Aprire gli occhi non modifica
le sue percezioni: era al
buio prima, rimane al buio adesso. Non ha importanza quanto possano
essere
forti i suoi muscoli, i lacci che le legano i polsi e le caviglie sono
troppo
stretti, non riesce a liberarsene. Prova a divincolarsi nuovamente ma,
dopo
aver sbattuto sul metallo dove è sdraiata da
chissà quanto tempo, ritorna
esattamente dove prima, non si sposta di un millimetro. Ottiene una
cosa
soltanto: dolore.
E’ quando gli occhi si abituano
all’oscurità, da sempre fida compagna ma ora
trasformata in perfida traditrice, che le sembra di scorgere un
movimento
attorno a lei. Se trattiene il respiro può quasi sentire il
fruscio dei
movimenti di qualcosa, qualcuno.
«Chi sei?» ringhia a denti stretti «Cosa
vuoi da me?»
Non le arrivano risposte.
«Parla, lo so che sei qui» gli intima, è
una predatrice, la parte della vittima
non le si addice, nemmeno in quel momento.
«Lasciami andare, se ci tieni alla vita» lo
minaccia, scoprendo i denti come
una bestia famelica «Tu non sai chi sono io»
«Oh sì che lo so, mostro»
Una voce profonda arriva alle sue orecchie, è più
vicino di quanto si
aspettasse ma sembra vestito di oscurità stessa e, per
quanto la sua vista sia
sempre stata acuta, non lo vede.
«Che cosa vuoi da me?» ripete.
«Io non voglio niente: non le vedi le ombre, sciocca?
E’ l’inferno stesso che
ti reclama»
«L’inferno?» ghigna
«Prenderà anche te se mi ucciderai»
«Colpe su di me non cadranno, saranno le tue stesse paure ad
ucciderti, bestia»
Una mano guantata le stringe la mandibola per aprirle la bocca. Quel
pazzo,
chiunque egli sia, non la conosce affatto: muove di scatto la testa e
si
divincola dalla presa, quasi lo morde con i suoi denti affilati
«Le mie paure?»
sputa rabbiosa «Io non ho paura di niente»
«Se serve raccontarti queste sporche menzogne accomodati
pure: che tu tema i
proiettili o l’affondo di una lama nella carne, a me non
importa»
A quelle parole deglutisce, il battito accelera e il fiato si fa
istintivamente
più corto.
Non lo può vedere ma il ghigno di compiacimento sul volto
dell’altro lo avverte
lo stesso. Le narici si dilatano e gli occhi si spalancano, riprende la
sua lotta
per la libertà, ancora una volta invano.
«Stai per morire, vedo che l’hai capito»
Un panno le viene posato con forza sul viso e un odore dolciastro
invade le sue narici. E’ questione di pochi minuti,
ogni sua difesa crolla. Non
c’è alcuna resistenza quando le viene aperta con
forza la bocca ed una cannula
viene inserita rudemente nella sua gola. Le mani che la stringono
sembrano improvvisamente
quattro, sei, otto, come le zampe di un raccapricciante ragno grondante
oscurità.
Se solo ci fosse la possibilità di allentare ciò
che la costringe, quel
maledetto sarebbe già a terra con il collo spezzato. Come
diavolo c’è finita lì?
Neanche lo ricorda. E’ in quel momento che le palpebre si
abbassano, il buio le
invade la mente ed è proprio da lì che
l’incubo comincia.
Jackson
spense il fon e si passò una mano fra i capelli, per
constatare che fossero asciutti. Diede un’occhiata allo
specchio e sbuffò:
erano passati ormai molti giorni dal ritrovamento del cadavere di John
Lionheart e non avevano fatto alcun progresso. Il biglietto consegnato
da
Robert Locksley non aveva portato a nulla: le uniche impronte rilevate
erano le
sue. Non era stato inviato tramite il servizio postale, qualcuno doveva
averlo
consegnato a mano, con tutta probabilità poco dopo aver
sistemato il corpo,
dato che l’uomo - a detta sua - aveva controllato la posta
solo il giorno seguente. Gli esami
sulla carta di giornale e sulla colla usata avevano dato risultati
inconcludenti: era una pista morta. Nessuno aveva visto niente, non
c’erano
telecamere in zona: il nulla profondo.
Con l’approvazione di Richard, stavano riuscendo a tenere a
bada la stampa e la
notizia del probabile giustiziere ancora non era arrivata al grande
pubblico.
Era anche vero che nessun caso analogo si era ripresentato, causando un
certo
scetticismo sulla veridicità di quel biglietto ma in molti
erano piuttosto
sicuri sarebbe successo di nuovo, era solo questione di tempo. Dal
canto suo,
cercava di dare la giusta rilevanza ad ogni scenario possibile.
John era odiato da molti per la sua supponenza, le sue angherie e, non
da meno,
per il caso Fitzwater. Robert, tuttavia, non sembrava davvero essere un
tipo in
grado di uccidere a sangue freddo. Si era domandato persino se potesse
essere
il caso di fare due chiacchiere con il suo analista ma Robert aveva un
alibi,
non sarebbe mai riuscito ad ottenere un’autorizzazione
ufficiale.
Lo stesso Richard era nella lista dei possibili sospetti
perché liberarsi del
pesante fardello Prince Johnny avrebbe giovato sia
all’immagine
dell’azienda che al suo capitale sperperato per tenerlo
lontano. Nonostante tutto, però, il padrone delle Lionheart
Industries sembrava
veramente avere a cuore i desideri di quella madre perduta e anche lui
aveva un
alibi ben solido. Certo, non avrebbe avuto problemi a pagare qualcuno
che lo
facesse al posto suo ma, ancora una volta, con semplici ipotesi non si
poteva
indagare oltre: c’era bisogno di avere almeno una piccola
prova a favore di
quella tesi e, al momento, ne erano sprovvisti. Soprattutto sarebbe
stato quanto mai sciocco indisporre sulla
base del nulla qualcuno
che, fino a quel momento, si era
rivelato il massimo della collaborazione.
Inoltre, in quella morte sembrava ci fosse qualcosa che andava ben al
di là di
una vendetta personale o l’intenzione di liberarsi di una
palla al piede. Il
primo caso avrebbe, con tutta probabilità, scatenato una
reazione violenta,
dettata dalla rabbia, con sangue dappertutto. Il secondo sarebbe stato
più da
una cosa rapida e pulita, come solo un colpo di pistola silenziato di
un
sicario avrebbe saputo essere. Nel decidere di far morire qualcuno di
paura, invece,
c’era qualcosa di maniacale, una sorta di elevazione
personale al potere di un
giustiziere divino.
Finì di tamponarsi con l’asciugamano, si
spruzzò un po’ di profumo e si spostò
in camera da letto per vestirsi, riprendendo le sue macchinazioni.
I numeri sconosciuti recuperati da Rapunzel si erano rivelati collegati
a
cellulari usa e getta, probabilmente il metodo di contatto con i pusher
di John che gli
fornivano la cocaina e chissà che altro. Kristoff aveva
allertato un suo collaboratore,
un piccolo ladruncolo dei bassifondi, per capire se almeno lui avesse
avuto
modo di recuperare qualche informazione non raggiungibile tramite
canali
ufficiali. Anche perché la fenilciclidina, chiunque fosse
questo misterioso
giustiziere, da qualche parte se la doveva pur procurare.
Scosse la testa e s’impose di non pensarci più,
decidendo di concentrarsi
sull’inaspettato invito a cena di quella sera. Gli era stato
detto di mettersi
comodo, per cui optò per un paio di jeans marroni e una
morbida felpa blu con
cappuccio. Indossò la giacca e si mise le scarpe. I presenti
che aveva
acquistato per l’occasione erano già ad attenderli
in auto, prese le chiavi ed
uscì.
«Sai»
buttò lì Anna, dopo aver controllato il livello
di
cottura dell’arrosto nel forno «Abbiamo avuto
problemi con una delle auto in
questi giorni, così Kriss ha avuto bisogno di un passaggio
per andare al lavoro
l’altra mattina e, sì, insomma: ho finalmente
visto Jack»
Elsa smise di mescolare l’insalata «E
allora?» chiese, guardandola poi con le
labbra tirate: se conosceva anche solo un minimo sua sorella,
già sapeva che
quella conversazione sarebbe andata in una direzione che non avrebbe
coinciso
affatto con la sua.
«E allora niente» le fece il
verso Anna, decidendo saggiamente di
incaricarsi del compito di affettare il pane
«Abbiamo un po’ parlato, mi
sembra sempre il solito nonostante siano passati anni. Anche se,
bisogna
ammetterlo, se li porta egregiamente. Con quei capelli è
così affascinante»
«Ehi, guarda che sono qui, eh!» borbottò
Kristoff, passandole accanto con una
pila di piatti fra le mani.
«Lo so, tesoro» gli rispose lei, lanciandogli un
bacino ruffiano. Lo vide
scuotere la testa e proseguire verso la sala da pranzo.
Elsa si mosse verso uno dei cassetti della cucina «Io non so
dove tu voglia
andare a parare» disse, aprendolo «Anzi, lo so
benissimo e gradirei non lo
facessi»
«Alle posate ci penso io, grazie»
l’anticipò l’altra, spostandola appena
con un tocco di fianchi, intenzionata più che mai a tenerla
lontana dai
coltelli e dallo scoprire un altro piccolo particolare.
Momentaneamente privata di qualsiasi tipo di attività, la
maggiore incrociò le
braccia al petto «E comunque non mi sembra che Jack ti sia
mai piaciuto. Lo
chiamavi l’idiota, talvolta anche in sua
presenza»
«Questo non c’entra nulla»
iniziò a spiegare Anna, passando le stoviglie al
marito «Lui era il tuo ragazzo e io tua sorella, ti portava
via da me: era
intrinseco che non potessimo andare d’accordo. Nemici
naturali, capisci?»
prese, poi, un cavatappi e cominciò ad aprire una bottiglia
di rosso «Ma non
ero cieca da non vedere quanto lui ti rendesse felice»
Elsa mise a tacere quella fitta fastidiosa che aveva cominciato a
pungolarle il
petto, soffocandola con un sorriso ironico «Tu sei priva di
ogni logica, te
l’hanno mai detto?»
La minore sorrise e la guardò dritta negli occhi
«Indovina? I sentimenti non
hanno logica. Vino?»
Stava per declinare l’offerta data la cena imminente, quando
i fari di un’auto
illuminarono il vialetto d’ingresso «Aspetti
qualcuno?» ma, ancor prima di aver
finito di pronunciare quella frase, una terribile consapevolezza si
fece largo
dentro di lei e, solo allora, il ricordo di cinque
piatti nelle mani del
cognato si stampò nella sua mente «Non puoi averlo
fatto» disse, mentre il
timer annunciava la cottura della carne.
«E invece sì» la sfidò
l’altra, aprendo il forno: un invitante profumo si
sparse per tutta la cucina.
«Non ci credo» quasi boccheggiò
«E tu le hai dato corda!» rimproverò il
cognato
che le aveva appena raggiunte per prendere le ultime cose.
«Perdonami, Elsa» le disse dispiaciuto, mentre
rubava un pezzo di carota
direttamente dall’insalatiera per portarsela alla bocca
«Ma, lo sai, lei ha
accesso a tutto quello che mangio e bevo» spiegò,
dando poi un bacio sulla
guancia della moglie.
Proprio in quel momento, il campanello d’ingresso
suonò.
«Vado io!» urlò Freja, alzandosi di
colpo dal grande tappeto su cui stava
giocando con il suo pupazzo preferito.
«Voi me la pagherete» sibilò Elsa a
denti stretti «Dammi quel vino»
§
Nel raggiungere la
porta d’ingresso, Jackson già constatò
dall’esterno come Anna e Kristoff avessero davvero una bella
casa dal sapore rustico
e familiare. Il suo compagno di squadra aveva un buono stipendio, quasi
quanto
il suo, ma senza il contributo della famiglia Bleket era
ragionevolmente sicuro
che non si sarebbe potuto permettere un’abitazione come
quella. I Bleket erano
sempre stati più che benestanti e la tragedia della morte di
Agnar e Iduna
aveva reso le ragazze le uniche fruitrici del loro patrimonio. Gli
Overland,
invece, non erano mai stati ricchi, anzi, avevano avuto momenti davvero
bui. Per
questo ben si ricordava le occhiate sprezzanti di Runeard quando andava
a
prendere la nipote, come se sospettasse che il suo interesse per lei
fosse
mosso da ben precise motivazioni, che poco avevano a che fare con il
cuore ma
tanto con il cavallo dei pantaloni e le sue tasche.
In verità, a Jackson dei soldi non era mai importato nulla
perché non era di
certo la ricchezza di una persona a definirne la qualità e
lui, Elsa, l’avrebbe
amata anche vestita di soli stracci.
Si ricordava ancora nitidamente, come se fosse accaduto il giorno
prima, di
quando si era buttata fra le sue braccia disperata, mentre supplicava
il cielo
di prendersi tutte quelle stupide ricchezze pur di riavere al fianco i
genitori. Allora non poteva saperlo ma quello sarebbe stato
l’inizio della fine
della loro storia. Era piuttosto sicuro che il vecchio, una volta
saputo della
loro rottura, avesse stappato una delle sue bottiglie migliori. Di
riflesso,
strinse la mano attorno al collo di quella che aveva in mano in quel
momento,
fredda al punto giusto. Scosse il capo e deglutì, come per
scacciare quella
malinconia che gli era salita come un nodo alla gola e suonò.
Fu così che sentì uno strillo agitato e un gran
trambusto. Un attimo dopo, la
porta gli si spalancò davanti, mostrandogli una bambina di
cinque anni con
delle deliziose treccine bionde e grandi occhi nocciola «Tu
devi
essere Freja, giusto?» vedendola come imbambolata, decise di rompere
il ghiaccio.
La vide annuire ma senza emettere alcun suono «Io sono
Jackson, il collega di
papà. Ma tu puoi chiamarmi Jack»
continuò, facendole l’occhiolino e
abbassandosi un poco «Ho qui un regalino per te» le
disse, porgendole il
peluche di un coniglietto bianco, con legato al collo un bel nastro
azzurro.
Freja represse a stento uno squittio di gioia «Ma
è bellissimo! Sono sicura che
andrà d’accordissimo con Olaf»
«Con Olaf?» chiese lui, inarcando appena un
sopracciglio.
La piccola annuì «E’ il mio migliore
amico, me lo ha regalato zia Elsa: è un
pupazzo di neve»
Jackson sorrise, era una cosa
così da lei «Sono
certo che il Signor
Bunny[1]
lo adorerà»
«Se non lo fai entrare sarà lui a diventare un
pupazzo di neve» li raggiunse
Kristoff con un sorriso «Prego, accomodati»
«Grazie, non ci tenevo proprio a diventare come Jack
Frost[2]»
La bimba rise e si fece da parte ma, non appena vide la sua intenzione
di
entrare senza eseguire un passaggio fondamentalmente, lo
bloccò «Jack! Non si
entra con le scarpe sporche in casa» lo redarguì
come se fosse il suo
fratellino minore «Spero che i tuoi piedi non
puzzino»
«Freja!» la riprese il padre, visibilmente in
imbarazzo «Ma cosa dici?»
L’altro gli fece segno di non preoccuparsi e si
levò le scarpe senza protestare
«I miei piedi sono pulitissimi, ho fatto la doccia prima di
uscire e messo
delle calze pulite. Vuoi sentire?» le rispose, alzando appena
una gamba.
Kristoff tirò indietro la figlia giusto per un soffio
«Ok, ti do un paio di
ciabatte ma nessuno annuserà i piedi di nessuno,
chiaro?»
«Chiaro» concesse Jack, regalando alla piccola un
altro occhiolino che ebbe il
potere di farla arrossire e nascondere dietro le gambe del padre.
«Ho portato
questa» disse poi, mostrando la bottiglia che aveva in mano
«Al momento è in
temperatura, ma sarebbe meglio metterla in frigo per dopo»
«Portala pure in cucina, è di
là» gli disse, indicandogli la direzione giusta
«Intanto dammi la giacca»
Annuì e fece come gli era stato detto. «Anna,
ciao!» esordì, entrando nella
stanza «Ho pensato di portare un po’ di
vi…» si bloccò nel vedere due occhi
glaciali puntati su di sé. Indossava un dolcevita bianco e
un paio di pantaloni
aderenti neri. Aveva i capelli legati in una morbida treccia posata su
una spalla, come
spesso li portava quando era ragazza. S’impose di non pensare
all’innumerevole
quantità di volte che aveva disfatto
quell’acconciatura «Ci sei anche tu»
constatò, preso completamente in contropiede.
«Così pare» disse lei senza entusiasmo,
dando un sorso al suo calice di vino
rosso.
«Grazie, Jack» intervenne Anna, prendendogli la
bottiglia di mano. Anche lei
portava i capelli ramati legati ma di trecce ne aveva due, a specchio
di quelle
della figlia, e indossava una maglia nera oversize con dei leggings
color
senape.
«E’ da bere con il dolce…» le
fece presente, ma improvvisamente si rese conto
di non sapere se fosse o meno previsto per la serata. Perché
non aveva
comprato anche quello?
«L’ho preso io» disse Elsa, mettendo un
freno al suo disagio «Lo
faremo
bastare per tutti, è nel frigo» Perché
diavolo lo aveva fatto? Era
tutta colpa del vino a stomaco vuoto, ne era certa.
«Dove adesso finirà anche questa
bottiglia» mise fine all’imbarazzo la padrona
di casa «Jack raggiungi pure Kristoff. Se hai bisogno del
bagno usalo pure. Il tempo di finire di sistemare qui e saremo subito
da voi»
Lui annuì e andò dal collega nell’altra
stanza, ancora totalmente impreparato a
quella sorpresa inaspettata. In effetti, forse era meglio andare a
rinfrescarsi
un po’. D’altra parte era risaputo: gli sbalzi di
temperatura fra esterno
ed interno, potevano essere letali.
Quando l’ospite si fu allontanato quel tanto che bastava per
essere fuori
portata d’orecchie, Freja irruppe in cucina con Olaf
sottobraccio da una parte
e il Signor Bunny dall’altra «Se la zia non lo
vuole, me lo prendo io»
sentenziò, prima di sparire così come era venuta.
Ad Anna per poco non scappò il coltello
dell’arrosto di mano. Alzò gli occhi in
quelli della sorella, rossa in viso tanto quanto lei
«Riempilo» le disse, porgendole
il proprio bicchiere «A quanto pare ne avrò
bisogno anche io»
A differenza delle
terribili aspettative iniziali, la serata
si era poi svolta in una maniera tutto sommato piacevole. Nella
diabolicità del
suo piano, sua sorella aveva almeno avuto il buon gusto di lasciare
anche Jack
all’oscuro di tutto. Così, soprattutto grazie alle
richieste di attenzione
costanti di Freja, non era riuscito a concentrarsi troppo su di lei.
Mentre,
sul bordo del proprio letto di quello che era il suo appartamento,
finiva di
far assorbire la crema sulle mani, Elsa decise che era proprio il caso
di fare
un bel regalo alla nipote.
Nel ripensare all’immediata complicità che si era
instaurata fra i due, un
sorriso spontaneo le era salito sulle labbra ma, non appena se ne era
resa
conto, lo aveva cancellato riportandole in una rigida linea dritta.
Non le era sfuggita l’occhiata fugace che Anna le aveva
rivolto subito dopo
essersi complimentata con lui per la sua capacità di
intrattenere i bambini. I
figli erano una porta sul futuro e lei viveva troppo nel passato per
anche solo
immaginare di vedersi come madre. Voleva molto bene a Freja e adorava
passare
del tempo con lei ma era sicura che il ghiaccio, di cui si era
rivestito il suo
cuore dopo la morte dei genitori, le avrebbe impedito di provare
quell’amore
così necessario ad ogni famiglia. Famiglia che, di
certo, non avrebbe
costruito con Jack: pensò, mentre trovava rifugio
fra le coperte. Lui aveva
tradito la sua fiducia e l’aveva fatto nel momento in cui era
più vulnerabile.
Questo Anna lo sapeva benissimo. Certi tipi di ferite non avevano
capacità di
cicatrizzazione, ancor meno per un cuore che si era cristallizzato in
una
miriade di piccoli pezzi: gelati, appuntiti, affilati. Non poteva
più
permettersi di gonfiarlo con un sentimento travolgente come
l’amore, quelle
lame di ghiaccio l’avrebbero ferita ancora e ancora.
Eppure, poco prima di addormentarsi, i pensieri scivolarono nelle fitte
foreste
del subconscio e arrivarono al cospetto di un cassetto ben chiuso. Al
cui interno
si nascondevano un’infinita quantità di ricordi,
fatti di risate, scherzi,
sfide, abbracci, baci e sospiri d’amore. La chiave,
però, sembrava sparita o
accuratamente nascosta in un luogo dimenticato. Quello che Elsa non
sapeva era
che quella chiave, nel buio in cui era stata rinchiusa, proprio grazie
a quella
patina di ghiaccio che le si era formata sopra, risplendeva
più che mai, in
paziente attesa di essere ritrovata.
Quando un nuovo sorriso le spuntò sulle labbra, dormiva
già così profondamente
che – questa volta - la sua ragione non ebbe la
possibilità di spegnerlo.
Non erano nemmeno
le sei quando il cellulare di Jane aveva
cominciato a vibrare all’impazzata, dal comodino su cui era
appoggiato. Le ci era
voluto un momento per mettere a fuoco la situazione e, quando
finalmente aveva
risposto, la sua voce non era delle più attente. Erano
bastate, però, poche
parole per farla scattare seduta e prendere lucidità. Una
volta fornita la sua
disponibilità a raggiungere al più presto il
luogo indicato, aveva riattaccato
scoprendo che, nel frattempo, Elsa le aveva già mandato due
messaggi. Aveva
scosso la testa, chiedendosi se il suo capo dormisse come i comuni
mortali o
fosse una sorta di spirito che non aveva bisogno di
riposare. Aveva
appena finito di lavarsi i denti che un altro messaggio
l’aveva avvisata di come già
la stesse aspettando fuori dal portone. Si era infilata la giacca,
aveva
recuperato al volo la borsa con la sua attrezzatura e l’aveva
raggiunta.
Non si erano scambiate il buongiorno, per ovvie
ragioni, ma aveva
cercato di salutarla comunque con un sorriso, intenzionata
più che mai a tenere
fuori dalla sua vita la drammaticità del loro lavoro. Lei,
come al solito, le aveva
risposto con un tiepido cenno del capo.
Elsa non era la più calorosa delle persone, anzi tutto il
contrario. Era un
tipo esigente, talvolta rigido, perché si aspettava dai suoi
collaboratori la
stessa attenzione che lei riversava nel suo lavoro. In verità, amava averla come
capo
perché, sì, pretendeva il massimo da tutti ma
ancor più lo pretendeva da se
stessa. Inoltre, dietro a tutta quella freddezza si nascondeva una
persona
davvero gentile, così come testimoniava il cioccolatino
ripieno al caffè che le
aveva appena porto. Quello sarebbe stata la loro unica fonte di
energia, almeno
per un po’.
La destinazione di quel giorno era piuttosto insolita,
perciò fu con una strana
inquietudine che parcheggiarono davanti alla grossa biglietteria, al
momento
chiusa, dello zoo della città.
La polizia aveva già messo in sicurezza tutta
l’area e un paio di agenti vennero
loro incontro per scortarle dove Jackson e Kristoff erano al lavoro,
assieme
all’equipe della scientifica.
Il corpo era adagiato proprio di fronte alla gabbia dei gorilla, i
quali si
muovevano agitati per via di tutto quel trambusto. Non ebbe bisogno di
vedere
l’espressione corrucciata di Elsa per comprendere che stavano
pensando la
stessa cosa: quella donna, perché di una donna si trattava,
era messa nella
stessa posizione di John Lionheart. Scattò la prima serie di
foto: la vittima
era alta e, nonostante i vestiti, ben si percepiva la potenza del suo
fisico. I
capelli erano corti e ossigenati, il che faceva risaltare maggiormente
la sua
carnagione scura. Inaspettatamente, Elsa si concentrò subito
sugli occhi, ne
alzò le palpebre e le fece immortalare quei lattiginosi
occhi verdi, fissi in
un’espressione talmente sgomenta da scuoterla nel profondo.
Come previsto, sia
le caviglie che i polsi presentavano ancora una volta delle
escoriazioni ma un
altro particolare le fece allarmare: sul dorso delle mani aveva tatuate
tante
piccole macchie e, a giudicare da quelle che aveva anche sulla nuca,
probabilmente le ricoprivano tutta la parte posteriore del corpo.
«E’ una
leopard…» aveva
sussurrato l’altra, riadagiando il braccio sul
gelido pavimento.
Le aveva appena schiuso le labbra, rivelando una dentatura
accuratamente limata
a sembianza di quella di una bestia feroce che Kristoff andò
loro incontro, con
un tablet stretto nella mano «Non è una leopard
qualsiasi. E’ Sabor, la loro
leader indiscussa» mostrò loro lo schermo su cui
spiccava una foto segnaletica
della vittima.
«Chi l’ha trovata?» chiese Elsa,
rialzandosi in piedi.
L’altro le fece un cenno del capo, mostrando due uomini
intenti a parlare con
Jackson. Il più giovane sembrava decisamente il
più scosso, il secondo invece
era più scocciato che altro «Loro: John Greystoke
e William Clayton,
rispettivamente zoologo esperto in primati e guardiano. Lavorano
entrambi per
lo zoo»
Non era difficile immaginarsi a chi dei due fosse associata la vittima.
John doveva avere più o meno la stessa età di
Jane, o forse qualche anno in più, i suoi capelli castani erano
lunghi e molto mossi. Era decisamente un tipo atletico e superava Jack
di ben
mezza testa.
William, invece, doveva aggirarsi più attorno ai sessanta ma
tutto nel suo
aspetto era impeccabile: dai capelli e baffi curati, alla forma fisica
che
sembrava invidiabile per la sua età. Non si avvicinava
granché all’immaginario
comune nei confronti della figura del custode.
Vide Jackson scambiare con loro ancora qualche parola, dare una piccola
pacca sulla spalla del più giovane e indirizzarli verso un
paio
di
altri agenti.
Quando venne loro incontro, la sua espressione era tetra: solo allora
Elsa si
accorse che, in una mano, teneva stretto un piccolo sacchetto di
plastica
trasparente, a protezione di un nuovo cartoncino «A quanto
pare abbiamo un altro
regalo» sentenziò, confermando una volta per tutte
quello che già sospettavano
«Ha ufficialmente colpito ancora»
Come
al solito grazie per aver letto sino a qui, spero che anche questo
capitolo sia stato di vostro gradimento. Abbiamo visto il giustiziere in azione ma la sua identità rimane ancora misteriosa (sì, ci sono indizi), avevate intuito che poteva trattarsi di Sabor prima di scoprirlo sul finale? Invece, immagino la presenza di Tarzan non vi abbia stupito più di tanto, dato che avevamo già Jane con noi ;) Tuttavia vista l'ambientazione più moderna, Tarzan non mi sembrava un nome particolarmente indicato, ho perciò scelto il suo nome letterario, togliendo il Clayton che è rimasto a William Clayton della pellicola animata che ricalca proprio lo stesso personaggio, solo un pelino più vecchio ma non meno in forma... meno avido e s*****o? Ai posteri l'ardua scoperta. Come la vita malavitosa di questa capo-banda abbia influito su quella del giovane John (ammazza, quanti John) lo scoprirete nel prossimo capitolo. Abbiamo anche avuto il primo incontro fra Freja e Jack ed è stato subito un crepitio di faville *-* Anna, al solito, confabula dalle retrovie nel modo più subdolo, con l'aiuto del marito che ci tiene a non finire avvelenato XD E si riconferma una Jelsa fan anche se non da subito hihihi Cominciamo, inoltre, ad avere un primo punto di vista di Jack sul passato e a scoprire qualcosina di più sul perché Elsa ce l'abbia tanto con lui, anche se... Come sempre, i vari riferimenti al canon e i piccoli Easter Egg (ad esempio: il vestirario comodo scelto da Jack, la ricchezza della famiglia di Elsa e Anna, Kristoff che ruba le carote, Olaf, il legame con i gorilla per Tarzan ecc...) sono assolutamente voluti ;) Chi si azzarda ad indovinare chi può essere l'attualmente ancora misterioso informatore di Kristoff? Grazie di cuore a chi segue questa storia, a chi ha deciso di listarla e a chi ha il piacere di lasciarmi le sue impressioni. Alla prossima Cida |
[2]Il Jack Frost a cui si riferisce Jack è quello della storia che, nella nostra realtà, ha dato vita al film del 1998 dove lo spirito di una padre, morto in un incidente d'auto, si trasferisce in un pupazzo di neve per stare accanto al figlio che non aveva particolarmente seguito quando era in vita. Ma considerando, ovviamente, di che Jack stiamo parlando in questa storia, il gioco è duplice ;)