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Autore: MelOnMars    26/05/2022    0 recensioni
Daniel non riesce a mettere insieme le tessere del puzzle della sua vita. Non ha idea di quale college faccia per lui, non sa cosa gli riserverà il futuro e non riesce proprio a capire come funziona il suo cuore (al contrario del suo corpo, che invece sembra sapere benissimo quel che vuole).
Solo quando si riavvicina a Noah, un amico d'infanzia, le tessere iniziano finalmente ad incastrarsi tra loro.
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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AL POSTO GIUSTO
 
 
 
 
 
 
 Capitolo uno
 
 
 
 
 
 
 
Natalia Jiménez era una ragazza fantastica. Curiosa, intelligente, carismatica e dotata di un sorprendente senso dell’umorismo, riusciva ad affascinarti sin dal primo istante con la sua spontanea affabilità e con l’entusiasmo che metteva nel condividere ciò che più la appassionava: non a caso, a scuola era costantemente circondata da amici e adulatori, e ognuno di loro invidiava da morire il sottoscritto, il quale, in qualche modo, era riuscito ad attirare la sua attenzione e ad ottenere ben tre appuntamenti dopo averla accompagnata al ballo di fine anno.
Avrei dovuto gioire della mia fortuna e sprizzare orgoglio da tutti i pori; avrei dovuto guardarmi allo specchio e sorridere al mio riflesso come nelle peggiori commedie adolescenziali.
Eppure, quando la guardavo, il mio interesse si fermava sulla liscia superficie della sua pelle color caffelatte, senza oltrepassarla per raggiungere ciò che si celava al di sotto. Non mi riusciva affatto difficile immaginare di seguire coi polpastrelli la linea dei suoi fianchi formosi e dei suoi seni, di sentire il peso del suo corpo sul mio; ciò su cui le mie fantasie si ostinavano a non indugiare erano le serate passate accoccolati sul divano davanti a un film, le passeggiate nel parco mano nella mano, le chiacchiere a notte fonda e le chiamate senza fine.
Mi piaceva molto la sua compagnia, ma da quel poco che sapevo riguardo alle relazioni ero piuttosto sicuro che ciò non fosse sufficiente per pensare di costruire qualcosa di serio. Lei meritava molto più di quello che io ero disposto a darle, o che ero in grado di darle. Meritava qualcuno di normale.
E non credevo che il nome Daniel Thompson sarebbe mai stato accostato a quella rassicurante parola: come avrebbe potuto, considerata la mia evidente incapacità di provare sentimenti di natura romantica?
Natalia era solo l’ultimo dei tentativi che si erano susseguiti nel corso della mia tragica adolescenza: nessuna delle cinque ragazze che avevo frequentato era riuscita ad accendere in me un fuoco che non fosse alimentato esclusivamente dal desiderio sessuale. “Sei giovane, si vede che non hai ancora trovato quella giusta”, dicevano sempre i miei genitori; “non sei obbligato ad impegnarti, puoi divertirti e basta”, mi assicuravano i miei amici. Ma più ci pensavo, più mi rendevo conto di quanto la situazione fosse complessa e contraddittoria: volevo innamorarmi, eccome se lo volevo, ma allo stesso tempo immaginarmi in una vera e propria relazione con una ragazza sembrava... sbagliato. Qualcosa che non mi si addiceva. Qualcosa che non mi avrebbe affatto donato quel senso di appagamento che tanto agognavo, quella meravigliosa sensazione di leggerezza descritta nei romanzi e nei film.
E per quanto mi sforzassi, non riuscivo a capire il perché.
«Terra chiama Danny?»
La voce limpida e gentile di Natalia pose fine all’ormai familiare vortice di pensieri nella mia testa e mi riportò al tavolo di legno davanti a me, al profumo di ciambelle e muffin sfornati da poco e all’appena udibile musica anni ‘90 proveniente dalla radio della caffetteria. Sorrisi imbarazzato. «Scusa, ero distratto. Cosa stavi dicendo?»
Lei sospirò e mi guardò con scherzoso rimprovero. «Che Clara darà una festa a casa sua domani sera. Puoi accompagnarmi, se ti va.»
Bevvi un sorso della mia cioccolata ormai diventata tiepida e distolsi lo sguardo dal suo per non incontrare la timida speranza in quelle iridi scure e magnetiche. Forse credeva che presentarci insieme alla festa ci avrebbe reso ufficialmente una coppia agli occhi di tutti i nostri compagni (a quanto pareva era così che funzionava). A quel pensiero il mio stomaco fu invaso da una sensazione che aveva ben poco a che vedere con il battito d’ali delle farfalle.
Mi schiarii la voce, come facevo sempre prima di dire qualcosa che mi avrebbe fatto sentire in colpa. «Mi piacerebbe, è solo che... abbiamo ospiti. Mio zio dall’Oregon. Sai, non lo vedo da parecchio tempo.»
In effetti non vedevo zio Michael dal 10 marzo 2014. Ovvero il giorno del suo funerale.
Forse merito di rimanere single.
Comportarmi da persona matura e dirle semplicemente la verità avrebbe fatto risparmiare a entrambi tempo e sofferenza, ma era evidente che ancora non riuscissi ad accettare un altro di quelli che io percepivo come fallimenti.
Lei mi guardò in silenzio per qualche istante, la testa lievemente inclinata di lato come se si fosse trovata davanti un rompicapo curioso e terribilmente impegnativo; poi strinse le labbra, annuendo, e prese a giocherellare con la cannuccia nel suo bicchiere. «D’accordo, non fa niente.»
Osservai i suoi delicati lineamenti venire modellati dalla delusione, benché stesse tentando di nasconderlo. «Mi dispiace.»
Credevo avesse capito che non mi stavo riferendo solo alla festa, e che la soluzione del rompicapo fosse al di fuori dalla sua portata. Se solo avesse saputo che nemmeno io la possedevo.
Quando uscimmo dalla caffetteria e arrivò il momento di salutarci ci limitammo ad un breve e amichevole abbraccio, e da quel pomeriggio, secondo un tacito accordo che lei, seppur con riluttanza, aveva accettato di firmare, non ci furono più appuntamenti.
 
 
 
***
 
 
 
Tornai a casa a piedi e cercai momentaneo sollievo dall’afa nell’ombra offerta dagli aceri che fiancheggiavano la strada. Passai accanto ad un piccolo parco, dove alcuni studenti della mia scuola, inebriati dalla gioia per l’inizio delle vacanze estive, si stavano divertendo a schizzarsi reciprocamente con l’acqua di una fontanella. Avrei tanto voluto condividere il loro entusiasmo, ma la consapevolezza che quei mesi sarebbero stati gli ultimi trascorsi senza l’incombere della scelta del college (e, di conseguenza, del mio intero futuro) me lo impediva.
Non erano i miei genitori a preoccuparmi. Non avevamo nessuna particolare tradizione accademica da portare avanti, nessuna nobile professione da trasmettere a tutti i costi di generazione in generazione, perciò sapevo che mi avrebbero lasciato carta bianca. Ma se ciò da un lato era una grande fortuna, dall’altro mi spaventava a morte, perché io, a differenza di quasi tutti i miei compagni di classe, non avevo idea di cosa avrei voluto fare o di chi sarei voluto diventare.
Sembravano  essere passate solo poche settimane da quando avevo iniziato quel penultimo anno scolastico, quando il pensiero del college e dell’indipendenza era ancora distante, innocuo, quasi astratto; ma i mesi erano passati in un battito di ciglia e ora mi ritrovavo catapultato in una realtà che non mi sentivo ancora pronto ad affrontare.
Tirai un calcio ad un sasso e sospirai. La mia mente, spietata come al solito, aveva scelto proprio il momento adatto per tormentarmi con ulteriori preoccupazioni. Provai un lieve senso di nausea e vertigine: non avere alcun tipo di certezza su chi sarei stato in futuro né tantomeno su chi fossi nel presente mi faceva sentire come un naufrago su una zattera in mare aperto, solo, terrorizzato e con l’unico desiderio di avvistare la terraferma.
Più tardi mi sarei sfogato tramite Skype con Nathan, il mio migliore amico (che di certo moriva dalla voglia di sapere del mio appuntamento con Natalia), ma per il momento volevo solo non dover pensare a niente per un po’.
Dopo circa un quarto d’ora ero davanti al giardino di casa, la cui vista mi rasserenò un poco. Salutai il mio cane, che mi venne incontro scodinzolando, e recuperai la posta dalla cassetta delle lettere; quando aprii la porta sentii le voci dei miei genitori provenire dal soggiorno, seguite da una risata femminile dal suono familiare.
Infatti, quando palesai la mia presenza dopo aver percorso il breve corridoio che separava l’ingresso dal salotto, vidi una donna seduta su una delle poltrone in velluto blu. «Ciao, mamma, ciao, papà. Salve, Louise.»
Le labbra tinte di rosso di Louise Davis si distesero in un sorriso radioso: sembrava contenta del mio arrivo. «Ciao, Daniel, che piacere rivederti!»
Si alzò per venirmi incontro e venni avvolto dal suo profumo alla lavanda (lo stesso che usava da anni) quando si chinò per darmi un bacio su entrambe le guance. Poi indicò un punto dall’altra parte della sala: «Ti ricordi di mio figlio Noah, non è vero?»
Solo allora mi accorsi del ragazzo in piedi accanto al camino, con la spalla appoggiata al muro e le mani infilate nelle tasche dei jeans.
Sì, mi ricordavo. Le nostre madri erano amiche dai tempi del liceo e io e lui giocavamo insieme al parco quando eravamo bambini, ma non lo avevo più rivisto da allora e non aveva mai accompagnato Louise nelle sue visite a casa nostra.
Aveva gli stessi capelli ondulati color miele e, naturalmente, gli stessi occhi ambrati di dieci anni prima (sebbene ora incorniciati da un paio di spessi occhiali da vista), ma la morbidezza infantile aveva lasciato il posto a fattezze che gli conferivano un’aria più matura, seppur non ancora esattamente virile. Louise diceva sempre che difficilmente mi avrebbe superato in statura e in effetti sembrava più basso di me di qualche centimetro; nemmeno la sua muscolatura appariva molto sviluppata, ma ciò non toglieva nulla alla complessiva avvenenza del suo aspetto.
«Ciao» disse, accompagnando il saluto con un lieve cenno del capo.
Sorrisi a labbra strette, improvvisamente timido. «Ciao.»
Non pensavo che rivedere qualcuno dopo anni e notare tutti i cambiamenti  radicali che il suo corpo aveva attraversato mi avrebbe fatto un effetto così strano. Ancora una volta il tempo mi sbatteva in faccia l’inesorabilità del suo scorrere.
Mia madre cominciò a recuperare il vassoio e i bicchieri vuoti che si trovavano sul tavolino da caffè.  «Allora, com’è andato l’appuntamento?»
Mi passai una mano tra i capelli e tutt’a un tratto trovai la moquette degna del mio interesse. «Uhm... bene. Bene.»
Con mio grande sollievo, non fece ulteriori domande. «Sei arrivato giusto in tempo. Louise ci stava dicendo che lei e Noah trascorreranno un paio di settimane nella loro casa a Folsom e che puoi unirti a loro, se ti va.»
Alzai lo sguardo su Louise, sorpreso da quell’insolito invito. «E’ molto gentile da parte sua, ma non vorrei creare disturbo»
«Oh, ma quale disturbo! Non lo avrei nemmeno proposto. Anche a Noah farebbe piacere, non è vero, tesoro?»
Noah emise una breve risata imbarazzata, per poi guardarsi le scarpe e mordicchiarsi l’unghia del pollice. «Certo»
«Avanti, ti farà bene cambiare aria, sei sempre chiuso in casa!» intervenne di nuovo mia madre. «E poi è un posto davvero carino, te lo assicuro. C’è uno splendido laghetto dove poter nuotare e hanno persino una barca.» Diede una giocosa pacca sul fianco di Louise mentre si dirigeva in cucina col vassoio. «Si trattano bene, i signori! D’altronde possono permetterselo.»
Mio padre, che fino a quel momento non aveva proferito parola, mi guardò con aria divertita e lievemente canzonatoria. «Beh, non credo proprio che Natalia ti vorrà trattenere, o sbaglio?»
Ci risiamo, pensai, non riesce proprio a resistere.
Sebbene fosse migliorato di un poco negli ultimi mesi (forse sotto l’insistenza di mamma), ogni tanto coglieva ancora l’occasione per scherzare sul mio... problema. Non che sapesse con esattezza di cosa si trattava, dato che non ne avevamo mai discusso apertamente. Credeva solo che le ragazze si stancassero di me perché trascorrevo troppo tempo chiuso nella mia stanza invece di “uscire e divertirmi come tutti i ragazzi della mia età”. Non sapeva che ero stato io a mollarle tre volte su cinque.
Era difficile capire se si rendesse davvero conto di quanto il suo comportamento mi mettesse a disagio: speravo di no, o sarebbe stato peggio.
Mi sforzai di mantenere la calma e finsi di non notare lo sguardo incuriosito di Noah che si posava alternativamente su di me e su mio padre; riportai la mente sulla proposta di Louise e mi presi qualche secondo per rifletterci.
L’idea di passare due settimane in compagnia di due persone con cui non avevo particolare confidenza rimaneva piuttosto strana, ma non avevo ancora fatto alcun tipo di programma per l’estate e, per quanto mi seccasse ammetterlo, i miei genitori non avevano tutti i torti riguardo alla quantità di tempo passato in casa; inoltre stare via per un po’ mi avrebbe dato l’opportunità di non fare incontri involontari e imbarazzanti con Natalia, nonché di lasciare a casa per un po’ pensieri e preoccupazioni, che era esattamente ciò di cui avevo bisogno. Non vedevo perché rifiutare.
«D’accordo, allora. Vi ringrazio molto.»
La risposta sembrò soddisfare Louise. «Benissimo! Partiamo questo giovedì. Passiamo a prenderti verso le otto, se a te va bene»
«Okay. Viene anche il signor Davis?»
Esitò un istante e il suo sorriso, seppur senza scemare, sembrò perdere parte della sua solarità. «No, George ha da fare. Non si prende mai una pausa dal lavoro» spiegò in maniera sbrigativa. «Voi due intanto potreste scambiarvi i numeri di telefono, così potete scrivervi se dovessero esserci imprevisti o cambi di programma, che ne dite?»
Guardai Noah, che appariva incerto, e alzai le spalle, come a dire “perché no?”; mi avvicinai tirando fuori il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans e lui, a scoppio ritardato, fece altrettanto.
Quando fummo a pochi centimetri l’uno dall’altro, l’occhio mi cadde su un particolare del suo viso che avevo dimenticato: le poche e chiare lentiggini sparse sul suo naso e su parte degli zigomi.
 
«...diciannove, venti, ventuno. Sono ventuno!» Dichiaro soddisfatto, e accentuo la pressione del mio dito sulla sua guancia mentre pronuncio l’ultimo numero.
Lui si scosta ridendo. «Non è vero, sono venticinque»
«E io ti dico che sono ventuno.»
A un tratto la sua bocca si curva verso il basso e lui si strofina il naso con il dorso della mano, come se cercasse di mandare via le piccole macchie sulla sua pelle. «Comunque non mi piacciono» dichiara con tono imbronciato.
Sbatto le palpebre, confuso. «Perché?» Mi avvicino e comincio di nuovo a punzecchiarlo. Lui mi lascia fare. «Sono... come... delle... stelle» canticchio, e ad ogni parola faccio corrispondere un leggero tocco del mio dito.
Lui torna a sorridere.
 
Un’inaspettata fitta di nostalgia mi attraversò il petto, a un tempo dolce e dolorosa.
Nostalgia dell’innocenza, della spensieratezza, di un’amicizia.
Di un tempo in cui nulla sembrava essere fuori posto.
 
 
 
***
 
 
 
Quella sera, subito dopo cena, mi rifugiai in camera mia per dedicarmi a ciò che più di ogni altra cosa mi aiutava a dimenticarmi momentaneamente del resto del mondo: suonare la chitarra.
Tirai fuori la custodia da sotto il letto e aprii la cerniera, riportando alla luce, oltre allo strumento, i fogli pentagrammati su cui la settimana prima avevo cominciato a scribacchiare qualche nota.
In effetti di tanto in tanto mi dilettavo a comporre qualche breve canzone, ma quella l’avevo abbandonata dopo pochi giorni: più provavo ad andare avanti, più le note, invece di combinarsi armoniosamente per dar vita a una melodia, sembravano contrastare tra loro fino a ridursi a nient’altro che suoni isolati privi di anima e significato. Detto in maniera un po’ meno drammatica, non riuscivo a trovare la giusta ispirazione.
Di solito mi accontentavo di una composizione piacevole o quantomeno orecchiabile, non banale ma comunque piuttosto semplice (ero pur sempre un dilettante); ora, invece, sembravo aspirare a qualcosa di più elaborato e personale, che mi desse maggiore soddisfazione e mi rispecchiasse in maniera più accurata. E non sapevo minimamente da che parte cominciare.
Guardai un foglio che riportava una quantità notevole di cancellature e scarabocchi e ricordai che si trattava di una canzone d’amore, che avevo deciso di comporre per il semplice motivo che quasi ogni artista nella storia della musica ne avesse scritta una. Rilessi i primi versi:
 
I look into your eyes
take your hand in mine
you smile at me and baby
I swear I can touch the sky.
 
La scontatezza di quelle parole mi fece storcere il naso. Meglio non parlare di cose che conosci solo attraverso i film, pensai con amarezza e giusto un pizzico di autocommiserazione.
Eppure una parte di me riusciva ad immedesimarsi perfettamente in Mr Darcy che si struggeva silenziosamente per Elizabeth, e sognava un drammatico bacio sotto la pioggia come quello tra Noah e Allie in The Notebook, e desiderava commettere follie per la persona amata come Patrick in Ten Things I Hate About You. Quella parte di me credeva davvero di poter provare qualcosa di simile all’amore. E allora perché l’universo non provvedeva a dimostrare che avesse ragione?
Mettendo i fogli da parte con un lieve sospiro, feci scorrere le dita sul lucido corpo della chitarra e su una delle corde in nylon, che vibrò quasi impercettibilmente al mio tocco. Per quanto sembrasse sciocco, non mi entusiasmava l’idea di separarmi dalla mia fedele compagna per due settimane intere. Ma poi pensai che forse non sarebbe stato necessario.
Esitai solo per un breve istante prima di recuperare il cellulare dal comodino; scorsi i contatti nella rubrica fino a trovare quello che cercavo e aprii la corrispondente chat, ovviamente ancora immacolata.
 
 
 
Noah Davis
Oggi
 
 
 
Hey, scusa se ti disturbo già. Volevo chiederti
se posso portare la mia chitarra. So che è
piuttosto ingombrante, ma suono quasi ogni
giorno e mi dispiacerebbe lasciarla qui.
8:46 PM
 
 
Non riuscivo a capire perché l’invio di un semplice e innocuo messaggio mi stesse rendendo così nervoso. Forse era l’imbarazzo dovuto al fatto che il destinatario fosse qualcuno che non vedevo da anni e che, nonostante i bei ricordi condivisi, era diventato praticamente un estraneo.
La sua risposta arrivò appena un minuto dopo e il suono della notifica mi provocò un lieve sussulto.
 
 
Hey! Nessun problema, di spazio ne abbiamo.
A patto che ci suoni qualcosa di fico,
naturalmente ;)
8:47 PM

 
 
Vedrò che posso fare. Grazie!
8:48 PM
 
Di nulla. Ci vediamo giovedì. Ricordati di puntare
la sveglia!
8:48 PM

 
 
Sorrisi, sorpreso dalla sua improvvisa disinvoltura: fino a qualche ora prima sembrava tanto intimidito e titubante quanto me. Ma in fondo si sapeva che mostrare certi lati della propria personalità riusciva un po’ più semplice da dietro uno schermo.
Forse, una volta superato l’impaccio iniziale, saremmo riusciti entrambi a lasciarci andare abbastanza da recuperare parte della nostra infanzia.
Con quel pensiero stranamente confortante nella mente, rimisi il cellulare sul comodino e imbracciai la chitarra.
 
 
 
***
 
 
 
Si erano ormai fatte le dieci quando decisi di prendere il portatile e accedere a Skype.
Dopo essermi assicurato che Nathan fosse online, avviai la videochiamata e dopo pochi istanti il volto del mio amico (come sempre più vicino alla webcam di quanto fosse necessario) comparve sullo schermo. «Alla buon’ora!» esclamò con un largo sorriso, gli occhi blu che brillavano di un malizioso divertimento che ormai credevo facesse parte di lui sin dalla nascita. «Cosa ti ha tenuto occupato tutta la sera?»
«La donna della mia vita» risposi inquadrando la chitarra, che poco prima avevo appoggiato alla parete accanto al letto.
Lui alzò gli occhi al cielo. «Sì, certo. Parlando di donne vere, com’è andata con Natalia? Vi siete baciati?» Il suo entusiasmo scemò quando non ricevette risposta. «Oh. Oh, no. Che è successo?»
Sospirai e scossi la testa. «Non ce l’ho fatta. Non... non me la sentivo di ingannarla»
«Nessuna scintilla nemmeno questa volta?»
«Già.»
Arricciò le labbra e annuì pensieroso, poi alzò le spalle. «Non ti abbattere, era solo il terzo appuntamento. A volte il cuore ci mette un po’ per mettersi alla pari con il resto del corpo, se sai cosa intendo»
«E’ che va a finire sempre allo stesso modo. Questa volta penso di non avere nemmeno voglia di provarci»
«Te l’ho già detto, non devi per forza metterti in cerca dell’anima gemella, o almeno non ora. So che sei un romanticone, ma non c’è niente di male nel...»
«...seguire i peccati della carne? Sì, me lo hai già detto. E lo so. Ma...» Volevo davvero sforzarmi di dare voce ai miei pensieri e alle mie emozioni, volevo approfittare della valvola di sfogo che gli amici solitamente rappresentavano, ma c’era qualcosa che mi bloccava. «Non importa. Ah, senti, starò via per due settimane a partire da giovedì.»
Non commentò l’improvviso cambio di argomento e non sapevo se esserne sollevato o deluso. «Finalmente il pulcino esce dal nido! E dove vai?»
«A Folsom, con Louise e suo figlio»
«Quello con cui giocavi da bambino?»
«Esatto»
«Beh, divertiti anche per me, io sarò bloccato con i miei per tutta l’estate. Mi raccomando, tienimi aggiornato, se metti gli occhi su una nuova ragazza voglio saperlo!»
Non mi disturbai a ribattere e mi limitai ad annuire con un sorriso non del tutto sincero. Digli almeno del college. Digli che sei confuso. Togliti almeno una parte del peso dallo stomaco. «Penso che ora andrò a dromire.»
Dannazione.
«Come vuoi. Quando ti va di parlare sono qui, okay?»
«Lo so. Grazie. Buonanotte, Nate.»
Terminai la chiamata, chiusi il portatile e, con un sonoro sbuffo, mi lasciai cadere a peso morto sul letto. Avrei voluto prendere a pugni il cuscino, ma quella giornata mi aveva prosciugato di qualsiasi energia.
Io e Nathan ci conoscevamo da quattro anni. Sapevamo quasi tutto l’uno dell’altro, ci eravamo sempre confidati qualsiasi cosa e insieme ne avevamo passate di tutti i colori. Eppure, per qualche ragione, non ero ancora riuscito a parlargli del mio problema, o almeno non in maniera approfondita: tutto ciò che sapeva era che nessuna ragazza aveva ancora conquistato il cuore dell’Irraggiungibile Danny, come mi aveva chiamato una volta. Probabilmente pensava che fossi troppo selettivo o qualcosa del genere.
D’accordo, forse quando si trattava di questioni di cuore Nate non era la migliore fonte di saggezza, ma era pur sempre il mio migliore amico: se non riuscivo a parlare con lui, con chi altro avrei potuto farlo?
Ma per il momento ne avevo abbastanza di pensare.
Spensi la luce, mi infilai sotto le coperte e chiusi gli occhi.
   
 
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