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Autore: Adeia Di Elferas    26/06/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Allora?” Lucrezia non salutò nemmeno il marito, nel momento in cui lo vide rincasare: “Chi ha vinto? Cosa avete deciso?”

Jacopo Salviati sollevò le sopracciglia e poi, una volta che il servo ebbe preso il suo cappello e la sua bisaccia colma di carte per riporli, guardò la moglie e riferì: “Si farà un Gonfaloniere a vita, del tutto simile con il Doge di Venezia.”

La Medici si accigliò e chiese: “Del tutto simile? Dovrà venire anche lui da fuori? Dovrete votarlo con quelle regole assurde che usano a Venezia..?”

“No, no...” rispose, stanco, il marito: “Possiamo andare in camera? Sono stato fuori tutto il giorno, non ho mangiato e sono stanco morto...”

“Certo.” annuì la donna, precedendolo.

Jacopo non aveva alcuna intenzione di tenere la consorte sulle spine, ma veramente quella giornata l'aveva stremato. Per di più l'umidità che perseguitava Firenze quel giorno pareva essere diventata ancora più opprimente e l'uomo era stato tormentato fin dal mattino da un tremendo mal di testa che, invece di affievolirsi era andato acuendosi. Con pazienza, Lucrezia fece portare la cena per entrambi, aiutò il marito a indossare abiti più comodi e poi ripose la domanda che aveva fatto all'inizio.

Sorbendo qualche sorso di vino fresco, il Salviati sollevò un sopracciglio e riportò: “Alla fine, ma non è stato semplice, si è votato per un Doge sul modello veneziano.”

Alla Medici non sembrava una cattiva notizie, ma il marito aveva parlato con tanta cupezza da indurla a chiedere, apprensiva: “Non è quello che volevamo?”

“Certo.” ammise Jacopo: “Anche se adesso abbiamo circa un mese di tempo per far sì che passi la nostra linea... Ne ho già parlato anche con mio cugino Alamanno e...”

“Andrà tutto bene.” lo rincuorò Lucrezia, capendo infine l'origine della mestizia del proprio sposo, ossia la stanchezza mista alla costante paura di non riuscire a coronare appieno il progetto designato.

Nel rassicurarlo, la donna aveva passato con fare protettivo una mano tra i capelli di Jacopo che, vinto da quel gesto dolce, l'abbracciò e affondò il viso nel suo collo, borbottando: “Mi sembra tutto così difficile...”

La Medici andò avanti ad accarezzarlo, senza dire nulla. Suo marito, per tutti, era un uomo pacato, quasi freddo, e sempre impassibile. Anche se in molti non avrebbero saputo spiegarne appieno la linea di pensiero, di certo tutti – sia i suoi detrattori sia i suoi amici – si sarebbero sorpreso nel vederlo in un momento di sconforto come quello, specie dopo una vittoria come quella ottenuta alla Signoria quel giorno. Lucrezia, invece, negli anni aveva conosciuto ogni lato del Salviati, anche quello più vulnerabile, e si sentiva una privilegiata, nel poter essere testimone anche dei momenti di debolezza, come quello che stava vivendo quella sera.

“I nostri figli come stanno?” chiese dopo un attimo l'uomo, cercando di ricomporsi e si lasciarsi scivolare via la fatica e la tensione accumulate durante la riunione fiume di quel 26 agosto.

“Stanno tutti bene, stai tranquillo.” sorrise la Medici, staccandosi un po' e guardando il viso segnato del marito.

Le piccole rughe che gli si erano formate vicino agli occhi e la linea più severa delle sue labbra le ricordavano la loro discreta differenza d'età, tuttavia non vedeva altro in lui, perfino in quel momento, se non il giovane uomo che l'aveva presa per moglie molti anni prima, conoscendola secondo i suoi ritmi, amandola giorno per giorno, andando a smussare con la sua dolcezza e la sua bontà d'animo gli spigoli che lei aveva mostrato nel tentativo di difendersi dall'ignoto. Anche il Salviati aveva dei difetti, come chiunque, ma per Lucrezia non poteva esistere uomo che le fosse più adatto di lui.

“Maria ti ha cercato...” soggiunse la donna, ricordandosi della strana insistenza con cui la figlia di tre anni aveva chiesto del padre quel pomeriggio: “Ma poi si è calmata e ha fatto la brava.”

Jacopo sorrise nel pensare a Maria, sempre silenziosa e dal carattere così docile da poter trarre in inganno che non la conosceva bene, facendola scambiare per una bambina apatica: “Lei è nata brava.”

I due risero per qualche secondo, inteneriti all'idea della loro piccola, che, per il momento, sembrava un concentrato di tranquillità, e poi Lucrezia cambiò argomento, tornando a questioni ritenute da entrambi meno piacevoli, per quanto necessarie.

Mentre il marito prendeva una cucchiaiata di minestra, ella disse: “Adesso che s'è votato per fare un Gonfaloniere a vita, voglio che incontri la Sforza.”

“Non è meglio aspettare di averlo eletto, il Gonfaloniere? Almeno avrò qualcosa di concreto di cui parlare...” fece lui, restio all'idea di incontrare da solo una donna come la Tigre di Forlì.

“Devi farlo prima. Voglio sapere se anche lei è d'accordo con l'elezione di Soderini.” spiegò la Medici.

Il Salviati storse la bocca, smettendo per un attimo di mangiare: “Non sa nemmeno bene chi sia, Pier Soderini... Se quella donna dovesse, per capriccio, dire che non lo vuole come Gonfaloniere che dovrei fare? Mandare all'aria mesi e mesi di lavoro perché l'ha detto una che nemmeno conosciamo?”

Sorpresa da quello scatto, ma comprendendo che fosse dovuto alla pressione a cui il marito era stato sottoposto per tutto il giorno, Lucrezia sollevò le sopracciglia: “Certo che no, ma se tu le spiegherai bene chi è Soderini e cosa può fare per tutti noi, lei capirà. Voglio sapere cosa ne pensa anche per capire come regolarci con lei in futuro.”

L'uomo aveva ripreso a portare il cucchiaio alla bocca, senza più guardare la moglie. Sembrava arrabbiato per qualcosa, ma la Medici non riusciva a interpretare né il suo silenzio né quella passiva aggressività che si intuiva in ogni suo gesto.

“La verità – disse dopo poco l'uomo – è che quella donna per te conta perché ha un figlio che porta il cognome dei Medici, mentre io, che sono un Salviati, non ho potuto darti l'erede Medici che avresti voluto.”

La donna si lasciò andare a una breve risata, credendo che quella del marito fosse una battuta sarcastica, però, quando notò il suo sguardo cupo, si fece più seria e chiese: “Dici sul serio? Lo credi davvero..?”

“Preferiresti portare sulla breccia quel bambino che non uno qualsiasi dei nostri figli – disse l'uomo, sentendosi come se stesse scaricando un peso che ormai non sapeva più come portare – solo perché hai questa fissazione di riportare un Medici a comandare su Firenze...”

“Hai ragione – ribatté Lucrezia, cogliendo di sorpresa il marito – per me è importante che ci sia un Medici alla guida di Firenze. Quel bambino ha il sangue della mia famiglia, nelle vene, ma è chiaro che io amo molto di più i nostri figli.”

Per qualche motivo, quella dichiarazione non aveva fatto molta presa sul Salviati che, sempre con meno voglia, continuava a mangiare la minestra.

“Quindi io credo che con tempo potremmo arrivare a un doppio obiettivo: noi abbiamo più di una figlia, giusto?” chiese la Medici, aspettando un cenno d'assenso da Jacopo.

Questi, confuso, annuì e rimase in attesa, chiedendosi dove mai volesse andare a parare la moglie.

“Giovannino un giorno sarà un uomo forte e capace, non potrebbe essere altrimenti, con il lignaggio che ha.” riprese la donna: “Non credi che una delle nostre figlie potrebbe essere per lui una buona moglie? Così avremmo un Medici al governo di Firenze, al suo fianco una nostra figlia, sangue del nostro sangue, e i loro figli, Medici di nome, ma anche Salviati nei fatti, diventerebbero il cuore pulsante del futuro di Firenze.”

Il Salviati aveva seguito attentamente il discorso. Per quanto non gli piacesse pensare già a una delle sue bambine come a una sposa, doveva ammettere che l'idea, espressa con quel ferreo entusiasmo, non sembrava malvagia. Certo, era troppo presto per sapere che uomo sarebbe diventato il figlio della Tigre, però...

L'uomo stava per domandare a Lucrezia se avesse avuto modo di esporre questo suo progetto anche alla Leonessa di Romagna, ma lei non gli lasciò il tempo di farlo.

“Se questa prospettiva non ti piace – disse la donna, con un tono più leggero – potresti cambiare cognome e farti chiamare Jacopo Medici. Non suona male...”

“Però a quel punto dovremmo avere altri figli per passare loro il nuovo cognome: non possiamo cambiarlo a quelli che abbiamo già, o farebbero confusione.” scherzò di rimando l'uomo che, finalmente, sembrava essersi un po' rasserenato.

“Perché non ci proviamo subito?” chiese Lucrezia, mentre il marito poggiava definitivamente il cucchiaio sul tavolo e le si avvicinava per baciarla.

“Potrebbero volerci più tentativi...” stette di nuovo al gioco lui, sporgendosi ancora verso di lei, posandole una mano sul fianco.

Dalla nascita di Elena, in effetti, non avevano più concepito, benché fossero stati ben lungi dall'astenersi coi tentativi. Lucrezia aveva dato la colpa a sé stessa, chiedendosi se le gravidanze precedenti non l'avessero esaurita, rendendole troppo difficile procreare di nuovo. Jacopo, invece, aveva puntato il dito sul momento difficile per entrambi, dicendosi che la pressione con cui convivevano non poteva certo favorire la nascita di una nuova vita.

“Abbiamo tutta la notte, per provare...” sorrise la Medici, facendo alzare il Salviati e portandolo subito verso il letto: “Non dobbiamo nemmeno fare molta strada: vedi che vantaggi porta, cenare in camera?”

L'uomo sorrise a sua volta e, ormai dimentico della fame e della stanchezza, si consegnò anima e corpo alla sua amata, senza più pensare ai loro cognomi, al figlio di Caterina Sforza e, tanto meno, al Gonfaloniere di Firenze.

 

Vitellozzo smontò a fatica da cavallo. Rientrare a Città di Castello, sotto un cielo grigio come l'acciaio, scampando di poco un temporale, gli sembrava la cosa più bella del mondo.

Per colpa delle febbri e dei dolori che l'avevano colto, si era fermato anche troppo a Cortona, dopo aver sedato le scorribande dei guasconi nel tifernate. Ora che era di nuovo a casa, sentiva il bisogno di riordinare le idee.

Aveva ricevuto giusto il giorno prima l'ordine da parte del Borja di correre subito a Camerino e sferrare l'attacco finale ai Varano, ma, per il momento, aveva solo mandato parte delle sue truppe in avanscoperta. Non si sentiva abbastanza in forze per scendere in campo in prima persona e, inoltre, non provava alcun desiderio di servire il Valentino con solerzia e spirito di sacrificio.

Se il figlio del papa avesse per primo dato il buon esempio, allora non ci sarebbero stati problemi, ovviamente. Invece, mentre chiedeva ai suoi condottieri – senza dare alcuna garanzia – di dare la vita per conquistare il centro Italia, lui se ne stava al nord, a Milano o dove accidenti era, con il re di Francia a fare feste, bere vino e sperperare denaro, quello stesso denaro che si era nuovamente rifiutato di corrispondere ai suoi collaboratori quale indennizzo per le spese belliche.

Anzi, valutò con rabbia il Vitelli, mentre raggiungeva zoppicando le sue stanze, con l'imposizione francese di restituire Arezzo a tutto quanto ai fiorentini, sia lui, sia tutti quelli che avevano combattuto lì e razziato quel poco che si era potuto razziare, si sarebbero trovati in brache di tela.

Appena fu nella sua stanza, Vitellozzo sentì il rombo di un tuono e lo scrosciare subitaneo di una pioggia cattiva e vorace. Sorrise tra sé, nel pensare a come fosse fortunato ad aver scampato l'acquazzone per così poco tempo.

Tolti gli stivali, avvertendo ancora la febbre riprenderlo, l'uomo si stese a letto ancora vestito e fece del suo meglio per riposare.

Si era assopito senza accorgersene, quando un suo soldato bussò alla porta. Gli portava un messaggio urgente da parte di Oliverotto da Fermo.

Con uno sbuffo, il Vitelli prese il messaggio e lo aprì. Buttò gli occhi al cielo quando si rese conto che si trattava di una lettera cifrata. Era così stanco e debilitato da non aver alcuna voglia di decifrarlo da sé. Così, richiamando il soldato, gli chiese di far venire nella sua stanza il suo scrivano prediletto, l'unico letterato di cui si fidasse, affinché gli traducesse subito il contenuto della missiva.

Questi arrivò nel giro di pochi minuti. Lesse in fretta per conto suo il messaggio e poi lo riassunse facilmente, spiegando come Oliverotto fosse giunto al limite della pazienza, dopo che 'il nostro amico' – che Vitellozzo capì subito essere il Valentino – aveva imprigionato dei suoi soldati, accusandoli di furti di bestiame e anche di peggio, e lo esortava a prendere una decisione.

“Mette delle sigle, mio signore – fece a quel punto lo scrivano, porgendo il foglio al Vitelli – e dice che tutti loro sono pronti. Basta che gli rispondiate e vi dirà dove e quando...”

Era chiaro che per il servitore non aveva alcuna senso, quella richiesta, ma per il suo signore, invece, aveva un senso enorme. Le sigle, lo capì subito, indicavano Giampaolo Baglioni, Pandolfo Petrucci, il Cardinale Giovan Battista Orsini, Paolo Orsini e anche Francesco Orsini. Tutti loro, evidentemente, erano pronti a fare quel che andava fatto per liberarsi dal giogo sempre più pesante del Borja.

“Prendimi carta e inchiostro.” ordinò subito Vitellozzo, senza più ripensamenti.

Vergò un grosso sì nel centro della pagina e poi diede disposizione affinché venisse mandato all'istante come risposta alla lettere di Oliverotto.

“E quando arriverà la prossima missiva – si premurò di aggiungere, prima di chiudere gli occhi e rimettersi a dormire – che mi venga portata qui all'istante!”

'Potrebbero volerci giorni – pensò – per raggiungere il luogo stabilito per la riunione... E io voglio esserci, a costo di andarci volando!'

 

I tuoni avevano preceduto la pioggia di circa un'ora, e poi era stato solo uno scrosciare d'acqua e un saettare di fulmini.

Caterina cercava di guardare fuori, verso il cortile interno delle Murate, ma il vetro era così sferzato dall'acqua da renderle impossibile distinguere alcunché. Anche il vento soffiava con forza, e nemmeno lui, così come il resto della furia della natura, sembrava intenzionato a calmarsi.

La Sforza cominciava a chiedersi come avrebbe fatto a rientrare alla villa, calcolando che per spostarsi aveva usato un carretto malconcio, che di certo sarebbe rimasto impantanato sulla via del ritorno. Iniziava anche a interrogarsi in modo insistente sull'uomo che avrebbe dovuto incontrare.

Non avevano un orario preciso, per il loro abboccamento, ma la donna riteneva ugualmente di aver già atteso abbastanza. E, anzi, riteneva che quale che fosse il punto della città da cui Jacopo Salviati era partito, a quell'ora avrebbe dovuto già essere al convento da un pezzo.

Forse, si disse, in uno slancio di sincerità, la colpa era anche un po' sua. Invece di ingannare l'attesa stando con la nipote Cornelia, giocando con lei e imparando a conoscerla, l'aveva salutata frettolosamente, trascorrendo al suo fianco poco più di un quarto d'ora, senza trovare il modo di parlarle davvero o di interessarsi a lei. Si era limitata a constatare quanto somigliasse a Ottaviano, tanto che, se non fosse stato per i lunghi capelli molto scuri della piccola, avrebbe potuto scambiarlo per lui alla medesima età.

Quando aveva fatto capire a Suor Ubbidienza che per quanto la riguardava la visita alla nipote poteva dirsi conclusa, questa era stata ben felice di riprendere in braccio la bambina e portarla via.

La Tigre non se l'era presa per la frettolosità con cui la suora si era riappropriata di Cornelia, quasi avesse paura che la milanese volesse prendere la nipote e portarla chissà dove. Anzi, Caterina era rimasta profondamente rincuorata dall'innegabile attaccamento che Suor Ubbidienza nutriva nei confronti della piccola. Quella consapevolezza alleggeriva un po' il suo senso di colpa per essere così assente nella vita di Cornelia e le lasciava sperare che la bambina si sentisse meno sola.

Sbuffando, la Sforza si chiese se per caso il Salviati non fosse annegato strada facendo per colpa del diluvio. La sua mente le stava offrendo una visione molto variopinta del fiorentino che, boccheggiando, nuotava per le strade di Firenze. Non ricordava da quanto tempo la sua immaginazione non le regalasse un momento di svago come quello... Di norma, se si risvegliava, era solo per prefigurarle sventure o, quanto meno, incomodi.

Proprio quando un tuono più forte degli altri la fece quasi sobbalzare, finalmente Caterina sentì la voce di Suor Elena in lontananza, segno che il suo ospite doveva essere arrivato.

“Sì, ma solo perché siete voi e qui alle Murate non siamo irriconoscenti ai nostri grandi benefattori...” stava dicendo la Superiora: “Anzi, credo sia meglio che stiate nella cella di Madonna Sforza, lì sarà più difficile che qualcuno vi noti e possa sparlare.”

“Come preferite.” rispose una voce maschile abbastanza profonda e disponibile.

Capita l'antifona, Caterina lasciò la panca di pietra vicina alla finestra che dava sul cortile interno e camminò svelta verso la celletta che, ormai, era suo a pieno titolo, e che l'ospitava ogni qual volta decideva di recarsi presso le suore.

Avendo anticipato di poco Suor Elena e il Salviati, la Sforza non ebbe modo di far altro se non di attendere con pazienza, in piedi e a mani strette in grembo, il loro arrivo.

La Superiora bussò, malgrado la porta fosse aperta, e annunciò Jacopo, presentandolo come un grande benefattore delle Murate, nonché marito di Lucrezia. La Tigre ringraziò e poi aspettò l'arrivo dell'uomo che, appena entrato, nel sentire la porta chiudersi alle sue spalle assunse un'espressione strana, che ricordava quella di un pesce appena pescato.

“Non avrete paura di me...” fece Caterina, sorridendo e sforzandosi di sembrare quanto più innocua possibile: “Vostra moglie non ne ha.”

Il Salviati, deglutendo un paio di volte, sollevò le sopracciglia e fece un cenno di no con il capo e soggiungendo, in seconda battuta: “No, no, certo che no... Anzi, non voglio mancarvi di rispetto in alcun modo... Io sono solo... Ho sentito molto parlare di voi.”

La Leonessa stava osservando Jacopo in modo minuzioso. Aveva sicuramente qualche anno in più di Lucrezia Medici, tuttavia alla milanese non risultava difficile ritenerli una coppia abbastanza equilibrata e armoniosa.

Lo trovava anche un uomo di bell'aspetto, anche se non rientrava nei suoi canoni classici. Aveva lineamenti fini, un bel portamento, e un'innegabile eleganza. Si trattava di una bellezza silenziosa, di quelle che si notano con calma, e che, una volta scoperte, non si dimenticano. Per certi versi, le ricordò Giovanni, benché il suo terzo marito avesse un qualcosa – la Sforza non avrebbe saputo dire di preciso cosa – che a Jacopo mancava.

Caterina si chiese se quell'aspetto pacifico e gentile, misto a una fisicità piacevole e distinta fosse una prerogativa degli uomini fiorentini. Poi, però, si ricordò di Machiavelli, sproporzionato e sghembo, e di Lorenzo il Popolano, dagli occhi spenti e dalla forma incerta, e tutte le sue teorie crollarono.

Il Salviati restava sulle sue, rimanendo cautamente vicino alla porta. La cella era molto spoglia e, anche volendo, non avrebbero potuto sedersi entrambi, a meno che uno dei due non si accomodasse sul letto, cosa che il fiorentino non riteneva consona al tipo di incontro.

I suoi occhi castani continuavano a correre alla figura della Tigre. Gli sembrava quasi impossibile che quella fosse la stessa donna che aveva visto, ormai anni prima, entrare alla Signoria come una furia, arrivando perfino a minacciare il Gonfaloniere... Aveva un magnetismo indefinibile e il suo volto manteneva la fierezza che di certo aveva avuto nel comandare i suoi uomini, eppure la Sforza, in quel momento, poco aveva della figura violenta e travolgente che Jacopo ricordava.

Quasi a voler confermare quella silenziosa valutazione, la donna si strinse nelle spalle, accigliata, mentre un tuono roboante faceva vibrare il vetro della finestra: in tutta onestà, il fiorentino non avrebbe mai creduto di vedere una simile figura impensierirsi per un temporale.

Un po' per testare quanto effettivamente la Leonessa fosse cambiata rispetto al ricordo, l'uomo commentò: “Questo tuono sembrava molto vicino...”

“Già...” ribatté Caterina: “Speravo stesse finendo, e invece...”

“Qualcosa vi disturba, dei temporali?” si informò l'uomo, sempre più curioso di decifrare colei che aveva davanti.

“Non direttamente.” spiegò la Tigre: “Ma a mio figlio Giovannino i temporali non piacciono affatto. Vorrei solo essere con lui, in questo momento.”

“Lo spaventano i tuoni.” parafrasò Jacopo, un po' sorpreso nel vedere la sua interlocutrice citare già il piccolo Medici, dato che, secondo Lucrezia, era un argomento che non toccava volentieri.

“No, mio figlio non ha paura di un temporale...” cercò di raddrizzare il discorso la Leonessa: “È mio figlio, in fondo.”

Il Salviati abbozzò un sorriso, nel riconoscere l'ostinato orgoglio che spesso animava anche la sua Lucrezia, tanto che si trovò a dire: “Anche mia moglie non vuole che sia detta, ma più di uno dei nostri figli non sopporta tuoni e lampi... Non è una debolezza: sono bambini.”

“Forse avete ragione.” concesse la donna: “A maggior ragione, preferirei averlo con me, in questo momento, che saperlo custodito da suore che mal sopportano.”

“Portatelo alla villa.” propose il Salviati, allargando un po' le braccia: “L'avreste con voi sempre.”

“Lo sapete quanto me che non sarebbe al sicuro.” lo liquidò la milanese: “Senza contare che quella villa potrebbe non restarmi per molto, calcolando i piani bellicosi di Lorenzo. Sarebbe già tanto salvare quella casa, perché per quello che resta dell'eredità...”

“Vostro cognato non può vendere le proprietà spettanti a Giovannino.” fece il Salviati, con sicurezza: “La legge non glielo permetterebbe.”

“Ma i soldi liquidi, quelli li può spendere come gli pare.” controbatté la Leonessa, che sapeva bene quanto denaro il suo defunto marito Giovanni avrebbe lasciato al figlio e a lei, se tutto fosse filato liscio.

“Lorenzo sta spendendo molto.” confermò Jacopo, senza scomporsi: “Come sapete la sua situazione non è semplice e inguaiare Firenze con i francesi e con il papa lo sta portando a spendere tutto quello che ha per evitarsi una processo e una condanna... Ma proprio per questo, a parer mio, non ha né tempo, né soldi a sufficienza per costituire ancora un pericolo per voi e vostro figlio.”

“Quando vostra moglie mi ha proposto di incontrarvi, credevo che avrei avuto davanti un uomo intelligente...” sbuffò la Tigre, mostrando, per la prima volta dall'inizio dell'incontro, una certa insofferenza: “Lorenzo sta solo aspettando. Tra qualche mese, quando la situazione del figlio del papa imploderà e le acque si saranno calmate e i francesi se ne saranno tornati in Francia, allora mi trascinerà in tribunale e questa volta farà in modo di avere ragione lui.”

“Spiegatevi meglio.” disse Jacopo, folgorato.

“Mi citerà in giudizio come una madre irresponsabile e promiscua e farà in modo che la città di Firenze lo nomini unico tutore di mio figlio.” espose con chiarezza la donna.

“No, no, intendevo... Cosa intendete, riguardo al Valentino?” la domanda del Salviati era stata posta con un interesse tale che la Tigre capì quanto gli stesse a cuore comprendere la sua visione della situazione.

Così, senza farsi pregare, gli spiegò per filo e per segno le sue congetture circa il trattamento scorretto che il Valentino aveva riservato a buona parte dei suoi condottieri e di come, conoscendo la fibra degli uomini d'arme di vecchio stampo, i suddetti condottieri, alla fine, avrebbero trovato il modo di rovesciare il Borja stesso.

“Senza contare che i papi non vivono in eterno.” concluse Caterina, che, stanca di starsene in piedi, si sedette sul letto, indicando la sedia della scrivania al suo ospite.

Questi, un po' rigido, fece come gli era stato indicato e, una volta sistemato, domandò, senza preamboli: “Avete intenzione di far uccidere il papa?”

La Tigre scoppiò a ridere, ma con amarezza, e sbottò: “Se fosse stato nelle mie possibilità, vi assicuro che quel maiale di Rodrigo Borja sarebbe sottoterra da anni.”

Convinto da quell'esclamazione, l'uomo non gettò più l'ombra del dubbio riguardo le intenzioni della Sforza, e fece in modo di continuare a parlare di diplomazia e guerra, in modo che la visione di colei che era stata per anni l'ago della bilancia della politica italiana gli venisse esposta punto a punto e in modo chiaro.

Grazie alla dialettica del fiorentino, che riusciva a portare il discorso dove preferiva senza dare l'impressione di guidare il dialogo, lui e la Tigre toccarono pressoché tutti punti che più gli interessavano. Trovò la donna che aveva davanti non solo una persona dalla mente brillante, ma soprattutto una persona che aveva fatto esperienza diretta di molte cose di cui lui per prima aveva sempre e solo sentito parlare. In lei bruciavano i fumi della guerra, il freddo delle notti passate di vedetta, l'umidità della cella in cui era stata rinchiusa e, non ultima, l'acuta consapevolezza di cosa significasse uccidere e rischiare di essere uccisi. Oltre a questo, i suoi sguardi e le sue parole lasciavano anche intendere quanto fosse donna di mondo, quanto fosse stata capace di amare e di odiare, quanto avesse vissuto appieno gli estremi più profondi del sentire umano.

Di contro, più Caterina sentiva parlare il Salviati e più lo osservava, più scopriva in lui una misurata forza, un qualcosa di non percepibile facilmente, che ne faceva un uomo solido, attento a ogni dettaglio e, così le sembrava, molto affidabile. Capiva, ora, cosa intendesse Fortunati quando, nel descriverle Jacopo, lo aveva definito un 'mediatore nato'. Le sembrava infatti evidente che buona parte dei concetti che veicolava fossero di matrice medicea, scaturiti per certo dalla mente della moglie, eppure aveva un modo di esporli tale da farli sembrare interamente farina del suo sacco.

Era indubbiamente molto diverso dagli uomini con cui la Tigre aveva avuto a che fare per tutta la vita. Quando parlava di guerra e affini si notava senza problema come fosse stato sempre abituato a trattare l'argomento in via teorica e basta.

Malgrado ciò, però, la Sforza dovette ammettere con se stessa che le risultava molto più semplice parlare e intendersi con lui che non con Lucrezia. Benché riconoscesse che la Medici fosse una donna di una certa levatura e anche molto ben disposta nei suoi confronti, la sua attitudine a trattare con gli uomini, piuttosto che con le donne, le faceva vivere con un certo disagio un confronto diretto con lei.

“In ogni caso, quando verrà eletto il Gonfaloniere che noi si preferisce – disse alla fine Jacopo – si vedrà bene come muoversi.”

Nel 'noi' appena pronunciato dal fiorentino Caterina capì subito che rientravano solo il Salviati e la moglie, Lucrezia. Era quasi un modo gentile per farle capire che gli affari interni di Firenze restavano comunque loro appannaggio, anche se da essi ne sarebbe derivato un giovamento anche per lei e, al contempo, le ricordava che tutto ciò che si stavano dicendo quel giorno in quella cella da suora, mentre fuori diluviava, sarebbe stato minuziosamente riferito alla Medici.

La Tigre non aveva nulla in contrario su quell'ultimo punto: le piaceva, anzi, pensare che i suoi alleati fiorentini fossero una coppia tanto unita. Il rapporto che le sembrava di vedere tra loro un po' le ricordava quello che c'era stato tra lei e Giovanni e quello che non era mai riuscita a creare appieno con Giacomo.

Sul primo punto, invece, aveva qualcosa da ridire. Anche se capiva il ragionamento dei Salviati, avrebbe preferito avere anche lei un peso, per quanto piccolo, negli affari di Firenze.

Così, giusto per far capire che si aspettava di dover dare il suo benestare, chiese: “Il Gonfaloniere che vorreste sarebbe questo Pier Soderini, giusto?”

L'uomo annuì e poi, stringendosi le mani l'una nell'altra aggiunse: “Anche mio cugino Alemanno è della mia stessa idea... Soderini, con un po' di elasticità, è l'uomo giusto per un compito del genere.”

“Che tipo è? Che aspetto ha?” chiese la Leonessa, cercando di figurarsi quel personaggio conosciuto solo di nome.

“Non ve lo ricordate?” il sorrisetto che increspò le labbra del Salviati lo fece sembrare più giovane della sua età: “Avete battuti i pugni sul suo tavolo, proprio sotto al suo naso, alla Signoria.”

All'improvviso la Leonessa si sentì tornare indietro ai tremendi giorni che avevano preceduto l'arrivo del Borja in Romagna. Ricordò il suo viaggio solitario e disperato a Firenze, alla ricerca di qualcuno che capisse e corresse in suo soccorso, e rivide molto bene il volto esterrefatto dell'uomo che presiedeva la riunione al palazzo della Signoria...

“Ho capito chi è.” fece allora la donna: “Ricordo che io chiedevo armi e uomini e lui mi ha dato solo parole vaghe e appelli alla calma. Io avevo i minuti contati, e lui mi diceva di aver pazienza e aspettare...”

Jacopo deglutì: in effetti la milanese non doveva serbare un gran ricordo di Soderini. Certo, quello che il Gonfaloniere aveva detto e fatto era andato a vantaggio di Firenze... Se ci fosse stato un uomo più pavido o più emotivo al suo posto, e avesse accettato subito di fornire armi e uomini alla Tigre, cosa sarebbe successo? Magari avrebbero sconfitto assieme la Francia e il Valentino, oppure sarebbero stati distrutti, e della bella Firenze non sarebbe rimasto che un mucchio di macerie, com'era successo alla rocca di Ravaldino...

La mia festa – ripeté il Salviati, ricordando a impronta le parole che la Tigre aveva rivolto a Pier Soderini – sarà la vostra vigilia. Per fortuna non è stato proprio così...”

“Forse io sono troppo impulsiva.” concesse Caterina: “Ma non mi direte che Firenze adesso può dirsi una città libera, con i francesi che vi tirano a destra e il papa che vi tira a sinistra...”

Il fiorentino dovette darle in parte ragione, ma poi ci tenne a dire: “Pier Soderini non vi sarà simpatico, ma dovete ammettere che gestire un'irruzione come quella che faceste voi quella volta non è da tutti...”

“Glielo concedo.” soffiò la Sforza: “Quindi mi sta bene. Una volta che sarà eletto, però, voglio che si occupi anche delle mie, di questioni. Sono cittadina di Firenze, anche se spesso Firenze sembra dimenticarsene...”

I due discussero ancora di qualche faccenda di ordinaria amministrazione e poi il Salviati, sentendo i tuoni che cominciavano a essere meno frequenti, chinò il capo e disse: “Ora torno da mia moglie, se me lo permettete. Ho molte cose da riferirle.”

La Leonessa apprezzò la schiettezza di quell'affermazione e, allungando una mano per stringere quella di Jacopo, convenne: “Salutatela da parte mia e riferitele ogni cosa. È bene essere tutti uniti, in questa battaglia.”

   
 
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