. Quel famoso qualcosa che aveva continuato a sfuggirle dalle dita, ora si mostrava in tutta la sua aberrante natura: un dipinto della sua immensa sconsideratezza poiché, dall’alto della sua supponente intelligenza, la Duchessina di Lynwood si era rivelata la più ignorante e ottusa di tutti.

“…respirate, signora” continuava a dire la voce ovattata e lontana di Keeran. “Signora…signora!”

Come fosse in grado di sentire alcunché. Saffie era impegnata a dominare l’insostenibile insieme di rabbia e umiliazione che minacciava di affogarla e ucciderla, pure se già sapeva sarebbe stato tutto inutile…riusciva a vederla, l’abominevole onda scura che stava tornando a lei, più grande e distruttiva.

Credi veramente che ti avrebbe amata? Proprio tu, il passerotto a cui ha strappato le ali?

Senza quasi rendersene conto, la ragazza si alzò in piedi di botto e barcollò di lato, facendo qualche passo in direzione del letto, prima di ricadere pesantemente in ginocchio sul tappeto indiano. Le mani solerti della sua serva vennero subito a sostenerla per un braccio e Saffie si aggrappò con le dita al materasso, mentre Keeran l’aiutava a raddrizzarsi. “Signora!” esclamò per ‘ennesima volta l’irlandese, con le lacrime agli occhi. “Dovete sedervi, ve ne prego!”

Tu, signorina Lynwood, la discutibile donna che ha imprigionato da molto, troppo tempo.

Dio, sei stupenda.”

Un disgusto dal sapore acido risalì la sua gola a tradimento e le bruciò nella bocca, provocandole un senso di nausea vertiginoso, insopportabile. Fu così che la ragazza strinse a sé il diario di Amandine e si diresse lentamente verso l’uscita della camera, tremante e muta come un uccellino morente.

Tutte bugie. Tutti enormi inganni.

Keeran cercò timidamente di trattenerla e allungò il braccio, tendendo le dita sulla piccola spalla della padroncina; ma fece appena in tempo a sfiorarla, perché quest’ultima la pietrificò sul posto immediatamente: “No” le imperò con una voce non sua, senza neanche voltarsi. “Non provare a fermarmi, Keeran.”


§


La guerra che per lungo tempo erano riusciti a evitare, ora minacciava di scoppiare come un violento temporale nel bel mezzo dell’estate, di quelli preceduti solo da un’aria immobile e quieta, minacciosa.

A Saffie sembrò di camminare immersa in un mondo di fredde acque scure, dove nessun suono o luce poteva raggiungerla per davvero: camminò in questo modo – rigida e assente – fin sulla soglia del poco distante alloggio di Worthington, senza degnarsi di annunciare la propria presenza ed entrandovi in silenzio.

“…perdona anche l’ambizione di Arthur Worthington, poiché so bene cosa accadrà quando non sarò più qui.”

La ragazza era pronta a piantonare le stanze del marito fino all’alba pur di affrontarlo ma, fortuna o sfortuna, il fato volle che i due si incontrassero subito, perché la porta si aprì su un Ammiraglio seduto dietro alla scrivania piena zeppa di registri impilati l’uno sull’altro e carte dalla solito aspetto importante: lo sguardo verde perso tra le righe e il pennino stretto fra le lunghe dita, l’uomo non diede subito segno di averla sentita entrare. Sulle sue larghe spalle, le spalline dorate della giacca rilucevano inquietanti e malvagie, quasi a voler farle intendere che, no, non ci sarebbe mai stata alcuna vittoria contro la sua inamovibile fame di potere.

Oh, Amandine…eppure dovevi sapere che io sono tale e quale a mio padre.

Worthington sollevò lo scarmigliato capo scuro dai documenti che stava compilando e le lanciò un’occhiata sorpresa, come se non fosse lo stesso disgustoso demonio che per tutto quel tempo si era preso gioco di lei.

“Tu…” cominciò Saffie, il tono incrinato e patetico di chi sta per scoppiare in lacrime. “Tu l’hai sempre saputo, non è così?”

Due livide occhiaie solcavano il viso esausto di un Arthur a cui, dal canto suo, bastò guardare per un attimo il faccino rosso e stravolto della moglie per comprendere al volo di che cosa si stesse parlando. Se non fosse per le notevoli capacità d’analisi che egli vantava già di suo, l’ammiraglio poteva anche pensare di essere stato vittima di una vera maledizione – di una punizione divina – visto che furono le parole di Benjamin a tornargli subito in mente.

“…esiste un abisso infinito fra il possedere e l’amare, Arthur!”

La luce accecante del pomeriggio filtrava dalle vetrate, illuminando di bianco l’espressione immobile del Generale Implacabile; mentre, all’altro capo della stanza, la sagoma minuta e tremante di Saffie lo fissava di rimando con le lacrime agli occhi. In quei giorni, si erano amati innumerevoli volte fra le pareti di quello spazio dove non esisteva più alcun confine ma, ora, ad entrambi parve di poter fisicamente percepire la presenza di un alto muro invisibile innalzarsi fra loro.

La concreta linea tracciata dai peccati che avevano unito il loro passato.

“Lo sapevi fin dall’inizio” ripeté la ragazza, cercando al contempo di sostenere l’espressione indecifrabile e altrettanto vuota dietro cui si era trincerato il detestato marito. “Di Amandine, di…di me ed Earl.”

In seguito alle sue parole sofferenti, un nuovo silenzio opprimente scese nella camera dell’Ammiraglio e la Duchessina si trovò a sperare come una stupida che Arthur si alzasse in piedi e negasse ogni cosa con la consueta arrogante superiorità, che andasse in collera con lei e respingesse le sue accuse…chiedendole di cosa diavolo stesse blaterando.

Ma, ovviamente, Worthington non fece nulla di tutto questo. L’uomo si limitò a lasciar cadere sul foglio il pennino che ancora stringeva fra le dita e a rilassare l’ampia schiena all’indietro, aderendo con apparente indifferenza allo schienale della sedia. “È stato Benjamin a dirti di lui e Amandine?” chiese di rimando, glissando palesemente su Earl Murray; e la ragazza lo detestò per il tono monocorde e controllato con cui aveva pronunciato quella frase, quasi le stesse chiedendo del tempo e fosse cieco di fronte al dolore della persona a cui aveva rovinato la vita.

“È stata Amandine stessa a dirmelo” rispose allora lei, ora più incollerita che sconvolta, alzando un esile braccio e mostrando così ad Arthur il diario in cuoio che stringeva fra le dita. Si avvicinò di qualche piccolo passo alla scrivania e decise di non far caso allo sguardo penetrante di Worthington perché, anche quello, era tanto freddo da fare male. Così, disse: “Non lo neghi, quindi? Non hai intenzione di negare, Ammiraglio, di avermi portata via dall’unico uomo che io abbia mai amato?”

Oh, ma è questo ciò che accade quando ci si avvicina a te, no?

Un’ombra sembrò passare sul volto stanco di Arthur e il suo sguardo si indurì, tradendo un sentimento pieno di combattuto tormento che l’uomo non desiderava mostrare. “No, non ho intenzione di farlo” fu la piatta risposta che distrusse definitivamente il cuore della ragazza in piedi a nemmeno un metro da lui. “Sono io il responsabile del tuo ritorno nel Northampton. Io ti ho trovata e portata a tuo padre, al Duca.”

Ma è più facile fare del male agli altri e proteggere così sé stessi, no?

Davvero, fu dura per Saffie non perdere la testa e saltare dall’altra parte del tavolo, perché avrebbe volentieri preso a schiaffi quella faccia così schifosamente severa e impassibile. Così bugiarda.

“Perché…Perché lo hai fatto?”

Oh, sciocca creatura! Per quale motivo, in fondo, non avrebbe dovuto farlo?

“Si è trattato di una mera questione d’affari” sillabò l’Ammiraglio Worthington, scuotendo appena la chioma bruna. “Niente di personale.”

Il dolore di sua moglie era traboccante e atroce, insopportabile. L’uomo abbassò allora gli incredibili occhi chiari sui documenti che l’attendevano perché, di certo, non poteva perdere di nuovo il controllo di fronte a lei; già era stato del tutto sbagliato permetterle di avvicinarsi e sconvolgerlo, quando avrebbe solo dovuto allontanarla, respingerla. Proprio lei, l’odiata ragazzina che era riuscita a toccare la sua anima raggomitolata sul fondo dell’abisso oscuro.

Ma lo hai sempre saputo, che questa volta l’avresti uccisa per davvero.

“Niente di personale” la sentì ripetere in un mormorio sommesso, dall’ironia disperata. “Hai solamente coperto di menzogne la mia vita e hai continuato a mentire, anche se io avevo deciso di fidarmi di te…infine usandomi, proprio come una delle tante proprietà in tuo possesso!”

Perché quello sguardo, quelle parole gentili, non erano mai state per lei.

Arthur alzò il capo di scatto e dovette affrontare le lacrime di Saffie, che ora scendevano copiose lungo il suo viso pallido e stravolto; un senso di colpa orribile gli morse il cuore e lui asserì, stringendo le mani grandi attorno ai braccioli della sedia: “Non è così che stanno le cose…e tu lo sai”.

Finalmente, le gambe dell’uomo decisero di muoversi e Worthington si alzò in piedi, dominando su Saffie con la sua minacciosa statura. “Sì, ho creduto di odiarti con tutto il mio animo e ammetto di non aver mai avuto la benché minima intenzione di rivelarti alcuna verità” le spiegò schiettamente, ignorando lo sguardo sorpreso con cui la moglie lo guardò portarsi vicino a lei. “Ma è stato prima di noi.”

Con la stessa lentezza di un serpente, Arthur portò le mani sul volto bagnato della ragazza e le accarezzò le guance con le dita, prima di chinarsi su di lei e sfiorare le sue labbra schiuse, tremanti. “Prima di questo.”

Dimentica Earl Murray e continua a condividere questa sofferenza con me.

Dal canto suo, Saffie sentì di essere una perfetta ipocrita perché – malgrado il dolore e la rabbia – il suo corpo si sporse automaticamente verso quello alto del marito, come se non potesse farne a meno; ma, all’ultimo, ella trovò il coraggio di abbandonare la sua bocca e lo allontanò bruscamente, premendo una piccola mano sul suo petto ampio. “Questo…” cominciò a dire, alzando due luminosi occhi pieni di lacrime sul volto attraente dell’uomo. “Cos’è questo? Cosa sono io per te?”

Cos’è questa nuova sofferenza che non riesci a comprendere, e che non hai mai desiderato?

Arthur si irrigidì subito e i suoi occhi tradirono un’incertezza che colpì la ragazza castana come una vera e propria coltellata nel petto: Amandine aveva usato le ultime forze per chiederle di perdonarlo ma, di fronte al silenzio spaesato del marito, Saffie comprese che non avrebbe potuto esserci alcuna pace fra loro, nessun futuro felice; perché era proprio vero che si erano infine usati a vicenda...che lui non l’avrebbe mai amata.

Saffie Lynwood, voi non sarete mai nemmeno la metà di quello che è stata Amandine”.

No, il mutismo di Worthington era già una risposta sufficiente; e allora la ragazza lo odiò dal profondo dell’anima, tanto quanto disprezzò sé stessa per aver lasciato che l’uomo si insinuasse nel suo cuore con fin troppa facilità. L’oscurità accecante si impossessò di lei e, crudele, annebbiò qualsiasi rimasuglio di razionalità o lucidità rimaste, facendole pronunciare le terribili parole da cui non poté più tornare indietro:

“La tua ambizione è mostruosa” singhiozzò, abbassando lo sguardo offuscato sul pavimento di legno. “Tu sei un mostro, Arthur.”

Che lui la ripudiasse e suo padre la facesse rinchiudere per il resto della sua vita in manicomio; per quel che la riguardava, niente avrebbe potuto farla stare più male della realtà che le era piombata addosso. Un bel nulla avrebbe potuto sconvolgerla più di quel passato di cui era stata tenuta all’oscuro.

“Quindi è questa l’opinione che hai di me, ragazzina.”

Oh, era cambiata con la stessa velocità di una gelida folata di vento la voce di Arthur Worthington. L’uomo fece un passo indietro all’istante e le sue dita scivolarono lontane dalla pelle di Saffie, di nuovo strette a pugno lungo i fianchi. “Posso aver salvato la tua vita più e più volte, eppure rimango colui che ha mandato all’aria non solo il tuo ritorno a Londra, ma anche la stupida fuga d’amore con un plebeo che non avresti nemmeno dovuto guardare” disse ancora, quasi ringhiandole addosso quell’ultima frase carica di velenoso disprezzo e, anzi, osservandola con due occhi privi della gentilezza che fino al giorno prima le aveva dedicato.

Porti un peso troppo grande. Non puoi continuare ad addossartelo, o ti ucciderà.”

Nessuno può comprendere.

Infine, Arthur aveva scelto, perché era sempre stato fin troppo facile scendere e nascondersi nel suo schifoso abisso: doveva solo raggomitolarsi su sé stesso e premere le manine ossute sulle orecchie, non ascoltare le parole crudeli di chi pensava di potergli fare del male, ferirlo. Chiudersi e dimenticare. Azzerare.

E se per Saffie Lynwood lui non era altro che un mostro di cui essere disgustati, oh, Arthur non avrebbe avuto alcun problema a comportarsi come tale. Tutto, pur di allontanarla e non sentirla più parlare, di non dover fare i conti con un dolore e un senso di colpa di cui era terrorizzato oltre ogni dire.

Sei un mostro, Arthur. Un orribile mostro che non può amare, né essere amato.

Quasi a conferma di quest’ultimo pensiero, Saffie lo guardò con due iridi arrossate e piene sì di lacrime inesauribili, ma colme pure di una rabbia sconvolgente, tremenda: nulla dei giorni passati fra le coperte, ad amarsi l’uno nelle braccia dell’altra, sembrava rimasto negli occhi della ragazza castana. “Rimarrò tua moglie, ma non oserai né rivolgermi parola, né avvicinarti a me o alla mia dama di compagnia” sentenziò lei, il tono pericoloso che stonava incredibilmente con la sua piccola figura tremante, da passerotto zuppo di pioggia. “Non mi toccherai mai più in tutta la tua vita.”

Alla fine, l’onda li aveva travolti ed erano stati in due ad affogare.

“E sia” disse Worthington, in tono di genuino e glaciale disprezzo, mentre un’espressione da demone beffardo – crudele – andava definitivamente a spazzare via l’uomo gentile che Saffie si era illusa di conoscere. “Vedi di tenere fede alle parole che hai appena pronunciato, Duchessina; perché, lo sai, mettersi contro di me non porta vittoria alcuna.”

“…chissà, potresti perfino innamorartene.”

Non è mai esistita, né esisterà mai, una persona del genere.

In silenzio com’era venuta, la ragazza se ne andò dalla stanza senza voltarsi indietro, lasciando un Arthur immobile vicino alla scrivania; solo in compagnia di un sentimento di sorda collera, del solito senso di colpa che voleva cibarsi di lui come una bestia insaziabile.

Perché sei tu il mostro della storia e, probabilmente, sarebbe stato meglio morissi tanto tempo fa.

L’ammiraglio colpì la pila di registri al suo fianco con il braccio, facendoli cadere con un tonfo secco; ed egli stesso crollò seduto a terra scompostamente, nascondendo un viso pieno di tormento fra le mani.


§


Saffie uscì fuori sul ponte sopracoperta e i suoi occhi stravolti si rivolsero immediatamente in alto, verso il cielo azzurro che tanto le ricordava Amandine. Anche adesso, non riusciva a provare odio nei suoi confronti o per tutto ciò che le aveva nascosto, per averle mentito fin dal suo ritorno nel Northampton, quando invece lei le era sempre stata accanto per sostenerla e confortarla; sentiva che avrebbe avuto bisogno di un po’di tempo per metabolizzare e perdonarla, ma sapeva che non l’avrebbe mai detestata per niente al mondo.

Ma lo avrei protetto, lo sai, il tuo prezioso segreto.

Il tempo di pensarlo, che due piccole manine si aggrapparono con forza alla gonna di seta della Duchessina e tirarono insistentemente verso il basso per attirare la sua attenzione. “Buongiorno, signora Worthington” la salutò dal basso il piccolo Ben, inchiodando sul suo volto smunto due grandi occhi turchesi. “Ma voi piangete!”

In veste di ricca aristocratica e futura Duchessa di Lynwood, Saffie avrebbe dovuto mantenere un quieto e dolce contegno di fronte ai numerosi uomini di mare al lavoro attorno a loro, ma fallì miseramente nell’intento perché, senza nemmeno rendersene conto, si era già chinata sul bambino e l’aveva abbracciato, stringendo lo forte a sé. “È il figlio di Amandine” pensò la ragazza, chiudendo gli occhi e affondando il capo castano sulla piccola spalla di Ben. “Il caro, caro figlio che ha sempre amato.”

“È…vi sentite male, signora?” lo sentì chiedere con una vocina improvvisamente confusa e spaesata, che le fece tornare la voglia di ridere.

“No, affatto” mentì quest’ultima, scuotendo appena la testa. “Solo, pensavo…”

“Ben! Che hai combinato stavolta?”

Il cuore di Saffie fece una capriola e lei alzò il viso di scatto, incontrando subito gli occhi neri di Benjamin Rochester. Osservò per un momento il volto affilato dell’uomo assumere un’espressione sorpresa, prima di sorridere leggermente e dire: “Va tutto bene. Penso sia giusto che questo lo abbiate voi, dottore; vi prego, leggetelo fino alla fine”.

Così, senza aggiungere una parola di più, alzò un braccio verso il grande amore di Amandine e gli porse il diario che conteneva la loro storia, la testimonianza di ciò che era stato.

Cielo, prego Dio perché tu possa incrociare il loro cammino!”






Qui finisce la prima parte della storia


Angolo dell’Autrice:

*Se ti è piaciuto il capitolo, spero prenderai in considerazione di votarlo/recensirlo (soprattutto questo, che mi ha tolto ore di prezioso sonno).*

Vi prego di ricordare che il mio sadismo è tutto rivolto al bene della storia! (TuT)

Buongiorno e Buon Lunedì!

Vi chiedo nuovamente scusa per il ritardo di ben due giorni sulla tabella di marcia ma, come dico spesso, non credo riuscirei mai a pubblicare qualcosa che ritengo non all’altezza di ciò che voglio comunicare solo per pubblicare più in fretta! Quindi, vi chiedo perdono e spero di essermi comunque di aver rimediato con questa Quattordicesima parte: insomma, oltre alla lunghezza, mi auguro vi sia piaciuto! \(*w*)/

L’ho detto anche all’inizio, l’importanza del contenuto del capitolo ha pesato non poco sulle mie tempistiche di scrittura e su quanto io ne fossi coinvolta emotivamente, perché volevo davvero comunicare tanto e bene. Cosa non facile, visto che ho dovuto sciogliere uno dei nodi principali della storia, collegando le diverse “briciole” da me sparse fra le righe fin dal primo capitolo…e poi, Amandine, cara Amandine!

Si meritava che io scrivessi di lei, che le dicessi “Addio” degnamente. Punto.

Non posso negare di aver sofferto questo Capitolo, alla fine. Ho pensato più volte che non vi sarebbe piaciuto e che, anzi, vi avrebbe annoiato, ma questo era il punto di svolta che doveva arrivare per forza: la famosa fine della prima parte, dove lasciamo una Saffie e un Arthur non abbastanza forti – o sinceri – per riuscire ad affrontare un ostacolo così grande, l’inganno che ha unito il loro passato. Ho sempre pensato non fossero pronti per amarsi veramente, dopotutto.

E ora?”, chiederete giustamente voi.

Ora, entriamo nella seconda metà della storia e so già che intitolerò il prossimo capitolo Kingstown. Scalpito per cominciare a trascrivere i miei appunti! \(*w*)/

Davvero, è stato noioso il capitolo?

Io e le mie notti insonni speriamo di no! \(TuT)/

Un abbraccio forte,

Sweet Pink

Ah! Ho inserito una citazione di Romeo e Giulietta di Shakespeare nel capitolo, qualcuno l’ha trovata? :D

See you soon!

  
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