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Autore: summers001    02/05/2022    12 recensioni
Oscar/Andrè | drammatico
Dopo la Bastiglia, cosa?
Oscar e Andrè sono sopravvissuti, ma una sfida più difficile ed inesorabile li attende. È una storia sentimentale, drammatica e simbolica. Andrè racconta cosa significa combattere la malattia, continuare a sperare e vedere la tristezza, la rabbia, l'impotenza ed alla fine l'accettazione.
Dal testo:
Quando uscimmo dal suo studio, mano nella mano, Oscar mi guardò e disse “Quindi c’è qualcosa da fare.”. Se ci ripenso oggi, mi sembra di ricordare che mi strattonò, mi tirò per il braccio e poi disse quella cosa. Lo disse per me. In realtà aveva capito quei gesti e quei “no” del dottore tanto quanto me. Io ne ero rimasto scosso, perché credo che in fondo lo sapessi bene cosa il suo occhio clinico aveva visto e cosa io mi rifiutavo di vedere. Oscar invece lo aveva accettato dall’inizio, da quel giorno sotto la Bastiglia.
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Gli ultimi mesi
  
 
Arrivammo a notte inoltrata presso le coste della Corsica. Dovevamo andare via lontani, dove nessuno ci avrebbe mai associati a Parigi, alla corona o alla rivoluzione. Non potevamo tornare a casa o ad Arres, né tanto meno restare in quella città putrida che sapeva di orina. Dovevamo trovare un posto al riparo, dove poter respirare aria pulita e mangiare cibo sano. L’unica possibilità di sconfiggere la tisi era il fisico di Oscar. Dovevo aiutarla a mantenersi in forze, perché il suo corpo potesse eliminare quel brutto male dai suoi polmoni.
Speravo che le provviste ammassate, stipate e conservate negli ultimi giorni potessero bastare fino a quando non avrei trovato un lavoro, che mi avrebbe dato la possibilità di comprare erbe, medicine, decotti e vestiti caldi. Era estate, ma sapeva che l’inverno sarebbe arrivato. Avevo venduto tutto quello che avevo: la divisa, l’anello ereditato da mia madre, il cappello, la mia giacca a vento, persino le posate rubate dalla caserma.
Non avevamo più un cavallo, né una carrozza.
Viaggiammo fino alle coste della Provenza sul retro di un carro che trasportava patate. Ad ogni scossone tenevo lei con una mano e quelle quattro assi del carretto con l’altra. Oscar era stata ferita durante l’attacco alla Bastiglia. Teneva sulla pancia delle bende che le cambiavo ogni ventiquattro ore ovunque fossimo.
Avevo un’unica missione di lì in avanti: tenere Oscar in vita. La ferita smise di sanguinare al terzo giorno. Non rimaneva che la tisi. Mi dissi che la prima era passata, mi rimaneva solo la seconda ed ultima sfida. Pensavo che “mi” rimanesse solo quella, perché avevo deciso di farmi carico io di quella, come se fossero i miei polmoni a perdere l’aria, come se fosse il mio petto a bruciare con la tosse.
Continuammo il viaggio in mare, barattandolo con un fucile scarico. Riuscii a trovare una casa modesta: quattro mura, un tetto, l’odore di salsedine ed un sentiero che portava sulla spiaggia. Era una casetta usata dai pescatori durante i mesi di piena. La pagai usando le due spade ed una pistola. Le finestre erano rotte. Ad Agosto però facevano entrare aria salmastra e pulita. Mi proposi di darmi da fare a sistemarla per i mesi invernali. L’interno era invece semivuoto: un letto ampio costruito con quattro assi di legno ed un materasso, un tavolo con due sedie, due bicchieri, due piatti ed una credenza. Ci trovai del vino vecchio e ne usai l’aceto per aiutare a spegnere la febbre di Oscar, che ormai erano giorni che non la lasciava.
 
***
 
Oscar si svegliò la mattina del quinto giorno in quel nuovo posto.  
Non che non avesse capito cosa le stesse succedendo, ma fu capace di aprire gli occhi e tirarsi su dal letto a camminare solo allora. Aveva i capelli che profumavano di sale, la camicia sporca di sangue, la bocca arida ed i polsi che sapevano di aceto. Si riuscì a mettere seduta tenendosi la testa. Oscar si guardò attorno. I muri bianchi erano arricchiti di crepe, dove l’intonaco si staccava. Assi di legno sostenevano un tetto che cigolava col vento, come se qualcuno ci camminasse sopra. Aveva freddo.
“Finalmente.” Dissi con una voce sorridente. La raggiusi dopo aver ammirato attonito tutta la scena da oltre la porta. “Ciao.” La salutai e corsi quasi per accarezzarle una guancia.
Oscar chiuse gli occhi a quel gesto, per godersi la mia mano calda che passava sulla guancia. A quel tempo ancora non volevo credere al grande bisogno che aveva di me, del mio affetto, delle mie carezze.
“Non di nuovo!” scherzai per tenerla sveglia.
“Sono ancora qui.” Rispose lei ad occhi chiusi.
Per quanto desiderato, quel contatto mi imbarazzò. Pensai a tutte le volte in cui l’avevo coccolata durante la febbre, all’intimità che si era creata nel sonno e nell’incoscienza di lei. I suoi occhi azzurri mi riportarono alla realtà bruta: ad una casa che cadeva a pezzi, in cui avevo portato una donna con la tisi nella speranza di guarire, strappandola agli agi della vita aristocratica. “E’ l’unica cosa che sono riuscito a trovare. C’è un po’ di sabbia, le finestre sono da sistemare…” cominciai a giustificarmi, camminando avanti e dietro lungo tutta la stanza.
“Andrè.” Cercava di chiamarmi lei.
“… le porte cigolano e non c’è praticamente niente, ma…” ero agitato, nel panico più completo. Come mi era passato per la testa che avrei potuto mantenerla in questa vita spartana? Solo perché passava le sue giornate in caserma?
“Ma si sente il rumore del mare.” Completò Oscar per me.
Mi voltai immediatamente a guardarla. Corsi a baciarla e sentì l’odore di aceto e sangue. Le prese le labbra con le sue per accarezzare le morbide di lei. Ebbi paura ed il peso delle responsabilità mi cadde addosso. Più avevo paura, più chiudevo la morsa di quel bacio. E più la baciavo e la mordevo, più lei ardentemente rispondeva. Oscar amava con la stessa intensità ed ardore di quando indomita si lanciava in battaglia. Se solo qualcun altro l’avesse capito prima.
Respiravo dalla sua bocca, avevo l’odore della salsedine dei suoi capelli nelle narici. Quando sentii un gemito le cinsi d’istinto le braccia attorno al corpo, la sollevai e la distese sul materasso. Non stavo ragionando, come tutte le altre volte a seguire. Cominciai a baciarle il collo e lei mi arrese e si sciolse sotto le mie labbra come burro. Dovetti fare capo a tutta la sua forza di volontà per fermarmi. Strinsi gli occhi e cercai di non guardarla affatto.
“Che hai?” Mi chiese lei con un fil di voce.
“Non è giusto.” Riuscii a rispondere e solo allora tornai a fissarla ed a carezzarle le guance.
“Cosa non è giusto?” le labbra di Oscar erano di nuovo rosa e piene. L’avrei baciata tutta la vita per farle avere quell’aspetto sempre.
“Approfittarsi di un momento di debolezza.”
Il suo viso cambiò, quasi scioccato da quella affermazione. O forse arreso e triste. “Io sarei debole?” mi chiese.
Rimasi colpito e preoccupato: l’avevo forse offesa? Era qualcosa di irreparabile? Le avevo ricordato la sua condizione, l’avevo trasformata in una damina di corte, rapita e costretta nelle grinfie di un uomo? E perché improvvisamente avevo paura di lei, della sua lingua arguta, dei suoi pensieri? Mentre pensavo a tutte queste cose tutte insieme, mi sentii punzecchiare sull’addome. “Scherzo!” fece lei sorridente, come una bambina.
Allora sembrava che le cose potessero migliorare.
Sembrava che sarebbe andato tutto bene.  
 
***
 
A volte Oscar pareva accettare la sua condizione, quella di donna in un paese di provincia. Mi mandava a lavorare, a guadagnare qualche soldo, a raccogliere la frutta, a pescare. Sono stato sciocco a pensare che fosse quella la ragione. All’epoca quasi mi pareva stare bene, quasi mi pareva la stessa di sempre, quella del quadro appeso a casa Jarjayes, che stava combattendo la sua personale  con sé stessa.
Ripensandoci, avrei dovuto fare attenzione a tutti i suoi “no”. A quei tempi non ero io a prendermi cura di lei. Era lei a farlo con me, dandomi l’illusione del contrario.
Si lasciava trasportare avanti e dietro dal medico più capace che riuscii a trovare. Era riuscito a curare la tubercolosi da tanti pazienti. Aveva visitato Oscar, le aveva poggiato una campana sul petto per ascoltare. L’aveva guardata nuda. E sotto quell’occhio scrutatore, così impassibile, così freddo avrei voluto urlargli di smetterla, di lasciare che si coprisse. Gli avrei urlato che stava guardando la donna più bella del mondo e la stava facendo sentire a disagio. Quando finì mi lanciai da lei con la camicia già aperta e la avvolsi per proteggerla.
“Tutto bene?” le chiesi, mentre la stringevo tra le braccia ed un pezzo di stoffa bianco.
“Certo.” Mi rispose sbrigativa lei infilando le maniche e poi i pantaloni. Continuavo a farle da schermo per il mondo. Non volevo più che quell’uomo la guardasse. Aveva scosso la testa per tutto il tempo, come se no, lei non andasse bene. No, lei fosse troppo malata. No, non ci poteva fare più niente. No, era troppo tardi.
Non lo disse mai però.
Ci fece sedere davanti a lui. Riempì una boccetta con una polvere, che mi insegnò come mettere in soluzione. Mi diede una siringa di vetro. Mi disse di bollirla in acqua ed iniettare cinque millilitri di composto ogni sera in muscolo, “per quel che rimaneva”. Proprio così disse, “per quel che rimaneva”.
Non mi piacque, ma era il migliore.
Lo sapeva Oscar, lo sapevo anch’io.
Quando uscimmo dal suo studio, mano nella mano, Oscar mi guardò e disse “Quindi c’è qualcosa da fare.”. Se ci ripenso oggi, mi sembra di ricordare che mi strattonò, mi tirò per il braccio e poi disse quella cosa. Lo disse per me. In realtà aveva capito quei gesti e quei “no” del dottore tanto quanto me. Io ne ero rimasto scosso, perché credo che in fondo lo sapessi bene cosa il suo occhio clinico aveva visto e cosa io mi rifiutavo di vedere. Oscar invece lo aveva accettato dall’inizio, da quel giorno sotto la Bastiglia.
 
***
 
Dopo la Bastiglia però, in Corsica, si rese conto di una cosa: non aveva programmato di sopravvivere a quel giorno. Secondo i suoi piani sarebbe morta in guerra, nella stessa gloria in cui aveva sempre vissuto. Quella vita piatta le piombò addosso dopo poco: quando ebbe le braccia e le gambe martorizzate dall’ago della siringa, quando la tosse e la stanchezza le impedirono di correre, quando si ritrovava a letto dopo essere svenuta chissà dove.
Provò frustrazione, rabbia. E me le nascondeva. Mi nascondevo anch’io quando la vedevo piangere, urlare o tirare pietre nel Mediterraneo. Avrei voluto che si fosse lasciata abbracciare e proteggere dalla sua stessa paura, invece mi cacciava via, mi spingeva fuori casa con tutte le sue forze, mi dava a pugni purché non la vedessi debole. Mi diceva di lasciarla perdere ovunque fosse, che voleva risvegliarsi col sangue e la sabbia rappresi sui vestiti e sulla faccia.
E poi successe una cosa.
Aveva giorni buoni e giorni cattivi. Durante quelli buoni aveva voglia di fare cose. Mi trascinò ad una festa di paese. In estate ce n’erano tante. Cominciò a parlare con la gente, a bere vino e mangiare fino ad ingozzarsi. Nei giorni buoni pareva piena di vita, come se volesse lottare per tenersela stretta. Era inebriante. Forse era il vino stesso a fare effetto su entrambi.
Non raccontò mai a nessuno chi fosse. Mi presentò come suo marito ed io presentai lei come mia moglie.
“E i vostri figli?” qualcuno ebbe l’ardire di domandare. Chi poteva dargli torto. Ormai eravamo vecchi, era logico pensare che fossimo una coppia sposata da più di quindici anni. In effetti, lo eravamo quasi sempre stati. Sarebbe stato ovvio pensare che avessimo figli.
Sorrisi all’idea, ci vidi insieme in un’altra vita a crescere dei neonati. L’avevo vista Oscar coi figli di Maria Antonietta. Ce l’aveva anche lei quell’istinto materno, di protezione. Ce l’aveva con me, ce l’aveva con loro, con mia nonna, con la Francia.
Oscar mi strinse la mano e tornai alla realtà. Aveva le lacrime agli occhi e si mordeva le guance. Teneva le spalle rigide per non singhiozzare. Forse si rese conto allora di tutte le possibilità che non avrebbe mai avuto, che sarebbe morta giovane, che ancora una volta le era stata tolta l’opportunità di scegliere. Si rese conto di non poter fare piani per il futuro, di non avere una prospettiva, che non si sarebbe più ubriacata, non avrebbe più corso a cavallo, non avrebbe più combattuto con la spada. Che non avrebbe mai avuto figli, non sarebbe mai invecchiata con me, non avrebbe mai avuto le rughe ed i capelli bianchi.
“Oh scusa.” Chiese subito scusa il nostro interlocutore, credendo che il nostro problema fosse un altro.
“No, niente.” Dissimulò lei e mi tirò via per bere di nuovo, ancora ed ancora.
Alla sera, prima di addormentarci, la vidi sorridere. L’avrei sollevata di peso e le avrei detto “facciamoli ora, succeda quel che succeda”, ma era arrabbiata con me e lo sarebbe stata per qualche tempo, fino a scendere a patti con la morte o con la vita.
 
***
 
Aveva cominciato a sentirsi strani fischi dal torace Oscar, come se dentro di sé l’aria rimbombasse. L’avevo capito da come si metteva una mano sul petto e con le dita si ascoltava il suo stesso respiro. Poi si sentiva le costole, la pelle sottile ed allontanava la mano nodosa disgustata. In quelle volte si alzava di scatto, cercava le dispense e chiudeva una fetta di burro tra due di pane.
“Andrè!” mi chiamava mentre mangiava. Mi aspettava e mi offriva quel cibo grasso che avrebbe dovuto rimetterla in forze. Rifiutavo e la guardavo mangiare di gusto quella cosa disgustosa. Pensavo che non si fosse arresa allora, pensavo che ce l’avrebbe fatta perché stava combattendo per la sua vita come faceva per ogni altra cosa. Oggi sono sicuro che sapesse tutto sin dall’inizio. So che stava contando alla rovescia, che si era arresa. Che aveva votato a me le ultime settimane, che aveva contrattato la sua vita con la mia felicità. Credo che lo facesse per me, per nascondermi i segni della malattia. Oppure l’ho costretta io a battersi con le unghie e con i denti senza tregua. L’ho costretta io a non vivere in pace quegli ultimi mesi. L’ho trascinata io allora da un medico all’altro senza trarne giovamento, ignorando i “no” che aveva accennato l’altro. Era disperata quanto me. Oppure ero solo io e lei mi stava lasciando fare?
Vorrei ricordarlo meglio. Vorrei ricordare ogni momento meglio.
Vorrei ricordare meglio di quei giorni in cui eravamo giovani e scappavamo via con le fragole, di quando sporcavamo di fango i vestiti delle sue sorelle, dei combattimenti con la spada, dei compiti di latino, della gonna che aveva messo per Fersen, della giovane adolescente innamorata che era stata e della donna forte che amava a dismisura che era diventata.
Avrei voluto fare anch’io un patto con la morte allora: il suo amore per la sua vita. Avrei accettato che non mi avesse mai amato, se solo fosse sopravvissuta. Però non fu così: era con me che faceva l’amore, era me che voleva, me che proteggeva persino da sé stessa o da me addirittura.
La amavo alla follia. L’amo ancora per quel che mi riguarda. Mi definisco nell’amore che ho sempre provato per lei.
 
***
 
La trovavo spesso in acqua. Mi svegliavo e lei non c’era.
Le prime volte non la sentii andar via, ma poi cominciai a svegliarmi, forse per l’ansia di vedere il letto vuoto. Non volevo abituarmi a svegliarmi in quel modo.
Cominciai a spiarla. Oscar nuotava soltanto. Dapprima faceva avanti e dietro tante e tante volte. Forse testava il suo fiato ed i suoi polmoni. Piano piano sempre meno, fino a quando non la trovai solo a mollo a guardare l’alba. Una volta era addirittura seduta sulla spiaggia.
La raggiunsi e mi sedetti accanto a lei.
“A volte penso,” cominciò a dire e fece una pausa come se stesse per lanciare l’incipit di una tremenda storia “chissà se l’avesse avuta vinta mia madre.” Si domandò “Chissà chi mi avrebbero fatto sposare.” E sorrise all’idea. Era passata solo una settimana dalla festa in paese.
“Ti avrei rapita e portata qui.” Le risposi con il naso nei suoi capelli a respirare il suo calore. Non volevo dimenticare che fosse mia o che lei dimenticasse che fossi suo, comunque sarebbe andata.
“Non mi avresti mai neanche guardata.” Disse lei, piegando il collo forse per il solletico procuratole dal mio respiro così vicino.
“Io credo proprio di sì.” Mi misi dietro di lei, la abbracciai e lasciai che si lasciasse andare sul mio petto. Aveva gli occhi chiusi ed il sole celestino del primo mattino le illuminava la pelle. Era pallida. Le sue vene guizzavano azzurre sotto la pelle. I polsi, le spalle, le ginocchia avevano profili ossuti. Sentivo il profilo irregolare della sua colonna vertebrale sul petto. Eppure mai avevo smesso di desiderarla. Riuscivo a chiuderle le braccia completamente attorno a lei. Era come in una gabbia. L’avrei protetta dal mondo che l’aveva fatta ammalare.
“Non sarei stata niente se non moglie e madre.” Considerò. Si agitò a disagio forse pensando a suo padre ed alla vita che le aveva regalato, che nonostante tutto le calzava a pennello. Faticava persino ad immaginarsela diversa.
“Non ti amo per quello che sei diventata.” Le spiegai sottovoce. “Ti amo per il tuo carattere, la tua forza ed egoisticamente in parte anche per il tuo aspetto. Queste cose non te le ha date tuo padre, né avrebbe potuto togliertelo tua madre. È quello che sei, una donna come nessuna.”
Oscar si voltò e mi guardò negli occhi. Aveva i suoi azzurri e perfetti pieni di lacrime. “Ti amo.” Rispose solo lei. “Avrei voluto avere più tempo.” E cominciò a singhiozzare come una bambina.
“Oscar,” la chiamai commosso. La presi per le spalle e la abbracciai forte. Lasciai che piangesse sulla mia spalla, appesa alla stoffa della camicia con i pugni arrabbiati. “Oscar, ma c’è stato. Tutto il tempo che abbiamo avuto. Non ricordo un singolo giorno della mia vita in cui tu non ci fossi.”
“Non era quello che intendevo.” Si fermò a dire.
Sorrisi, per come quel pianto era finito velocemente. “Lo so.” Le risposi, poi mi venne una cosa in mente “in effetti c’è una cosa che non abbiamo mai fatto.” Mi misi in piedi velocemente e lei mi sembrò confusa. Le allungai la mano e la invitai a ballare.
Oscar si pulì velocemente gli occhi e si guardò attorno e poi guardò me. Doveva credermi pazzo, doveva pensare che fossi superficiale. Però prese la mia mano. La tirai su, le misi una mano sul fianco e la avvicinai a me. Lei si fece trasportare a piccoli passi.
“Vedi?” Le chiesi di osservare “c’è sempre tempo per tutto.”
Oscar prese un respiro profondo, mi guardò preoccupata. Credo che sapesse che stavo mentendo sia a lei che a me con la stessa fermezza. Forse si preoccupò addirittura per me, ma danzò. Danzò con me piano, cullata dal ritmo lento delle onde.
“Ti amo.” Le sussurrai.
 
***
 
“Vestiti.” Mi sussurrò una mattina “andiamo in spiaggia.”
I suoi capelli mi solleticarono le guance. Se li portò dietro un orecchio e poi si alzò.
Quel giorno non volli vedere i gesti lenti con cui lo faceva. Mi sembrava agile ed aggraziata come era sempre stata. Si mise una casacca, i pantaloni e s’avvolse una coperta di lana addosso. Era settembre, tirava un vento caldo. Non mi diede neanche il tempo di abbottonarmi. Mi tirò per i lembi della camicia, mi mise le mani, il viso ed il corpo sul petto e poi mi trascinò in spiaggia.
Camminammo a lungo. O almeno così mi sembrò.
Si sentiva meglio ed io camminavo con lei, felice. Non mi ero neanche finito di vestire. Anzi, avrei spogliato lei. L’avrei baciata ed avrei fatto l’amore lì. Dovette capirmi perché mi sorrise. Avevo imparato a conoscere il suo sorriso malizioso in quei mesi. Mi tirò giù su di lei sulla riva. Eravamo baciati dalle onde con l’acqua che si infilava tra i nostri corpi, fin sulle labbra.
Sapeva di mare, sapeva di fresco.
“Sei pazza” le dissi. Pazza, impulsiva, incosciente, passionale, calda. Aveva i capelli bagnati appiccicati al viso, al collo, al seno. Sapeva di acqua salata, di mare pulito di fine estate. I suoi occhi parevano trasparenti, quasi fatti di vetro.
Non mi rispose, anzi mi mise a tacere. Ero inebriato dai suoi versi e dal rumore delle onde.
Lei lo sapeva, sapeva cosa sarebbe successo, ma io no. Mi ero illuso al contrario che stesse meglio. Mi regalò un’ultima volta ed un’ultima speranza.
 
***
 
Ritornammo con in mano la coperta bagnata, i vestiti pieni di sabbia. Sorrideva appena con gli angoli della bocca. Sembrava davvero risorta. Nel suo respiro non sentivo nessun altro suono. Tirai un sospiro di sollievo, mi tranquillizzai: finalmente quei segni dal cielo che aspettavo. Finalmente la mia disperazione aveva dato i suoi frutti. Sarebbe sopravvissuta, invecchiata con me. L’avrei vista su una sedia a dondolo con i capelli grigi a ripensare alla Francia, alla libertà ed alla vita che si era conquistata.
Oscar si stese sul letto. Era stanca: si era svegliata molto presto, aveva camminato molto, avevamo fatto l’amore sulla spiaggia. Era normale che lo fosse. Non aveva freddo, non tremava, sembrava stare bene.
“Sai cosa vorrei?” mi domandò quasi. Stavo per risponderle con la prima cosa che mi venisse in mente, ma mi fermò “Fragole.”
Era una richiesta assurda in quel periodo dell’anno, ma la stranezza non mi fermò. Il suo desiderio anzi mi commosse, ripensavo alla bambina con le labbra macchiate di rosso. La baciai sulla fronte e sulle guance, eccitato all’idea di avere la mia Oscar di nuovo tutta per me, quella di sempre che non si fermava mai un attimo, che tirava di spada come fosse una seconda mano. Avrei voluto duellare ancora con lei, sotto il sole e sudare e buttare le spade e baciarla. Ed ero convinto che sarebbe successo presto.
Corsi in paese, chiesi a chiunque. Un contadino aveva qualche piantina nel suo orto, su in collina. La scalai, colsi le ultime fragole. Gli promisi qualunque cosa preso da una frenesia senza senso.
Stavo tornando con le mie quattro fragole in mano. Avevo fatto così tanta attenzione nel non rovinarle che quando poi mi caddero sul pavimento quasi rimbalzarono. Quando mesi dopo lasciai quella casa, il pavimento era ancora maculato rosso.
Oscar era là, stesa sul letto come l’avevo lasciata, accoccolata su un fianco che guardava verso la porta d’ingresso. Aspettava me? Sembrava dormire, ma sapevo già che non stava più respirando.
Non ricordo come arrivai dai lei, né quanto tempo rimasi lì a guardarla. Non avevo fiato per respirare, voce per urlare, forze per reagire. Mi trovai col suo piccolo corpo, ancora morbido e arreso tra le mani, ad abbracciarla e piangere, nascosto dai suoi capelli ed i suoi vestiti. Erano ancora umidi e salati.
Ero disperato. Mi sarei lasciata morire lì con lei, col suo corpo tra le braccia.
Perché Dio era così crudele da averla tolta così all’improvviso? Perché illudermi tutti questi mesi? Perché donarmela per poi togliermela? Perché toglierle la vita? Ad un essere così puro, così perfetto, così dolce. Perché a lei, sinonimo della vita, della forza, del coraggio? Chiudevo gli occhi e me la rivedevo viva, sana.
Il dolore mi lacerava il cuore. Mi schiacciava e non c’era nient’altro.
Finalmente chissà dopo quanto urlai e singhiozzai. Erano urla disumane, eppure mi sembrava poco. Cercavo di urlare di più e di più, come se la vita potesse uscirmi così e potessi morire con lei. Il mio corpo sembrava scosso da un pianto epilettico. Non riuscivo a fermarmi e non volevo. Quando finii le lacrime e la voce mi incolpai, perché lei meritava ancora ed ancora. Rimasi seduto a terra, con il suo corpo tra le braccia, dondolando. A tratti mi addormentavo sfinito, con gli occhi che bruciavano e la testa che scoppiava.
Ricordo che ad un certo punto fece buio. Oscar divenne fredda. Non riuscivo a piegare più così bene le sue mani. Non sembrava più dormire. Contemplai per l’ultima volta il suo bel viso, i capelli biondi, la pelle stanca. Le pulii un rivolo di sangue dalla bocca. La presi in braccio come quando la portai in quella casa. Allo stesso modo ne uscì. La portai con me fuori, tra le colline.
Volevo che riposasse in un posto dove potesse vedere il mare. Immaginavo che avrebbe passato le giornate a contemplarlo, come ad Arres, come negli ultimi mesi. Le piacevano le onde, le piaceva la rabbia del mare e come poi diventava calmo. Le piaceva come la rispecchiasse e ne invidiava la libertà selvaggia.
Non lasciai nessuna croce sul terriccio. Se qualcuno doveva ricordarsi di lei, quello era lì accanto, a pochi metri, o in Francia di fronte a lei.
Visitavo la sua tomba ogni giorno. Rimanevo lì per giorni, mi ci addormentavo addirittura. Quel posto mi dava l’illusione della sua presenza. E come lei presi ad ammirare il mare, prima d’autunno poi d’inverno. Non mi dava fastidio il vento, il freddo, la fame. Non sentivo più niente.
 
***
 
Mi consegnarono una lettera un giorno. La trovai sul tavolo della cucina.
Era Alain. Si trovava in Provenza. Potevo vederlo affacciandomi alla finestra.
La notizia mi scosse. Feci i bagagli e partii. Ero arrabbiato con lei, perché mi aveva privato della sua vita e della sua morte. Le chiesi scusa comunque col cuore che piangeva per averla lasciata in quella terra. Volevo parlare di lei con qualcuno che l’aveva conosciuta prima di così, prima di ammalarsi. Volevo che Alain ricordasse di quanto fosse (stata) insensibile alle volte, di quanto mi avesse fatto star male senza curarsi di me, di quanto fosse stata egoista sotto la Bastiglia. Avevo bisogno che qualcuno mi aiutasse ad essere arrabbiato. Da solo non ci sarei mai riuscito.
Pianse quando apprese la notizia. Mi diede qualche pacca ed alla fine mi abbracciò. Pianse sulla mia spalla ed io alla fine sulla sua. I miei propositi morirono in quell’istante. A quel punto volli solo tornare indietro. Era stato un viaggio infruttuoso e mi stava facendo solo ancora più male.
“Dovrebbe stare qua.”
“Qua.” Ripetei io nel suo gergo poco formale. Qua, sulla terra, intesi io. Qua, tra noi.
Attesi con Alain. Non so cosa. Credo il tempo, la morte. Cominciai a lavorare la terra per vedere sudore e sangue sulle mie mani.
Il tempo scorreva, ma il mio fisico resisteva.
 
***
 
Qualche anno dopo incontrai di nuovo Rosalie. Era diventata una donna adulta, moglie di un uomo e sorella di Francia. Era ben vestita, il viso era pulito, i capelli ordinati. Quella visione mi riportò indietro di venti anni, come se niente fosse successo, come se potessimo ritornare insieme a cavallo a casa Jarjayes. Insieme mi fece rendere conto inesorabilmente del tempo che era passato.
Cercava Oscar.
Bizzarro, pensai, mi venne da ridere.
Quando mi riconobbe corse ad abbracciarmi.
Sapeva, ormai già da tempo.
Ma io ero diventato vecchio e burbero. Non fu facile avvicinarmi. Lei con costanza e pazienza mi rimase accanto. Mi diede una rosa bianca di pezza. Mi raccontò di Maria Antonietta. Immaginai Oscar perdonarla. Voleva che la tenessi. La regina voleva che io la tenessi. La regina di Francia chiedeva scusa a me e mi portava quella rosa in dono.
E poi c’era la donna che me l’aveva consegnato. Rosalie era istruita, lavorava. Sperava e combatteva per una Francia che stava cambiando. Stava facendo la differenza perché i figli dei suoi figli potessero vivere in un paese dove uno è uguale all’altro.
Forse era quello che stavo aspettando. La prova che Oscar avesse lasciato il segno: l’aveva fatto con Maria Antonietta, con Rosalie, persino con Alain. Con me. Con la Francia. Si era unita a quelli che avevano ispirato il futuro, rinnegando gli agi del passato.
Mi aveva permesso di starle accanto. Mi aveva reso più che un attendente. Ero stato suo amico, compagno di giochi, di studi, di bevute. Di discorsi filosofici fatti dopo troppi pochi bicchieri. Ed era stata tanto lei per me quanto io per lei.
Non tornai con Rosalie a Parigi, quella era una città per i vivi. Non rimasi neanche con Alain, che ricominciava daccapo a prendere confidenza con la vita. Tornai in Corsica. Era giusto così.
Nella casetta sul mare lasciai la rosa bianca.
Tornai sulla sua tomba a dirle grazie.
Scoprii che su quella terra era cresciuto un prato. Lo presi come un segno. La vita stava ricominciando rigogliosa.
Piansi l’ultima volta. Le dissi che l’amavo e che ci saremmo ritrovati. Era una promessa.
Un giorno, insieme, giovani e felici.




Commenti dell'autrice
Salve a tutti. 
Recentemente mi è capitato di trovare su Youtube il musical dedicato a Lady Oscar. L'ho guardato e mi è tornato tutto l'affetto che ho nutrito prima per l'anime poi per il manga.
Non so dire quanto OOC siano i miei personaggi, solo che è stato bello scriverne per un po'.
Avrei voluto scrivere un trattato, dilungarmi molto ed avevo anche iniziato, ma ho convenuto alla fine che il dolore non ha bisogno di molte parole e così ho scelto questo stile, in micro episodio, di comunicazione. Come a voler richiamare una singola inquadratura di una scena, quel rallenty che fa la differenza. 
Beh, fatemi sapere che ne pensate.
Un caro saluto.
Summers
  
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