Questa
storia partecipa alla challenge To
Be Writing Challenge 2022 di
Bellaluna sul
forum Ferisce
più la penna.
Prompt giugno: Soulmate!AU.
«Spero
che il viaggio non sia stato troppo faticoso» esordisce zia Joanne,
dopo che si sono schioccate un paio di baci sulle guance in segno di
saluto, accomodandosi alla tavola imbandita per la colazione.
«Sono
solo due ore di macchina» risponde Emmeline, pacata, osservando con
un guizzo di nostalgia quei servizi candidi e quegli argenti che
tanto hanno caratterizzato i ricordi della sua infanzia e che la
padrona di casa insiste nel voler utilizzare ogni volta che viene a
farle visita. «Tu come stai?» indaga attenta.
L’altra
fa un cenno ai camerieri di servire la Lemon
drizzle cake
–
di
cui è ghiotta –
e
di versare il tè bollente nelle tazzine.
Lei
aspetta composta, la schiena dritta e il tovagliolo sulle gambe, il
termine di quel rituale. È consapevole che a Burke House ogni cosa
debba essere scandita nel pieno rispetto dell’etichetta, onde
evitare le ire della padrona.
«Sto
bene» chiarisce zia Joanne, secca, piegando le labbra verso il basso
con disappunto. «I medici esagerano sempre con le loro diagnosi»
sostiene indispettita, con spregio. «Cosa mi dici di te? Ho saputo
che tu e Sirius vi siete lasciati» butta lì, quasi con causalità
mentre pone una zolletta zucchero all’interno della sua tazzina e
inizia a mescolare con lentezza.
Emmeline
piega il capo, rivolgendole un’occhiata eloquente.
«E
la cosa ti dispiace enormemente» ironizza in un borbottio snervato,
scuotendo appena il capo.
«Per
nulla» ammette la donna, esibendo una notevole faccia tosta. «L’ho
sempre trovato inadatto per te, anche se tu affermavi il contrario»
ritorce rude, inarcando entrambe le sopracciglia. «C’è qualche
possibilità che questa sia una pausa momentanea?» sonda accorta,
portandosi la tazzina alla bocca.
Lei
sbatte le ciglia, frastornata.
«È
definitiva» ammette lentamente, cercando di capire che cosa frulli
nella testa dell’anziana. «Perché?» domanda diretta,
socchiudendo appena le palpebre.
«Gli
imbecilli non mi piacciono» liquida l’altra, svelta, chiamando la
cameriera così che le porti la pochette dei medicinali che ha
dimenticato in camera da letto.
Emmeline,
una strana sensazione strisciante addosso, inizia a pensare che forse
accettare l’invito della zia di trascorrere un weekend nel
Northumberland non sia stata affatto una grande idea.
Chiaramente
sta per succedere qualcosa. Spera solo che non si tratti di una
sciagura perché, dopo la rottura con Sirius e i disastri successi
sul lavoro nell’ultimo mese, non ha la forza per combattere
un’altra guerra sanguinosa.
E
solo il cielo sa quanto la zia sia ostinata nel ottenere quello che
vuole!
«Aspettiamo
qualcuno?» chiede dubbiosa, alludendo al posto vuoto ma imbandito di
fronte a lei. «Walburga?» indaga, tirando in causa una vecchia
amica di famiglia.
«È
a Londra» risponde zia Joanne, stoica, gustandosi il suo tè. «Si è
presa cura di me per settimane, era giusto che tornasse dalla sua
famiglia» conviene magnanima. «E poi sarà troppo compiaciuta nel vedere che hai ridotto suo figlio come uno straccio» aggiunge spietata.
Lei
aggrotta la fronte, scoccandole uno sguardo di rimprovero.
«Papà?»
tenta di nuovo, testarda, ben decisa a scoprire l’identità
dell’ospite.
«Non
è rimasto nella capitale?» le fa notare la donna, sollevando le
sopracciglia con eloquenza. «Credevo che fosse preso dalla sua
relazione con
lady
Selwyn» aggiunge contrariata, arricciando il naso al pensiero di
quei pettegolezzi fastidiosi e quelle risatine sprezzanti che sono
circolati nei salotti della buona società.
Emmeline
annuisce, per nulla contenta di sapere che presto avrà una matrigna
che non sopporta.
«Quindi
chi è?» domanda brusca, stufa di quel giro inutile di parole che
hanno l’unico intento di depistarla e desiderosa di arrivare al
dunque.
Zia
Joanne apre la bocca ma non fa in tempo a pronunciare nemmeno una
parola che la porta della sala da pranzo di Burke House si spalanca,
rivelando il maggiordomo e l’ultima persona al mondo che credeva di
rivedere.
Saranno
passati quasi due decenni ma è difficile dimenticare quegli occhi
verdi che infestano ancora i suoi ricordi, rendendoli dolci e amari
allo stesso tempo.
«Oh,
tempismo perfetto» dichiara zia Joanne, compiaciuta, appoggiando la
tazzina sul piattino di porcellana e facendo forza sulle mani per
alzarsi in piedi, accogliendo così il nuovo arrivato con un sorriso
cordiale e una posa dignitosa.
«Perdona
se sono arrivato solo ora, c’è stato un ritardo con il volo» si
scusa lui, educato, abbassando il capo per baciare la guancia
dell’anziana.
«Lo
faccio solo perché so che non si può rimproverare il maltempo»
risponde quella, quasi scherzosa. Poi, quando nota che loro due si
stanno scambiando uno sguardo sconcertato, gli fa cenno di
accomodarsi alla tavola e esibisce un’espressione noncurante.
«Emme, ti ricordi di Evan, vero?» domanda rilassata, le iridi
azzurri baluginanti di trionfo.
Remember
those walls I built/Ricordi
quei muri che avevo costruito?
Well
baby, they're tumbling down/Beh
tesoro, stanno crollando
L’altra
parte di sé
(la
migliore)
«Non
posso credere che tu l'abbia fatto!»
«Che
cosa avrei fatto?»
«Un
appuntamento al buio!
Sei
davvero seria?»
«Oh,
Emmeline, non essere melodrammatica» la redarguisce la donna,
piegando appena le labbra con esasperazione.
Lei
scuote la testa, incredula da quella situazione quasi comica.
«È
così imbarazzante» ripete tra sé, continuando a camminare per il
salottino privato della padrona di casa.
«Che
cosa?» domanda zia Joanne, stoica, seduta sulla sua poltrona
preferita, quella cerulea con lo schienale alto e rigido.
«Trascorrere un paio di giorni con la propria zia?» chiede quasi
ingenua.
Emmeline
si volta di colpo, rifilandole un’occhiata di fuoco.
«No,
subire i piani malvagi della suddetta zia che fa di tutto per
sistemarmi» precisa imperiosa, percependo chiaramente la rabbia
infiammarle le vene. «Non ho bisogno che mi cerchi un fidanzato»
afferma irremovibile, troneggiando sopra l’altra.
«Infatti
non ho fatto nulla di tutto ciò» replica quella, asciutta,
sbuffando spazientita quando una cameriera, dopo aver bussato alla
porta, le porge un vassoio con un bicchiere d’acqua, ricordandole
che è ora di prendere un’altra pastiglia. «Mi sono solo limitata
a voler entrambi i miei nipoti presenti» spiega quieta, inghiottendo
la sua medicina e facendo una smorfia disgustata per il sapore
spiacevole. «Qual è il problema? Un tempo giocavate insieme»
rammenta attenta, come se non ci fosse nessun problema, congedando la
cameriera.
«Quasi
vent'anni fa» precisa lei, con foga, interdetta che non riesca a
capire quanto assurdo sia quel piano. «Dimmi che con lui hai scelto
una scusa più credibile di un bisogno improvviso di stare in
famiglia» la supplica inquieta, a bassa voce.
Zia
Joanne inarca un sopracciglio, impassibile.
«Non
capisco perché tu sia tanto nervosa» confessa, infine, spassionata,
recuperando il suo kit da ricamo
dal
tavolino accanto alla poltrona. «Non ne hai motivo. Anche perché,
da quello che ricordo, ha sempre avuto un debole per te» osserva
sagace, scrutandola con eloquenza prima di infilare l’ago nella
stoffa.
I
found a way to let you in/Ho
trovato un modo per farti entrare
But
I never really had a doubt/In
realtà non ho mai avuto nessun dubbio
Fa
un bel respiro, gonfiando i polmoni d’aria e sperando così di
calmarsi, prima di bussare alla porta.
L'uscio
si apre dopo una manciata di secondi, mostrando il volto di suo
cugino. Lo vede corrucciare appena la fronte in un’espressione
sorpresa, prima che un sorriso cortese gli compaia sulle labbra.
«Spero
di non disturbare» esordisce Emmeline, esitante, sentendosi
tremendamente impacciata e sciocca.
«Nessun
disturbo» assicura lui, lieve. «Prego» la invita gentile,
spostandosi di lato e facendole cenno di entrare.
Una
volta superata la soglia, non può fare a meno di gettare un’occhiata
di vorace curiosità alla stanza, quasi voglia controllare cosa sia
cambiato e cosa sia rimasto uguale a quando l’altro era solito
occuparla da bambino.
Com’è
prevedibile i giochi sono scomparsi. così come gli effetti
personali. Solo i suppellettili che la zia ha scelto per decorare la
stanza sono ancora al proprio posto, congelati nel tempo.
Non
dovrebbe stupirsene: Evan non è più tornato in quella casa da
quando l’ha salutata, quasi vent’anni prima, quando sua madre era
venuta di tutta fretta a prenderlo per riportarlo a Londra.
La
sua attenzione viene immediatamente calamitata dal tavolino basso,
quello davanti al divano, proprio sotto la finestra, occupato da una
serie di fascicoli voluminosi.
«Ti
ho interrotto» osserva placida, quasi dispiaciuta, indicando con un
cenno del mento quella montagna di carta. «Stavi lavorando»
constata logica.
Evan
scrolla le spalle, noncurante.
«Riguardavo
solo dei documenti» risponde piatto, prendendo posto sul divano e
facendole segno di fare lo stesso, prima di puntarle addosso quelle
iridi verdi e attente. «Che succede?» domanda, corrucciando appena
la fronte, intuendo tutto il suo disagio.
Emmeline
schiude la bocca, esitante, rimanendo in piedi.
«Quanto
è imbarazzante realizzare di essere caduti nella sua trappola?»
scherza svagata, arricciando il naso e tormentandosi le mani per il
nervosismo.
Lui
ridacchia, abbassando le ciglia.
«Avevo
dato per scontato che non mi avesse invitato solo per carenza
d’affetto» l’assicura posato, per nulla irritato di essersi
ritrovato a fare i conti con una vecchia svitata e i suoi piani
malefici. «Ma ammetto che non mi aspettavo di trovarti qui»
aggiunge quieto, quando torna a guardarla.
«Mi
spiace» si sente in dovere di dire lei, schietta, scuotendo il capo
e tornando seria. Probabilmente l’altro deve aver intuito che c’è
qualcosa di strano nell’immediato bisogno di Joanne di aver vicino
i propri nipoti per un weekend. «Non avevo idea che fosse uscita di
testa» confessa con un punta di stizza.
Evan
arcua un sopracciglia, perplesso.
«Perché
mi chiedi scusa?» replica sereno, serrando le palpebre con leggero
disorientamento. «Non mi pento di aver accettato il suo invito»
svela con lo stesso tono. «Che facciamo?» domanda, invece, scaltro.
Emmeline
sbatte le ciglia, presa in contropiede.
«Che
intendi?» domanda confusa.
«Questa
sera usciamo?» propone lui, spassionato. Quando nota come lo guarda,
ovvero con gli occhi sgranati e le labbra dischiuse per lo
sbigottimento, si lascia sfuggire una lieve risata. «Davvero vuoi
trascorrere il weekend a subire le sue lamentele perché non ha
ottenuto quello che voleva?» le fa notare lungimirante, facendole
intuire che ha capito cosa si cela dietro quell'invito di passare un
paio di giorni nel Northumberland.
Lei
si inumidisce la bocca, prima che un sorriso faccia capolino sul suo
viso.
«È
questo il tuo piano?» si informa intrigata, stuzzicata all’idea.
«No»
risponde lui, amabile, continuando a guardarla con una dolcezza che
le rende molli le gambe e che rischia di farla arrossire come se
avesse ancora undici anni. «Il mio piano è uscire, mangiare, bere,
indipendentemente da quello che vuole Joanne» chiarisce leggero,
inclinando il capo. «È così orribile?»
«Per
nulla» dichiara Emmeline, entusiasta, il sorriso che diventa più
ampio e luminoso. «Mi sembra fantastico».
Standing in the light of your halo/Di restare nella luce della tua aurea
«Questa
storia è assurda» ridacchia Eris, portandosi una mano alle labbra
per cercare di contenere le risate.
Emmeline
annuisce, intenta a studiare con occhio critico i vestiti che ha
sparso sul letto per poterli osservare meglio. Fortuna che ha
lasciato nell’armadio di quella stanza altri abiti durante i suoi
precedenti soggiorni nel Northumbria, almeno la scelta non è
ridotta.
«Lo so bene» borbotta contrariata, alzando una maglia
scura così da permettere all’altra di vederla grazie alla
videocamera del cellulare che ha appoggiato sul comodino, utilizzando
la lampada come supporto.
«Non
ci siamo» decreta l’amica, spiccia, scuotendo anche il capo.
«Mettiti il vestito nero» consiglia spassionata, alludendo a un
capo che hanno comprato insieme durante uno dei pomeriggi di sfrenato
shopping in giro per Edimburgo e che lei ritiene assolutamente
inadatto per una serata al pub. «Ti fa un bel sedere» aggiunge
adulatrice.
«Evan
non è interessato al mio sedere» ribatte Emmeline, snervata,
mettendo da parte la maglia per tornare a guardare ciò che è
rimasto sul piumone della camera da letto che ha occupato fin da
bambina a Burke House.
«Fallo
decidere a lui» sostiene Eris, divertita. «Vorrei capire come mai
ti stai facendo venire così tante paranoie se non te lo vuoi fare»
butta lì, quasi con finto candore.
«Non
mi sto facendo paranoie!» si difende lei, svelta, fermandosi dalla
ricerca dell’outfit solo per il tempo necessario
lanciarle uno sguardo
di
traverso.
«Ah
no?» replica l’amica, eloquente, inarcando entrambe le
sopracciglia. «E come mai indossi l’intimo sexy sotto la
vestaglia?» si informa diretta.
Emmeline
arrossisce appena sulle gote, imbarazzata che l’altra abbia notato
quel particolare.
«È
solo che… serve per darmi fiducia. Se lo indosso, mi sento bene e
anche bella» spiega in difficoltà, portandosi con nervosismo una
ciocca scura dietro l’orecchio.
«E
perché hai bisogno di questa iniezione di autostima?» la sprona
Eris, incalzante. Poi, quando riceve l’illuminazione, strabuzza gli
occhi blu. «Lui ti piace» decreta ad alta voce, meravigliata e
divertita al tempo stesso.
«Okay»
cede lei, esausta, crollando seduta sul letto e recuperando il
cellulare dal comodino. «Potrei aver avuto una piccola cotta per
lui» inizia a fatica, decidendo di prenderla alla larga.
«Quando?»
«A
nove anni, circa» confessa Emmeline, in un sussurro, evocando
davanti agli occhi ricordi del suo passato, a un tempo lontano e
felice dove era solita trascorrere le estati in quella casa in
compagnia di qualcuno che era quanto di più caro avesse al mondo.
«L’ho capito dopo che mi piaceva in quel senso. Insomma, ci
conoscevano fin dalla culla e passavamo tre mesi qui, dalla zia, per
cui adesso… mi fa un po’ strano vederlo… sì, così» blatera a
casaccio, senza saper bene dove andare a parare.
«Come
un uomo?» l’aiuta Eris, secca.
Lei
annuisce, sospirando pesantemente.
«Quanto
è imbarazzante sapere che ho ancora un debole per lui?» chiede in
un mormorio insicuro. «Dovrebbe essermi passata. Tutto questo è
ridicolo» sentenzia con veemenza, scuotendo più volte il capo,
cercando di razionalizzare quel grumo di sentimenti che sente premere
dentro.
Eris
ridacchia leggera.
«Non
lo è. Lo trovo molto dolce» la conforta amabile, prima che una luce
preoccupante le illumini le iridi chiare. «Vuoi un consiglio?»
squittisce deliziata, facendole seriamente venire i brividi per la
paura. «Metti il tubino nero» sostiene cocciuta.
«Eris…»
«Uno:
ti sta davvero bene» riprende l’altra, spazientita da quella pausa
inutile. Conta con le dita, così da elencare le sue valide ragioni.
«Due: tu adori indossarlo» le fa notare, sicura. «Tre: magari gli
facciamo capire che non sei più una bambina» afferma, facendola
seriamente prendere in considerazione di indossare quel capo.
«Quattro: ci scommetto quello che vuoi che lo sguardo gli scivolerà
sul tuo sedere» termina certa, rivolgendole un’occhiata e un
sorriso di chi la sa lunga.
It's like I've been awakened/È come se mi fossi svegliata
«Pretendi
troppo».
Proprio
non riesce a trattenere che un sorriso amaro le affiori sulle labbra
quando sente per l’ennesima volta quella frase, buttata lì come se
fosse una spiegazione sufficiente.
L’ha
sentita così tante volte durante gli ultimi pomeriggi con lui,
quando non facevano altro che litigare.
Ironico
essere giunti al capolinea e non volerlo ammettere.
«Non
penso» lo contraddice Emmeline, in un sussurro che sembra provocare
un boato in quella cucina del loro appartamento a Edimburgo.
Sirius,
seduto dall’altra parte del bancone, le punta addosso le sue iridi
grigie, corrugando appena la fronte.
«Che
intendi?» domanda cauto, avvertendo che c’è qualcosa che non va,
che quella non è una delle tante litigate.
Lei
scuote il capo, esitante. Poi si dice che è inutile continuare a
mentire a se stessa e è anche il tempo e il coraggio di ammettere
quello che sente.
«Non
funzioniamo» ammette dolente, cogliendo immediatamente il lampo di
confusione incupire il viso dell’altro nel momento in cui elabora
le sue parole.
Sirius
la fissa un momento in silenzio, prima di sorridere beffardo.
«Credevo
avessimo superato questa stronzata dell’anima gemella» afferma
denigratorio, scrutandola con superiorità. «È ridicolo» si
premura di aggiungere, tornando a bere il suo caffè.
Emmeline
serra le labbra, risentita.
«Sono
seria» precisa piccata, senza riuscire a reprimere l’irritazione.
«Smettiamola di continuare a far finta di nulla: non stiamo bene
insieme» insiste cocciuta.
«E
perché?» replica subito lui, aspro. «Perché non riesci ad
accontentarti di quello che già hai?» recrimina tagliente. «Emme,
ti hanno rovinato con tutte quelle storie sull’altra metà. Non
esiste un’anima gemella» termina quasi nauseato da quell’ipotesi.
E
allora perché Marlene l’ha trovata?
Vorrebbe
replicare brusca.
Forse
perché lei non si ostina a tenere in piedi qualcosa che doveva
finire già da tempo, pensa amareggiata.
«Forse
no» concede lei, sulla difensiva. «Ma non sono felice e nemmeno tu»
sostiene schietta, esternando tutto quello che pensa.
Sirius
si scioglie in una risata simile a un latrato, forzata e per nulla
divertita.
«Sei
tu che ti riduci così» insinua brutale, al limite della pazienza.
«Perché devi distruggere quello che abbiamo?» chiede, socchiudendo
appena le palpebre con fastidio.
Emmeline
non abbassa lo sguardo, per nulla intimorita.
«È
meglio che vada a fare le valigie» se ne esce a bruciapelo,
allontanandosi da quella cucina.
Probabilmente
le possibilità di incontrare l’altra metà di sé sono irrisorie –
non
siamo tutte Marlene,
riflette
consapevole – ma accontentarsi di qualcosa che non vuole più è
una menzogna dalla quale vuole liberarsi.
Se
si vuole essere felici, essere onesti con sé stessi è il primo
passo.
Every rule I had you breakin'/Ogni regola che mi sono imposta tu l’hai infranta
Finisce
di bere il suo drink, prima di appoggiare con orgoglio il bicchiere
vuoto sul tavolo.
«Meglio?»
domanda Evan, le labbra piegate in un sorriso lieve e divertito.
Lei
annuisce, dondolando appena il capo.
«Io
sì» risponde totalmente rilassata, appoggiandosi allo schienale
della sedia di quel tavolo appartato che occupano all’interno di
uno dei pub del paese. «Il tuo orgoglio?» ritorce con una punta di
sarcasmo.
«Intatto»
assicura lui, leggero, guardandola con due occhi verdi
incredibilmente affascinanti, alludendo alla scommessa fatta. «Non è
detto che tu vinca» le fa notare, spassionato, sorseggiando il suo
boccale.
Emmeline
ridacchia, ebbra di alcol e di felicità.
«Solo
perché tu bari spudoratamente» sostiene con forza, puntando le
iridi sulle loro consumazioni poste sul legno scuro del tavolo. «La
birra è più leggera del Gin Lemon» puntualizza
con la lucidità che le è rimasta.
Evan
inarca le sopracciglia, eloquente.
«Giocare
d’astuzia non è barare» precisa sarcastico, abbassando di nuovo
lo sguardo in basso. Quando li rialza, vorrebbe davvero non provare
quel fiotto di calore che dal petto le si irradia per tutto il corpo,
alzandole la temperatura e facendola di sicuro arrossire.
«Che
c’è?» chiede lei, sentendosi annaspare per la confusione.
Per
un momento pensa di essere in disordine, magari ha il rossetto
sbavato.
Lo
vede scrollare le spalle, sereno.
«È
tutta la sera che penso che il vestito che hai scelto ti stia davvero
bene» rivela lui noncurante, il tono di voce basso che la fa
rabbrividire per il piacere. «Non te l’ho detto prima perché eri
già abbastanza in imbarazzo di tuo» spiega accorto.
Emmeline
si sente avvampare sulle guance e il cuore sfondarle la gabbia
toracica, picchiettando con foga contro le costole.
«Non
ero in imbarazzo» sente il dovere di difendersi.
«No?»
«Okay,
forse un pochino sì» ammette Emmeline, arrendevole, incurvando le
labbra.
«Emme,
hai iniziato a lasciarti andare dopo il secondo Gin» rimarca Evan,
implacabile, terminando il suo boccale di birra e lanciandole
un’occhiata di beffa.
«È
solo che è strano» ammette lei, con una punta di imbarazzo,
scostandosi una ciocca di capelli scuri da davanti al viso. «Ci
siamo lasciati che eravamo dei bambini e ci rivediamo ora che siamo
così» butta lì, vaga, senza riuscire a sbrogliare quella matassa
di pensieri e sentimenti che nemmeno lei riesce a spiegare e
spiegarsi.
«Adulti?»
le viene in aiuto lui, piano.
Emmeline
annuisce.
«Quasi
degli estranei» corregge abbassando lo sguardo per la desolazione
quando è costretta a confessare quella verità scomoda. «Scusami,
non volevo rovinare l’atmosfera» si affretta ad aggiungere,
amareggiata.
«Non
l’hai fatto» assicura Evan, subito. «Non ha senso rimuginare sul
passato».
«Avrei
voluto rivederti quando i miei hanno divorziato e sono tornata a
Edimburgo» confessa lei, boccheggiando per lo sforzo di costringersi
a parlare. «Solo che sembrava assurdo contattarti dopo tutti quegli
anni di silenzio. E prima… con il divorzio dei miei genitori»
ripensa, serrando le labbra con disappunto che ancora sente addosso
quando rammenta liti, piatti rotti e mesi in cui si era nascosta
sotto le coperte, di notte, tappandosi con forza le orecchie per non
sentire quelle urla feroci tra i suoi genitori che riusciva ad
arrivare persino nella sua camera da letto. Vorrebbe solo dimenticare
quel periodo orribile. «Ti avevo promesso che ci sarei sempre stata.
Magari non te lo ricordi nemmeno» smozzica, abbozzando un sorriso
per nulla convinto e tremolante.
Lui
continua a fissarla ma i suoi lineamenti si addolciscono, prima che
allunghi una mano per sfiorare la sua appoggiata sopra il tavolo.
«Perché
avrei dovuto dimenticarlo?» ribatte serio, senza l’ombra di dubbio
a incrinargli la voce o lo sguardo. In qualche modo quella sicurezza
riesce a confortarla, scaldandole il petto con un fiotto di puro calore.
«Non sono arrabbiato, Emme, nemmeno io ti ho cercata ma questo non
significa che mi sia dimenticato di te» chiarisce sincero, piegando
le labbra in un sorriso lieve e invitante.
Emmeline,
nonostante non abbia affatto voglia di lasciare quella stretta, sente
il bisogno di dover bere per riuscire a imbrigliare quei freni
inibitori che le suggeriscono di
non farsi illusioni
e
di prendere le distanze.
Dopo
quel weekend, non lo rivedrà più. Tornerà a Edimburgo e continuerà
con la sua vita.
Lo
sa bene eppure non riesce a fare a meno di provare quel sentimento di
disorientamento. Se prima era la sua assenza che la lasciava così,
ora, al contrario, è la sua presenza che sembra mettere in dubbio la
logica.
«Ordino
qualcos’altro?» domanda di slancio, bisognosa di allontanarsi per
respirare, alzandosi in piedi con uno scatto repentino e inaspettato.
«Vado
io» si offre lui, disponibile, fingendo di non aver notato quella
bolla di imbarazzo e scacciando ogni reticenza con un sorriso. «Mi
sembri instabile» sottolinea lieve ironia.
«Come
ti sbagli, signor Rosier» lo sbeffeggia lei, sorridendo birichina.
«Ti assicuro che non bastano tre Gin per mettermi in difficoltà.
Vuoi vedere?» lo sfida canzonatoria.
Evan
la fissa con chiaro sarcasmo.
«Se
non fossi quello che ti dovrà trascinare a Burke House» replica con
lo stesso tono.
Emmeline
lo fissa con falsa compassione.
«Sei
un illuso» afferma dolce, piegandosi in avanti così da essere
all’altezza dei suoi occhi e accorciando notevolmente la distanza
tra loro. «Sarai tu quello ubriaco, alla fine» sostiene sicura,
certa che vincere quella scommessa sarà un gioco da ragazze.
Torna
al tavolo con due bicchieri colmi di alcol, anche se ammette che
camminare senza fare disastri – la testa è pericolosamente
leggera
e l’euforia indotta con due cocktail non è così facile – non è
un’impresa scontata.
Anche
perché i tacchi, croce e delizia di ogni donna, rendono tutto
più complesso.
«Niente
birra, ora giochi pulito» dichiara determinata, rispondendo a
quell’occhiata silenziosa che le viene rivolta alle nuove
consumazioni.
Lui
inarca le sopracciglia, impassibile.
«E
se non mi piacesse?» le fa notare ragionevole, alludendo al drink.
Emmeline
piega il capo con eloquenza, prima di riprendere posto alla sua
sedia.
«Dillo
a un’altra» ribatte svagata. «Giusto per la cronaca: divento
incredibilmente espansiva dopo il terzo bicchiere. Quindi puoi
scacciarmi, se ti senti molestato» concede magnanima, dopo che hanno
brindato, portandosi il Gin Tonic alle labbra.
«E
queste molestie comprenderebbero?» indaga Evan, interessato, dopo
aver bevuto un sorso.
«Di
solito mordo» svela lei, all’istante, per nulla turbata. «Ma
tranquillo: non mi spingerei a lasciarti dei segni sul collo»
ridacchia con moderazione, sentendo che il terzo bicchiere inizia a
farle effetto. «Al massimo ti infilerei le dita nei capelli e
inizierei a massaggiarti la nuca» considera quasi sovrappensiero,
distratta da quell’ipotesi. «Potrei persino tentare di baciarti»
scherza briosa.
«Non
è detto che mi dispiaccia» commenta lui, a bassa voce, serio.
Emmeline
sente l’ilarità e il sorriso scivolarle via, sotto quelle iridi
che la scrutano nel profondo con una tale intensità che la lascia
senza fiato. Non sa nemmeno lei perché si sente così esposta, nuda,
davanti all’altro o perché è quasi intrigata da quella
prospettiva.
Forse
è folle, stupido, insensato e tante altre cose ma quando lo vede
spingere con lentezza il capo nella sua direzione, non riesce a
frenarsi dal fare lo stesso, quasi ipnotizzata.
È
il rumore di un vassoio di latta caduto per terra e di vetri infranti
che la fanno trasalire, provocandole un effetto simile a una doccia
gelata e donando di nuovo un minimo di autocontrollo mentre torna ad
appoggiarsi allo schienale di legno della sedia.
Deglutisce
e abbassa gli occhi per cercare di scacciare l’imbarazzo che
quell’interruzione ha causato. Li socchiude quando vede qualcosa
che attira immediatamente la sua attenzione.
«Che
cos’è?» domanda all’improvviso, allarmata, prendendogli la mano
sinistra e spostando il tessuto della camicia per osservare meglio
quella cicatrice che ha intravisto sulla pelle pallida del polso.
«Una
cicatrice» risponde lui, noncurante. «Credo di essermela fatta il
giorno dopo esserci salutati» considera, corrugando appena le
sopracciglia per rievocare quell’episodio. «Emme?» la chiama,
piano, quando nota che è impallidita.
«Io…»
balbetta Emmeline, con un filo di voce, sbattendo più volte le
palpebre come per assicurarsi di aver visto bene. «Devo andare in
bagno» biascica in palla, frettolosa, alzandosi in piedi per
allontanarsi dal tavolo il prima possibile.
Sguscia
tra la folla che ha cominciato a riempire il pub, facendosi strada
fino alla porta d’ingresso. La apre e esce,
ritrovandosi all’esterno del locale con l’urgenza di chi ha
bisogno di una boccata d’ossigeno.
Si
accascia contro la parete di pietra, cercando di incanalare aria dal
naso così da regolare la respirazione e tentare di scacciare quel
tremolio che le scuote le membra. Si porta le mani alle guance,
sconvolta, mentre quella cicatrice formata dalle semplici linee le
torna con prepotenza in mente.
Non
ha senso,
ripete
tra sé, come per convincersi.
Non
può essere vero.
All’epoca,
quando se l’era procurata, non le aveva dato così importanza.
Anzi, aveva trovato quasi buffo che i tagli che i cocci di ceramica
le avevano procurato sul polso destro, a causa di una spinta
accidentale da parte di una domestica di Burke House e la conseguente
caduta rovinosa contro un servizio di piatti lasciato sul tavolo
della cucina per essere pulito, una ferita che quasi assomigliava, a
voler essere fantasiose, a una “e”.
«Oh
mio Dio» borbotta scuotendo il capo, infilandosi una mano tra i
capelli, scompigliandoseli e tirandoseli via dal viso.
«Credevo
avessi detto bagno» dice una voce alle sue spalle, eloquente,
facendola sobbalzare e voltare di scatto. «Che succede?» indaga
Evan, quasi apprensivo per quella reazione che gli sarà sembrata
esagerata e senza senso.
Forse
la luce dei lampioni della strada non sarà così accecante ma basta
per fargli vedere la sua agitazione, anche se non la comprende.
Emmeline
rimane in silenzio, fissandolo con due occhi scuri spauriti.
«Ora
mi stai spaventando» riprende lui, sempre più spaesato. «Emme?»
tenta di nuovo, più deciso, forse per cercare di strapparle di dosso
quell’apatia.
Lei
sospira, cercando di rilassare la postura e abbassare le spalle,
prima di spostare verso il gomito i braccialetti che le coprono il
polso destro, rivelando una vistosa cicatrice del tutto uguale a
quella che ha scoperto quasi un paio di minuti prima.
«E
allora?»
Sei
tu, è
tutto quello che il suo cervello continua a ripeterle come un
ossesso, a metà tra lo sconvolto e l’euforico. Dovevi
essere tu.
Eppure
anche in quello stato di shock, si rende conto che una parte di sé
l’ha sempre saputo.
O
forse sarebbe meglio dire
sperato.
Perché
quello che ha provato quando era al suo fianco è qualcosa che non si
è più verificato, nemmeno a distanza di tanto tempo.
Dopo
Evan non c’è mai stato nessuno.
O, meglio, nessuno che sapesse reggerne il confronto.
«Quindi
tu non ci credi?» domanda ancora frastornata.
«A
cosa?» replica lui, con lieve esasperazione. «Emme, se è per la
storia delle anime gemelle» intuisce arguto, facendola trepidare per
l’attesa. «No, non ci credo» risponde implacabile.
Lei
annuisce, abbassando lo sguardo. È davvero difficile evitare quel
fiotto di delusione che le comprime il petto, che sgonfia di colpo
tutte le sue aspettative e che la porta a provare una profonda
vergogna per essere stata così sciocca, per
averci creduto.
Non
tutti hanno il loro lieto fine, dall’altra parte.
«Prima
non ho cercato di baciarti perché pensavo a questo» riprende lui,
piano, riattirando la sua attenzione. «L’ho fatto perché era da
tutta la serata che volevo farlo» svela a bassa voce, continuando a
fissarla in un modo che non riesce nemmeno a definire.
Le
labbra le si piegano per riflesso in un sorriso rincuorato.
«Anch'io»
risponde in un sussurro, animata e tranquillizzata da quella
confessione spontanea. «Torniamo a Burke House» propone
semplicemente.
Everywhere
I'm looking now/Da
qualsiasi parte mi volto
I'm
surrounded by your embrace/Ora
sono avvolta nel tuo abbraccio
Emmeline
ridacchia contro le sue labbra quando, avanzando, rischia di
inciampare nei propri piedi.
Evidentemente
l’alcol inizia a fare effetto e i tacchi non l’aiutano a
mantenere l’equilibrio. Tuttavia non ha nemmeno per un istante corso il rischio di cadere perché le mani che le stringono i fianchi, non
hanno esitato a sorreggerla.
«A
quanto pare non sei così resistente ai Gin Tonic come credi»
scherza Evan, a bassa voce, separandosi un momento da lei per
sorridere divertito. «Hai rischiato di far cadere il vaso
all'ingresso quando mi sei saltata addosso» le fa notare con una
luce che gli balugina negli occhi verdi.
Emmeline
si scioglie in un sospiro deliziato.
«Dimmi
che ti dispiace» ironizza, le braccia intorno al suo collo,
ignorando bellamente che un simile rumore, in piena notte, avrebbe
svegliato di certo qualche domestico.
E
zia Joanne si sarebbe legata al dito quell’incidente.
«Per
niente» risponde lui, morbido, allontanando una mano dal suo fianco
per abbassare la maniglia e entrare nella sua stanza. Lei lo segue
docile, chiudendosela alle spalle così da evitare di essere beccati
in atteggiamenti compromettenti e schiacciando l’interruttore della
luce alla parete. «Ma non vorrei che domani mattina te ne pentissi»
svela, inarcando le sopracciglia con eloquenza.
«Allora
fai in modo che ne valga la pena» lo sfida giocosa, piegando il capo
di lato, prima di tornare a baciarlo.
Con
il respiro affannoso e un brivido che le scorre sottopelle, Emmeline
fa scivolare le mani dal suo collo verso i bottoni della camicia,
slacciandoglieli con frenesia. Lo aiuta a spogliarsi, senza staccarsi
dalle sue labbra e solo quando l’indumento cade a terra e sente il
bisogno di ossigeno, si allontana dal suo viso, riappoggiando
completamente le piante dei piedi a terra.
Si
lascia sfuggire un piccolo sorriso nel momento in cui scosta lo
sguardo da quel torace pallido e rincontra quelle iridi, illuminate
da un evidente compiacimento. Che diventa ancor più palese quando
gli apre la cintura e gli abbassa la cerniera dei jeans.
Appena
allontana le dita dai suoi pantaloni, Emmeline sgrana gli occhi con
un guizzo di perplessità quando si sente voltare di centottanta
gradi con un unico, fluido, movimento.
Si
ritrova a osservare la sua immagine riflessa nel lungo specchio
appeso alla parete, notando così le guance arrossate e le iridi
scure e lucide dalla bramosia.
«Non
so te» sussurra Evan, con un tono basso che la fa rabbrividire, le
labbra che sfiorano appena dietro la nuca mentre le mani sono
impegnate ad aprire la zip del vestito. «Ma per me, già così ne
vale la pena» continua carezzevole, al suo orecchio.
Lei
prende un profondo respiro, sentendo improvvisamente la bocca secca e
la pelle formicolare. Appoggia una mano alla parete, accanto allo
specchio, quasi avesse bisogno di sostenersi e abbassa per un istante
le palpebre quando percepisce una pungente languidezza annidarsi
nello stomaco.
Le
solleva di scatto nel momento in cui lui, invece di far cadere a terra il
vestito, fa scivolare le mani in basso, sopra il tessuto del tubino
in delle carezze lente che le provocano altri brividi, prima di
arrivare al bordo dell’indumento e denudarla degli slip. Solo
quando questi raggiungono il pavimento e lei se ne libera con un
movimento impaziente delle gambe, anche il tubino subisce la medesima
sorte.
Accaldata
e con solo il reggiseno addosso, Emmeline si rende conto di tremare.
E non per la vergogna ma per una smania che la scuote da dentro,
specie nel momento in cui Evan, piegando il capo per baciarle il
collo, aderisce meglio alla sua schiena. E realizzare quanto anche
lui la desideri, la fa uscire di senno.
Si
gira di scatto all’indietro, liberandosi con un movimento brusco
anche dell’ultimo capo che indossa, e baciandolo di slancio. Gli
morde appena il labbro inferiore, prima di aprire un po’ di più la
bocca e sfiorare con la lingua quella dell’altro.
Geme
e nemmeno si preoccupa di nasconderlo, nell’istante in cui
percepisce di essere toccata in mezzo alle gambe. Si abbandona di
schiena contro lo specchio, ignorando la superficie fredda e
sgradevole, troppo occupata a gustarsi quelle sensazioni.
Il
piacere arriva in ondate continue e bollenti, scaturite da quelle
dita e da quelle labbra che la stanno facendo impazzire. E con esso,
si genera anche il desiderio e l'impazienza di volerne di più.
«Evan»
sospira in un sussurro spezzato, le gambe instabili e sempre più
molli. E il modo in cui pronuncia quel nome e in cui lo
guarda, sa tanto di supplica.
Lui
la osserva con un sorriso lieve sul viso che le provoca una nuova
fitta al basso ventre, prima di spostarsi e spostarla verso il letto.
Emmeline
si siede sul ciglio del materasso, liberandosi delle scarpe che porta
ancora i piedi mentre l’altro finisce di spogliarsi. Poi con
un’occhiata che non cela la bramosia, indietreggia sul lenzuolo,
facendolo ridacchiare per quella strana complicità che c’è
nell’aria.
Sentirlo
sopra di sé, sapere
di
essere nudi, le scuote le membra e le fa scorrere nel sangue qualcosa
che non riesce del tutto a spiegarsi. Non si tratta solo di semplice
eccitazione
– l’ha
provata più volte nella sua vita, sa riconoscerla –
ma
anche una sensazione di essere complete,
come se un altro tassello di sé, dopo tanto tempo, tornasse al suo
posto.
Ride
quando Evan le sfiora un punto del collo più sensibile che le
provoca il solletico.
«Non
rovinare tutto proprio ora» lo rimprovera bonaria, con ancora quel
divertimento che le illumina il volto. «Stavi andando così bene…»
sottolinea giocosa.
Lui
si appoggia meglio sui gomiti, così da sollevare il capo dalla sua
gola e guardarla in faccia.
«Perché
altrimenti mi fermeresti?» replica ironico, a bassa voce.
«Non
lo credi possibile?»
«Per
niente».
«E
perché?»
«Perché
non vuoi» risponde morbido, non con arroganza ma con sicurezza, con
due occhi di un verde limpido. «Così come non voglio io» sostiene
piano, baciandole il polso dove spicca quella cicatrice e senza
smettere un momento di fissarla.
Emmeline
perde di colpo quel sorriso, sentendo l’urgente bisogno di
baciarlo. Lo fa finché non ha più fiato, premendo i polpastrelli
sulla pelle liscia della sua schiena.
E
solo quando lo sente dentro di sé, quando le prime, lente, spinte iniziano a divampare in quelle scintille che porteranno a un incendio devastante
che già le brucia la pelle, quando sente quelle labbra contro le
sue, affamate come mai, che le unghie inizia a conficcarsi nella
carne, aggrappandosi con disperazione come se fosse l’unico
appiglio per contrastare quel piacere che diventa sempre più
frenetico e incontrollabile.
Soprattutto
perché quando lui torna a guardarla, con un viso che dice da solo
quello che sta provando, lei perde tutta la lucidità che le era rimasta.
E
di colpo ogni cosa svanisce, rimangono solo quei gemiti sommessi,
quella bocca languida e quegli affondi sempre più incalzanti.
Baby I can feel your halo/Riesco a percepire la tua aurea
«Passata
una buona serata?» domanda zia Joanne, composta, la mattina
seguente, mentre sta gustando una fetta della sua torta preferita.
Emmeline
annuisce, ringraziando che siano da sole e che Evan abbia dovuto
rispondere a una chiamata urgente di lavoro.
Perché
altrimenti si sarebbe creata una strana atmosfera nella sala da
pranzo che avrebbe sfiorato il grottesco.
«Senti»
esordisce titubante, senza sapere bene cosa dire ma con la certezza
che l’altra abbia già subodorato cosa sia successo.
«Non
ringraziarmi» la ferma quella, lieve, ripulendosi le labbra prima di
incurvarle in un sorriso cortese. «La vecchiaia è anche questo:
vedere un’occasione e fare in modo che gli altri la colgano. Non è
così male, se non avessi bisogno di quelle dannate medicine»
decreta con velo di disappunto. «Adesso sta a voi non rovinare
tutto» sottolinea accorta.
Lei
sorride, raggiante di una gratitudine che le risplende negli occhi
scuri.
«Non
accadrà» assicura morbida, assolutamente determinata.
You're
everything I need and more/Sei
tutto ciò di cui ho bisogno e molto più
It's
written all over you face/È
tutto scritto sul tuo viso
«Ci
vediamo a Londra» mormora Evan, basso, a un soffio dalle sue labbra,
quando si trovano ai check-in dell'aeroporto.
Emmeline
annuisce, anche se non può evitare di sentire una fitta di malessere
al pensiero che si stanno per separare. Quei due giorni nel
Northumbria,
le hanno dato modo di vivere in un modo che non credeva possibile e
la consapevolezza del distacco, le provoca un dolore sordo e
pulsante.
Lui
inclina il capo di lato, così da poterla scrutare meglio.
«Lo
sai che non ti lascio, vero?» domanda con un velo di ironia,
stemperando appena quel tono morbido.
«Non
credo che tu l’abbia mai fatto» ribatte lei, consapevole, con un
sorriso dolce che muore nel momento in cui gli altoparlanti
annunciano l’ultima chiamata per il volo diretto nella capitale.
Con le braccia intorno al suo collo, si alza sulle punte dei piedi
così da baciarlo per un’ultima volta. «Cinque giorni non sono
così tanti» riflette posata.
«Dai,
vai» lo sprona, liberandolo dalla sua stretta.
Una
strana quiete la investe quando lo vede allontanarsi. È strano, fa
male incrociare per l’ultima volta quelle iridi verdi ma c’è
talmente tanta fiducia in quella promessa da riuscire a zittire la
propria inquietudine.
Perché
quando succede qualcosa di bello, bisognerebbe solo viverlo senza
rovinarselo con le paranoie.
La felicità è costituita da piccoli, quasi scontati, passi.
Baby,
I can feel your halo/Tesoro,
riesco a sentire la tua aurea
Pray
it won't hide away/Prego
affinché non svanisca
Odio le Soulmate, davvero, credo che sia un genere che non faccia proprio per me.
Io e il romanticismo abbiamo un rapporto un po' complesso e ammetto che quando si tratta di scrivere qualcosa di estremamente dolce, mi sento parecchio a disagio. Sarà perché non posso ricorrere al sarcasmo quanto vorrei.
E quindi vado in crisi.
La canzone presente nella os è Halo di Beyoncé.
Vorrei approfittare di questo spazio per ringraziare chi ha reso la nostra cartella condivisa un posto davvero speciale. Aiuta avere qualcuno che creda in te anche quando tu non lo fai. Quindi, Vale, grazie per essere nel Baratro insieme a me <3
Grazie a tutti coloro che leggeranno questa piccola storia.
Un abbraccio e alla prossima,
Blue