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Autore: BlueBell9    29/06/2022    5 recensioni
Un weekend nel Northumberland, una zia anziana ma ancora lucida e una vecchia conoscenza che torna inaspettatamente nella tua vita.
Forse può sembrarti la previsione di una tragedia, ma l'universo sa sempre come stupire: quello che ci aspettiamo essere un disastro, a volte può trasformarsi in qualcosa di inaspettato.
«Giusto per la cronaca: divento incredibilmente espansiva dopo il terzo bicchiere. Quindi puoi scacciarmi, se ti senti molestato» concede magnanima, dopo che hanno brindato, portandosi il Gin Tonic alle labbra. 
«E queste molestie comprenderebbero?» indaga Evan, interessato, dopo aver bevuto un sorso. 
«Di solito mordo» svela lei, all’istante, per nulla turbata. «Ma tranquillo: non mi spingerei a lasciarti dei segni sul collo» ridacchia con moderazione, sentendo che il quarto bicchiere inizia a farle effetto. «Al massimo ti infilerei le dita nei capelli e inizierei a massaggiarti la nuca» considera quasi sovrappensiero, distratta da quell’ipotesi. «Potrei persino tentare di baciarti» scherza briosa. 
«Non è detto che mi dispiaccia» commenta lui, a bassa voce, serio.

[Emmeline/Evan]
Genere: Commedia, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Emmeline Vance, Evan Rosier
Note: Soulmate!AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Altro contesto
- Questa storia fa parte della serie 'What if/AU'
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Capitolo 1

Questa storia partecipa alla challenge To Be Writing Challenge 2022 di Bellaluna sul forum Ferisce più la penna.
Prompt giugno:
Soulmate!AU.











«Spero che il viaggio non sia stato troppo faticoso» esordisce zia Joanne, dopo che si sono schioccate un paio di baci sulle guance in segno di saluto, accomodandosi alla tavola imbandita per la colazione.
«Sono solo due ore di macchina» risponde Emmeline, pacata, osservando con un guizzo di nostalgia quei servizi candidi e quegli argenti che tanto hanno caratterizzato i ricordi della sua infanzia e che la padrona di casa insiste nel voler utilizzare ogni volta che viene a farle visita. «Tu come stai?» indaga attenta.
L’altra fa un cenno ai camerieri di servire la Lemon drizzle cake di cui è ghiotta – e di versare il tè bollente nelle tazzine.
Lei aspetta composta, la schiena dritta e il tovagliolo sulle gambe, il termine di quel rituale. È consapevole che a Burke House ogni cosa debba essere scandita nel pieno rispetto dell’etichetta, onde evitare le ire della padrona.
«Sto bene» chiarisce zia Joanne, secca, piegando le labbra verso il basso con disappunto. «I medici esagerano sempre con le loro diagnosi» sostiene indispettita, con spregio. «Cosa mi dici di te? Ho saputo che tu e Sirius vi siete lasciati» butta lì, quasi con causalità mentre pone una zolletta zucchero all’interno della sua tazzina e inizia a mescolare con lentezza.
Emmeline piega il capo, rivolgendole un’occhiata eloquente.
«E la cosa ti dispiace enormemente» ironizza in un borbottio snervato, scuotendo appena il capo.
«Per nulla» ammette la donna, esibendo una notevole faccia tosta. «L’ho sempre trovato inadatto per te, anche se tu affermavi il contrario» ritorce rude, inarcando entrambe le sopracciglia. «C’è qualche possibilità che questa sia una pausa momentanea?» sonda accorta, portandosi la tazzina alla bocca.
Lei sbatte le ciglia, frastornata.
«È definitiva» ammette lentamente, cercando di capire che cosa frulli nella testa dell’anziana. «Perché?» domanda diretta, socchiudendo appena le palpebre.
«Gli imbecilli non mi piacciono» liquida l’altra, svelta, chiamando la cameriera così che le porti la pochette dei medicinali che ha dimenticato in camera da letto.
Emmeline, una strana sensazione strisciante addosso, inizia a pensare che forse accettare l’invito della zia di trascorrere un weekend nel Northumberland non sia stata affatto una grande idea. 
Chiaramente sta per succedere qualcosa. Spera solo che non si tratti di una sciagura perché, dopo la rottura con Sirius e i disastri successi sul lavoro nell’ultimo mese, non ha la forza per combattere un’altra guerra sanguinosa.
E solo il cielo sa quanto la zia sia ostinata nel ottenere quello che vuole!
«Aspettiamo qualcuno?» chiede dubbiosa, alludendo al posto vuoto ma imbandito di fronte a lei. «Walburga?» indaga, tirando in causa una vecchia amica di famiglia. 
«È a Londra» risponde zia Joanne, stoica, gustandosi il suo tè. «Si è presa cura di me per settimane, era giusto che tornasse dalla sua famiglia» conviene magnanima. «E poi sarà troppo compiaciuta nel vedere che hai ridotto suo figlio come uno straccio» aggiunge spietata.
Lei aggrotta la fronte, scoccandole uno sguardo di rimprovero.
«Papà?» tenta di nuovo, testarda, ben decisa a scoprire l’identità dell’ospite.
«Non è rimasto nella capitale?» le fa notare la donna, sollevando le sopracciglia con eloquenza. «Credevo che fosse preso dalla sua relazione con lady Selwyn» aggiunge contrariata, arricciando il naso al pensiero di quei pettegolezzi fastidiosi e quelle risatine sprezzanti che sono circolati nei salotti della buona società.
Emmeline annuisce, per nulla contenta di sapere che presto avrà una matrigna che non sopporta.
«Quindi chi è?» domanda brusca, stufa di quel giro inutile di parole che hanno l’unico intento di depistarla e desiderosa di arrivare al dunque.
Zia Joanne apre la bocca ma non fa in tempo a pronunciare nemmeno una parola che la porta della sala da pranzo di Burke House si spalanca, rivelando il maggiordomo e l’ultima persona al mondo che credeva di rivedere.
Saranno passati quasi due decenni ma è difficile dimenticare quegli occhi verdi che infestano ancora i suoi ricordi, rendendoli dolci e amari allo stesso tempo.
«Oh, tempismo perfetto» dichiara zia Joanne, compiaciuta, appoggiando la tazzina sul piattino di porcellana e facendo forza sulle mani per alzarsi in piedi, accogliendo così il nuovo arrivato con un sorriso cordiale e una posa dignitosa.
«Perdona se sono arrivato solo ora, c’è stato un ritardo con il volo» si scusa lui, educato, abbassando il capo per baciare la guancia dell’anziana. 
«Lo faccio solo perché so che non si può rimproverare il maltempo» risponde quella, quasi scherzosa. Poi, quando nota che loro due si stanno scambiando uno sguardo sconcertato, gli fa cenno di accomodarsi alla tavola e esibisce un’espressione noncurante. «Emme, ti ricordi di Evan, vero?» domanda rilassata, le iridi azzurri baluginanti di trionfo.



Remember those walls I built/Ricordi quei muri che avevo costruito?
Well baby, they're tumbling down
/Beh tesoro, stanno crollando







L’altra parte di sé
(la migliore)







«Non posso credere che tu l'abbia fatto!»
«Che cosa avrei fatto?»
«Un appuntamento al buio! Sei davvero seria?»
«Oh, Emmeline, non essere melodrammatica» la redarguisce la donna, piegando appena le labbra con esasperazione.
Lei scuote la testa, incredula da quella situazione quasi comica. 
«È così imbarazzante» ripete tra sé, continuando a camminare per il salottino privato della padrona di casa.
«Che cosa?» domanda zia Joanne, stoica, seduta sulla sua poltrona preferita, quella cerulea con lo schienale alto e rigido. «Trascorrere un paio di giorni con la propria zia?» chiede quasi ingenua.
Emmeline si volta di colpo, rifilandole un’occhiata di fuoco. 
«No, subire i piani malvagi della suddetta zia che fa di tutto per sistemarmi» precisa imperiosa, percependo chiaramente la rabbia infiammarle le vene. «Non ho bisogno che mi cerchi un fidanzato» afferma irremovibile, troneggiando sopra l’altra. 
«Infatti non ho fatto nulla di tutto ciò» replica quella, asciutta, sbuffando spazientita quando una cameriera, dopo aver bussato alla porta, le porge un vassoio con un bicchiere d’acqua, ricordandole che è ora di prendere un’altra pastiglia. «Mi sono solo limitata a voler entrambi i miei nipoti presenti» spiega quieta, inghiottendo la sua medicina e facendo una smorfia disgustata per il sapore spiacevole. «Qual è il problema? Un tempo giocavate insieme» rammenta attenta, come se non ci fosse nessun problema, congedando la cameriera.
«Quasi vent'anni fa» precisa lei, con foga, interdetta che non riesca a capire quanto assurdo sia quel piano. «Dimmi che con lui hai scelto una scusa più credibile di un bisogno improvviso di stare in famiglia» la supplica inquieta, a bassa voce. 
Zia Joanne inarca un sopracciglio, impassibile. 
«Non capisco perché tu sia tanto nervosa» confessa, infine, spassionata, recuperando il suo kit da ricamo dal tavolino accanto alla poltrona. «Non ne hai motivo. Anche perché, da quello che ricordo, ha sempre avuto un debole per te» osserva sagace, scrutandola con eloquenza prima di infilare l’ago nella stoffa. 



I found a way to let you in/Ho trovato un modo per farti entrare
But I never really had a doubt
/In realtà non ho mai avuto nessun dubbio



Fa un bel respiro, gonfiando i polmoni d’aria e sperando così di calmarsi, prima di bussare alla porta.
L'uscio si apre dopo una manciata di secondi, mostrando il volto di suo cugino. Lo vede corrucciare appena la fronte in un’espressione sorpresa, prima che un sorriso cortese gli compaia sulle labbra.
«Spero di non disturbare» esordisce Emmeline, esitante, sentendosi tremendamente impacciata e sciocca.
«Nessun disturbo» assicura lui, lieve. «Prego» la invita gentile, spostandosi di lato e facendole cenno di entrare.
Una volta superata la soglia, non può fare a meno di gettare un’occhiata di vorace curiosità alla stanza, quasi voglia controllare cosa sia cambiato e cosa sia rimasto uguale a quando l’altro era solito occuparla da bambino.
Com’è prevedibile i giochi sono scomparsi. così come gli effetti personali. Solo i suppellettili che la zia ha scelto per decorare la stanza sono ancora al proprio posto, congelati nel tempo.
Non dovrebbe stupirsene: Evan non è più tornato in quella casa da quando l’ha salutata, quasi vent’anni prima, quando sua madre era venuta di tutta fretta a prenderlo per riportarlo a Londra.  
La sua attenzione viene immediatamente calamitata dal tavolino basso, quello davanti al divano, proprio sotto la finestra, occupato da una serie di fascicoli voluminosi.
«Ti ho interrotto» osserva placida, quasi dispiaciuta, indicando con un cenno del mento quella montagna di carta. «Stavi lavorando» constata logica.
Evan scrolla le spalle, noncurante. 
«Riguardavo solo dei documenti» risponde piatto, prendendo posto sul divano e facendole segno di fare lo stesso, prima di puntarle addosso quelle iridi verdi e attente. «Che succede?» domanda, corrucciando appena la fronte, intuendo tutto il suo disagio. 
Emmeline schiude la bocca, esitante, rimanendo in piedi. 
«Quanto è imbarazzante realizzare di essere caduti nella sua trappola?» scherza svagata, arricciando il naso e tormentandosi le mani per il nervosismo.
Lui ridacchia, abbassando le ciglia. 
«Avevo dato per scontato che non mi avesse invitato solo per carenza d’affetto» l’assicura posato, per nulla irritato di essersi ritrovato a fare i conti con una vecchia svitata e i suoi piani malefici. «Ma ammetto che non mi aspettavo di trovarti qui» aggiunge quieto, quando torna a guardarla. 
«Mi spiace» si sente in dovere di dire lei, schietta, scuotendo il capo e tornando seria. Probabilmente l’altro deve aver intuito che c’è qualcosa di strano nell’immediato bisogno di Joanne di aver vicino i propri nipoti per un weekend. «Non avevo idea che fosse uscita di testa» confessa con un punta di stizza. 
Evan arcua un sopracciglia, perplesso. 
«Perché mi chiedi scusa?» replica sereno, serrando le palpebre con leggero disorientamento. «Non mi pento di aver accettato il suo invito» svela con lo stesso tono. «Che facciamo?» domanda, invece, scaltro.
Emmeline sbatte le ciglia, presa in contropiede. 
«Che intendi?» domanda confusa. 
«Questa sera usciamo?» propone lui, spassionato. Quando nota come lo guarda, ovvero con gli occhi sgranati e le labbra dischiuse per lo sbigottimento, si lascia sfuggire una lieve risata. «Davvero vuoi trascorrere il weekend a subire le sue lamentele perché non ha ottenuto quello che voleva?» le fa notare lungimirante, facendole intuire che ha capito cosa si cela dietro quell'invito di passare un paio di giorni nel Northumberland. 
Lei si inumidisce la bocca, prima che un sorriso faccia capolino sul suo viso. 
«È questo il tuo piano?» si informa intrigata, stuzzicata all’idea. 
«No» risponde lui, amabile, continuando a guardarla con una dolcezza che le rende molli le gambe e che rischia di farla arrossire come se avesse ancora undici anni. «Il mio piano è uscire, mangiare, bere, indipendentemente da quello che vuole Joanne» chiarisce leggero, inclinando il capo. «È così orribile?»
«Per nulla» dichiara Emmeline, entusiasta, il sorriso che diventa più ampio e luminoso. «Mi sembra fantastico».



Standing in the light of your halo/Di restare nella luce della tua aurea



«Questa storia è assurda» ridacchia Eris, portandosi una mano alle labbra per cercare di contenere le risate.
Emmeline annuisce, intenta a studiare con occhio critico i vestiti che ha sparso sul letto per poterli osservare meglio. Fortuna che ha lasciato nell’armadio di quella stanza altri abiti durante i suoi precedenti soggiorni nel Northumbria, almeno la scelta non è ridotta.
«Lo so bene» borbotta contrariata, alzando una maglia scura così da permettere all’altra di vederla grazie alla videocamera del cellulare che ha appoggiato sul comodino, utilizzando la lampada come supporto.
«Non ci siamo» decreta l’amica, spiccia, scuotendo anche il capo. «Mettiti il vestito nero» consiglia spassionata, alludendo a un capo che hanno comprato insieme durante uno dei pomeriggi di sfrenato shopping in giro per Edimburgo e che lei ritiene assolutamente inadatto per una serata al pub. «Ti fa un bel sedere» aggiunge adulatrice.
«Evan non è interessato al mio sedere» ribatte Emmeline, snervata, mettendo da parte la maglia per tornare a guardare ciò che è rimasto sul piumone della camera da letto che ha occupato fin da bambina a Burke House.
«Fallo decidere a lui» sostiene Eris, divertita. «Vorrei capire come mai ti stai facendo venire così tante paranoie se non te lo vuoi fare» butta lì, quasi con finto candore.
«Non mi sto facendo paranoie!» si difende lei, svelta, fermandosi dalla ricerca dell’outfit solo per il tempo necessario lanciarle uno sguardo di traverso.
«Ah no?» replica l’amica, eloquente, inarcando entrambe le sopracciglia. «E come mai indossi l’intimo sexy sotto la vestaglia?» si informa diretta.
Emmeline arrossisce appena sulle gote, imbarazzata che l’altra abbia notato quel particolare.
«È solo che… serve per darmi fiducia. Se lo indosso, mi sento bene e anche bella» spiega in difficoltà, portandosi con nervosismo una ciocca scura dietro l’orecchio.
«E perché hai bisogno di questa iniezione di autostima?» la sprona Eris, incalzante. Poi, quando riceve l’illuminazione, strabuzza gli occhi blu. «Lui ti piace» decreta ad alta voce, meravigliata e divertita al tempo stesso.
«Okay» cede lei, esausta, crollando seduta sul letto e recuperando il cellulare dal comodino. «Potrei aver avuto una piccola cotta per lui» inizia a fatica, decidendo di prenderla alla larga.
«Quando?»
«A nove anni, circa» confessa Emmeline, in un sussurro, evocando davanti agli occhi ricordi del suo passato, a un tempo lontano e felice dove era solita trascorrere le estati in quella casa in compagnia di qualcuno che era quanto di più caro avesse al mondo. «L’ho capito dopo che mi piaceva in quel senso. Insomma, ci conoscevano fin dalla culla e passavamo tre mesi qui, dalla zia, per cui adesso… mi fa un po’ strano vederlo… sì, così» blatera a casaccio, senza saper bene dove andare a parare.
«Come un uomo?» l’aiuta Eris, secca.
Lei annuisce, sospirando pesantemente.
«Quanto è imbarazzante sapere che ho ancora un debole per lui?» chiede in un mormorio insicuro. «Dovrebbe essermi passata. Tutto questo è ridicolo» sentenzia con veemenza, scuotendo più volte il capo, cercando di razionalizzare quel grumo di sentimenti che sente premere dentro. 
Eris ridacchia leggera. 
«Non lo è. Lo trovo molto dolce» la conforta amabile, prima che una luce preoccupante le illumini le iridi chiare. «Vuoi un consiglio?» squittisce deliziata, facendole seriamente venire i brividi per la paura. «Metti il tubino nero» sostiene cocciuta. 
«Eris…»
«Uno: ti sta davvero bene» riprende l’altra, spazientita da quella pausa inutile. Conta con le dita, così da elencare le sue valide ragioni. «Due: tu adori indossarlo» le fa notare, sicura. «Tre: magari gli facciamo capire che non sei più una bambina» afferma, facendola seriamente prendere in considerazione di indossare quel capo. «Quattro: ci scommetto quello che vuoi che lo sguardo gli scivolerà sul tuo sedere» termina certa, rivolgendole un’occhiata e un sorriso di chi la sa lunga. 



It's like I've been awakened/È come se mi fossi svegliata



«Pretendi troppo».
Proprio non riesce a trattenere che un sorriso amaro le affiori sulle labbra quando sente per l’ennesima volta quella frase, buttata lì come se fosse una spiegazione sufficiente.
L’ha sentita così tante volte durante gli ultimi pomeriggi con lui, quando non facevano altro che litigare. 
Ironico essere giunti al capolinea e non volerlo ammettere.
«Non penso» lo contraddice Emmeline, in un sussurro che sembra provocare un boato in quella cucina del loro appartamento a Edimburgo.
Sirius, seduto dall’altra parte del bancone, le punta addosso le sue iridi grigie, corrugando appena la fronte.
«Che intendi?» domanda cauto, avvertendo che c’è qualcosa che non va, che quella non è una delle tante litigate.
Lei scuote il capo, esitante. Poi si dice che è inutile continuare a mentire a se stessa e è anche il tempo e il coraggio di ammettere quello che sente.
«Non funzioniamo» ammette dolente, cogliendo immediatamente il lampo di confusione incupire il viso dell’altro nel momento in cui elabora le sue parole. 
Sirius la fissa un momento in silenzio, prima di sorridere beffardo.
«Credevo avessimo superato questa stronzata dell’anima gemella» afferma denigratorio, scrutandola con superiorità. «È ridicolo» si premura di aggiungere, tornando a bere il suo caffè.
Emmeline serra le labbra, risentita.
«Sono seria» precisa piccata, senza riuscire a reprimere l’irritazione. «Smettiamola di continuare a far finta di nulla: non stiamo bene insieme» insiste cocciuta.
«E perché?» replica subito lui, aspro. «Perché non riesci ad accontentarti di quello che già hai?» recrimina tagliente. «Emme, ti hanno rovinato con tutte quelle storie sull’altra metà. Non esiste un’anima gemella» termina quasi nauseato da quell’ipotesi.

E allora perché Marlene l’ha trovata? Vorrebbe replicare brusca. Forse perché lei non si ostina a tenere in piedi qualcosa che doveva finire già da tempo, pensa amareggiata.
«Forse no» concede lei, sulla difensiva. «Ma non sono felice e nemmeno tu» sostiene schietta, esternando tutto quello che pensa.
Sirius si scioglie in una risata simile a un latrato, forzata e per nulla divertita.
«Sei tu che ti riduci così» insinua brutale, al limite della pazienza. «Perché devi distruggere quello che abbiamo?» chiede, socchiudendo appena le palpebre con fastidio.
Emmeline non abbassa lo sguardo, per nulla intimorita.
«È meglio che vada a fare le valigie» se ne esce a bruciapelo, allontanandosi da quella cucina.

Probabilmente le possibilità di incontrare l’altra metà di sé sono irrisorie – non siamo tutte Marlene, riflette consapevole – ma accontentarsi di qualcosa che non vuole più è una menzogna dalla quale vuole liberarsi.
Se si vuole essere felici, essere onesti con sé stessi è il primo passo.



Every rule I had you breakin'/Ogni regola che mi sono imposta tu l’hai infranta



Finisce di bere il suo drink, prima di appoggiare con orgoglio il bicchiere vuoto sul tavolo.
«Meglio?» domanda Evan, le labbra piegate in un sorriso lieve e divertito.
Lei annuisce, dondolando appena il capo.
«Io sì» risponde totalmente rilassata, appoggiandosi allo schienale della sedia di quel tavolo appartato che occupano all’interno di uno dei pub del paese. «Il tuo orgoglio?» ritorce con una punta di sarcasmo.
«Intatto» assicura lui, leggero, guardandola con due occhi verdi incredibilmente affascinanti, alludendo alla scommessa fatta. «Non è detto che tu vinca» le fa notare, spassionato, sorseggiando il suo boccale.
Emmeline ridacchia, ebbra di alcol e di felicità.
«Solo perché tu bari spudoratamente» sostiene con forza, puntando le iridi sulle loro consumazioni poste sul legno scuro del tavolo. «La birra è più leggera del Gin Lemon» puntualizza con la lucidità che le è rimasta.
Evan inarca le sopracciglia, eloquente.
«Giocare d’astuzia non è barare» precisa sarcastico, abbassando di nuovo lo sguardo in basso. Quando li rialza, vorrebbe davvero non provare quel fiotto di calore che dal petto le si irradia per tutto il corpo, alzandole la temperatura e facendola di sicuro arrossire.
«Che c’è?» chiede lei, sentendosi annaspare per la confusione.
Per un momento pensa di essere in disordine, magari ha il rossetto sbavato.
Lo vede scrollare le spalle, sereno.
«È tutta la sera che penso che il vestito che hai scelto ti stia davvero bene» rivela lui noncurante, il tono di voce basso che la fa rabbrividire per il piacere. «Non te l’ho detto prima perché eri già abbastanza in imbarazzo di tuo» spiega accorto.
Emmeline si sente avvampare sulle guance e il cuore sfondarle la gabbia toracica, picchiettando con foga contro le costole.
«Non ero in imbarazzo» sente il dovere di difendersi.
«No?»
«Okay, forse un pochino sì» ammette Emmeline, arrendevole, incurvando le labbra.
«Emme, hai iniziato a lasciarti andare dopo il secondo Gin» rimarca Evan, implacabile, terminando il suo boccale di birra e lanciandole un’occhiata di beffa.
«È solo che è strano» ammette lei, con una punta di imbarazzo, scostandosi una ciocca di capelli scuri da davanti al viso. «Ci siamo lasciati che eravamo dei bambini e ci rivediamo ora che siamo così» butta lì, vaga, senza riuscire a sbrogliare quella matassa di pensieri e sentimenti che nemmeno lei riesce a spiegare e spiegarsi.
«Adulti?» le viene in aiuto lui, piano.
Emmeline annuisce.
«Quasi degli estranei» corregge abbassando lo sguardo per la desolazione quando è costretta a confessare quella verità scomoda. «Scusami, non volevo rovinare l’atmosfera» si affretta ad aggiungere, amareggiata.
«Non l’hai fatto» assicura Evan, subito. «Non ha senso rimuginare sul passato».
«Avrei voluto rivederti quando i miei hanno divorziato e sono tornata a Edimburgo» confessa lei, boccheggiando per lo sforzo di costringersi a parlare. «Solo che sembrava assurdo contattarti dopo tutti quegli anni di silenzio. E prima… con il divorzio dei miei genitori» ripensa, serrando le labbra con disappunto che ancora sente addosso quando rammenta liti, piatti rotti e mesi in cui si era nascosta sotto le coperte, di notte, tappandosi con forza le orecchie per non sentire quelle urla feroci tra i suoi genitori che riusciva ad arrivare persino nella sua camera da letto. Vorrebbe solo dimenticare quel periodo orribile. «Ti avevo promesso che ci sarei sempre stata. Magari non te lo ricordi nemmeno» smozzica, abbozzando un sorriso per nulla convinto e tremolante.
Lui continua a fissarla ma i suoi lineamenti si addolciscono, prima che allunghi una mano per sfiorare la sua appoggiata sopra il tavolo.
«Perché avrei dovuto dimenticarlo?» ribatte serio, senza l’ombra di dubbio a incrinargli la voce o lo sguardo. In qualche modo quella sicurezza riesce a confortarla, scaldandole il petto con un fiotto di puro calore. «Non sono arrabbiato, Emme, nemmeno io ti ho cercata ma questo non significa che mi sia dimenticato di te» chiarisce sincero, piegando le labbra in un sorriso lieve e invitante. 
Emmeline, nonostante non abbia affatto voglia di lasciare quella stretta, sente il bisogno di dover bere per riuscire a imbrigliare quei freni inibitori che le suggeriscono di non farsi illusioni e di prendere le distanze. 
Dopo quel weekend, non lo rivedrà più. Tornerà a Edimburgo e continuerà con la sua vita. 
Lo sa bene eppure non riesce a fare a meno di provare quel sentimento di disorientamento. Se prima era la sua assenza che la lasciava così, ora, al contrario, è la sua presenza che sembra mettere in dubbio la logica.
«Ordino qualcos’altro?» domanda di slancio, bisognosa di allontanarsi per respirare, alzandosi in piedi con uno scatto repentino e inaspettato.
«Vado io» si offre lui, disponibile, fingendo di non aver notato quella bolla di imbarazzo e scacciando ogni reticenza con un sorriso. «Mi sembri instabile» sottolinea lieve ironia.
«Come ti sbagli, signor Rosier» lo sbeffeggia lei, sorridendo birichina. «Ti assicuro che non bastano tre Gin per mettermi in difficoltà. Vuoi vedere?» lo sfida canzonatoria.
Evan la fissa con chiaro sarcasmo.
«Se non fossi quello che ti dovrà trascinare a Burke House» replica con lo stesso tono.
Emmeline lo fissa con falsa compassione.
«Sei un illuso» afferma dolce, piegandosi in avanti così da essere all’altezza dei suoi occhi e accorciando notevolmente la distanza tra loro. «Sarai tu quello ubriaco, alla fine» sostiene sicura, certa che vincere quella scommessa sarà un gioco da ragazze. 
Torna al tavolo con due bicchieri colmi di alcol, anche se ammette che camminare senza fare disastri – la testa è pericolosamente leggera e l’euforia indotta con due cocktail non è così facile – non è un’impresa scontata.
Anche perché i tacchi, croce e delizia di ogni donna, rendono tutto più complesso.
«Niente birra, ora giochi pulito» dichiara determinata, rispondendo a quell’occhiata silenziosa che le viene rivolta alle nuove consumazioni.
Lui inarca le sopracciglia, impassibile.
«E se non mi piacesse?» le fa notare ragionevole, alludendo al drink.
Emmeline piega il capo con eloquenza, prima di riprendere posto alla sua sedia.
«Dillo a un’altra» ribatte svagata. «Giusto per la cronaca: divento incredibilmente espansiva dopo il terzo bicchiere. Quindi puoi scacciarmi, se ti senti molestato» concede magnanima, dopo che hanno brindato, portandosi il Gin Tonic alle labbra.
«E queste molestie comprenderebbero?» indaga Evan, interessato, dopo aver bevuto un sorso.
«Di solito mordo» svela lei, all’istante, per nulla turbata. «Ma tranquillo: non mi spingerei a lasciarti dei segni sul collo» ridacchia con moderazione, sentendo che il terzo bicchiere inizia a farle effetto. «Al massimo ti infilerei le dita nei capelli e inizierei a massaggiarti la nuca» considera quasi sovrappensiero, distratta da quell’ipotesi. «Potrei persino tentare di baciarti» scherza briosa.
«Non è detto che mi dispiaccia» commenta lui, a bassa voce, serio.
Emmeline sente l’ilarità e il sorriso scivolarle via, sotto quelle iridi che la scrutano nel profondo con una tale intensità che la lascia senza fiato. Non sa nemmeno lei perché si sente così esposta, nuda, davanti all’altro o perché è quasi intrigata da quella prospettiva.
Forse è folle, stupido, insensato e tante altre cose ma quando lo vede spingere con lentezza il capo nella sua direzione, non riesce a frenarsi dal fare lo stesso, quasi ipnotizzata.
È il rumore di un vassoio di latta caduto per terra e di vetri infranti che la fanno trasalire, provocandole un effetto simile a una doccia gelata e donando di nuovo un minimo di autocontrollo mentre torna ad appoggiarsi allo schienale di legno della sedia.
Deglutisce e abbassa gli occhi per cercare di scacciare l’imbarazzo che quell’interruzione ha causato. Li socchiude quando vede qualcosa che attira immediatamente la sua attenzione.
«Che cos’è?» domanda all’improvviso, allarmata, prendendogli la mano sinistra e spostando il tessuto della camicia per osservare meglio quella cicatrice che ha intravisto sulla pelle pallida del polso.
«Una cicatrice» risponde lui, noncurante. «Credo di essermela fatta il giorno dopo esserci salutati» considera, corrugando appena le sopracciglia per rievocare quell’episodio. «Emme?» la chiama, piano, quando nota che è impallidita.
«Io…» balbetta Emmeline, con un filo di voce, sbattendo più volte le palpebre come per assicurarsi di aver visto bene. «Devo andare in bagno» biascica in palla, frettolosa, alzandosi in piedi per allontanarsi dal tavolo il prima possibile.
Sguscia tra la folla che ha cominciato a riempire il pub, facendosi strada fino alla porta d’ingresso. La apre e esce, ritrovandosi all’esterno del locale con l’urgenza di chi ha bisogno di una boccata d’ossigeno.
Si accascia contro la parete di pietra, cercando di incanalare aria dal naso così da regolare la respirazione e tentare di scacciare quel tremolio che le scuote le membra. Si porta le mani alle guance, sconvolta, mentre quella cicatrice formata dalle semplici linee le torna con prepotenza in mente.
Non ha senso, ripete tra sé, come per convincersi. Non può essere vero.
All’epoca, quando se l’era procurata, non le aveva dato così importanza. Anzi, aveva trovato quasi buffo che i tagli che i cocci di ceramica le avevano procurato sul polso destro, a causa di una spinta accidentale da parte di una domestica di Burke House e la conseguente caduta rovinosa contro un servizio di piatti lasciato sul tavolo della cucina per essere pulito, una ferita che quasi assomigliava, a voler essere fantasiose, a una “e”.
«Oh mio Dio» borbotta scuotendo il capo, infilandosi una mano tra i capelli, scompigliandoseli e tirandoseli via dal viso.
«Credevo avessi detto bagno» dice una voce alle sue spalle, eloquente, facendola sobbalzare e voltare di scatto. «Che succede?» indaga Evan, quasi apprensivo per quella reazione che gli sarà sembrata esagerata e senza senso.
Forse la luce dei lampioni della strada non sarà così accecante ma basta per fargli vedere la sua agitazione, anche se non la comprende.
Emmeline rimane in silenzio, fissandolo con due occhi scuri spauriti.
«Ora mi stai spaventando» riprende lui, sempre più spaesato. «Emme?» tenta di nuovo, più deciso, forse per cercare di strapparle di dosso quell’apatia.
Lei sospira, cercando di rilassare la postura e abbassare le spalle, prima di spostare verso il gomito i braccialetti che le coprono il polso destro, rivelando una vistosa cicatrice del tutto uguale a quella che ha scoperto quasi un paio di minuti prima.
«E allora?»
Sei tu, è tutto quello che il suo cervello continua a ripeterle come un ossesso, a metà tra lo sconvolto e l’euforico. Dovevi essere tu.
Eppure anche in quello stato di shock, si rende conto che una parte di sé l’ha sempre saputo.
O forse sarebbe meglio dire sperato.
Perché quello che ha provato quando era al suo fianco è qualcosa che non si è più verificato, nemmeno a distanza di tanto tempo.
Dopo Evan non c’è mai stato nessuno.
O, meglio, nessuno che sapesse reggerne il confronto.
«Quindi tu non ci credi?» domanda ancora frastornata.
«A cosa?» replica lui, con lieve esasperazione. «Emme, se è per la storia delle anime gemelle» intuisce arguto, facendola trepidare per l’attesa. «No, non ci credo» risponde implacabile.
Lei annuisce, abbassando lo sguardo. È davvero difficile evitare quel fiotto di delusione che le comprime il petto, che sgonfia di colpo tutte le sue aspettative e che la porta a provare una profonda vergogna per essere stata così sciocca, per averci creduto.
Non tutti hanno il loro lieto fine, dall’altra parte.
«Prima non ho cercato di baciarti perché pensavo a questo» riprende lui, piano, riattirando la sua attenzione. «L’ho fatto perché era da tutta la serata che volevo farlo» svela a bassa voce, continuando a fissarla in un modo che non riesce nemmeno a definire.
Le labbra le si piegano per riflesso in un sorriso rincuorato.
«Anch'io» risponde in un sussurro, animata e tranquillizzata da quella confessione spontanea. «Torniamo a Burke House» propone semplicemente.



Everywhere I'm looking now/Da qualsiasi parte mi volto
I'm surrounded by your embrace
/Ora sono avvolta nel tuo abbraccio



Emmeline ridacchia contro le sue labbra quando, avanzando, rischia di inciampare nei propri piedi.
Evidentemente l’alcol inizia a fare effetto e i tacchi non l’aiutano a mantenere l’equilibrio. Tuttavia non ha nemmeno per un istante corso il rischio di cadere perché le mani che le stringono i fianchi, non hanno esitato a sorreggerla.
«A quanto pare non sei così resistente ai Gin Tonic come credi» scherza Evan, a bassa voce, separandosi un momento da lei per sorridere divertito. «Hai rischiato di far cadere il vaso all'ingresso quando mi sei saltata addosso» le fa notare con una luce che gli balugina negli occhi verdi.
Emmeline si scioglie in un sospiro deliziato.
«Dimmi che ti dispiace» ironizza, le braccia intorno al suo collo, ignorando bellamente che un simile rumore, in piena notte, avrebbe svegliato di certo qualche domestico.
E zia Joanne si sarebbe legata al dito quell’incidente.
«Per niente» risponde lui, morbido, allontanando una mano dal suo fianco per abbassare la maniglia e entrare nella sua stanza. Lei lo segue docile, chiudendosela alle spalle così da evitare di essere beccati in atteggiamenti compromettenti e schiacciando l’interruttore della luce alla parete. «Ma non vorrei che domani mattina te ne pentissi» svela, inarcando le sopracciglia con eloquenza. 
«Allora fai in modo che ne valga la pena» lo sfida giocosa, piegando il capo di lato, prima di tornare a baciarlo.
Con il respiro affannoso e un brivido che le scorre sottopelle, Emmeline fa scivolare le mani dal suo collo verso i bottoni della camicia, slacciandoglieli con frenesia. Lo aiuta a spogliarsi, senza staccarsi dalle sue labbra e solo quando l’indumento cade a terra e sente il bisogno di ossigeno, si allontana dal suo viso, riappoggiando completamente le piante dei piedi a terra.
Si lascia sfuggire un piccolo sorriso nel momento in cui scosta lo sguardo da quel torace pallido e rincontra quelle iridi, illuminate da un evidente compiacimento. Che diventa ancor più palese quando gli apre la cintura e gli abbassa la cerniera dei jeans.
Appena allontana le dita dai suoi pantaloni, Emmeline sgrana gli occhi con un guizzo di perplessità quando si sente voltare di centottanta gradi con un unico, fluido, movimento.
Si ritrova a osservare la sua immagine riflessa nel lungo specchio appeso alla parete, notando così le guance arrossate e le iridi scure e lucide dalla bramosia.
«Non so te» sussurra Evan, con un tono basso che la fa rabbrividire, le labbra che sfiorano appena dietro la nuca mentre le mani sono impegnate ad aprire la zip del vestito. «Ma per me, già così ne vale la pena» continua carezzevole, al suo orecchio.
Lei prende un profondo respiro, sentendo improvvisamente la bocca secca e la pelle formicolare. Appoggia una mano alla parete, accanto allo specchio, quasi avesse bisogno di sostenersi e abbassa per un istante le palpebre quando percepisce una pungente languidezza annidarsi nello stomaco.
Le solleva di scatto nel momento in cui lui, invece di far cadere a terra il vestito, fa scivolare le mani in basso, sopra il tessuto del tubino in delle carezze lente che le provocano altri brividi, prima di arrivare al bordo dell’indumento e denudarla degli slip. Solo quando questi raggiungono il pavimento e lei se ne libera con un movimento impaziente delle gambe, anche il tubino subisce la medesima sorte.
Accaldata e con solo il reggiseno addosso, Emmeline si rende conto di tremare. E non per la vergogna ma per una smania che la scuote da dentro, specie nel momento in cui Evan, piegando il capo per baciarle il collo, aderisce meglio alla sua schiena. E realizzare quanto anche lui la desideri, la fa uscire di senno.
Si gira di scatto all’indietro, liberandosi con un movimento brusco anche dell’ultimo capo che indossa, e baciandolo di slancio. Gli morde appena il labbro inferiore, prima di aprire un po’ di più la bocca e sfiorare con la lingua quella dell’altro.
Geme e nemmeno si preoccupa di nasconderlo, nell’istante in cui percepisce di essere toccata in mezzo alle gambe. Si abbandona di schiena contro lo specchio, ignorando la superficie fredda e sgradevole, troppo occupata a gustarsi quelle sensazioni.
Il piacere arriva in ondate continue e bollenti, scaturite da quelle dita e da quelle labbra che la stanno facendo impazzire. E con esso, si genera anche il desiderio e l'impazienza di volerne di più.
«Evan» sospira in un sussurro spezzato, le gambe instabili e sempre più molli. E il modo in cui pronuncia quel nome e in cui lo guarda, sa tanto di supplica.
Lui la osserva con un sorriso lieve sul viso che le provoca una nuova fitta al basso ventre, prima di spostarsi e spostarla verso il letto.
Emmeline si siede sul ciglio del materasso, liberandosi delle scarpe che porta ancora i piedi mentre l’altro finisce di spogliarsi. Poi con un’occhiata che non cela la bramosia, indietreggia sul lenzuolo, facendolo ridacchiare per quella strana complicità che c’è nell’aria.
Sentirlo sopra di sé, sapere di essere nudi, le scuote le membra e le fa scorrere nel sangue qualcosa che non riesce del tutto a spiegarsi. Non si tratta solo di semplice eccitazionel’ha provata più volte nella sua vita, sa riconoscerla – ma anche una sensazione di essere complete, come se un altro tassello di sé, dopo tanto tempo, tornasse al suo posto.
Ride quando Evan le sfiora un punto del collo più sensibile che le provoca il solletico.
«Non rovinare tutto proprio ora» lo rimprovera bonaria, con ancora quel divertimento che le illumina il volto. «Stavi andando così bene…» sottolinea giocosa.
Lui si appoggia meglio sui gomiti, così da sollevare il capo dalla sua gola e guardarla in faccia.
«Perché altrimenti mi fermeresti?» replica ironico, a bassa voce.
«Non lo credi possibile?»
«Per niente».
«E perché?»
«Perché non vuoi» risponde morbido, non con arroganza ma con sicurezza, con due occhi di un verde limpido. «Così come non voglio io» sostiene piano, baciandole il polso dove spicca quella cicatrice e senza smettere un momento di fissarla.
Emmeline perde di colpo quel sorriso, sentendo l’urgente bisogno di baciarlo. Lo fa finché non ha più fiato, premendo i polpastrelli sulla pelle liscia della sua schiena.
E solo quando lo sente dentro di sé, quando le prime, lente, spinte iniziano a divampare in quelle scintille che porteranno a un incendio devastante che già le brucia la pelle, quando sente quelle labbra contro le sue, affamate come mai, che le unghie inizia a conficcarsi nella carne, aggrappandosi con disperazione come se fosse l’unico appiglio per contrastare quel piacere che diventa sempre più frenetico e incontrollabile.
Soprattutto perché quando lui torna a guardarla, con un viso che dice da solo quello che sta provando, lei perde tutta la lucidità che le era rimasta.
E di colpo ogni cosa svanisce, rimangono solo quei gemiti sommessi, quella bocca languida e quegli affondi sempre più incalzanti.



Baby I can feel your halo/Riesco a percepire la tua aurea



«Passata una buona serata?» domanda zia Joanne, composta, la mattina seguente, mentre sta gustando una fetta della sua torta preferita.
Emmeline annuisce, ringraziando che siano da sole e che Evan abbia dovuto rispondere a una chiamata urgente di lavoro.
Perché altrimenti si sarebbe creata una strana atmosfera nella sala da pranzo che avrebbe sfiorato il grottesco.
«Senti» esordisce titubante, senza sapere bene cosa dire ma con la certezza che l’altra abbia già subodorato cosa sia successo.
«Non ringraziarmi» la ferma quella, lieve, ripulendosi le labbra prima di incurvarle in un sorriso cortese. «La vecchiaia è anche questo: vedere un’occasione e fare in modo che gli altri la colgano. Non è così male, se non avessi bisogno di quelle dannate medicine» decreta con velo di disappunto. «Adesso sta a voi non rovinare tutto» sottolinea accorta.
Lei sorride, raggiante di una gratitudine che le risplende negli occhi scuri.
«Non accadrà» assicura morbida, assolutamente determinata.



You're everything I need and more/Sei tutto ciò di cui ho bisogno e molto più
It's written all over you face
/È tutto scritto sul tuo viso



«Ci vediamo a Londra» mormora Evan, basso, a un soffio dalle sue labbra, quando si trovano ai check-in dell'aeroporto.
Emmeline annuisce, anche se non può evitare di sentire una fitta di malessere al pensiero che si stanno per separare. Quei due giorni nel Northumbria, le hanno dato modo di vivere in un modo che non credeva possibile e la consapevolezza del distacco, le provoca un dolore sordo e pulsante.
Lui inclina il capo di lato, così da poterla scrutare meglio.
«Lo sai che non ti lascio, vero?» domanda con un velo di ironia, stemperando appena quel tono morbido.
«Non credo che tu l’abbia mai fatto» ribatte lei, consapevole, con un sorriso dolce che muore nel momento in cui gli altoparlanti annunciano l’ultima chiamata per il volo diretto nella capitale. Con le braccia intorno al suo collo, si alza sulle punte dei piedi così da baciarlo per un’ultima volta. «Cinque giorni non sono così tanti» riflette posata. «Dai, vai» lo sprona, liberandolo dalla sua stretta.
Una strana quiete la investe quando lo vede allontanarsi. È strano, fa male incrociare per l’ultima volta quelle iridi verdi ma c’è talmente tanta fiducia in quella promessa da riuscire a zittire la propria inquietudine.
Perché quando succede qualcosa di bello, bisognerebbe solo viverlo senza rovinarselo con le paranoie.
La felicità è costituita da piccoli, quasi scontati, passi.



Baby, I can feel your halo/Tesoro, riesco a sentire la tua aurea
Pray it won't hide away
/Prego affinché non svanisca











Odio le Soulmate, davvero, credo che sia un genere che non faccia proprio per me.
Io e il romanticismo abbiamo un rapporto un po' complesso e ammetto che quando si tratta di scrivere qualcosa di estremamente dolce, mi sento parecchio a disagio. Sarà perché non posso ricorrere al sarcasmo quanto vorrei.
E quindi vado in crisi.
La canzone presente nella os è Halo di Beyoncé.
Vorrei approfittare di questo spazio per ringraziare chi ha reso la nostra cartella condivisa un posto davvero speciale. Aiuta avere qualcuno che creda in te anche quando tu non lo fai. Quindi, Vale, grazie per essere nel Baratro insieme a me <3
Grazie a tutti coloro che leggeranno questa piccola storia.
Un abbraccio e alla prossima,
Blue






   
 
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