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Autore: Adeia Di Elferas    07/06/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Caterina stava aspettando che Fortunati le mandasse un messaggio per farle sapere quando sarebbe potuta andare da Bianca. Malgrado fosse Alberto De Marzi il detentore del nome del convento in cui la Riario si nascondeva, era stato infatti il piovano a trovare degli accompagnatori che fossero abbastanza fidati e a organizzare il tutto in modo che l'uscita della Tigre, se scoperta, venisse letta come un'ulteriore riprova del suo tormento spirituale, che la portava, da mesi, a cercare conforto ora presso questo monastero e ora presso quell'altro.

Per ingannare l'attesa, la donna si era messa in una delle salette più spoglie della ville e aveva riletto una missiva di suo figlio Ottaviano, che si lamentava con lei sia della scarsità di denaro che aveva ancora con sé, sia della mancanza di sostentamento ottenuta da Raffaele Sansoni Riario che, comunque, li avrebbe incontrati a breve. Il figlio inoltre si perdeva anche in una breve filippica contro Fortunati, pregandola di dire al fiorentino di smetterla di scrivergli solo per chiedergli di tornare, dato che, a suo dire, era molto più utile alla famiglia al nord, dato che cominciava a tessere qualche conoscenza e a tastare il terreno, cercando di capire se fosse o meno probabile trovare degli alleati per riprendersi almeno Imola.

Caterina immaginava che fosse più Cesare a fare tutte quelle cose, anche se doveva ammettere con se stessa che molti principi italiani erano ormai poco più che giovani dediti al vino, alle donne e ai gozzovigli, tre occupazioni in cui il suo primogenito era campione. Era così assurdo pensare che, senza alcun merito, ma solo grazie alla sua capacità di eccedere nei vizi, Ottaviano potesse finalmente servirle a qualcosa?

Dopo aver riletto quella lettera, era passata a un altro messaggio, che riteneva più serio e ricco di significato. Si trattava di una pagina firmata da Antenore Giovannetti, suo informatore a Bologna, che la teneva informata sui fatti più recenti. Quella volta in particolare, la metteva a parte del brutto pasticcio di Mirandola, in cui i fratelli Pico si erano dati battaglia per contendersi le loro terre, finendo per coinvolgere Mantova e Ferrara che, ovviamente, avevano portato gli assalitori da loro sostenuti a vincere, ovviamente, ma anche a indebitarsi con loro a vita.

Alla Sforza non era piaciuto leggere di quella guerra fratricida, che le sembrava tanto futile e vergognosa in un momento in cui tutta Italia avrebbe dovuto unirsi e sollevarsi contro i francesi e i Borja... Trovava anacronistico quell'affanno nel prevalere sul proprio sangue. Era lo stesso meccanismo perverso che aveva portato Lorenzo Medici a trascinarla in tribunale, lo stesso che aveva disgregato gli Stati del Centro Italia, lo stesso, in fondo, che aveva anche portato anni prima suo zio Ludovico, il Moro, a dannarsi l'anima, pur di prevalere sui fratelli, e da lì su tutti gli Italiani, gettando nella penisola il seme del male, favorendo la prima discesa dei francesi.

Nella sua missiva, Antenore non si soffermava, comunque, solo sulle notizie provenienti da Mirandola, ma si spingeva anche a parlare di cose che alla Leonessa stavano ben più a cuore. Senza mezzi termini e senza darsi la pena di parlare per allusioni nel caso in cui il messaggio fosse stato intercettato, Giovannetti le spiegava come i signori di Bologna le fossero del tutto favorevoli e fossero anche pronti, in caso di un suo cenno, a muoversi concretamente in suo favore.

Caterina aveva riletto più e più volte le parole di Antenore che sembravano prometterle quel sostegno che tanto desiderava, tuttavia non riusciva a non vederne le esilissime fondamenta. Di certo, pensava, sua nipote Ippolita doveva avere avuto un ruolo importante nell'influenzare la corte Bolognese, e l'evidente interesse del re di Francia proprio verso la giovane doveva aver fatto sì che i Bentivoglio l'assecondassero nella speranza di venire a loro volta favoriti dal re. Un simili intrico quanto poteva essere solido?

Ripiegando la pagina e mettendosi a guardare il soffitto, la Sforza si permise comunque, per un solo istante, di fantasticare. Non era una cosa a cui era avvezza e, le poche volte che ci aveva provato – specie quando Giacomo era ancora vivo – si era sempre costretta ad abbandonare le proprie fantasie in fretta, per evitare di soffrire troppo nel momento in cui il mondo avrebbe deluso le sue rosee aspettative.

In quel momento, però, aveva un disperato bisogno di immaginarsi qualcosa di bello ed esaltante e così, nella sua menta, si andò in fretta a delineare una mappa dell'Italia molto differente da quella che conosceva. Vedeva a Bologna sua nipote Ippolita come signora de facto della città, poi pensò a Bianca, nel parmense, compagna alla pari di Troilo De Rossi, intenta a espandere la propria influenza fino al limitare di Bologna da un lato e della Romagna dall'altro. In Romagna, a Imola, Faenza, Forlì e magari anche Cesena, poteva vedere benissimo suo figlio Galeazzo, ormai uomo, forte e deciso, giusto signore e coraggioso condottiero. Da lì a spingersi oltre il passo fu breve... Si perse nel vedere suo figlio Cesare Cardinale e poi papa, e perfino Ottaviano, in quella fantasiosa revisione del mondo, riusciva a ritagliarsi un posto, magari come Camerlengo al fianco di Cesare, o come reggente di qualche terra vicina a Roma... E Sforzino sarebbe stato perfetto come rettore di qualche Università, esperto di teologia e dedito a una vita tranquilla, ma influente. Bernardino... Lui aveva la testa calda, e non sapeva stare fermo... Sarebbe stato l'uomo giusto per qualche terra di confine, magari anche come Capo dell'Esercito al nord, a Milano, se il De Rossi avesse fatto pesare la sua amicizia con il Trivulzio. E poi Giovannino...

Caterina sospirò, chiudendo gli occhi con forza. Anche se non voleva cedere all'idea, non poteva non immaginarselo signore di Firenze... Le parole di Lucrezia avevano scavato molto più a fondo di quanto la Leonessa avrebbe mai ammesso...

La Tigre stava ancora immaginando il volto del suo figlio più piccolo farsi adulto, dai lineamenti più decisi e coperto di barba, quando Creobola arrivò nella saletta, portando con sé il messaggio di Fortunati.

“Questo è stato già aperto...” constatò la Sforza, notando come la chiusura della piccola lettera fosse stata visibilmente forzata e poi sigillata di nuovo.

La serva fece un'espressione sorpresa e ribatté, pronta: “Non guardate me, io non so nemmeno leggere!”

“Perché ti ostini a mentirmi così?” domandò allora la Leonessa, sbuffando e scuotendo il capo: “Tu sai benissimo che io so che tu sai leggere...”

Creobola non osò aggiungere altro, rimanendo ferma al suo posto, in attesa, forse curiosa di vedere come avrebbe reagito la sua signora nel leggere la brevissima missiva del piovano.

Caterina non aveva nemmeno voglia di mandarla via, così, fingendo che la serva non fosse più lì, lesse in fretta e riuscì a dissimulare bene la sua delusione nel leggere che la sua visita a Bianca era rinviata all'indomani nel pomeriggio. Aveva sperato fino all'ultimo che Fortunati fosse riuscito a organizzare tutto già per quel giorno.

Mentre ripiegava il foglio, facendolo a pezzi, un po' per il nervosismo e un po' per non lasciare in giro nulla di possibilmente compromettente, Caterina si rese conto all'improvviso che il messaggio era stato scritto in latino. Forse anche Francesco sapeva che Creobola non era analfabeta...

Proprio per mettere alla prova quella strana serva, la Sforza scelse la prima frase dell'Eneide che le tornò in mente e disse, velocemente, come se stesse discutendo del più e del meno: “Timeo danaos et dona ferentes.”

Lo sguardo sinceramente confuso di Croebola fece intendere alla Tigre che la serva, in fondo, non era analfabeta, ma di certo non era una latinista.

Permettendosi quindi di rilassarsi, rispose al suo confuso: “Che avete detto?” con un'alzata di spalle.

Congedata Creobola, la milanese recuperò i pezzetti del messaggio e lasciò la saletta. Voleva bruciare ciò che restava della lettera e preferiva farlo nella sua stanza, dove aveva un piattino adatto proprio a quello scopo.

Era quasi a destinazione, quando le passò vicino, di corsa, Bernardino, che non rallentò nemmeno quando la vide, e poi, alle sua spalle, a passo svelto, ma senza inseguirlo davvero, c'era Galeazzo.

“Che succede?” chiese la donna, voltandosi un momento per cercare di vedere dove si fosse infilato il Feo, ma tornando subito a guardare il Riario.

Questi, un po' in imbarazzo, rispose: “Nulla... Nulla... Mio fratello è fatto così.”

Era stato evasivo e non intendeva dare ulteriori spiegazioni, perché si sarebbe trovato troppo in imbarazzo nel raccontare di come avesse pizzicato Bernardino intento a spiare una delle serve che si lavava nei locali della servitù. Inoltre sarebbe stato doppiamente in imbarazzo nel raccontare di come anche lui, scoperto il fratello, avesse provato a dare una sbirciata, ma, proprio mentre si apprestava a farlo, un rumore improvviso avesse spaventato la ragazza, facendola rivestire in fretta e uscire a controllare cosa fosse accaduto. Sia lui sia Bernardino non avevano trovato altra alternativa se non la fuga, solo che Galeazzo cercava di darsi un tono, camminando in fretta e basta, mentre il Feo, recidivo, aveva preferito fuggire a gambe levate.

“Ascolta, domani andrò a trovare Bianca.” iniziò a dire Caterina, tanto presa dai propri pensieri da non avere lo spirito di indagare oltre la sbrigativa spiegazione del Riario in merito alla corsa del fratello: “Se vuoi che le dica qualcosa da parte tua...”

A parte loro, in quell'angolo della villa, sembrava non esserci nessuno, eppure entrambi sentivano il dovere di parlare a bassa voce, dato il soggetto del discorso.

Galeazzo, abbassando il più possibile il tono, disse: “Salutatemela. Anche se piacerebbe anche a me vederla... Ormai è da tanto che non è qui.”

La Leonessa schiuse le labbra, come per opporre un fermo rifiuto, tuttavia, alla fine, non disse nulla.

Incoraggiato da quel silenzio, il sedicenne provò a soggiungere: “In fondo io lo so già, della gravidanza... A me non deve nascondere la pancia.”

Caterina, che in realtà non aveva mai valutato come ormai, di quel tempo, sua figlia dovesse avere già un ventre ben pronunciato, rimase interdetta da quell'affermazione. Non si era aspettata che Galeazzo citasse la gravidanza di Bianca, ma doveva ammettere che quella sarebbe stata l'unica motivazione valida per non farli incontrare. Il Riario, invece, era già a conoscenza di tutto, anzi, pensò la Tigre, forse ne sapeva più di lei, riguardo la relazione tra la sorella e il De Rossi...

“Potresti venire al convento assieme a me.” propose subito la Sforza, convinta che anche Bianca avesse il desiderio di incontrare il fratello: “Devo solo chiedere a Fortunati, per sapere se la tua presenza al convento può essere un problema, essendo un uomo...”

La naturalezza con cui sua madre l'aveva definito 'un uomo' inorgoglì il Riario. Anche se la Leonessa l'aveva fatto senza un reale ragionamento, per il figlio quella era una sorta di ammissione ufficiale, era come dire che lei non lo considerava più solo un ragazzino...

“Solo, quando andremo, se verrai là con me, ho bisogno che mi lasci un po' da sola con tua sorella, perché devo parlarle di alcune cose.” spiegò Caterina.

“Certo.” annuì subito Galeazzo.

“Allora ti farò sapere. Mando immediatamente la richiesta a Francesco. Mi farebbe piacere andare là assieme a te. Mi dà sicurezza averti con me.” concluse la donna, dando una breve carezza sul volto del figlio.

 

Gian Giacomo da Trivulzio stava ripensando alle notizie appena arrivate dal Centro Italia. Non gli piacevano i movimenti di Vitellozzo Vitelli, specie perché faticava a interpretarli.

Al suo fianco, a tavola, Troilo sembrava non nutrire invece nessun interesse per la questione, continuando a ritornare alla sua personale situazione, chiedendosi a voce alta, tra un boccone e l'altro, se la concessione che gli era stata fatta dal re di Francia fosse buona o meno.

Il Trivulzio stava ancora tentando di concentrarsi sui fatti del tifernate, dove il Vitelli aveva fatto strage di trecento guasconi e aveva scacciato i fiorentini che erano ancora in zona e ormai totalmente allo sbando, quindi lo infastidiva molto quella specie di brusio colmo d'ansia che gli stava rovinando il pranzo, oltre che guastando la concentrazione.

“Il Marchesato è un'ottima cosa.” tagliò corto il milanese, non volendo essere brusco, ma desiderando oltre ogni cosa un po' di silenzio: “Il re l'ha concesso come una sorta di indennizzo? E bene, lo prenderai per quello che è. Credo che tu sia l'unico Conte al mondo che si fa scontento d'essere divenuto Marchese!”

Il De Rossi avrebbe voluto ribattere spiegando come quella carica, molto più importante di quella di Conte, fosse più difficile da gestire e anche più esosa da mantenere, ma capì che non era il caso di agitare ulteriormente l'amico.

“Ancora la questione del Vitelli?” chiese, immaginando che solo quello potesse essere il motivo di tanto nervosismo.

Gian Giacomo annuì, di mala voglia, e rispose: “Non mi piace il modo in cui ha scacciato i francesi...”

“Doveva lasciare che gli devastassero le campagne?” domandò l'emiliano, versandosi un po' di acqua fresca.

Il Trivulzio sollevò un sopracciglio. Sapeva che l'amico non era stupido, eppure quella domanda gli pareva fuori luogo. Seriamente credeva che fosse una mossa senza conseguenze? Uccidere trecento uomini di un esercito che fino a pochi giorni prima era alleato e che, anzi, poteva dirsi superiore al proprio era per lui una cosa necessaria, anzi, addirittura utile?

“Oh, lasciamo perdere...” tagliò corto Gian Giacomo, accorgendosi di come l'amico fosse di umore nero e di come, probabilmente, non avesse alcuna intenzione di affrontare quel genere di argomento, preso com'era dai suoi tormenti personali.

Gli sembrava superfluo anche provare a condividere con lui il suo timore principale, legato a quel fatto, ossia che costituisse un precedente molto pericoloso. Se Vitelli aveva potuto attaccare i francesi, chi avrebbe impedito ad altri condottieri italiani di emularlo, attaccando gli uomini di re Luigi o, peggio ancora, i soldati del Borja o il Borja stesso? Chi avrebbe fermato le rappresaglie, le spedizioni armate o, peggio ancora, le congiure..?

“Sai, è vero che i Riario sono a Piacenza... I due figli maggiori della Sforza.” sospirò il Trivulzio, afferrando un pezzo di formaggio e rinunciando del tutto a pensare ai propri dubbi, dedicandosi interamente ai problemi di Troilo: “Me l'ha confermato giusto stamattina il Landriani. Hanno preso contatti anche con lui, per cercare un tramite che convincesse o il Cardinale Sansoni Riario o addirittura Giuliano Della Rovere a incontrarli, ma non qui in Lombardia, loro vorrebbero che l'incontro si tenesse a Piacenza, per la loro sicurezza... Non sembra però che i porporati siano così desiderosi di assecondarli.”

“E come mai né il Cardinale Sansoni né il Della Rovere vogliono accettare?” chiese il De Rossi, che poteva immaginare la risposta, ma voleva portare l'amico a continuare il discorso.

“Il primo è un coniglio, l'hai visto anche tu... Ha paura che un simile gesto possa essere frainteso dal re, o, peggio, dal papa... Preferisce passar loro dei quattrini sottobanco, ma non ha alcuna intenzione di esporsi, al momento.” spiegò in fretta l'anziano condottiero, masticando a bocca aperta il formaggio: “Mentre il secondo è solo molto furbo e poco incline alla generosità d'animo. Credo che fondamentalmente non abbia ancora capito se e quanto possano tornargli utili questi parenti poveri...”

Troilo fece una smorfia. In cuor suo era quasi contento, in realtà, che nessuno dei due Cardinali volesse parlare con Cesare e Ottaviano. Anche se il primo gli sembrava un giovane uomo intelligente e colto, seppur limitato da un'eccessiva cupezza, del Riario più grande non aveva invece la minima stima. Forse per colpa dei racconti sentiti dalla voce di Bianca, o forse per via dei fatti disastrosi e noti a tutti che avevano coinvolto Ottaviano nella morte del Barone Feo, secondo marito di Madonna Sforza, l'emiliano era convinto che meno cose facesse il Riario, meglio fosse per tutti.

“Saranno i tuoi cognati...” soppesò il Trivulzio, finendo il formaggio e guardando in modo strano il suo amico: “Non vuoi andare tu a Piacenza a trovarli? In fondo, se vuoi tornare a San Secondo, potresti passare facilmente da lì e...”

“No.” lo frenò subito Troilo, alzando una mano con fare imperioso: “Domani mi metterò in strada per tornare a San Secondo e non ho intenzione di fare deviazioni.”

Non sapeva come spiegare a Gian Giacomo l'imbarazzo che avrebbe provato nel trovarsi al cospetto di quei due giovani, poco più che ventenni, che non sapevano nulla della sua storia d'amore con la sorella, che non immaginavano nemmeno – almeno, così sperava – della gravidanza di lei, né sospettavano nulla dei progetti di matrimonio...

“Come vuoi.” sospirò l'anziano: “Ma secondo me varrebbe la pena perdere mezza giornata di viaggio, pur di discorrere un momento con loro in santa pace... Sono i fratelli maggiori della tua futura sposa, e come tali...”

“Bianca, se deve proprio rendere conto a qualcuno di qualcosa, lo deve fare con sua madre e non certo coi suoi fratelli.” liquidò la questione il De Rossi, provando una strana ansia nel sentir parlare tanto apertamente della Riario come della sua 'futura sposa': “Madonna Sforza vale mille Ottaviano Riario. E comunque, ormai sono Marchese e ho molte cose da organizzare, quindi non posso perdere nemmeno un'ora, altro che mezza giornata... Se non fosse che sembrerei scortese agli occhi del re, partirei già questa sera.”

Il Trivulzio a quel punto si versò da bere e cercò di fare altrettanto per l'amico, che, però, coprì il proprio calice con la mano, dicendo che preferiva l'acqua.

Scuotendo il capo, Gian Giacomo soffiò: “Sei troppo assennato, amico mio, per vivere in questo pazzo mondo... Dovresti distendere un po' i nervi e rilassarti... A volte sembra quasi che tu ti voglia punire e ti costringi a vivere un carcerato! Bevi almeno un po' di vino...”

“Non ho sete.” concluse bruscamente il De Rossi e, alzandosi, lasciò in fretta la stanza.

Il Trivulzio, rimasto solo davanti al proprio calice colmo, strinse le labbra e scosse il capo più volte, poi, dopo aver sorbito il vino quasi tutto d'un fiato, trovò che nulla si addicesse di più allo stato d'animo del suo amico se non un verso di una poesia che aveva sentito recitare proprio lì a Pavia durante una festa e che gli era piaciuta così tanto da impararla a memoria: “E temo et spero et ardo et son un ghiaccio – motteggiò tra sé, con un sorriso – et volo sopra 'l cielo, et giaccio in terra, et nulla stringo et tutto 'l mondo abbraccio...”

 

Il mondo sembrava essersi fermato, nel convento. Bianca, seduto sul suo piccolo letto, la schiena contro la testiera, fissava immobile un punto davanti a sé da lunghi minuti, o forse da ore, da abbastanza tempo, almeno, affinché una semplice crepa nel muro perdesse la sua forma e i suoi confini e si trasformasse mille volte, nella sua immaginazione, diventando a tratti una strada a tratti un fiume, a volte, perfino, un rivolo di sangue...

La giovane teneva entrambe le mani sul ventre, ormai diventato abbastanza grande da non potersi più nascondere in nessun modo. Proprio per quel motivo, forse per un eccesso di zelo da parte della Superiora, non le era permesso uscire dalla sua celletta ormai da giorni. Le portavano da mangiare, da bere, anzi, in realtà le portavano qualsiasi cosa chiedesse, anche se a volte storcevano il naso dinnanzi alle sue richieste, e non le facevano mancare nulla, offrendole, addirittura, la visita di un confessore di quando in quando, che però spesso la Riario rifiutava.

Era trattata, insomma, alla stregua di una principessa, eppure si sentiva in trappola. Sapeva che si trattava di una condizione temporanea e, quando ci ragionava lucidamente, si rendeva conto che fosse una delle soluzioni migliori per proteggere il figlio che portava in grembo. Malgrado ciò, in certi momenti non si sentiva meglio di quanto potesse sentirsi un prigioniero di guerra...

Passava le giornate a dormicchiare, leggere e annoiarsi, le poche volte in cui non si dedicava a uno di questi tre passatempi, si trovava – come in quel momento – a ragionare sulla propria vita e sul proprio futuro. Altalenava di continuo tra la disperazione e la sicurezza di sé, a tratti si sentiva ancora una bambina, sperduta e incapace di decidere alcunché, mentre in altri momenti si sentiva una donna nella pienezza, quasi madre e incamminata su una strada non ancora del tutto tracciata, ma che poteva già vedere, in Emilia, al fianco di un uomo potente e gentile...

Proprio quando la sua mente le riproponeva l'immagine di Troilo, poi, si sentiva dilaniata da due sentimenti opposti: da un lato la paura e dall'altro l'entusiasmo. In alcuni momenti, infatti, si trovava a darsi della folle a essersi accollata una responsabilità così enorme come quella di un figlio, alla sua età, non ancora sposata, senza una stabilità economica, né familiare. Aveva il terrore che lei e il De Rossi, costretti alla fin fine alla quotidianità, non sarebbero andati d'accordo. Aveva l'inconfessabile timore che la passione bruciante che li aveva consumati al punto da giurarsi amore eterno e da portarli a progettare una vita insieme, a qualsiasi costo, alla fine sarebbe svanita e si sarebbe solo lasciata alle spalle due estranei intenti a chiedersi come mai li avesse un tempo uniti. Si chiedeva, colma d'angoscia, cosa sarebbe successo loro se Troilo, per i più svariati motivi, avesse dovuto passare molto tempo lontano da casa... L'avrebbe tradita? E lei avrebbe accettato il tradimento? E lei che avrebbe fatto? Un po' si conosceva e poteva quasi immaginarsi, alla fine, a cedere a qualche tentazione e ripagare il marito lontano con un tradimento consumato tra le mura domestiche...

Altre volte, invece, non appena pensava a Troilo tutti i problemi e le ansie svanivano e restava solo una frenesia silenziosa che la portava a ripensare al tempo che avevano trascorso insieme, a ripercorrere con il ricordo ogni sfumatura della pelle del De Rossi, a risentire la sua voce... Erano attimi in cui il convento davvero le pareva una prigione, o, ancor peggio, una tomba, e non voleva altro che uscirne, scappar via, correre fino a perdere il fiato e raggiungere il suo amato, ovunque fosse... Quelli erano i momenti in cui le pesava di più la solitudine, quelli in cui si trovava a sussurrare da sola il nome dell'uomo che amava, quelli in cui il figlio che portava nel suo ventre sembrava agitarsi come un pazzo, quasi volesse anche lui correre dal padre...

“Ci sono visite.” la voce roca di una delle suore che più spesso si occupava di lei la fece scattare in piedi, proprio come avrebbe fatto quella di una guardia con un prigioniero.

La porta si aprì un po' e la religiosa si affacciò un istante, probabilmente per capire se la giovane ospite era o meno presentabile. Di norma la Riario era molto scrupolosa, nel vestirsi, ma passava alcune giornata strane in cui sembrava spenta e così rimaneva in vestaglia da notte fino alla sera seguente.

Con un cenno di approvazione, vedendo che Bianca era in ordine e attenta, la suora spiegò: “C'è vostra madre e con lei uno dei vostri fratelli.”

Il pensiero della Riario corse subito a Giovannino, ma poi capì che la Tigre non avrebbe mai rischiato nel portare lì il suo figlio più piccolo, preferendo di certo tenerlo al sicuro al convento d'Annalena. Escluso quindi il Medici, Bianca arrivò alla conclusione che con la madre doveva esserci Galeazzo.

“Fateli entrare, vi prego.” disse la ragazza.

“Vi vedranno separatamente...” bofonchiò la suora, borbottando poi qualcosa circa i suoi dubbi non del tutto fugati circa la reale identità del 'giovanotto' che accompagnava la Sforza.

La Riario non le diede peso, e si mise in attesa, chiedendosi chi sarebbe entrato prima nella sua cella. Dovette attendere circa cinque minuti e poi, finalmente, sentì dei passi e vide entrare sua madre.

Era da tanto tempo che non la vedeva e, pur immaginando che fosse lì per qualche motivo importante che meritava la sua completa attenzione e il suo tempo, Bianca trovò che non fosse fuori luogo perdere qualche istante per abbracciarla.

Solo nel momento in cui provò a stringerla a sé si accorse che il pancione le rendeva difficile quella dimostrazione d'affetto e, confusa da tutto ciò che le stava capitando, la giovane si mise a ridere e piangere allo stesso tempo e Caterina, che era rimasta sorpresa da quello slancio, ebbe la stessa identica reazione e per qualche istante nessuna delle due riuscì a dire nulla.

“Ormai non ci sono più dubbi...” sussurrò Caterina, quando riuscì a ritrovare la voce: “Non manca molto, direi...” aggiunse, allungando una mano e sfiorando il grembo della figlia, provando una sensazione molto strana, quasi surreale.

Finché aveva saputo della gravidanza, ma non ne aveva visto in modo tanto evidenti i segni, non le era quasi parsa vera. Ora, invece, non poteva più fingere che non fosse reale...

“Stai bene?” chiese poi, in fretta, come rendendosi conto che sarebbe dovuta essere la prima cosa da dire, data la situazione.

Bianca annuì subito e confermò: “Sto bene. Ho a volte male alla schiena, ma è normale. Riposo tutto il giorno, e di certo questo mi aiuta...”

“Bene.” annuì la donna e poi, accigliandosi e facendo cenno alla figlia di sedersi pure, assunse il suo consueto cipiglio e disse, seria: “Ci sono tante cose di cui dobbiamo parlare.”

Con un sospiro compito, la Riario, che si era aspettata che fosse quello il motivo di quella visita tanto inattesa, si sistemò sul letto e si predispose ad ascoltare quello che immaginava sarebbe un lungo e difficile discorso.

   
 
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