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Autore: Nao Yoshikawa    22/06/2022    4 recensioni
Dieci nuclei familiari, dieci situazioni diverse tra loro: disfunzionali o complicate o fuori dalla cosiddetta "norma".
Anche se alla fine, si sa, tutti quanti sono all'eterna ricerca di una sola cosa: l'amore.
Byakuya detestava tornare al proprio appartamento, specie a quell’ora. Dopo la morte di Hisana aveva preferito andare a vivere da un’altra parte, in un luogo dove non avrebbe avuto ricordi dolorosi.
A Orihime piaceva molto l’odore di casa sua. Profumo di colori a tempera misto a biscotti appena sfornati.
Ishida era un po’ seccato, non solo per la stanchezza, ma perché odiava quando Tatsuki non rispettava i piani. Anche se comunque non si sarebbe arrabbiato a priori.
Rukia era provata, si poteva capire dal suo tono di voce. Era brava a nascondere i timori dietro una facciata di allegria ed energia, ma Ichigo la conosceva bene.
Naoko era indispettita. Possibile che nessuno capisse il suo dramma?
Ai muoveva le gambe con agitazione. Indossava delle graziose scarpette di vernice nera e molti le dicevano spesso che aveva il visino da bambola, con i capelli scuri e gli occhi di una sfumatura color dell’oro.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai, Yaoi | Personaggi: Gin Ichimaru, Inoue Orihime, Kurosaki Ichigo, Nuovo personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
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Capitolo venticinque
 
Tatsuki ci aveva rimuginato per giorni e giorni. Quando due sere prima era venuta da lui dicendogli: Uryu, ci ho pensato. Magari potremmo tenerlo. Io non me la sento di rinunciarci, sento che non è la cosa giusta. Ma prendo questa decisione consapevole che non sarà facile. Che avrò paura. E chiariamo subito un’altra cosa: non voglio che sia questo l’unico motivo per cui stiamo insieme. Non lo accetterei.
Tatsuki aveva detto questo mentre tremava e mentre lo guardava negli occhi. Era davvero decisa, ma non aveva abbandonato la paura che tutto potesse andare storto. Ishida non aveva detto una parola, l’aveva solo abbracciata senza fare promesse. Non voleva essere bravo a parole, ma con i fatti. Voleva che funzionasse e lo volevano entrambi.
Nemmeno due giorni dopo, Tatsuki stava arrivando al St. Luke, nel reparto di ginecologia per fare la sua prima ecografia. Unohana aveva dato subito la sua disponibilità e Ishida era talmente ansioso da far cadere tutto di mano. Era quindi costretto a sterilizzare gli strumenti più di una volta.
«Ishida, non era meglio se ti prendevi il giorno libero?» domandò Ichigo.
«No, perché il lavoro mi aiuta a distrarmi, più o meno. Mi raccomando, voi sapete questa cosa, ma non ditela troppo in giro. Mio figlio non sa ancora niente e nemmeno gli altri. Glielo diremo presto, però» spiegò, anche se non riusciva ancora a metabolizzare. Hanataro sembrava ancora più contento di lui.
«Non è una cosa commovente? Non sentite anche voi questo profumo di amore nell’aria?»
Ichigo in realtà sentiva tutt’altro, la sua negatività e quella di Kurotsuchi e Urahara, che non sembravano nemmeno più loro stessi, visto che uno era silenzioso e l’altro aveva perso il suo solito brio.
«Yamada, secondo me ci saresti stato bene in ginecologia» gli disse proprio Urahara, cercando di stemperare un po’ l’atmosfera, che avrebbe dovuto essere allegra. Il ragazzo arrossì, iniziando ad agitarsi. Il pensiero di prendersi cura delle donne nel loro intimo gli stava facendo uscire il fuoco dalle orecchie.
«I-io? Ma io…»
«Ah!» gridò Ishida, prendendo il cellulare in mano. «È Tatsuki! Vado, vado!»
Era agitato. Era una sua versione inedita, visto che a lavoro era sempre preciso e attento. Ad Hanataro venne da ridere.
«Povero Ishida, secondo me si metterà a piangere.»
«Pff, sempre meglio di quello che è successo a me. Quando ci hanno detto che avremmo avuto due gemelli, sono svenuto» ricordò Ichigo, con una certa malinconia. Urahara rise.
«Sul serio, Kurosaki? Io invece ero felice, anche se è svenuta Yoruichi» ricordò anche lui con la stessa malinconia.
«E lei, dottore?» domandò Hanataro e Kurotsuchi. «Come ha reagito?»
Ichigo si aspettava che gli dicesse non sono affari tuoi. Invece, Kurotsuchi lo guardò, ci pensò qualche istante e poi rispose.
«Non ho pianto, né sono svenuto. Ero troppo impegnato e metabolizzare che di lì a qualche mese ci sarebbe stata un’altra persona che io avevo contribuito a creare. Non potevo credere che fosse vero finché non l’ho vista. Anche se quando li vedi nell’ecografia tutto sembrano fuorché bambini, ma… Ai c’era.»
Urahara sorrise. Era molto sorpreso di sentirlo parlare così, quasi non ci credeva. Hanataro si commosse.
«È una cosa così carina. Non è giusto, adesso voglio un figlio anche io, ma non ho nemmeno una fidanzata!»
Ichigo rise. Kurotsuchi invece disse che aveva altro da fare, ma a Urahara non la dava a bere di certo. Nessuno dei due era più lo stesso e non era certo che ciò gli piacesse, ma del resto cosa poteva farci?
 
Tatsuki era altrettanto nervosa, sebbene Unohana fosse bravissima a rassicurare. L’aveva già seguita durante la sua prima gravidanza e le aveva detto di non preoccuparsi, che era normale sentirsi agitate anche se aveva già esperienza. Tatsuki era certa di voler tenere il bambino. Forse era una follia, ma oramai aveva deciso, consapevole che c’era il rischio che tra lei e Uryu non funzionasse comunque.
Ishida arrivò col fiato corto. Aveva corso, sebbene non ci fosse motivo.
«Dottor Ishida, respiri. È arrivato in tempo» gli disse Unohana, divertito.
«Io…sì, sto respirando!» ansimò. «Tatsuki, stai…bene…?»
Lei fece spallucce.
«Non sono io quella che ha bisogno di una bombola di ossigeno.»
«Non si preoccupi, i padri sono sempre i più nervosi, anche la prima volta è stato così, se non erro» Unohana prese del gel per ecografie, avvicinandosi a Tatsuki, che era già stesa. Ishida arrossì mentre si sistemava gli occhiali: non era certo colpa sua se tendeva ad essere emotivo su certe cose. Accanto a Tatsuki, attese. Fu lei a cercare la sua mano. Se durante la prima gravidanza aveva cercato di essere sempre forte, di non lasciarsi andare alle emozioni, ora aveva deciso di rilassarsi un po’ di più. Sussultò quando sentì il gel gelido sul proprio ventre. Ad una certa non capiva più se fosse lei a cercare conforto in lui o Uryu che lo cercava in lei, probabilmente entrambi. Di sicuro lui rischiava già uno svenimento. Unohana passò l’ecografo sul suo ventre, guardando lo schermo. 
«Sei alla dodicesima settimana, corretto?»
«Eh, già…» gemette Tatsuki. «Uryu, mi fai male.»
«S-scusami» disse lui, impaziente. «Come sta? L’ha trovato?»
Unohana stesse in silenzio per qualche istante e poi sorrise.
«Certo che sì, guardate pure con i vostri occhi.»
Tatsuki conosceva già quella sensazione. Quella in cui ci si rendeva conto che dentro di sé c’era un essere umano. Piccolo, che ancora poco somigliava ad un essere umano, però c’era. Fu colta da un brivido, un misto tra commozione e panico.
«Uryu, stai respirando?» domandò, senza staccare gli occhi dall’immagine nello schermo. Lui annuì e senza rendersene conto stava già lacrimando. Si asciugò gli occhi, senza molto successo.
«Oh, Uryu» sospirò Tatsuki. Certo che era tenero, però. Le era sempre piaciuto quel suo lato più emotivo che emergeva solo in determinate occasioni.
«Dottor Ishida, vuoi un fazzoletto?» chiese Unohana.
«No, no, sto bene. E il bambino sta bene? Nel senso… è tutto a posto, non ci sono complicazioni?» domandò. Era un genitore ed era un medico, aveva bisogno di sapere.
«Dall’ecografia sembrerebbe di sì, ma se volete possiamo fare un esame di screening per stare più tranquilli. Intanto… vi faccio sentire il battito.»
Tatsuki strinse più forte la mano di Uryu. Poi sentirono entrambi il battito del bambino e questa volta a Uryu non bastò certo asciugare le lacrime e far finta di niente.
«Scusate. Giuro che ora mi riprendo.»
Sua moglie sorrise e gli accarezzò i capelli.
«Va bene così. È un bel momento» sussurrò. Uryu le baciò il dorso della mano mentre pensava che sì, era un bel momento. Che loro erano qualcosa di così bello che non poteva finire, che tutto ciò stava accadendo per una ragione. Quella fu solo l’ennesima conferma di quanto lui amava lei. E di quanto lei amava lui. 
 
Nnoitra si mordeva le nocche. In passato aveva avuto l’abitudine di farlo tutte le volte che era nervoso e ora quell’abitudine era tornata. Trattenersi stava diventando impossibile. Tra le sedute con la dottoressa Ise, Naoko che gli suggeriva di lasciarsi andare e Neliel che era lì per lui, per dargli tutto il suo amore, stava crollando.
«Come vanno le cose con tua moglie?» domandò la dottoressa Ise. Lui la guardò smettendo di mordersi le nocche.
«Va bene. Peggio comunque non poteva andare. Sono io che sto male. E sì, prima che me lo chieda, è per quello che le ho raccontato la volta precedente.»
«Vuoi provare a parlarne? Non preoccuparti delle tue reazioni. Non fa niente se ti lasci andare.»
Nnoitra sorrise, di quei sorrisi amari, di chi oramai era arrivato al limite.
«Parli come mia figlia, anche lei mi ha detto una cosa del genere. Sei proprio sicura di voler sapere perché sto così? Potresti avere paura.»
«Correrò il rischio. Ti ascolto.» disse Nanao Ise, professionale. Nnoitra sospirò. Non ne parlava da anni e temeva più la propria reazione che il rivivere quei momenti di inferno.
S’indicò l’occhio bendato.
«Qui sotto c’è il monito che mi ricorda sempre cosa sono stato e cosa sarò sempre: feccia. Ero giovane, avevo appena finito la scuola e, cazzo, a quell’età ti senti invincibile. A me e a Grimmjow è sempre piaciuto metterci nei guai, cercare lo scontro, le risse. Eravamo dei piccoli, stupidi delinquenti ed eravamo in quattro. Io, lui, Tesla e Ulquiorra. Anche se Ulquiorra ne stava fuori, più che altro. Io e Tesla eravamo cresciuti insieme» mentre lo diceva gli mancò per un attimo il respiro. «E sempre Tesla mi aveva detto di non andare in giro armato, perché poteva essere pericoloso. Sta zitto, gli dicevo. Cosa vuoi che succeda? E lui che faceva? Stava in silenzio, anche se disapprovava. E poi è successo» strinse un pugno. Ora stava guardando un punto indefinito. Stava guardando al suo passato, come se gli scorresse davanti come un film. «Io e Grimmjow avevamo bevuto un po’ troppo. E c’è stata una rissa subito dopo. Cazzo, quanto ero stupido. Tesla me lo aveva detto di evitare, quella sera. Come se sapesse che sarebbe accaduto qualcosa di brutto. E forse io avrei dovuto essere ucciso. Non ero l’unico armato, lo sai? Ma non capisco perché hanno colpito lui, anziché me. Io ho perso un occhio, ma il mio migliore amico ha perso la vita. A quei bastardi ho tagliato la faccia. Grimmjow mi ha detto in seguito che sembravo impazzito. Ma non ho ucciso nessuno. Avrei voluto, avrei dovuto. Questo comunque non avrebbe cancellato le mie colpe. Perché alla fine… è come se lo avessi ucciso io.»
 
«Cazzo, cazzo… Grimmjow, chiama qualcuno, chiama aiuto.»
L’odore di sangue era nauseante. Il sangue era appiccicoso sulle sue dita e non sapeva più se quello che aveva addosso fosse il suo o quello di Tesla.
Grimmjow era immobile. Vedeva Nnoitra, l’occhio sinistro completamente andato. Vedeva Tesla, una ferita all’addome profonda. Lo vedeva tossire sangue.
«Ma non possiamo… se ci trovano così.»
«Non me ne importa, chiama qualcuno! Tesla, resisti, okay? Non hai il permesso di morire!»
Lo disse mentre tremava. Mentre si sentiva sempre più un bambino e sempre meno un adulto. Tesla boccheggiò, provò a parlare.
«Zitto, cazzo. Sta zitto, stupido. Non parlare, starai bene. Ti ho vendicato, okay? Ho ricambiato quello che ti hanno fatto.»
Tesla provò a respirare. Anche se i suoi respiri somigliavano più a dei rantoli.
Gli sorrise, toccandogli la mano.
«Nnoitra…n-non preoccuparti» gemette. Nnoitra non capì cosa di cosa non dovesse preoccuparsi. Sarebbe andata bene, lo avrebbero guarito.
«Tesla…» sussurrò all’improvviso. Lo vide chiudere gli occhi. C’era troppo sangue.
«Tesla» lo chiamò di nuovo, sentendo che il respiro gli mancava. «Svegliati. Diamine, razza di idiota… non può finire così!»
Perdonami, è colpa mia. Se fossi stato migliore non sarebbe finita così.
Ti ho ucciso.
 
Nnoitra si ricordò perché evitava sempre di pensarci. Perché era doloroso. Perché ora aveva le guance bagnate di lacrime. Quando se ne accorse se ne asciugò una con le dita, ma senza successo. Non c’era pietà negli occhi di Nanao Ise, ma c’era comprensione.
«Grazie per avermelo raccontato. Lo so che stai facendo un grande sforzo. Capisco che ti sente in colpa, ma…»
«Certo che mi sento in colpa!» disse lui, ora arrabbiato. «La colpa è mia. Se io fossi stato migliore, una persona migliore, questo non sarebbe successo. Ero e sarò sempre una persona cattiva. È per questo che temo che Neliel un giorno possa accorgersene. Per questo che temo chi è migliore di me. Patetico, vero? Guardami, io sono spezzato ce l’ho scritto in faccia. Le persone non cambiano! Se io fossi stato…»
S’interruppe. Aveva troppi rimpianti e oramai non poteva farci niente. Il passato era oramai sfuggito alle sue dita.
«Nnoitra» Ise lo chiamò per nome. «Hai fatto degli errori, ma ti rendi conto che nella maniera più assoluta non sei stato tu ad ucciderlo, vero? Non avevi il controllo. Devi imparare ad accettare che non in tutto possiamo avere il controllo. Ma una cosa puoi provare a farla: perdonarti per gli errori che hai fatto e per quelli che farai, sei un essere umano. E perché se Neliel è con te, se tua figlia ti vuole bene, se hai degli amici, è evidente che non sei così cattivo come pensi.»
A Nnoitra uscì un singhiozzo. Ora che era tutto uscito fuori, temeva di non essere più in grado di riprendersi. La complessità del suo animo gli faceva schifo. Le sue insicurezze, i suoi traumi, tutto.
Nnoitra, non preoccuparti.
 
 
«Non mi piacciono i broccoli, sono brutti.»
Anche Rin a volte faceva i capricci. Se non ci fosse stata Rangiku ad essere un po’ più severa, Gin gliele avrebbe date tutte vinte. Con le bacchette prese la verdura incriminata e l’avvicinò alla bocca di Rin, la quale scosse la testa.
«I bambini per crescere hanno bisogno di mangiare le verdure. È per questo che Toshiro è cresciuto poco, perché non mangiava le sue verdure da piccolo.»
«Ehi, chi ti ha dato certe confidenze?» borbottò lui, mentre giocava con il cibo che aveva nel piatto. Gin sorrise, ma non disse niente. Era stato di parola e non aveva detto niente a Rangiku. Toshiro non avrebbe mai immaginato che si sarebbero ritrovati a condividere un segreto, ma quello che si chiedeva era: avrebbe mantenuto il segreto anche con Aizen? Sperava di sì, altrimenti sarebbe successo un guaio. Rangiku aveva fatto caso a come sia suo marito che il suo amico più caro fossero silenziosi. Ed erano strani, sembrava che stessero nascondendo qualcosa.
«Umh, sentite voi due» disse dopo essere riuscita nel suo intento di far mangiare i broccoli a Rin. «Per caso mi nascondete qualcosa? Chiariamo, se andate d’accordo sono contenta, lo sono un po’ meno se mi nascondete qualcosa.»
Accidenti, pensò Toshiro. Ma come aveva fatto a capirlo? Non sarebbe stato capace di mentirle guardandola negli occhi, ma per fortuna non dovette neanche provarci. Gin parlò al posto suo.
«Figurati, mia cara. Non ti nascondiamo niente.»
Maledetto. Quando Rangiku lo avrebbe scoperto, si sarebbe arrabbiata. Che gli piacesse o meno, ora era in debito con lui. E poi continuò a parlare.
«Però c’è una cosa che devo dire. A Rin.»
Nel sentirsi chiamare, la bambina alzò lo sguardo.
«Sì?»
«Non è giusto che io decida del tuo futuro, vero?» domandò. Sia Toshiro che Rangiku si fecero attenti. Allora finalmente lo aveva capito. Rin mosse le gambe sotto il tavolo.
«Beh. Io sono ancora piccola. E ci sono tante persone che vorrei sposare. Quindi preferirei decidere io» disse candidamente. La risposta aveva fatto ridere Gin. I bambini erano puri. Ragionavano in modo molto più semplice.
«Hai ragione, principessa. Però voglio che tu sappia una cosa: tutto quello che io ho sempre fatto o detto, l’ho fatta e l’ho detta perché per te voglio il meglio.»
Rangiku si commosse E Toshiro capì che, per quanto ambiguo o strano Gin potesse sembrare, alla fine era una brava persona. Lui oramai non si sentiva più in diritto di giudicare nessuno. Rin annuì e poi sorrise.
«Oh, ma papà, io ho il meglio. Ho te, la mamma. Ho Toshi, e adesso… adesso ho anche una migliore amica, Miyo. Certo, mi piace avere tante belle cose, tanti bei giocattoli. Ma preferisco voi e i miei amici. Se non ci siete voi, poi diventa tutto brutto e vuoto.»
Rangiku si asciugò una lacrima. Sentir parlare Rin così, le faceva capire che lei e Gin avevano fatto un buon lavoro. E questo lo pensò anche Toshiro.
«Hai ragione» disse Gin. «Noi adulti avremmo tanto da imparare da voi bambini. Adesso, potete scusarmi un attimo? Devo vedere Aizen. Poi torno e giuro che facciamo tutto quello che volete.»
Rangiku pensò subito che Gin volesse vedere Sosuke per comunicargli la sua decisione. Toshiro invece fu colto dal panico che stesse andando lì a dirgli ehi, sai, hai presente il ragazzino che vive con noi? È l’amante di tua moglie.
Ma no, dopotutto non era capace di questo. O almeno lo sperò.
 
Gin forse poteva apparire strano ultimamente. Ma nemmeno Aizen era quello di sempre. Era molto assente e sembrava essere di fretta, questo era uno dei motivi per cui si vedevano così poco, tranne che e a lavoro. Si erano visti vicino ad un hotel su richiesta di Aizen e quando Gin era arrivato, aveva notato i suoi tentativi di nascondere una strana impazienza.
«Aizen» lo chiamò, arrivando davanti l’hotel e guardandosi intorno. «Però, che posticino. Che c’è, la tua amante ti aspetta lì?»
Aizen lo guardò con una serietà un po’ strana. Subito dopo sorrise.
«Su, Gin. Ho un po’ fretta, cosa dovevi dirmi di tanto importante?»
«Ah? Ah, sì. Ascolta, si tratta di ciò che avevamo concordato. Mi riferisco al matrimonio tra Hayato e Rin. Io credo che non sia una buona idea. Sono solo bambini, dovranno amare chi vogliono. Se dovessero finire insieme, sarebbe giusto che ci finissero perché lo vogliono loro. No?»
Gin invece faceva tutto quello che diceva Aizen e capitava raramente che gli desse contro. Ecco perché non sapeva cosa aspettarsi. Ma poiché Sosuke aveva altro per la testa, si limitò ad un’alzata di spalle.
«Sì, forse hai ragione tu. Meglio non pressarli, se una cosa deve nascerà, nascerà da sola. C’è altro?»
Gin era sorpreso e anche un po’ confuso. Adesso ne era certo, Sosuke nascondeva qualcosa.
«Aizen» lo chiamò. Chissà se sospettava che sua moglie avesse un altro? Lui era il suo capo, ma Toshiro faceva parte della sua famiglia, quasi fosse un fratello.
«Sì?»
Gin scosse la testa.
«Oh, nulla. Grazie per la comprensione.»
E poi ebbe il sospetto che probabilmente anche Aizen doveva avere un amante. Ah, i matrimoni. Talvolta sapevano essere solo apparenza.
 
Ichigo era sempre più stanco. Forse era la stanchezza mentale a influire anche su quella fisica. Di certo la situazione con Rukia non era delle migliori. E come se non bastasse, Yuzu e Isshin giocavano al gioco del silenzio con lui.
«Si può sapere perché non mi parlate?» domandò. Si era appena alzato, dopo aver recuperato un po’ di sonno.  Yuzu si tolse il grembiule e Isshin borbottò qualcosa.
«Oh, e dai! Smettetela di farmi sentire un estraneo in casa mia!» borbottò battendo la mano sul tavolo. Yuzu lo guardò, severa.
«Non ti preoccupare, riservo lo stesso trattamento anche a Karin. La devi smettere di fare lo stupido. Tu e Rukia ora chiarite e basta.»
«Lei con me non vuole parlare, è arrabbiata. Peggiorerei le cose.»
A quel punto Isshin si alzò, sembrava stranamente imponente. E afferrò suo figlio per un braccio.
«Non mi sono mai immischiato nel tuo matrimonio e non intendo farlo adesso. Però forse ti serve comunque una spinta.»
Terrorizzato, Ichigo guardò sia suo padre che sua sorella.
«… Che volete farmi?»
 
Lo stress di Rukia non era da meno. Aveva tanto da studiare e, come se non bastasse, iniziava ad avere il timore di non essere in grado. Aveva sentito dire che era normale, ma man mano che andava avanti continuava ad essere terrorizzata e ad avere dubbi: e se avesse commesso un errore? E se davvero fosse stata fuori tempo? E se non fosse riuscita a raggiungere i suoi obiettivi. No, doveva riuscirci, lo doveva a sé stessa. Ma mentre se ne stava china sui libri, non riusciva a capire una parola. Probabilmente a causa del caos che veniva dalla cucina. Rukia si voltò e vide poco dopo la porta aprirsi: Isshin aveva calciato dentro Ichigo.
«MA CHE CAZZO FAI, DANNATO VECCHIO? TI UCCIDO!»
«A mali estremi, estremi rimedi, figlio caro. Fate la pace e vi farò uscire» disse richiudendo la porta.
«Ehi-asp…! No, non ci credo, mi ha chiuso dentro!» disse, voltandosi poi verso sua moglie, che lo guardava con aria sconvolta.
«Ichigo…?»
«Lascia stare, mio padre pensa che dovremmo parlare.»
Rukia sospirò, richiudendo il libro.
«In realtà adesso sto affrontando un brutto momento» ammise, provata. Ichigo si avvicinò.
«Che c’è che non va?»
Oramai non le domandava nemmeno più nulla. Questo non era giusto. Rukia sospirò.
«Niente, è che è più impegnativo di quanto pensassi. Non che pensavo fosse facile, però… sono insicura. E se alla fine fallisco? Mi sembrano tutti più bravi di me e non mi piace.»
Ichigo poteva capirla bene. Anche se era abbastanza sicuro di sé, ricordava i primi tempi del tirocinio in ospedale, sembrava che non ne facesse mai una giusta. Ma Rukia era ben più in gamba di lui, poteva riuscire in tutto.
«E chi se ne frega?» domandò, forse un po’ brusco. «Non guardare gli altri, guarda dritto davanti a te. Questa è… è la tua strada e hai tutte le carte in regola per riuscirci.»
Ed era sincero. Rukia arrossì, distogliendo lo sguardo.
«Oh, ma a te converrebbe che io mollassi tutto.»
«Chi se ne frega di quello che converrebbe a me? E poi, non mi converrebbe come tu dici, io voglio che ti realizzi. Che poi io faccia schifo a dimostrarlo è un altro discorso. Sono un cretino, lo so. Scusa se ho perso la testa» disse poggiandole una mano sulla testa. Rukia sentì il suo calore e si rasserenò appena.
«Ichi, io ho bisogno di te in questo percorso. A volte mi piace trovare il sostegno nelle persone che amo. In te, soprattutto.»
Ora era stato Ichigo ad arrossire. Si sentiva veramente stupido. Abbracciò Rukia, baciandole la testa.
«Mi prenderò una camomilla extra per i miei nervi e il mio stress. Il resto è più importante» sussurrò. E Rukia sorrise. Piccola piccola, stretta nel suo abbraccio, come una bambina.
 
Ad essere rimasto fuori era il cellulare di Ichigo. Nel sentirlo vibrare, Masato si alzò. Vide che era il dottor Ishida e non fece in tempo a rispondere. Senza volerlo, si mise nella situazione di sapere ciò che il suo migliore amico bramava di sapere a sua volta.
Un messaggio.
Ma perché non rispondi mai? Vabbé, comunque io e Tatsuki stiamo cercando di capire come dire a Yuichi che siamo tornati insieme e che avremo un altro figlio. Mi sembra un bel carico per un bambino. Tu non pensi?
Quasi non gli cadde il telefono di mano. Era vero. Era un bel carico per un bambino. Era un bel carico per lui, che aveva fatto una promessa a Yuchi.
 
Se a Ichigo le cose andavano male, per sua sorella Karin non era di certo da meno. Anche Yasutora si era chiuso nel suo mutismo, lui non litigava mai. Anche quando discuteva lo faceva con calma, anche adesso che avrebbe avuto motivo di arrabbiarsi. Karin osservava Kohei con fare pensieroso. Suo figlio aveva messo in una fila ordinata le carote e stava ora decidendo da che ordine iniziare a mangiare.
«Uno… due… mamma, mi fissi.»
«No, non ti fisso.»
«E invece sì, mi rendi nervoso. Ho chiesto anche a papà, ma lui non mi dice la verità. Voi litigate per colpa mia.»
Kohei era sveglio. Troppo sveglio. Così tanto che Karin spesso non sapeva come rispondere.
«Non è così.»
«Non. Mi. Mentire» disse osservando il suo piatto. «Lo sai… lo sai cosa? Ti preoccupi troppo. Io sto bene. Vero, a volte qualcuno mi tratta male, però sto bene. Ho degli amici, soprattutto Kaien e Masato. E c’è Naoko. Lei non è spaventosa come le altre bambine, né mi dà fastidio. Voglio regalarle una piuma» poi scosse la testa. «Però, se non la smettete di litigare io vado da zio Ichigo. Anche se pure lui e la zia Rukia litigano.»
Karin aveva le lacrime agli occhi. Perché lei che era un’adulta certe cose non riusciva a capirlo? E perché invece suo figlio – che lei aveva sempre ritenuto ingiustamente debole – capiva tutto alla perfezione?
«No, dai, non piangere ora. Quando mi viene da piangere o sono nervoso, mi ripeto in mente tutte le razze di aquile esistenti. Funziona. Davvero. Non sono sicuro che il cibo di colore arancione mi piaccia.»
Karin fece una cosa che non faceva spesso. Lo abbracciò senza chiedere né aspettare che fosse lui a venire da lei. Kohei non si mosse. Rimase immobile.
«Kohei, tu sei un dono. E sei forte. Sono io a non esserlo abbastanza, sono io che ho paura di tutti.»
Il ragazzino sospirò e goffamente tentò di ricambiare l’abbraccio.
«Ma no. Tu sei forte. Ma non devi essere sempre triste, seria e preoccupata. Ora ridiamo, vero?»
Da qualche parte dentro di lei, esisteva ancora quella ragazzina felice, spensierata, allegra e che amava inseguire un pallone. Annuì, sorridendo.
«Ora ridiamo. Promesso.»
Chad li vide così abbracciati e rimase qualche attimo fermo, senza sapere bene che fare.
«Tutto bene?» domandò cauto.
«Bene, bene. Tutto bene. Ora però ridiamo» disse, mentre Karin lo lasciava finalmente libero.
«Ridiamo…?» chiese guardando sua moglie. Karin annuì, con gli occhi arrossati.
«C’è qualcosa di importante che noi due dobbiamo recuperare.»
 
«Mamma, ma perché papà ancora non torna?»
Naoko aveva tutte le mani impiastricciate di tempere e colori, aveva finito con lo sporcare perfino il tavolo. Neliel non ci aveva fatto caso, troppo occupata a non lasciarsi prendere dal panico. Nnoitra non rispondeva alle sue chiamate, conosceva la sua tendenza a isolarsi quando qualcosa lo turbava. Ma che avesse almeno la decenza di non farla preoccupare. Così alla fine aveva chiamato i rinforzi: Grimmjow e Ulquiorra. Aveva pregato loro di contattarlo. E magari anche di trovarlo. Alle volte gli amici sapevano essere la cura migliore e non si era sbagliata.
Grimmjow aveva subito preso la situazione in mano e alla terza chiamata, Nnoitra gli aveva finalmente risposto.
«E finalmente! Si può sapere dove ti nascondi, brutto cretino? Ti piace proprio fare preoccupare le persone.»
«Non credo che questo sia l’approccio giusto» suggerì Ulquiorra. Sentirono Nnoitra sospirare.
«Non sono morto e non sto tentando il suicidio. Avete presente il nostro ex liceo? Sto lì.»
A giudicare dal suo tono e da ciò che aveva detto, poteva esserci solo un motivo. Grimmjow e Ulquiorra si fecero un cenno a vicenda.
Anche se era sera e faceva freddo, Nnoitra era sceso dall’auto, aveva preferito sedersi su quei gradini che un tempo aveva calpestato. Quando lui, Ulquiorra, Grimmjow e Tesla erano ancora piccoli.
Non conteneva le lacrime. E allo stesso tempo stava in silenzio.
Esseri umani alle volte faceva schifo.
I suoi due migliori amici non ci impiegarono molto ad arrivare. Ulquiorra e Grimmjow sapevano che non era necessario né giusto parlare. Quindi, quando arrivarono, si sedettero accanto a lui – uno a destra e uno a sinistra – e senza chiedergli il permesso afferrarono le sue mani, stringendole. In un altro momento, Nnoitra avrebbe detto loro di non fare i sentimentali. Ma adesso era quello di cui aveva bisogno. Li strinse e abbassò lo sguardo, scoprendosi sollevato. Scoprendo che faceva un po’ meno freddo. Rimasero in silenzio tutti e tre, senza nemmeno guardarsi.
Essere umani alle volte era necessario.

Nota dell'autrice
In questo capitolo c'è uno dei miei pezzi preferiti, ovvero tutto quello dedicato a Nnoitra, in particolare la parte finale. Tutta la sua umanità e il suo dolore sono usciti e alla fine non ha bisogno di grandi parole, ma del sostegno silenzioso dei suoi amici. Per il resto, direi che sta andando tutto abbastanza bene, tra Ishida e Tatsuki, tra Ichigo e Rukia, Karin e suo figlio... cosa farà Masato adesso che è venuto a conoscenza di un certo segreto? Rimanete sintonizzati su questi canali, a presto!!!

Nao
 
   
 
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