Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: PerseoeAndromeda    06/07/2022    0 recensioni
“Dannazione” pensò Jean. “Perché sembra ancora così bambino? Perché vorrei stringerlo forte e portarlo via, una volta per tutte, da questo schifo che ci circonda?”.
Genere: Angst, Drammatico, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Armin Arlart, Jean Kirshtein
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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Fanfic scritta per il gruppo Facebook Prompts are the way
 
Fandom: Attack on titan
Personaggi e quasi ship: Jean e Armin
Prompt: “Ho bevuto”
Rating: giallo per tematiche delicate
Genere: angst, introspettivo, malinconico, hurt/comfort
Note: Spoiler se non conoscete il finale del manga, riferimento a fragilità fisica e malattia, alcool.
 
 
 
“PRENDERMI CURA DI TE”
 
 
“Armin…”.
Jean sfiorò delicatamente la fronte del giovane comandante, gli scostò la frangia che, contrariamente al solito, era scomposta e suscitò, con quel tocco, una reazione di sorpresa.
Armin si riscosse dallo stato di torpore nel quale era immerso.
Jean non aveva smesso di osservarlo neanche per un istante, sentiva il bisogno di farlo, quasi temesse di perderlo da un momento all’altro.
Non gli era sfuggito il rossore diffuso e il lucore di quegli occhi che ora, incastonati in un viso sempre più magro, parevano più grandi che mai.
Il comandante Arlert era cresciuto, non era più il ragazzino spaurito che aveva conosciuto più di dieci anni prima.
Eppure, a Jean, spaurito lo sembrava sempre, pur nella sua determinazione, nel suo indomabile coraggio nello sfidare il mondo e se stesso.
Sempre più piccolo, sempre più fragile e smarrito in una missione autoimposta che lo stava consumando.
“Stai bene?”.
Armin sbatté le palpebre, lo fissò qualche istante con aria stranita, poi sospirò, incrociò le braccia sul tavolo e vi posò sopra la guancia.
“Ho bevuto, Jean… non ho mai imparato a reggerlo bene…”.
Il sospiro di Jean fece eco al suo: già e non aveva mai imparato che bere alcool senza mangiare niente poteva essere distruttivo.
Jean gli era rimasto accanto nel corso di tutto il ricevimento, consapevole del disagio in cui Armin versava in occasioni come quella, nelle quali era costretto a gestire colloqui, conversazioni, a trovarsi al centro dell’attenzione suo malgrado quando avrebbe, invece, desiderato scappare il più lontano possibile.
Non era una novità.
Armin non mangiava nulla, beveva per anestetizzare la mente, si sforzava di reggere più che poteva e, quando gli era concesso di isolarsi, si lasciava andare…
E il più delle volte finiva per sentirsi male.
Jean si chiese se quell’apatia che vedeva riflessa nello sguardo e nell’atteggiamento dell’amico, stesse anticipando uno dei suoi ormai troppo frequenti malori.
Osservò il viso abbandonato sulle braccia, gli occhi semichiusi in preda ad un malsano languore.
“Armin” ripeté, in un sospiro colmo di frustrazione.
Chinò a propria volta il viso sulle braccia, per portare il proprio sguardo all’altezza di quello del giovane. Poi soffiò con giocosa tenerezza sul buffo naso arrossato.
Armin lo arricciò e strizzò le palpebre.
“Dannazione” pensò Jean. “Perché sembra ancora così bambino? Perché vorrei stringerlo forte e portarlo via, una volta per tutte, da questo schifo che ci circonda?”.
“Jean…”.
“Dimmi…”.
“Mi dispiace…”.
“Per che cosa?”.
“Per essere così”.
Jean non poté fare altro se non sospirare di nuovo.
Tese il proprio viso verso quello di Armin, finché i loro nasi si sfiorarono.
“Io vorrei solo che tu ti prendessi più cura di te stesso”.
Alle labbra di Armin sfuggì un sottile mugolo di frustrazione, affondò del tutto il viso tra le braccia e rimase così, lasciando Jean a contemplare quel mucchietto di tristezza e dolore nel quale si era trasformato quello che, un tempo, era stato un ragazzino pieno di speranze e sogni.
Attese qualche istante, un movimento, una parola.
Ma sembrava che in quella creatura consumata non fosse rimasto neanche un briciolo di energia.
Le mani di Jean si fecero strada tra le braccia ripiegate di Armin, senza incontrare resistenza e trovarono le guance accaldate dall’ebbrezza.
La pelle di Armin era gelata di solito, ma Jean non fu rassicurato da quel calore, non poteva essere solo effetto dell’alcool: era malsano.
“Hai la febbre” esalò in un moto di rassegnazione.
Non era stupito, dopotutto, Armin aveva quasi sempre la febbre.
Purtroppo, a volte si alzava a livelli allarmanti: e sembrava una di quelle volte, a giudicare dalla temperatura della sua pelle.
Gli sollevò il viso.
Gli occhi adesso erano nascosti dalle ciglia che, non del tutto chiuse, lasciavano intravvedere il loro azzurro malato.
“Cucciolo…”.
“Jean… per quanto tempo continuerai a chiamarmi così?”.
La voce era sempre più bassa e spenta, le parole uscirono roche e spezzate.
Jean scosse il capo: aveva ragione, di sicuro non era più un bambino, eppure…
“Scusami… è più forte di me”.
Gli accarezzò le tempie con i pollici, riportò i loro visi vicini e posò un lieve bacio sulle labbra.
Non avrebbe dovuto, lo sapeva…
Entrambi lo sapevano, ma non poteva fare a meno di cedere a volte, i loro corpi e i loro cuori li richiamavano l’uno verso l’altro.
Gli occhi di Armin si aprirono un poco e Jean vi lesse tanta supplica e disperazione.
Lasciò ricadere la fronte su quella dell’amico.
“Perdonami… scusami, Armin… io…”.
Aveva voglia di piangere e, quando tornò a guardare il volto del giovane comandante, lo trovò rigato di lacrime, riflesso del suo stesso tormento.
“Siamo davvero due stupidi… lo sai, Armin?”.
In tutta risposta, il ragazzo ebbe uno slancio nella sua direzione e gli gettò le braccia al collo, con tale foga che la sedia sulla quale Jean era adagiato oscillò all’indietro. Ma lui era forte e riuscì ad essere sostegno per entrambi.
Si alzò ed Armin rimase aggrappato a lui, Jean lo sorresse: la loro differenza d’altezza era tale che il più giovane si trovò in punta di piedi, ma Jean non l’avrebbe mai lasciato cadere.
Gli posò un bacio tra i capelli:
“Scusami ancora, Armin… perché non riesco…”.
Venne interrotto da due minuscole dita che si posarono sulle sue labbra. Il viso di Armin rimase nascosto contro il suo petto:
“Non c’è niente da dire… sei qui… e mi basta… mi basta davvero. In questo momento sono felice che tu sia qui, perché…”.
Si interruppe e strofinò il naso sulla camicia dell’amico.
“Perché, Armin? Dillo… dimmelo perché sei felice che io sia qui”.
Gli sembrò che il giovane diventasse più pesante, non sapeva se per la debolezza o se, semplicemente, sentisse il bisogno di abbandonarsi del tutto, di farsi sostenere: Jean avrebbe voluto farlo per sempre.
Se solo avesse avuto la possibilità di donargli la sua forza, la sua essenza vitale…
Infonderla tutta in lui, per vederlo stare bene.
“Jean…”.
Quella voce…
Sempre più un fievole alito esalato a stento.
E in più soffocata dal suo petto, dal quale il comandante Arlert non si decideva a staccare il viso.
“Dimmi… Armin”.
“Sei tu che devi scusarmi…”
“Per che cosa?”.
“Perché non so farlo…”.
“Cosa non sai fare?”.
Seguì qualche istante di silenzio, durante il quale Jean sentì il bisogno di stringerlo più forte.
“Prendermi cura di me stesso… in questo sono proprio incapace”.
Non poté trattenere un sorriso nell’udire quella confessione che pareva quella di un bimbo colto nel pieno di una marachella.
Scosse il capo, gli mise il braccio sotto le ginocchia e lo sollevò.
Come sempre accadeva, la sua leggerezza lo fece tremare di spavento: una piuma, probabilmente, gli sarebbe sembrata più pesante.
Con un piccolo lamento e rassegnata accettazione, Armin reclinò il viso contro la sua spalla e si lasciò andare.
“Hai proprio ragione” borbottò Jean. “Per fortuna ci sono io a farlo al tuo posto”.
 
 
 
   
 
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