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Autore: Evali    26/06/2022    0 recensioni
Un villaggio isolato, un popolo spezzato in due in seguito ad una terribile calamità, due divinità da servire, adorare e rispettare in egual modo: Dio e il Diavolo.
"- Io amo gli uomini.
- E perché mai io sono andato nella foresta e nel deserto? - replica il santo. – Non fu forse perché amavo troppo gli uomini? Adesso io amo Iddio: gli uomini io non li amo. L’uomo è per me una cosa troppo imperfetta.
- È mai possibile! Questo santo vegliardo non ha ancora sentito dire nella sua foresta che Dio è morto!"
Genere: Fantasy, Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Vanitas vanitatum
 
 
La vanità era sempre stata un’ossessione, sin dalla prima infanzia.
Quando era piccolo, ricordava un episodio, in particolare, che cambiò il suo modo di atteggiarsi e di vedere il mondo.
Si vergognava, da sempre, nel desiderare qualcosa che gli uomini come lui non potevano bramare.
All’età di quattro anni, nell’ascoltare gli insegnamenti impartiti severamente da un monaco dal carattere burbero e brutale, lui non riusciva a pensare ad altro se non alle orribili verruche sulla sua faccia, alla sua pelle squamata, al suo corpo corpulento e grasso.
Mentre tutti gli altri bambini erano spaventati dal suo vocione, lui era spaventato solamente dalla ripugnanza della sua immagine.
Trascorreva ore e ore a guardarsi allo specchio da bambino, per autoconvincersi di essere piacevole da guardare, accettabile, quantomeno la metà di quanto lo fosse qualsiasi servo del Diavolo incrociato per le strade.
Sarebbe rimasto ore e ore a guardarli e non perchè attratto da loro, in quanto a quell’età non poteva capire cosa fosse l’attrazione fisica o la lussuria.
Restava a fissarli ammirato e incantato, perchè desiderava ardentemente essere come loro.
Da bambino, quando possedeva ancora una cospicua chioma di capelli ramati e ricci, aveva un’apparenza che considerava quantomeno accettabile: se li acconciava nei modi più stravaganti e avvenenti possibili, rubava le stoffe pregiate che sua madre comprava per farne delle tende, e le modellava in modo che potessero diventare degli splendidi abiti di tela, androgini, succinti e incantenvoli indossati su di sè.
Sua madre era una delle persone più abneganti, fedeli e intransigenti del villaggio, lontana da qualsiasi tipo di vanità, così come si richiedeva ad ogni donna e uomo servi del Creatore.
I servi del Diavolo potevano permettersi di esserlo, in quanto il Diavolo era il primo ad essere categorizzato come il re della vanità, così come di mille altre cose proibite dal Creatore.
I servi del Creatore dovevano essere ligi al dovere, dediti alla loro fede, votati all’abnegazione, concentrati solo sulle pratiche innalzanti per l’anima, quali la preghiera, il pentimento, la confessione, la fede cieca verso il loro dio. Ogni pratica materiale o carnale era da rifuggire.
Per questo il piccolo Cliamon si sentiva sempre in colpa nel fare ciò che faceva con costanza, nel formulare quei pensieri poco consoni a quella che considerava la sua natura, la categoria di cui faceva parte.
Tuttavia, non riusciva a farne a meno. Non riusciva a farne a meno neanche dopo le speventose lezioni di quel monaco che somigliava più ad un temibile orco che ad un uomo.
E proprio perchè sua madre era una serva del Creatore esemplare, oltre a non possedere begli abiti, non possedeva neanche cosmetici.
Per tale motivo il piccolo Cliamon raccattava sempre un po’ di quella “polvere bianca” di bellezza che vedeva usare dalle donne serve del Diavolo rubandola da qualche bancarella senza farsi vedere, per poi spalmarsela sul viso e sul corpo nei suoi momenti segreti, quelli che passava davanti allo specchio, vestito da puttino, a rimirarsi su quella superficie, tentando in ogni modo di abbellirsi nel meglio delle sue possibilità.
Poi, i capelli avevano iniziato a cadere, la schiena era divenuta gobba, già in giovane età, e tutti i suoi tentativi erano sempre più inutili.
Tuttavia, non aveva mai smesso.
Il peggio arrivò quando sua madre lo scoprì.
Una mattina, aprì la porta della sua stanza e lo vide a quel modo. Cacciò un urlo di disperazione al cielo e lo picchiò con un bastone, mentre gli urlava di togliersi subito quei vestiti di dosso e di gettare quell’enorme specchio fuori dalla finestra.
Dopo quell’episodio rivelatorio, sua madre aveva deciso di fargli prendere i voti.
Diventare monaco era considerato il privilegio più grande per i servi del Creatore, l’aspirazione maggiore da perseguire, sia per gli uomini che per le donne.
Motivo per cui, prendendo i voti, sua madre era convinta che l’anima di suo figlio sarebbe stata purificata dal tremendo peccato della vanità di cui era immerso e cosparso fino al midollo.
Cliamon, profondamente scosso e invaso dal rimorso e da quello che credeva essere pentimento, aveva accettato immediatamente, iniziando il percorso per diventare monaco.
Poi, era arrivata Henni Adaira.
Credeva che, nei lunghi anni che aveva trascorso alla cattedrale, ad aiutare le anime dei peccatori, ad essere un esempio per tutti, a distaccarsi da ogni cosa materiale, immerso nei testi sacri, credeva che fosse bastato a seppellire per sempre quegli istinti torbidi.
Invece, l’incontro con Henni Adaira, la madre di Myriam, la prima strega che aveva fatto bruciare, aveva cambiato tutto.
Da quel giorno aveva compreso di non essersene mai liberato.
Non si sarebbe mai liberato di quella brama di essere desiderato, di essere guardato, di essere ammirato per una bellezza che mai avrebbe posseduto. Una bellezza che non gli era concessa. Perchè era nato nella metà sbagliata del villaggio.
E, a sua grande sorpresa, era stata proprio la figlia di Adaira a fargli quel dono.
A compiacere i suoi appetiti di attenzioni e di eruttante vanità, donandogli un corpo che gli avrebbe permesso di fare letteralmente di tutto.
Ma soprattutto, di essere guardato finalmente nel modo in cui voleva.
Però non gli bastava più.
Ora che aveva avuto un assaggio del potere che quel corpo giovane, bellissimo ed efebico poteva esercitare sugli altri senza neanche provarci, voleva di più, pretendeva e bramava di più.
Voleva vedere cosa sarebbe successo se si fosse davvero impegnato.
Per tale motivo, quel giorno, per la prima volta dopo anni, aveva ripreso quell’ossessionante abitudine che aveva da bambino, ma sfoggiandola dentro un corpo nettamente più degno di quello che visionava allo specchio molti anni prima.
L’immagine di Folker si stagliava davanti al grande specchio che Cliamon aveva acquistato di nascosto al mercato, un’ora prima, e che aveva posto nella stanza del ragazzo, da sempre priva di qualsivoglia superficie specchiabile.
La casa era vuota, fortunatamente. Quel giorno i genitori del ragazzo erano andati a pregare per la loro figlioletta scomparsa, alla galleria; dunque il monaco aveva avuto modo di portare lo specchio dentro la casa senza essere visto, ed era libero di agire e muoversi come desiderava, senza la paura che qualcuno lo scoprisse.
Lo specchio non era l’unico acquisto che aveva dovuto fare, con discrezione, al mercato. Folker era un ragazzo che indossava sempre gli stessi, banali vestiti da popolano, un popolano benestante, ma pur sempre un popolano: mantelli scuri, casacche di tela, pantaloni e calzoni larghi, stivali.
Per tale motivo aveva dovuto comprare anche dei tessuti pregiati e, come ai vecchi tempi, si era dilettato nell’attività del cucito per farne degli splendidi capi d’abbigliamento ricercati, succinti e vivaci.
Poi, prima che l’alba di un nuovo giorno fosse sorta, si sarebbe adoperato a nascondere quei vestiti e lo specchio in un posto sicuro, prima di risvegliarsi di nuovo nel suo repellente corpo.
Ora che si era vestito e preparato di tutto punto, si perse ad osservarsi, rimanendo a rimirarsi davanti allo specchio per ore, estasiato dalla propria immagine, compiaciuto ed emozionato insieme: i pantaloni stretti di cuoio scuro fasciavano le gambe lunghe e magre del ragazzo in maniera indecente, facendo risaltare alla perfezione anche l’intera curva del fondoschiena sodo; il bacino stretto e sin troppo magro era circondato dalle cintole ben strette che tenevano sù quei quei pantaloni a vita alta, fasciando le anche sporgenti e il basso ventre piatto come una tavoletta; il torace tonico asciutto e sinuoso era invece ben fasciato da una camicia leggerissima di raso blu scuro, leggermente aperta sul petto, in modo da lasciare ben scoperto il collo d’elegante avorio e le clavicole sporgenti; i vestiti dai colori intensi creavano un contrasto a dir poco sublime con la pelle e i capelli chiarissimi. Questi ultimi li aveva intrecciati in una raffinata ma non troppo complessa acconciatura: una treccia morbida a lisca di pesce, che partiva sin dalla testa e terminava lungo l’inizio della schiena, lasciando completamente scoperto quel viso dai lineamenti a dir poco divini.
Padre Cliamon sorrise, e quel sorriso sul volto di Folker era ciò che di più peccaminoso avrebbe mai potuto sperare di vedere o immaginare: le labbra carnose e rosee scoprirono i denti bianchi, gli zigomi taglienti si rialzarono, i grandi diamanti di topazio che il ragazzo possedeva al posto degli occhi sorrisero a sua volta, maliziosi e vanesii, con le ciglia folte e quasi bianche che li incorniciavano.
Il monaco non era un amante degli orpelli di metallo, tuttavia, dovette riconoscere che, in quel bellissimo quadretto, un anello d’oro o un orecchino in pietra di smeraldo sarebbero stati il perfetto tocco di classe per rendere l’immagine di quell’angelo tentatore dinnanzi a sè ancor più intrigante.
Si alzò sù le maniche larghe della camicia, scoprendo gli avambracci nivei, fino al gomito spigoloso, per poi accingersi ad indossare l’ultimo indumento: almeno in quello, si mantenne fedele al vero Folker, rindossando gli abituali stivali neri, che aderivano al piede donando anche a quella parte del corpo un’inaspettata eleganza.
Decidendo di aver trascorso sin troppo tempo ad ammirarsi e a gongolare davanti allo specchio, Cliamon decise di agire, e di godersi la focosa e peccaminosa serata che lo aspettava al meglio delle sue possibilità.
Non si sentiva in colpa per Folker, no.
Non gli avrebbe fatto troppo male quella sera, sarebbe stato attento, in modo che il ragazzo non si accorgesse di nulla la mattina seguente.
Non si sentiva in colpa neanche per la sua fede, quella oramai era violata e macchiata da molto.
Prendere i voti era stato un errore a cui l’aveva sottoposto la sua stessa madre, e riconoscendo finalmente ciò, non riusciva a fare a meno di sentirsi rigenerato, finalmente, all’idea di fare quello che aveva sempre voluto fare: essere ammirato, voluto, e trattato come un oggetto bello, esattamente come i servi del Diavolo.
Non era sua la colpa, se era nato nella metà sbagliata del villaggio.
Il suo era un bisogno, e in quanto tale avrebbe dovuto soddisfarlo.
Si diresse alla Taverna con un mantello scuro a coprirlo, per evitare sguardi troppo eloquenti lungo la strada: di quelli si era già saziato abbastanza.
Entrato dentro il luogo, che pullulava di risa, di schiamazzi e dell’odore del vino, come ogni sera, si guardò intorno, deciso ad adocchiare almeno una serva e un servo del Diavolo da far cadere nella sua rete.
Purtroppo, in molti si stavano dirigendo verso la figura di quella sciamana bionda che aveva ammaliato il villaggio in due giorni, e che aveva deciso di concedersi a chiunque sapesse pagare abbastanza bene.
A pensarci bene, la Taverna era un luogo troppo esposto.
Se qualcuno che Folker conosceva lo avesse visto lì, i sospetti sulla stranezza della cosa si sarebbero moltiplicati e Folker stesso avrebbe iniziato a sospettare maggiormente.
Era meglio essere discreti e sedurre qualcuno in maniera più appartata.
Così, Cliamon si diresse verso il retro della Taverna, dove si trovava la seconda uscita, spesso utilizzata dalle coppie che desideravano distanziarsi un poco dalla folla e dal rumore, per amoreggiare in intimità.
 Si tolse il cappuccio e si sfilò il mantello, poggiando la schiena alla parete esterna dell’edificio, alzando il volto verso le stelle.
Osservò un paio di coppie camminare mano nella mano, annebbiate dal vino, in preda alle risa.
Purtroppo c’era poco affluenza in quel punto, perciò dovette attendere altri dieci minuti prima di scorgere un’altra anima viva.
Un paio di serve del Creatore uscirono di lì, chiacchierando, e non appena lo individuarono arrossirono vistosamente nonostante il buio, e quasi non inciamparono sui loro stessi passi, nel tentativo di non staccare gli occhi da lui.
Le ignorò volutamente, voltando la testa dall’altra parte.
D’improvviso, una voce nascosta nel buio lo raggiunse, facendolo sussultare per la sorpresa:
- Attendete la vostra fidanzata? – gli domandò una voce rauca, decisamente maschile e adulta.
Si voltò, e incontrò la figura avvenente di un uomo, un servo del Diavolo, dai corti capelli biondo cenere, una leggera barba incolta, un corpo visibilmente possente e ben formato nonostante i vestiti a schermarlo, e dei furbi occhi grigi e chiarissimi.
Si avvicinò a lui, apparentemente senza malizia, sorseggiando dal boccale che teneva in mano e osservando di tanto in tanto la gente uscire.
Cliamon realizzò che avrebbe dovuto sedurlo.
E non vedeva l’ora di farlo.
Mai come quella sera si sarebbe sentito tanto sicuro di sè, della sua bellezza, del suo potere.
Dunque, sfoderò le inestimabili armi che quel ragazzo aveva a disposizione, per troppo tempo sprecate e inutilizzate: arcuò la schiena all’indietro in un gesto casuale, poggiando la nuca e la testa alla parete dietro di sè, prendendo ad osservare l’uomo di sottecchi.
- Non sto aspettando nessuna ragazza – gli rispose, attirando i suoi occhi nuovamente su di sè.
L’uomo lo scandagliò dalla testa ai piedi, prendendosi tutto il tempo per osservare a dovere il suo corpo, facendo rabbrividire di aspettativa il monaco, il quale fremette, smanioso di quegli sguardi.
- Quanti anni avete, ragazzo?
Sedici? – ipotizzò l’uomo, continuando a sorseggiare dal suo boccale, mentre lo guardava e cercava di restare concentrato sul suo viso e non su altro.
Cliamon fremette ancora e accennò un sorriso furbo, riconoscendo che fosse un gentiluomo.
Negò con la testa, senza tuttavia rispondere alla sua domanda.
A ciò, l’uomo ricambiò il sorriso, il quale velava un pizzico di frustrazione. – Quindici? – ritentò.
Cliamon emise un risolino che aveva un che di sadico, e gettò la testa all’indietro, sapendo di avere gli occhi dell’uomo incollati su di sè, sulla sua camicia stretta e sbottonata, sulle sue gambe lunghe e fasciate di cuoio.
- Quasi ... – rispose casuale, fissando gli occhi nel cielo sopra di sè.
- E che ci fa un ragazzino di quattordici anni, da solo, vestito in questo modo, qua fuori? – gli domandò, con la voce a metà tra il frustrato e il giudicante.
A ciò, Cliamon si voltò a guardarlo, inchiodandolo con gli occhi grandi e liquidi di Folker, che brillavano nel buio della sera.
- Mi parlate come foste mio padre? Siete così vecchio? – gli domandò con giocosa arroganza.
- E dov’è vostro padre? Lo sa che siete qui?
- Vi interessa tanto? Mi volete riaccompagnare a casa per accertarvi lo sappia? – lo sfidò, sorridendogli ancora in quel modo peccaminoso e sfacciato.
Lo aveva in pugno.
L’uomo rise sardonico, scoprendo i denti, bevendo un altro sorso di vino.
Sembrava un uomo benestante, controllato, ma anche pronto ad esplodere da un momento all’altro.
Quel corpo aitante e prestante, quella voce roca, quegli occhi talvolta famelici, talvolta sfuggenti, lasciavano presagire fosse arrivato al limite.
- Nel nome del Diavolo... – imprecò sottovoce. – Sembrate attendere che qualcuno vi salti addosso.
- Perchè dite così?
- Per il modo in cui mi guardate, in cui vi muovete, in cui parlate.
- Sarà la vostra immaginazione – commentò divertito Cliamon, vedendolo vacillare ancora.
- Sono un uomo. Con più del doppio della vostra età. Mi avete visto bene?
- Sì, vi ho visto.
- Dunque è così? State cercando di sedurre un uomo?
- Sono vostre supposizioni.
- Ditemi, da quanto tempo lo fate? Siete come la donna che ha cominciato a svendersi là dentro? Avete preso spunto da lei? – il suo voleva essere un tono di scherno, ma risultò anche incuriosito.
- No. Io non svendo il mio corpo – disse con decisione, offeso da tali parole.
- E allora perchè lo fate?
- Fare cosa?
L’uomo rise ancora, gettando il vino rimasto a terra e portandosi i capelli all’indietro, mentre inspirava. Si voltò di nuovo a guardarlo. – Come mai siete certo di risultare attraente ad un uomo?
A tale domanda, Cliamon alzò un sopracciglio biondissimo e gli rivolse uno sguardo saccente, estremamente sicuro di sè, uno sguardo di superiorità che ostentò con naturalezza:
- Non è chiaro? Avete il coraggio di dirmi che il mio aspetto non farebbe gola a uomini e donne di ogni sorta?
L’uomo affilò lo sguardo, osservandolo ancora. – Sono sposato. Ho due figli piccoli.
- Bene. Buono a sapersi. Se la cosa vi preoccupa perchè non siete già a casa vostra a riscaldare il letto di vostra moglie, invece che qui a parlare con me?
- Perchè, da quando siete entrato nella Taverna venti minuti fa, e vi ho visto attraversarla per poi uscire di qui, non sono riuscito a distogliere lo sguardo da voi – ammise finalmente l’uomo, dichiarando la sua resa.
Cliamon sorrise trionfante.
- Cos’avete da sorridere come un gatto?
- Oh no, nulla – rispose sorridendogli ancora, furbo. – Ditemi di vostra moglie: sarebbe felice di sapervi tra le gambe di un uomo piuttosto che tra le gambe di un’altra donna?
- No.
- Allora, perchè escluderla?
L’uomo sgranò gli occhi, alzando un sopracciglio sorpreso.
Era riuscito a lasciarlo senza parole e se ne compiacque.
- Mi state proponendo di portarvi a casa mia? Volete sedurre anche lei?
Cliamon sorrise ancora di più, vedendo l’uomo abbassarsi su di lui, avvicinare il viso al suo.
Ma la sua sicurezza non venne meno e ostentò ancora il suo sguardo tronfio mentre egli gli fissava le labbra piene. – E se io non volessi che mia moglie venga toccata da un altro? – gli domandò soffiondogli il suo alito caldo sulla bocca.
- Potete sempre tornarvene a casa e lasciarmi qui.
Quella frase fu il colpo di grazia: l’uomo lo spinse maggiormente contro la parete e gli invase la bocca con la sua, baciandolo famelico e assaggiando le sue labbra come fossero succosi frutti maturi, facendolo mugolare di piacere.
Cliamon gli avvolse il collo con le braccia seminude, mentre egli continuava ad esplorare con dovizia il suo antro caldo, circondandogli la schiena con le mani, i palmi intenti ad esplorare ogni centimetro di quel fascio di nervi e pelle deturpata dalle ferite dalle frustrate e fasciata con la camicia di raso.
Ma il desiderio era troppo grande, cresceva a dismisura, e mentre Cliamon si aggrappò con esigenza al suo collo forte, distaccandosi dal muro e andandogli incontro, l’uomo non attese un minuto di più nel piantare le mani sulle sue natiche tonde, aggrappandovisi con forza.
Cliamon si distaccò lievemente da lui, ansimante e sorridente, e gli poggiò una mano sul petto per fermarlo, nel momento in cui egli tentò di riappropriarsi delle sue labbra.
- C’è una cosa... che dovete sapere... – esordì sospirando.
- Avete i capelli morbidi come quelli di una fanciulla.. – gli disse lui tra le labbra. – Avete la pelle setosa e profumata.. come quella di una fanciulla – continuò. – Ma il vostro corpo no.. il vostro corpo non è quello di una fanciulla – sussurrò rinforzando la stretta sulle natiche a pieni palmi e affondando il viso sullo scollo della sua camicia, iniziando a leccargli il petto e le clavicole.
Cliamon se lo spinse addosso e gettò la testa all’indietro mentre si lasciava stringere convulsamente e ansimava, facendo appello a tutta la sua forza di volontà per pronunciare quello che stava per dire:
- Dovete... sapere.. che io sono stato accusato.. di essere una strige – gemette, sentendo la stretta dell’uomo allentarsi improvvisamente, fino a cessare.
La sua preda si distanziò di poco da lui e lo guardò in volto, stupito, ma non impaurito. – Voi... siete il ragazzo-strige?
Cliamon annuì, cercando tuttavia di rassicurarlo con il suo sguardo e con i suoi gesti: gli si riavvicinò e gli accarezzò le mani con le sue.
- Io... non posso – pronunciò l’uomo, ora confuso e indeciso.
A ciò, il monaco fece aderire nuovamente l’addome con il suo, guardandolo dal basso a causa della differenza d’altezza, facendogli sentire anche quanto la sua intimità stesse scalpitando dentro il cavallo dei pantaloni.
Quella sera si sentiva più audace che mai.
- Ve lo sto dicendo solo perchè sono una persona corretta.. ma questo non significa che sto ammettendo di essere un mostro succhia-sangue.
Mi accusano di esserlo. Ma voi sapete benissimo che le strigi non esistono, e che sono solo una ridicola invenzione di quei maledetti servi del Creatore – gli disse, allungando una mano e carezzandogli delicatamente una guancia, mentre egli lo guardava smarrito.
Bastarono solo un altro paio di sguardi, affinchè l’uomo lo rinchiodasse al muro e riprendesse a vezzeggiarlo, impaziente di arrivare a casa per saziarsene come desiderava.
- Voi siete un’anima passiva..
Un’anima che ama essere vezzeggaiata, adulata e desiderata.
Proprio perchè siete un’anima passiva vi lasciate fare questo da un uomo – gli sussurrò dritto nell’orecchio, mentre gli succhiava e leccava un lobo, mentre le sue mani gli slacciavano la camicia lì fuori, e gli si infilavano sotto i vestiti, smaniose.
“Sì” pensò Cliamon.
Era un’anima passiva.
Lo sapeva. Fin da bambino.
Per tale motivo nei rapporti intimi preferiva godere dei piaceri da sottomesso, piuttosto che da una posizione di comando, sia con gli uomini che con le donne.
Non se ne vergognava.
Non se ne vergognava più.
Quando i due giunsero a casa dell’uomo, non fu difficile convincere l’ignara e bellissima moglie di quel servo del Diavolo ad unirsi a loro.
La donna era persino più curiosa e creativa del marito.
Cliamon visse la notte più favolosa, intensa e indimenticabile della sua vita con loro.
Ed era abbastanza certo che per i due coniugi fosse lo stesso.
Ad un tratto, la donna, in preda al piacere, gli fece anche una richiesta che non si sarebbe dimenticato facilmente: “Dato che dicono tu sia una strige, avanti, mordi il mio collo e assaggia il mio sangue”.
Era stata una richiesta annebbiata dal piacere, divertita, ma anche determinata e troppo vogliosa e decisa per venire ignorata.
A ciò, lasciandosi prendere dalla foga, mentre l’uomo affondava in lui, riempendolo, il monaco morse con forza il collo tenero e bianco della donna, facendola urlare di dolore misto a piacere, percependo chiaramente il sapore ferroso del sangue tra le labbra e sulla lingua.
Venne inebriato da quel sapore.
Quella notte si addormentarono tutti e tre sul letto dei due coniugi, e quando l’alba stette per sorgere, Cliamon abbandonò il giaciglio e la casa, ritornò a casa di Folker, nascose i vestiti e lo specchio, e si lasciò ricadere a letto.
Si era ricordato di fare tutto, tralasciando un unico, essenziale dettaglio:
quando Folker si risvegliò nel suo letto quella mattina, ignaro, stravolto e lievemente dolorante in zone strane del corpo, percepì anche una sensazione che fu in grado di paralizzarlo per il resto della giornata.
I suoi denti erano sporchi di sangue.
Sulla sua lingua, vi era ancora il retrogusto ferroso di quel liquido denso e scarlatto.
Proprio per tale motivo, con la consapevolezza di non sapere cosa gli fosse accaduto il giorno prima, per l’ennesima volta, quella sera decise di andare alla Taverna per incontrare Bridgette.
Dopo quella notte trascorsa tra le sue braccia e il suo corpo accogliente, aveva incontrato la ragazza altre volte, di nascosto, per fare l’amore con lei.
Ciò riusciva minimamente a distoglierlo da quel pensiero, dal pensiero che il suo corpo gli stesse venendo rubato.
Tuttavia... quell’atroce sensazione di sangue sulla lingua e in fondo alla gola.. non se ne andava.
Non se ne andava mai.
 
Padre Cliamon, col suo inadeguato corpo di nascita,  giunse alla dimora in cui abitava Myriam, la casa abbandonata in cui l’aveva incontrata la prima volta.
Fremeva e scalpitava per incontrarla.
La strega gli permise di entrare, senza domandargli cosa volesse.
- Lo voglio io – esordì il monaco, la voce tremante e lo sguardo disperato.
- Che cosa volete?
- Il suo corpo. Non mi basta più una volta ogni sette giorni. Non mi basta. Lo voglio sempre, ogni giorno.
Lo voglio io.
- Non potete averlo – gli rispose atona lei. 
- Ma io me lo merito!
Lui  non sa come usarlo! Io sì!
Myriam si lasciò andare ad una crudele risata sguaiata che parve durare secoli, a tali parole.
Terminato di ridere, parlò:
– C’è un modo giusto o sbagliato per usare un corpo, padre?
Illuminatemi, dunque: come si usa un corpo nel modo giusto?  - gli domandò malignamente.
- Lui non lo apprezza abbastanza!
Lui lo dà per scontato!
Tutti voi lo date per scontato! – esclamò in preda al delirio.
- Quando capirete che se anche voi foste nato con un corpo simile lo dareste per scontato?
L’essere umano vuole sempre ciò che non ha: che sia la bellezza, che sia la sapienza, il potere, l’intelligenza, il talento, la ricchezza, l’amore.
La vostra insulsa scenata farebbe raccapricciare capre e asini – sputò sprezzante la strega.
- Voi... voi mi avete fatto questo.. – pianse il monaco coprendosi il volto con le mani. – Se non avessi mai saputo cosa si prova... se avessi continuato a vivere nell’ignoranza... la mia anima sarebbe-
- La vostra anima non sarebbe mai stata pura.
Il vostro spirito è corrotto dalle radici, marcio dall’interno – gli sussurrò ad un palmo dal suo viso.
Il volto di lei era una bellissima maschera di cera, e padre Cliamon deglutì, tremando.
- Immaginavo foste lurido.
Ma non mi aspettavo sino a tal punto – continuò Myriam.
- Voi mi avete condotto alla degradazione!
- Io vi ho solo dato ciò che avete chiesto.
- Siete un demonio!
- Non vi donerò il corpo di quel ragazzo, togliendolo a lui.
A Folker spetta di diritto.
E il fatto che voi non riusciate minimamente a empatizzare con lui, con tutto il male che gli state facendo, è un’ennesima conferma del vostro sudiciume.
Padre Cliamon si inginocchiò e pianse.
- Io non sto facendo niente...
Non sto facendo nulla di male...
- Lo state assassinando lentamente.
- Non lo sto assassinando!
Io mi prenderei il suo corpo e lui si prenderebbe il mio!
Voi gli cancellereste i ricordi!
Avrei cura del suo corpo, del corpo che lui non ha mai apprezzato.
- Perchè vi interessa tanto la vostra apparenza? – indagò la strega, ponendo le braccia conserte e affilando lo sguardo felino.
- Perchè desidero l’adulazione degli altri su di me.
- Esistono molti altri modi per ottenere l’adulazione e l’attenzione degli altri.
- Non mi interessano gli altri modi – ammise. – Mi è sempre importato solo di questo.
- C’è un solo modo per ottenere quello che desiderate – gli disse melliflua la donna, girandogli intorno.
- Cosa...?! Cosa devo fare?
- Questo tipo di incantesimo ha un solo epilogo: nel caso in cui voi uccideste il vostro corpo carnale mentre la vostra anima abita il corpo di Folker, l’anima di quest’ultimo perirebbe dentro le vostre membra, mentre voi vivreste dentro le sue, per sempre.
Cliamon sgranò gli occhi per lo sconcerto. – No ... non posso farlo... non posso...
- Ovvio che non potete.
Non osereste.
Non osereste mai.
 
Era sceso dal cavallo, legandolo nel retro della casa.
Era mattino inoltrato.
Aveva dormito nel bosco in compagnia dello stregone, entrambi annebbiati e stimolati dagli effetti degli oppiacei.
Una volta svegliati dopo quel sonno affatto ristoratore, Blake era andato a farsi un bagno al lago.
Ci era voluta quasi un’ora intera di sfregamenti sulla pelle per togliersi via almeno i residui più neri e fastidiosi di zolfo e carbone.
Una volta rivestito, non aveva atteso un istante di più per montare a cavallo, con tutta l’intenzione di tornare a casa.
Ephram, dal canto suo, era rimasto nel bosco, dicendogli che sarebbe tornato alla sua dimora (la quale si trovava nelle vicinanze) a piedi.
Blake si diresse nella porta principale di casa sua, emettendo un lungo sospiro stanco.
L’idea di dover rimettere la fucina in sesto, da capo a piedi, non lo entusiasmava affatto.
Ma avrebbe dovuto farlo presto, se voleva riprendere da dove si era fermato.
Aprì la porta di casa con calma, entrando dentro.
Non aveva neanche sperato di non trovare nessuno in casa, stavolta.
Non appena la porta si richiuse, padre Craig, il quale si trovava di spalle alla porta, e che stava sorseggiando un infuso calmante in piedi, in cucina, si paralizzò.
Nonostante non avesse visto di chi si trattasse, era come se una sorta di sesto senso, un sesto senso che aveva solo per il ragazzo dietro di sè, lo avesse avvertito, e gli avesse fatto gelare il sangue.
Per poco non lasciò andare la tazza di ceramica a terra, facendola frantumare in mille pezzi.
Strinse il manico tra le dita fino a farsi sbiancare le nocche, senza voltarsi.
Improvvisamente, si sentì come quell’eroe di quel mito greco che gli avevano letto da bambino: “Non voltarti a guardarla” era stato detto all’eroe di quel racconto. “Se ti volterai a guardarla lei sparirà e la perderai per sempre”.
Blake, dal canto suo, diede un’occhiata alle spalle del prete straniero, studiando quella figura ormai così familiare a lui, una figura alla quale si era abituato in poco tempo, alla quale si era stranamente adattato con facilità. Notò che non indossava i suoi abiti monacali. Era alquanto strano vederlo con una semplice camicia bianca e dei pantaloni di lino.
Il ragazzo si spostò verso il bancone della cucina, versandosi dell’infuso caldo rimasto sul fuoco, rimanendo alle spalle di padre Craig, il quale non aveva mosso un dito, nè emesso un suono.
Blake si appoggiò con il fondoschiena al bancone, iniziando a sorseggiare il suo infuso con calma e naturalezza.
Vi era un silenzio surreale tra loro.
Una tranquillità che non vi era mai stata.
Inaspettatamente, fu Blake a rompere il ghiaccio, facendogli finalmente riascoltare la sua voce, dopo sette giorni che non la udiva:
- Sto bene – esordì con calma il ragazzo, fissando il camino a pochi metri da lui. – Mi è stato detto che eravate preoccupato – aggiunse, spiegando la sua affermazione.
Stringendo maggiormente le nocche sulla maniglia della tazza, padre Craig non perse tempo e rispose:
- Bene.
Ad ogni modo, non sono la vostra balia.
Non dovete rendermi conto di niente.
- Lo so bene.
Nella voce di Blake non c’era freddezza, in quella di padre Craig sì.
Freddezza autoimposta e una malcelata rabbia.
- Non indossate la vostra tunica – osservò Blake inclinando lievemente la testa di lato mentre guardava di sottecchi la figura del prete ancora voltata di spalle, lievemente tremante.
- Ho deciso di fare dei cambiamenti nella mia vita – rispose lapidario il giovane prete, riprendendo a sorseggiare a sua volta.
Blake annuì, riprendendo a guardare dinnanzi a sè.
D’improvviso, come un fantasma del mattino, ricomparve dinnanzi ai suoi occhi sempre la solita lugubre ed inquietante figura, al quale era oramai avvezzo:
Bonnie sorrise provocatoria, con tutti i dentini sporchi di terra, tenendosi in equilibrio su un piedino solo, poi con l’altro, in uno strano gioco infantile che le faceva svolazzare il vestitino lurido di terriccio scuro.
- “Ha cercato tutti i suoi pezzi...”
E li ha rimessi per bene insieme  completò nella sua mente il ragazzo, la solita litania che lei canticchiava di continuo.
La guardò con sguardo distratto e gli occhi stanchi.
- L’avete trovato? – la voce di padre Craig, ancora di spalle, concreta e reale, lo distolse lievemente dalla visione della bambina.
- Che cosa?
- Quello che state disperatamente cercando – disse padre Craig, attendendo una sua risposta.
Blake vi riflettè su. La scoperta improvvisa e insapettata della polvere nera e la fucina che andava quasi distrutta la notte prima, ricomparve con lucidità nella sua mente, facendolo involontariamente fremere.
Ad ogni modo, sarebbe stato meglio non far sapere ad altra anima viva della sua scoperta.
- Sì – si limitò a rispondergli, riportando lo sguardo su Bonnie, che ballava maldestramente nel salotto, con gli arti tutti rotti e snodati.
- Bene.
Sappiate che non appena lei saprà che siete uscito, vorrà parlarvi.
Blake sapeva benissimo a chi padre Craig si riferisse.
Heloisa era sicuramente alla cattedrale a pregare in quel momento, se le voci che aveva udito sulla sua quasi totale ripresa non mentivano.
Presto o tardi, l’avrebbe incrociata e il pensiero, per una volta, non lo disturbava.
Non lo angustiava un confronto con sua madre, dopo tutto quel tempo.
Blake non fece in tempo a rispondere, che la porta di casa si aprì nuovamente, rompendo la calma surreale instauratasi tra loro.
Dall’entrata comparve per primo un trafelato Ioan, tutto accaldato per la corsa.
- Padre, padre, abbiamo raccolto un sacco di stelle alpine! – esclamò il bambino correndo verso il prete per mostrargli il suo cesto colmo di fiori.
Ma non appena si accorse di un’altra presenza accanto all’entrata, Ioan si paralizzò, lasciando cadere a terra tutto il suo bottino.
Il bambino si voltò verso destra, incontrando la figura di suo fratello, impietrito quanto lui, in piedi e appoggiato al bancone della cucina, sano, vivo e vegeto.
Gli occhioni chiarissimi di Ioan si riempirono istantaneamente di lacrime salate, mentre, come un automa, il suo corpo si mosse, saltando addosso a Blake in un unico grande e disperato balzo verso di lui.
Blake, con la prontezza che lo caratterizzava soprattutto quando si trattava di lui, lo afferrò al volo, accovacciandosi e stringendolo a sè a sua volta, beandosi dell’unico contatto fisico che avrebbe voluto ricevere.
Ioan affondò il volto in lacrime nei suoi capelli, inspirando a pieni polmoni per riabituarsi al suo profumo, stringendolo come se non lo volesse mai più lasciar andar via.
Blake sorrise, con le labbra premute alla sua spalla esile, accarezzandogli la schiena e i capelli con familiarità e intimità, cercando di rassicurarlo come potè:
- Sono qui. Sono qui, Christopher.
- Non te ne andrai più...? Non ti rinchiuderai più là sotto, vero? – lo supplicò il bambino tra i singhiozzi.
Il cuore del ragazzo si spezzò dinnanzi alle suppliche di suo fratello.
Erano in quei momenti che si chiedeva se non avesse sbagliato tutto.
Erano quelli i momenti in cui gli tornavano in mente le parole di Ephram della notte appena passata, le sue domande insistenti sul perchè stesse facendo tutto questo, su cosa lo spingesse a farlo.
Blake gli prese la testa e portò le proprie labbra sulla fronte candida del bambino, baciandogliela con calma, mentre il piccolo non sembrava affatto intenzionato a lasciarlo andare.
- No. Non mi rinchiuderò più là dentro – gli sussurrò rassicurante, sentendolo rilassarsi tra le proprie braccia.
Udendo quella commovente riunione tra i due fratelli dietro di sè, padre Craig sorrise tra sè, con il cuore un po’ più leggero.
Quando Ioan si staccò da lui, lo guardò negli occhi e sorrise raggiante. – Oggi, dovunque andrai ti seguirò, Even.
- Davvero dovunque? – lo sfidò il più grande, alzando un sopracciglio castano.
- Dovunque!
- Beh allora, preparati, perchè ti porterò con me dentro la bocca di un vulcano – lo avvertì scompigliandogli i capelli e rialzandosi in piedi, rivolgendo lo sguardo verso la seconda e ultima persona rientrata in casa al momento:
Quaglia era in piedi dinnanzi a lui, che lo fissava quasi fosse una visione.
L’uomo gli si avvicinò e allungò una mano per toccarlo, come per accertarsi fosse reale.
Gli sfiorò il collo e Blake lo lasciò fare, mentre lo vedeva avvicinarsi a lui, finendo per abbracciarlo.
Un abbraccio discreto, non stretto come quello di Ioan, ma che esprimeva tutta la sua gioia nel rivederlo dopo tutto quel tempo e tutto intero.
Quaglia sospirò di sollievo, avvertendo le braccia di Blake ricambiare lievemente l’abbraccio.
- Stai bene.
- Sto bene.
Quaglia si distaccò da lui e gli sorrise. – Ora mi permetterai di tornare ad affiancarti? – gli domandò cautamente.
Inaspettatamente, Blake annuì, ricambiando il sorriso accennato.
Padre Craig udì tutto, da quella posizione, senza muoversi di mezzo millimetro, continuando a sorseggiare.
Due giorni prima avrebbe dato via l’anima per rivederlo, per abbracciarlo, per accertarsi stesse bene.
Ma, al momento, non riusciva a muovere un muscolo.
La sua razionalità dominante aveva preso il sopravvento e gli permetteva di tenere fede alla promessa che aveva fatto a se stesso: Non ne valeva la pena. Non sarebbe mai valsa la pena.
E con quella voce vorticante in testa represse la voglia di fare ciò che desiderava fare da sette giorni, giorno e notte.
Quando Blake uscì di casa insieme a Ioan, padre Craig emise un sospiro di sollievo, rendendosi conto di aver trattenuto il respiro fino a quel momento.
Solo in quel momento si accorse che Quaglia lo stava guardando.
Lo guardava con gli occhi seri e consapevoli di qualcuno che la sapeva lunga.
Tuttavia, l’uomo non gli disse nulla.
Semplicemente, si defilò dalla sua vista.
 
Judith entrò dentro la biblioteca della cattedrale del Diavolo, come stava facendo da circa tre giorni, trovandola  pulita e ben illuminata.
Quella biblioteca era enorme e bella quanto quella del Creatore, eppure nessuno ci entrava più, dato che ogni singolo monaco del Diavolo era morto durante la ribellione degli stregoni.
Una ribellione che Judith non ricordava, ma di cui aveva ampiamente sentito parlare, da quando si era risvegliata dalla sua amnesia.
Così aveva deciso di sobbarcarsi quel compito affatto sgradito, e di dargli una ripulita, ma, a quanto pare, non ve ne era così bisogno: già da quando vi aveva rimesso piede (dopo diverso tempo che non la visitava), qualche giorno prima, l’aveva trovata sin troppo ordinata.
Forse i monaci del Creatore avevano provveduto a sistemarla negli ultimi mesi.
Chissà.
Lei di certo non poteva esser stata, dato che poteva essere considerata la guardiana della biblioteca del Creatore, ma non di quella del Diavolo.
Prendersi cura di entrambe le avrebbe tolto troppo tempo e aveva sempre creduto vi fossero i monaci del Diavolo a tenerla in ordine, pulita e sistemata.
La ragazza decise di finire di controllare che la catalogazione dei tomi fosse corretta in quelle decine e decine di altissimi scaffali, riprendendo dalla parete di Storia Antica.
Ma mentre controllava la disposizione dei libri, credendo di essere sola, udì il rumore di alcuni passi, di libri che si incastravano tra loro e di pagine che si muovevano, a qualche scaffale poco distante da lei.
Alzò un sopracciglio sorpresa, credendo di esserselo immaginato: l’accesso alle biblioteche era vietato a chiunque non fosse un monaco o lei stessa, ed era altamente improbabile che vi fosse uno dei monaci in quella biblioteca, dato che al momento erano in riunione.
Ignorando quel pensiero, continuò il suo operato, fin quando non udì ancora dei rumori.
Stupita e convinta di non esserselo sognato questa volta, la fanciulla si avvicinò alla fonte di quei lievi suoni, decisa a scoprire chi si trovasse là dentro con lei.
Poi, lo vide: infilato tra il quinto e il sesto scaffale, vi era un ragazzo che le dava la schiena, in piedi su una scala, intento a tirare fuori alcuni tomi e a sfogliarli con tranquillità.
Egli si muoveva con estrema familiarità in quel luogo, e ciò fece storcere il naso a Judith, quanto la incuriosì.
Come poteva un popolano, ai quali l’accesso ai luoghi di cultura era categoricamente vietato, muoversi in quella biblioteca quasi come se ci abitasse dentro?
Ma soprattutto, come poteva un popolano essere in grado di leggere??
Nulla di tutto ciò quadrava a Judith, la quale restò ad osservarlo di soppiatto, nascosta dietro il quinto scaffale.
Nonostante la sua schiena e tutta la parte posteriore del suo corpo fosse l’unica cosa che riuscisse a vedere di lui da quella posizione, era certa si trattasse di un servo del Diavolo.
Il ragazzo scese dalla scala e si diresse verso il grande tavolo in mezzo alla biblioteca, spingendo Judith a nascondersi ancor più segretamente dietro lo scaffale, per non farsi vedere.
La ragazza lo vide restare in piedi mentre leggeva il tomo con attenzione, per poi abbassarsi con il volto sulle pagine, estremamente interessato al suo contenuto.
Dopo circa cinque minuti trascorsi a guardarlo e a studiarlo di soppiatto, la ragazza mosse un passo e prese una lieve storta alla caviglia a causa del tacco, un rumore che rimbombò in tutta la biblioteca, distraendo il ragazzo.
Egli alzò lo sguardo dal tomo, dandosi una distratta occhiata intorno, senza notarla, in quanto la ragazza era ancora nascosta.
Tuttavia, non sembrava atteggiarsi furtivo o temere di essere scoperto.
Era come se tutti sapessero della sua permanenza lì e ne fossero d’accordo.
Tutti tranne Judith.
Il ragazzo tornò a concentrarsi sul tomo, emettendo tuttavia delle parole che sorpresero la fanciulla:
- Se siete venuto per dirmi che il mio tempo da passare qui dentro è scaduto, fate pure, ma sappiate che resterò ancora un po’. Dunque potete anche smettere di nascondervi e uscire allo scoperto per farmi la ramanzina riguardo tutte le regole che non rispetto faccia a faccia, padre Thomas – disse con voce annoiata, continuando a leggere le pagine.
La sua voce era sicura di sè, calda e bella da sentire.
A ciò, Judith convenne che fosse il momento di uscire davvero allo scoperto e di presentarsi al misterioso sconosciuto, quantomeno per capirci qualcosa.
Fece risuonare i tacchi sul pavimento, avvicinandosi a lui da dietro.
Si schiarì la voce e iniziò a parlare, facendo ben comprendere di non essere padre Thomas:
- È la prima volta che vedo un popolano entrare in una delle biblioteche e la cosa mi lascia alquanto perplessa - esordì, ottenendo in parte la reazione che si aspettava, in parte qualcosa che la lasciò basita:
Non appena udì la sua voce, il ragazzo sussultò e si voltò verso di lei in uno scatto, mostrandole il suo volto esterrefatto, quasi come avesse appena visto un fantasma.
In quel momento Judith ebbe finalmente modo di osservarlo meglio: i suoi grandi e luminosi occhi blu si spalancarono all’inverosimile, le labbra si schiusero per la sorpresa, le sue mani si arpionarono al tavolo, ora dietro di lui, come per reggersi in piedi.
Era alto e slanciato, era un suo coetaneo, possedeva un corpo invidiabile, folti capelli scuri legati e presumibilmente lunghi, e sì, come aveva immaginato, era decisamente un servo del Diavolo.
Judith rimase allibita a sua volta dalla reazione esagerata del ragazzo non appena l’ebbe vista.
- Scusatemi... mi avete già vista? Per caso mi conoscevate prima che perdessi la memoria? – azzardò Judith con un fil di voce, mentre continuava a guardarlo.
Ma non appena porse quella domanda, lo sconosciuto si riscosse dallo sconcerto e sembrò tornare in sè. - No - le rispose lui, con voce apparenemente calma. – Non vi ho mai vista.
- Ah.. perchè dalla vostra reazione sembrava aveste visto uno spettro.
- Mi avete semplicemente spaventato, tutto qui – le spiegò lui, rivolgendole un mezzo sorriso di circostanza, tornando a guardare il suo tomo.
- Ad ogni modo.. – riprese Judith, lievemente offesa dal fatto che lui la stesse già ignorando. – Avete mai sentito parlare di me?
A tal domanda, Blake rialzò gli occhi dal tomo e li riportò su quella nuova Judith, che lo guardava con insistenza.
Non poteva bastare averla incontrata. A quanto pare la ragazza aveva anche voglia di intavolare una coversazione.
Perfetto.
Avrebbe voluto dirle che non la ricordava così altezzosa, e che la cosa inaspettatamente lo divertiva, ma si morse la lingua prima di dire qualsiasi cosa.
Si morse la lingua prima di chiamarla per nome.
Prima di dirle tutto quello che non le aveva mai detto e che avrebbe dovuto dirle molto tempo prima.
Prima di dirle quanto fosse immensamente felice di rivederla.
Se solo avesse saputo che vi fosse la probabilità di incontrarla lì, non vi avrebbe affatto messo piede. 
Judith non andava mai nella biblioteca del Diavolo.
Perchè, proprio quel giorno, doveva trovarsi lì e ucciderlo lentamente con la sua sola presenza, con i suoi soli occhi estranei su di lui?
- Siete la pupilla dei monaci? – le disse, vedendola sorridere affermativamente.
- Non ve l’ho chiesto per vantarmi, ci sono un sacco di persone che non sanno chi sono, d’altronde.
Era per farvi comprendere per quale motivo ho il diritto di trovarmi qui, dato che l’accesso alle biblioteche è-
- Vietato ad ogni popolano, sì, lo so – la interruppe lui.
La fanciulla si stava innervosendo per tanta sconsideratezza, almeno quanto si stava incuriosendo.
- Allora, ditemi: per quale motivo un servo del Diavolo che non ha preso i voti si trova qui? E perchè, da come parlavate poco fa, sembra che ogni monaco che mi ha cresciuta sia a conoscenza della vostra presenza qui, e la accetti per di più, mentre io non ne so nulla? – chiese lei impaziente.
Blake vi rifletté su qualche istante, senza scervellarsi troppo. – Non sono affari miei se i vostri monaci non vi hanno informata. Forse hanno convenuto di non farlo perchè sapevano avreste reagito così.
- State forse insinuando io sia troppo rigida e irascibile?
- State facendo tutto da sola, signorina.
- Da quanto tempo sgattaiolate dentro la biblioteca del Diavolo con il benestare dei monaci?
- Da un po’.
- Se così fosse... come mai non vi ho mai visto qui in questi ultimi giorni?
- Magari non mi avete notato.
- Impossibile, non siete certo uno che passa inosservato. Mi sarei sicuramente ricordata di voi – si lasciò sfuggire lei.
A ciò, Blake emise un lieve sorriso storto, osservandola. – Mi avete scoperto: sono stato .. impegnato, in questi ultimi giorni. È la prima volta che torno dopo diverso tempo.
- Voi... sapete leggere. Come avete fatto? – continuò lei imperterrita, sempre più interessata a quel bizzarro ragazzo.
- Ho imparato – rispose lui con semplicità.
- Da solo?
- Quasi. Mi ha aiutato la mia balia, da piccolo.
Judith avrebbe voluto fargli i complimenti, e al contempo rivelargli quanto fosse internamente felice di aver finalmente trovato qualcuno che sapesse leggere come lei, e che non fosse uno dei monaci.
- Io ho imparato grazie ai monaci – gli disse. – Sono i vantaggi di essere la loro protetta – aggiunse, distogliendo lo sguardo da lui e posandolo sul tomo che egli stava leggendo. – Ditemi: come avete fatto a convincere i monaci a farvi entrare qui indisturbato? Solitamente sono molto intransigenti sulle regole di Bliaint – domandò dubbiosa la ragazza.
A ciò, Blake affilò lo sguardo furbo. – Credete che vada a rivelare i miei trucchi alla prima sconosciuta che incontro?
Riconoscendo la logica di quel ragionamento, Judith si lasciò andare e sorrise a sua volta. – Sapete.. è strano per me incontrare qualcuno, qualcuno come me, che non sia un monaco, che sappia leggere e che sia acculturato – confessò con una certa eccitazione.
- Lo è anche per me.
- Posso domandarvi cosa state leggendo?
A ciò, Blake riappoggiò lo sguardo sul tomo aperto. – Non è semplice da spiegare – le disse, cercando di svignarsela così.
- Provateci – lo incoraggiò lei, guardandolo con quegli occhi da cerbiatta, neri e penetranti, a cui nulla poteva essere negato. 
- Conoscete l’alchimia? – rispose lui tornando a guardare le pagine. Il suo profilo era stanco e velato di una cupezza che Judith non aveva notato prima: i suoi bellissimi lineamenti erano appesantiti da qualcosa, un fardello che la ragazza non poteva comprendere.
- Vagamente. Siete uno stregone?
- In certi momenti vorrei esserlo. Sarebbe tutto più facile – confessò lui. – Ma poi rinsavisco e torno in me.
- Siete contro l’uso della magia?
- Nella maggior parte dei casi.
- Io ultimamente la sto sperimentando – ammise lei. – Non direttamente, ma grazie ad una donna che la pratica, la quale mi è molto vicina. Devo dire che mi sto ricredendo. Non fraintendetemi: continuo a pensarla per lo più come voi, e a non approvarne l’utilizzo sconsiderato, tuttavia... ora riesco anche a coglierne i benefici. Grazie a lei sto riuscendo persino.. a mettermi in contatto con i miei bambini – disse toccandosi il rigonfiamento sulla pancia, domandandosi internamente come mai stesse rivelando a quel ragazzo tutto ciò.
- Davvero? – domandò lui sinceramente sorpreso, ponendo le braccia conserte.
Judith annuì con un sorriso, per poi cambiare argomento:
- Dunque.. siete un uomo di scienza. Immagino vi piaccia la concretezza e che le vostre letture si accodino a  questi gusti – suppose.
A ciò, Blake roteò gli occhi al cielo.
- Cosa c’è? – domandò lei.
- Riconosco quello sguardo: lo sguardo di qualcuno che ama la poesia e che sta per dirmi che le letture “concrete” non fanno per lei.
Judith si permise di sorridere, stupefatta. – Mi avete beccata. Ma non amo solo le poesie. Mi piaccono anche i racconti di fantasia – aggiunse lei. Era davvero bello poter parlare a qualcuno delle letture che le interessavano. - A voi no?
- No – rispose lui senza esitazione.
- Davvero? Vi piaccono solamente i libri di alchimia e quei tristissimi tomi pieni di formule matematiche?
- Non sono tristissimi – si difese lui. – Sono reali, pratici e concreti. Non come le vostre storielle.
- Ah sì? – domandò lei ponendo le braccia conserte a sua volta e guardandolo con un ghigno a metà tra la sfida e la curiosità. – Permettetemi di farvi ricredere, mio signore.
- Sono tutt’orecchie.
- C’è un racconto che vi consiglio e che vorrei leggeste. Ho il presentimento potrebbe rientrare nei vostri gusti, nonostante non vi conosca.
- Di che si tratta?
- Non ha titolo e non si sa chi sia l’autore o l’autrice.
- Come posso trovarlo allora?
- Ve lo darò io personalmente. Lo tengo nelle mie stanze.
A ciò, il ragazzo affilò lo sguardo, in attesa. – Continuate.
- Il racconto parla di un’ossessione. Un’ossessione e il terribile peso del libero arbitrio.
La storia inizia con un uomo talmente ossessionato da una donna, da cercarla fino in capo al mondo.
Egli è talmente innamorato di lei, da desiderare persino i suoi figli. A ciò, la donna scappa da lui, ma l’uomo, in qualche modo, la trova sempre. I due figli, stanchi di tal situazione opprimente, escogitano un piano: il fratello propone alla sorella di uccidere la madre per liberarsi del fardello dell’uomo, che non li inseguirà più non appena la donna sarà morta e la sua ossessione per lei svanita con ella. Ma la sorella rifiuta di mettere in atto un piano tanto egoistico e brutale.
Blake, il quale la stava ascoltando assorto, in piedi di fronte a lei come lo era da quando si erano incontrati, la esortò a continuare: - Ora avete stuzzicato la mia curiosità: avanti, continuate.
- Volete conoscere il finale? Lo leggerete comunque, anche se vi rivelerò il finale? – chiese conferma lei, fiera di vederlo interessato.
A ciò, il ragazzo si mise una mano sul petto e le fece il favore di suggellare quella promessa: - Ci troviamo dentro la nostra cattedrale, perciò il Diavolo mi è testimone: lo giuro.
- Bene. Dunque, dove ero rimasta?
Il Diavolo viene in soccorso della ragazzina e gli propone un patto: Lui le darà il potere di comandare su tutti gli uomini indistintamente (dunque anche sull’uomo che li perseguita), ma in cambio lei dovrà uccidere suo fratello. Lei accetta, ma senza l’intenzione di uccidere davvero il fratello, difatti non lo fa, infrangendo il giuramento.
In compenso, il potere le dà alla testa e comanda il ragazzo a bacchetta, così come comanda su tutti gli altri uomini, tra cui il loro persecutore. La ragazza decide di donare quel potere anche a sua madre, ma la madre non lo usa con equilibrio e finisce per tiranneggiare su tutti gli uomini, in modo molto più crudele della figlia. A ciò, in preda alla disperazione e pentendosi delle sue scelte, la ragazza finisce per uccidere sua madre.
Alla fine, ella scopre che quella non era davvero sua madre, e che la vera madre aveva venduto lei e suo fratello per una manciata di grano ad una sconosciuta.
- Oh.. – commentò il ragazzo, stupito. – Interessante sviluppo.
- Già, non credete?
Tante volte mi sono fermata a pensare a cosa avrei fatto io al posto della ragazza, a come avrei agito.
Provo sentimenti molto aspri verso la vera madre dei due fratelli, per averli venduti alla prima persona apparsa nel suo cammino, senza accertarsi se sarebbero stati o no in buone mani.
Nonostante non appaia nel racconto, ma venga solo menzionata, me la sono sempre immaginata, vivida davanti a me: l’avrei uccisa con le mie mani. L’avrei cercata, l’avrei cercata ovunque, con l’unico scopo di ucciderla. Poi avrei continuato la mia vita senza guardarmi indietro – concluse Judith, alzando poi lo sguardo sul ragazzo, per osservare la sua reazione:
Egli la guardava riflessivo, ripensando a quella storia.
I suoi occhi irrequieti e stanchi turbinavano in pensieri a lei celati.
- E voi? – gli domandò, riscuotendolo, come naturale conseguenza del suo discorso.
- Io cosa?
- Voi cosa avreste fatto invece? Se foste stato al posto della ragazza?
Eccola, la domanda che avrebbe dovuto aspettarsi, sin dall’inizio.
La solita domanda che Judith, la vecchia Judith, non faceva altro che porgli, nei momenti meno opportuni:
“- Voi che cosa avreste fatto se foste stato al mio posto?
- Mi state chiedendo cosa sarei diventato se avessi vissuto tutto quello che avete vissuto voi?
- Esattamente. Come avreste agito?
- Io non sono voi, Judith.
- Lo so. Per questo ve lo sto chiedendo.
- È impossibile determinare come sarebbero andate le cose.
- Provateci.
- Io non sarei qui.
Non avrei scalato la gerarchia come avete fatto voi, non mi sarei ingraziato il clero come avete fatto voi, non avrei assunto un grado così alto come avete fatto voi, non avrei fatto buon viso a cattivo gioco, non sarei riuscito a reggere qui dentro per più di due anni.
Niente di tutto questo, Judith.
Ora che sapete ciò, vi sentite rincuorata?
- Che cosa avreste fatto, allora?
- Me ne sarei andato via da Bliaint. Lontano da qui.
- Voi … volete andarvene, non è vero?
... quando e se mai lascerete Bliaint, dove volete andare?”
- Allora? – riattirò la sua attenzione lei, genuinamente impaziente di conoscere la sua risposta, come lo era sempre stata.
Come se la risposta di lui avrebbe mai potuto cambiare le cose.
Avrebbe voluto chiederglielo, ora che erano due sconosciuti, come mai le interessasse tanto il suo punto di vista sul mondo.
- Volete sapere come mi sarei comportato se avessi scoperto che la mia vera madre mi ha venduto come fossi un oggetto, facendomi passare le disgrazie che ha vissuto la ragazza del racconto?
- Sì, esatto.
- L’avrei cercata anche io – rispose lui con sguardo neutro, distaccato. – L’avrei cercata per conoscerla, prima. Mi sarei preso il tempo di cui avessi avuto bisogno per conoscerla. E solo allora, dopo averla conosciuta, l’avrei uccisa con le mie mani – le rispose senza battere ciglio.
- Per un attimo ho temuto mi avreste detto che avreste accettato la proposta del fratello all’inizio del racconto, uccidendo quella che credevate vostra madre solo per sbarazzarvi del persecutore.
Blake alzò un sopracciglio. – Mi credete un senzacuore?
Judith non rispose subito, si prese il suo tempo. – Mi sembrate una persona molto determinata e fredda. Una persona che farebbe di tutto per ottenere quello che vuole e che non teme di sporcarsi le mani. Forse è solo una mia sensazione. Vi ho offeso?
- Affatto. Ci vuole ben altro per offendermi.
Ad ogni modo, la vostra domanda non era questa.
Mi avete solo chiesto cosa avrei fatto in merito alla vera madre, non alla donna che li aveva cresciuti.
- Avete ragione. Perchè avreste voluto conoscere la vostra vera madre?
- Per scoprire come fosse.
- Per quale motivo, se tanto lo scopo sarebbe stato comunque quello di ucciderla?
Il ragazzo alzò le spalle. – Forse per scoprire qualcosa su di me.
- Non lo avreste fatto nella speranza di cambiare idea su di lei e di risparmiarla?
- No.
- Non ci credo – disse lei. – Se io l’avessi conosciuta.. non credo sarei comunque riuscita ad ucciderla a sangue freddo.
- Perchè dite così? Solo perchè sarebbe stata sangue del vostro sangue?
Judith ammutolì, non riuscendo a trovare una risposta giusta da dare.
- Se invece.. vostra madre vi avesse ceduto ad una persona fidata, che avrebbe potuto prendersi cura di voi, e si fosse assicurata che foste al sicuro, seppur restando lontana .. l’avreste giudicata alla stesso modo? – gli domandò improvvisamente la ragazza, temendo la risposta.
- Immagino di no. La madre del racconto l’avrei uccisa senza esitazione, perchè a causa sua avrei vissuto degli eventi che mi avrebbero rovinato la vita, a prescindere dal fatto che fosse mia madre o no: il suo abbandono sconsiderato ha provocato tutte le sofferenze della figlia. Nel caso che mi avete posto voi, invece, non avrei avuto interesse nell’ucciderla, anzi, le sarei stato grato.
- Nonostante vi avesse abbandonato?
- Che importanza avrebbe? – le domandò.
- Cosa intendete?
- Che importanza avrebbe essere cresciuto da una vera madre, con cui si condivide il sangue, o da una madre adottiva? – disse lui con naturalezza.
- Beh, l’avrebbe – controbattè lei.
- Perchè?
- Perchè vi è un fattore biologico alla base. Un attaccamento che ha origine dal ventre della madre naturale.
- Lo dite per esperienza, perchè lo state sperimentando anche voi? – le domandò lui, cogliendola di sorpresa.
Judith si accarezzò la pancia, poi ritornò con lo sguardo sul ragazzo.
Quella conversazione la stava stimolando e galvanizzando in qualche modo.
- Posso chiedervi come mai siete qui proprio oggi? – gli domandò all’improvviso, curiosa di scoprire di più.
- Devo fare delle ricerche. A dir la verità, è ora che vada, devo andare a riprendere mio fratello.
- Avete un fratello?
- Sì, è venuto con me oggi, ma si è fermato a salutare una sua amica che abita nelle vicinanze. Gli ho detto che sarei passato a riprenderlo non appena avessi finito qui – gli spiegò il ragazzo, puntando gli occhi sul maestoso pendolo appeso ad una delle pareti.
Judith guardò l’orario e si sorprese nell’accorgersi che fosse passato più tempo di quanto si aspettasse da che l’aveva incontrato e aveva iniziato a parlare con lui: un’ora, volata via completamente.
- Ad ogni modo, che maleducata sono stata: il mio nome è Judith. Arley Judith. Avrei dovuto presentarmi molto prima.
- Onorato, Judith – le rispose lui.
- Qual è il vostro nome?
Ma il ragazzo non ebbe il tempo di rispondere, in quanto i due furono interrotti dalla voce di un monaco in lontananza:
- Judith, cara, sei dentro la biblioteca? Ho un incarico per te, sto arrivando.
La voce di padre Thomas era vicina, perciò Blake riportò lo sguardo su Judith, la quale, granitica come sempre, non sembrava aver gradito quell’inaspettata interruzione.
- Vi auguro una buona giornata. Lasciatemi il racconto di cui mi avete parlato qui, su questo tavolo, così la prossima volta che verrò lo troverò – le disse, per poi avviarsi verso l’uscita della biblioteca.
- Aspettate – lo bloccò lei, confusa e stranita. – Non mi avete ancora detto il vostro nome. Se ve ne andate senza dirmelo, vi annovererò come sgarbato, scortese e persino cafone.
A ciò, Blake rise di gusto, una risata dal sapore dolceamaro che durò un battito di ciglia. – Avrebbe importanza?
- Certo che la avrebbe – gli rispose Judith. – Per me l’avrebbe.
- No, non l’avrebbe – le rispose. – Non l’avrebbe se non ci incontrassimo più – terminò lui.
- Beh.. allora sperate di non incontrarmi più.
- Addio, Judith.
Detto ciò, lo sconosciuto uscì dalla sua visuale e dalla biblioteca, lasciandola in balìa di un vuoto e di un’anomala mancanza ai quali la ragazza non seppe dare un nome.
 
 
Il ragazzo era inginocchiato, ai piedi dell’altare, del crocefisso voltato al contrario.
Aveva appena terminato la quinta sessione di purificazione della giornata con uno dei monaci, e i suoi capelli del color della luna erano ancora totalmente bagnati e gocciolanti di acqua fredda.
Il suo volto era piegato verso il basso, la sua preghiera al Diavolo tacita tra le sue labbra scure, tremanti per il freddo.
Una presenza improvvisa si inginocchiò accanto a lui.
Il ragazzo, tuttavia, non si voltò verso di lei.
La sua mente era altrove.
Il sapore del sangue ancora tra le labbra, anche a distanza di giorni.
- I miei genitori narravano spesso a me e a mia sorella, leggende sulle strigi – esordì quella voce femminile ma tremendamente roca e spaventosa, che ricordò come familiare, per qualche motivo.
Tuttavia, decise comunque di non voltarsi a guardarla, e di rimanere con lo sguardo fisso ai piedi del crocefisso al contrario, nell’esatto punto in cui, quella notte, aveva trovato il corpo seminudo di Judith riverso in posizione innaturale, in una pozza di sangue.
- Che leggende? – le domandò in un fil di voce il ragazzo.
Sapeva che le descrizioni e le dichiarazioni di Allister Chaim riguardo le visioni avute quella notte sulle creature ultraterrene fossero note a tutti, ma non credeva che i servi del Creatore ci avessero ricamato sopra, aizzando con le loro paure e le loro fantasie quelle leggende, tramandandosele persino.
- Mia madre ci narrava di due fratelli, fratello e sorella, che compaiono di notte alle porte di chiunque sia giovane abbastanza da aizzare i sensi e le voglie delle due creature.
Creature belle come il Diavolo in persona. Ma perfide, tremende, spietate, atroci.
Il loro aspetto è quello di fanciulli tra i quindici e i diciotto anni.
La loro violenza è nota e incomparabile con quella di qualsiasi essere umano.
La loro forza non è da meno.
Folker deglutì, restando a guardare quel punto ai piedi dell’altare, con sguardo fisso, mentre ascoltava quella voce accanto a lui continuare a parlare:
- Diceva che una notte, i due terribili fratelli fecero visita ad un rifugio di bambini orfani, fingendo di essere orfani a loro volta, di avere fame e sete, di necessitare un posto dove dormire.
La vecchina che presiedeva il rifugio li accolse, ovviamente, intenerita dal loro aspetto camuffatamente innocente e trasandato, e al contempo incantata dai loro visi.
Quella notte, le due strigi fecero strage di bambini, trasformando ogni fanciullino e fanciullina presenti nel rifugi in mostri succhiasangue come loro.
Folker, per la prima volta, si voltò a guardarla, riconoscendo in lei il volto ripugnante e distorto dalla perfidia della serva del Creatore che aveva quasi ucciso Judith quella notte.
Ella si voltò a guardarlo a sua volta, paralizzandolo sul posto. – Avresti dovuto lasciarmela uccidere quella notte – gli disse in un ringhio sprezzante. – È colpa tua se lei è ancora viva.
- Come sei arrivata qui?
- Non me lo ricordo.
- Come mi hai trovato?
- Mi è bastato seguire la puzza di sangue.
- Tu menti – le disse lui alzandosi in piedi, indietreggiando.
A ciò, lei lo osservò e gli sorrise diabolica.
- Stai ribollendo di rabbia, non è vero, strige?
- Sta’ zitta.
- Sei un soggetto davvero interessante, sai?
Talvolta il tuo volto è quello di un’arpia, pregno di una malignità perversa e divorante che si manifesta in uno di quei sorrisini che a pochi lasci il privilegio di vedere, un inno alla pura crudeltà.
Altre volte, la maggior parte delle volte, mostri l’espressione spaurita e stralunata che hai ora, quella che cerca di impietosire chi hai davanti, un mascheramento ridicolo e insensato di una natura che scalpita per uscire.
Perchè non lo lasci uscire?
- Smettila.
- Perchè non scateni il mostro che c’è in te?
Perchè non lasci vedere a tutti di cosa il tuo animo puro e demoniaco è capace?
- Ho detto di stare zitta! – esclamò lui indietreggiando ancora, percependo le lacrime montargli ai lati degli occhi, stringendosi convulsamente i capelli tra le dita.
- Ti manca poco, non è vero? – persistette Layla, alzandosi in piedi a sua volta e avvicinandosi, ghignando soddisfatta. – Ti manca pochissimo per lasciarlo uscire di nuovo. A nulla sono servite quelle inutili torture a cui ti sottopongono. Ma non ho tempo da perdere con te, sfortunatamente.
- Che cosa vuoi??
- Lo sai che aspetto hanno i bambini-strige?
Mia madre ce li descriveva sempre, con estrema minuzia: i volti lisci, le bocche sempre assetate, sempre affamate, che succhiano e mordono tutto quello che capita loro sotto i denti, con i dentini perennemente sporchi di sangue e la lingua rossa, lunga e snodata. Alcuni ce l’hanno anche biforcuta, come quella dei serpenti. Le labbra bianche, incolore. Gli occhi vuoti. Come i tuoi.
- Smettila!! – esclamò lui, vedendola avvicinarsi a lui. – Sta’ lontana da me!
- Altrimenti?? Cosa vuoi fare? Vuoi mordermi fino a togliermi il respiro, prosciugandomi il sangue e gli organi interni?? Cosa vuoi fare, strige?! – lo provocò lei scoppiando a ridere istericamente.
A ciò, l’espressione di Folker e la sua voce, mutarono completamente:
- Mi disgusti – sputò schifato.
- Cosa ti disgusta? Dillo, avanti, servo del Diavolo.
- La tua faccia.
La tua voce.
I tuoi occhi.
Il tuo corpo.
Tutto mi disgusta di te – le disse sprezzante, ora avvicinandosi a lei con infinita lentezza.
- Bravo. Ora ti vedo davvero.
- Chi sei tu?
- La parte migliore di una donna.
Così come tu sei la parte migliore di un uomo.
Fu a quel punto che il ragazzo accontentò quel fastidioso formicolio che persisteva e permeava il suo essere come lava incandescente, persino quando era incosciente.
Senza più alcun freno, la colpì con un violento pugno in faccia, ridendo di gusto, non potendone fare a meno.
La sensazione di averla picchiata lo allettò e lo rinvigorì talmente tanto da accendergli tutti i sensi.
La picchiò ancora e ancora, colpendola con calci e pugni, sprezzante, e sorridendo malignamente ogni volta che la vedeva annaspare in cerca d’aria, tossire e sanguinare.
- Potrei ucciderti con un unico calcio ben assestato sul petto, sai? – le domandò infine, con la sua voce schifata e arrogante, puntandole la suola dello stivale sul collo per impedirle di rialzarsi in piedi. - I monaci mi ringrazierebbero, dato che sei stata tu a ridurre in fin di vita la loro protetta.
- Fallo, strige – lo incoraggiò lei, sorridendo senza un briciolo di terrore o vergogna, anzi, soddisfatta del risultato ottenuto.
- Non azzardarti mai più a chiamarmi così.
- Fallo, e vedrai quanto piacere proverai!
- Tu sei pazza.
- E tu sei senza anima.
Non puoi essere salvato.
Mai potrai esserlo.
Folker la lasciò lì.
Si fermò un attimo prima di fare danni irreparabili, lasciandola ferita e sanguinante ai piedi dell’altare.
Scappò via, come ultimamente faceva sempre più spesso, tornando a casa.
Ignorò le domande di sua madre, che lo vide rientrare trafelato, col fiatone e le mani sporche di sangue, e si chiuse in camera.
Si asciugò convulsamente le mani e le braccia, fino a togliere ogni traccia e frammento di sangue di quella donna; poi, sentì l’esigenza per l’ennesima volta di bere un po’ d’acqua, e tenerla in bocca quel tanto che bastasse per autoconvincersi di non sentire più il sapore di sangue in bocca, da quella notte.
Si specchiò dentro l’acqua contenuta nella bacinella, scoprendo i denti, ossessionato e terrorizzato all’idea di vederli sporchi di sangue. Eppure erano bianchi, non sembravano appuntiti, nè rossi, apparivano del tutto normali.
Si rannicchiò sul suo letto, stringendosi le ginocchia al petto.
Dopo un tempo che gli parve infinito, che impiegò a cercare di rimanere sveglio, combattendo il sonno incombente, sua madre bussò alla porta.
Il ragazzo mugolò. – Lasciami in pace...
- Dietrich, caro, c’è qualcuno per te.
- Non è possibile ci sia qualcuno per me – le rispose infastidito. L’unica che avrebbe potuto volerlo vedere era Bridgette, ma la fanciulla non sarebbe mai arrivata al punto di presentarsi a casa sua. – Non voglio vedere nessuno – aggiunse.
Tuttavia, nonostante il suo negato consenso, qualcuno entrò nella stanza, richiudendo la porta dietro di sè.
- Ti avevo detto che non volev- ma le parole gli morirono in bocca nel momento in cui alzò la testa dal cuscino e individuò l’imponente figura di Ambrose in piedi davanti alla porta.
Rimase senza parole a fissarlo, fin quando non fu lo stesso servo del Creatore a schiarirsi la voce e a prendere la parola. – Prima che tu dica qualsiasi cosa, prima che mi cacci via a calci, voglio che mi ascolti. Che ascolti tutto quello che ho da dire – chiarì. – Poi sarai del tutto libero di cacciarmi via.
Il ragazzo attese un qualsiasi segno di consenso da parte di Folker, il quale continuava a guardarlo stupito, senza emettere un suono.
Almeno, non lo stava platealmente fuliminando con lo sguardo e già questo era qualcosa.
- Mi ascolterai? – gli domandò diretto il moro, impaziente.
- Parla – gli rispose semplicemente il biondo, quasi in un sussurro.
Non assunse una posizione di minaccia, nè di difesa, rimase semi seduto sul proprio letto, in attesa che il suo unico amico spiccicasse parola.
- Sono qui perchè voglio dirti tutto quello che penso.
Non mi sta bene che giudichi le mie azioni e le mie parole senza che io mi sia spiegato.
Non ti permetterò mai più di giungere a conclusioni affrettate – mise le cosa in chiaro Ambrose, con una determinazione che non avrebbe mai creduto di avere. – Io non mi sono avvicinato a te per l’attrazione fisica che provo nei tuoi confronti, Folker. Se avessi avuto qualsiasi altro aspetto, l’esito sarebbe stato lo stesso: ti avrei chiesto una tregua e saremmo diventati amici.
Il tuo carattere è uno dei peggiori esistenti su questa terra, e anche se non ho di certo visitato il mondo, posso dirlo con certezza.
Dunque non lo so, detto sinceramente.
Non so perchè la tua personalità, il tuo modo di essere mi attiri così tanto, e mi piaccia, per lo più.
So solo che questi giorni senza di te sono stati a dir poco infernali – ammise, abbassando lo sguardo afflitto.
- Mai nessun amico mi è mancato quanto mi sei mancato tu.
Mi sono mancate le chiacchierate con te, le passeggiate, gli insulti velati, fare le compere al mercato e le gare di corsa su per la collinetta.
Mi piace l’idea di svegliarmi la mattina e sapere che ti incontrerò, che potrò essere una roccia e un conforto per te, non appena uscirai da quella cattedrale maledetta, dopo ogni rito di purificazione.
Il mio cuore... batte più veloce del normale ogni volta che penso a te, e credimi, posso garantirti che non è dovuto al fatto che tu sia bellissimo.
Siete tutti bellissimi, eppure con gli altri servi del Diavolo non mi sento così.
Solo con te.
Rimasto in silenzio, ad ascoltarlo con attenzione fino a quel momento, con gli occhi sgranati per la sorpresa, il cuore di Folker si scaldò, e così le sue membra infreddolite.
Avrebbe voluto sorridergli, ma era ancora in parte arrabbiato con lui, per aver osato toccarlo senza il suo consenso.
Inoltre, si sentiva anche in parte in colpa nei suoi confronti: aveva giaciuto con Bridgette diverse volte da quando aveva litigato con Ambrose, e anche se Ambrose sembrava sapere che non avrebbe mai potuto avere il suo cuore, gli avrebbe comunque fatto male scoprire che lui fosse stato con un donna.
Questo, Folker riusciva a comprenderlo.
- Quello che provi per me.. – si azzardò a rispondere il biondo, dopo diversi istanti di silenzio. – Che cos’è? Lo hai capito?
A ciò, Ambrose si trovò, per la prima volta da quando era entrato in camera sua, in difficoltà: guardò ovunque tranne che in direzione del suo interlocutore, torturandosi le dita con le mani.
- Io sto cercando di comprenderlo.
Ma non è facile.
Mi piaci. Questo è certo.
- Ti piaccio come dovrebbe piacerti una donna – realizzò Folker, con voce tranquilla e priva di qualsivoglia tono d’accusa.
- Sì.
- Però vuoi essermi amico.
- Mi importa solo  di esserti amico. Non voglio null’altro da te.
- Ne sei sicuro? – lo mise alla prova il biondo.
- Sicurissimo.
So che non potresti mai provare niente nei miei confronti, e mi va benissimo così.
Non cerco altro.
- Eppure mi hai baciato, quella volta.
- Non sapevo non fossi tu! – si difese il moro. – Non lo avrei mai fatto, altrimenti! Ti ho baciato solo perchè chiunque abitasse il tuo corpo quel giorno, ha ricambiato e voleva la stessa cosa che volevo io, inizialmente.
- Inizialmente?
- Di punto in bianco mi ha scacciato ed è scappato via. Forse.. ha una coscienza anche lui...
- Come può una persona che abita il corpo di qualcun altro, facendoci ciò che più gli aggrada, avere una coscienza...?
- Lo vorrei morto quanto lo vuoi morto tu, Folker. Odio quello che ti ha fatto, e che ti sta facendo – affermò il moro, con la voce intrisa di rabbia.
- Anche se ti ha permesso di toccarmi?
- Ovvio!
- Quindi non ti approfitteresti di me, se io non fossi nel mio corpo.
- Folker, come puoi anche solo pensarlo?? Hai ascoltato una sola parola di quello che ho detto finora?! – esclamò Ambrose, ferito e frustrato per essere messo alla prova in tal modo. Strinse i pugni e sibilò: - Perchè sei così diffidente nei miei confronti? Ti faccio paura a tal punto? Esiste un modo per far tornare tutto come prima? Per riguadagnare la tua piena fiducia?
- Non mi fai paura – affermò il biondo, risdraiandosi sul letto, con il viso rivolto verso il soffitto.
Ambrose si rese conto solo in quel momento di quanto la voce del ragazzo risultasse atona, lontana, priva di vitalità.
Ciò lo preoccupò e non poco.
- Non ho mai avuto paura di te, Ambrose – ammise Folker. – Al contrario, nonostante tutto, mi sento al sicuro al tuo fianco. Mi dà fastidio il fatto di aver bisogno di sentirmi al sicuro.
Percepisco delle mani fantasma su di me, che mi toccano.
È una sensazione che ho costantemente, da qualche giorno, e non è piacevole.
Mi strapperei via la pelle di dosso pur di non sentirle più – pronunciò in tono distante, come distaccato dalla realtà, continuando a guardare verso l’alto.
- Posso sedermi? – gli domandò Ambrose.
Folker annuì, e il ragazzo prese posto sul letto affianco al suo.
Il biondo voltò la testa verso di lui, perdendosi nei ricordi legati a quel letto.
- C’era un periodo.. in cui non la smetteva mai di cantare.
Cantava e ballava sempre, come una trottola.
Io non ne potevo più. Ero talmente snervato da questa cosa, che fingevo non fosse mia sorella davanti ai miei amici.
Mi vergognavo di lei, della sua molesta vivacità, della sua energia.
Quando cantavo per lei erano gli unici momenti in cui si calmava.
Ambrose sorrise, a quel racconto, carezzando distrattamente le coperte sotto di sè. – Doveva essere una bambina simpaticissima, Bonnie.
- Lo era – confermò il biondo, accennando un sorriso spezzato. – Era anche dolce. Tutta la dolcezza che non ricevevano da me, i miei genitori la ricevevano da lei.
Amava da morire andare a giocare in quella maledetta galleria, aspettando che mio padre finisse di lavorare.
Quella è stata la sua condanna.
- Ti somigliava? – gli domandò Ambrose guardandolo.
Folker annuì, perdendosi ancora nei ricordi. – I capelli biondi erano meno chiari dei miei, sempre in disordine. I suoi occhi... li ha presi da mia madre: tondi e infinitamente espressivi.
- Folker.. – lo richiamò Ambrose guardandolo allarmato, essendo oramai del tutto certo fosse accaduto qualcosa. – Che è successo?
Il biondo negò, con la testa ancora rivolta al soffitto, trattenendo i tremori.
- Ti prego, dimmelo – insistette il moro.
- Ho picchiato una donna poco fa.
- Cosa..?
- L’ho picchiata, come avrebbe fatto il vecchio me stesso – ripetè il biondo. – L’ho picchiata fino a farle sputare sangue, e poi l’ho lasciata lì, ad annaspare, dentro la cattedrale – mentre parlava, la sua espressione mutò, assumendo involontariamente un maligno ghigno di soddisfazione, un ghigno che Ambrose non era più abituato a vedere da sin troppo tempo.
- E.. come ti sei sentito? – si azzardò a chiedergli.
- Rigenerato. Soddisfatto. Realizzato. Come mi sentivo ad ogni incontro con la congrega. Come mi sento ogni volta che prendo a pugni e calci qualcuno.
- Però lo sai che è sbagliato. Quando eravamo nella congrega andava bene, eravamo tutti d’accordo, ma nella vita reale..
- Credi che non lo sappia?
L’ho sempre detto che non sono una bella persona! – esclamò Folker ritirandosi su e fulminandolo con gli occhi.
- Non si tratta di essere una bella persona o no.
- Invece sì, si tratta di questo.
A volte, è come se fosse un bisogno per me.
Un bisogno che solo le torture a cui vengo sottoposto tengono a bada.
- Non puoi farlo comunque.
In un gesto involontario, Folker si portò le dita tra i denti, qualcosa che oramai faceva sempre più spesso, senza accorgersene.
- Che stai facendo? – gli domandò Ambrose.
- Quella donna mi ha raccontato delle storie sulle strigi.
- Non avrei mai dovuto tirare fuori la storia delle strigi, mai. Rimarrà sempre il mio più grande rimpianto - disse il moro, rammaricato.
- Invece hai fatto bene.
Mi sta succedendo qualcosa e voglio scoprire cosa sia.
Sento perennemente il sapore del sangue in bocca, tra i denti, come se non riuscissi a sentire altro.
Riesco a mangiare solo se mi sforzo di farlo e...
- Basta, basta con questa storia – pronunciò Ambrose in tono più che deciso. – Tu non hai succhiato il sangue di nessuno. Sei solo un ragazzo confuso, che sta delirando a causa di tutto ciò che gli stanno facendo passare, e questo è quanto.
- Vorresti fosse così semplice, non è vero? – gli domandò il biondo sorridendogli sprezzante e disilluso, stringendosi le ginocchia. – Ma non lo è. Non so che ne sarà di me. Ma se dovessero scoprire che ho fatto del male a qualcuno.. se dovessero scoprire che ho morso qualcuno e succhiato il suo sangue, anche se non ero in me quando è accaduto, non farebbe differenza : i riti di purificazione dovrebbero servire a trattenermi, a guarirmi. Se non riescono a guarirmi, mi bruceranno al rogo.
È passato sin troppo tempo dall’ultimo rogo, a causa dei riti.
I monaci non vedranno l’ora di farne un altro.
- No, no, no, smettila! – esclamò Ambrose non volendo più sentire una sola parola, scattando in piedi.
Folker tacque, stranamente.
- Hai idea di chi possa essere colui che abita il mio corpo? – domandò improvvisamente quest’ultimo, trattenendo i tremori di rabbia e di terrore. – Hai scoperto qualcosa?
- Ci sto lavorando. Un’idea ce l’avrei – gli disse il moro, cercando il suo sguardo, ma non trovandolo, in quanto il biondo si ostinava a fissare un punto nel vuoto, distante.
- Chi?
- Un certo monaco che ti sta sin troppo appiccicato.
A ciò, Folker alzò il volto perplesso e confuso su di lui. – Padre Cliamon...? Impossibile.
- Perchè?
- Perchè è un dannato monaco.
- Quindi? Abbiamo già avuto dimostrazione del fatto che anche i monaci hanno desideri e atteggiamenti perversi, circa dieci anni fa. Non sono santi, nè messaggeri dei signori. Sono solo uomini – affermò il moro.
- Deve essere qualcun altro – controbattè Folker. – Uno dei tuoi stupidi vecchi amici, ad esempio.
- Credi quello che vuoi, ma dobbiamo scoprire di chi si tratta.
Dunque... in merito a quello che ti ho detto finora.. di nuovo amici? – tentò Ambrose porgendogli la mano.
Folker la guardò, poi guardò lui.
Si alzò in piedi e si avvicinò al moro.
Gli strinse la mano in segno di accettazione, scrutando i suoi occhi, ma non mollò subito la presa.
- Se fosse davvero il monaco .. – sussurrò, senza rispondere alla sua domanda. - .. da come ha reagito a te, è evidente che ti desidera.
- No – rispose Ambrose, deglutendo rumorosamente. – Non desidera me.
- Sì.
- Desidera essere te.. per essere toccato da me.
Mi desidera solo quando è dentro il tuo corpo.
Gli piace l’idea che noi due.. – il servo del Creatore si bloccò, non riuscendo a terminare la frase.
- Se è così, potrebbe riaccadere.
- Che cosa?
- Che lui provi a sedurti mentre possiede il mio corpo.
Sa della tua infatuazione nei miei confronti, Ambrose.
Potrebbe sfruttarla a suo favore.
A quel punto come reagirai? Cosa farai? – gli domandò in un sussurro, avvicinandosi ancora all’amico, guardandolo intensamente negli occhi, sfidandolo.
- Io non alzerò un dito su di te.
Mai più.
- Neanche se usasse le mie sembianze per offrirsi completamente a te?
- Mai. Saprò che non sei tu, lo riconoscerò e non lo farò, a prescindere.
Non ti toccherò mai – promise con convinzione, sostenendo i suoi occhi di cristallo incatenati ai suoi.
- Non ti toccherò mai – ripeté, come fosse un mantra.
- Bene.
Di nuovo amici.
- Di nuovo amici.
   
 
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