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Autore: Adeia Di Elferas    09/07/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il cielo era grigio sopra il Castello dei Cavalieri di Malta, a Magione. Il Cardinale Giovan Battista Orsini, commendatario, continuava ad tergersi la fronte con un panno umido, sperando così di sopportare meglio quella bolla di calore che, in metà settembre, ad altro non poteva portare se non a qualche nuovo fortunale.

Nella sala in cui si era deciso di tenere quella riunione segreta e importantissima ormai c'erano tutti, tranne Vitellozzo Vitelli che, per via della sua salute, aveva chiesto e ottenuto un paio d'ore di riposo, prima di unirsi agli altri, dato che il lungo viaggio l'aveva provato.

Nessuno, nemmeno Oliverotto – ancora impolverato dal tragitto percorso di gran carriera da Camerino a lì – aveva reclamato per quella richiesta e così ora tutti i 'condottieri ribelli', come si erano scherzosamente chiamati a vicenda, attendevano con calma e pazienza, ognuno rimuginando su ciò che avrebbe detto e proposto.

All'arrivo del Vitelli, moderatamente ripresosi, il Cardinale Orsini fece un breve appello dei presenti, nominando per primi i suoi parenti, ossia i due cugini Francesco e Paolo Orsini, poi proprio Vitellozzo, Oliverotto, Giampaolo Baglioni e poi Antonio Giordano da Venafro, giunto in quel consesso per fare le veci del senese Pandolfo Petrucci.

“Sappiamo bene qual è il rischio che l'Italia corre, e sappiamo anche quale sia il grido d'aiuto che i fratelli bolognesi ci hanno mandato.” iniziò il Cardinale Orsini, giungendo un attimo le mani, quasi che fosse nel mezzo di una delle sue omelie: “Non è più un mistero, credo, che il Valentino ci abbia bistrattati e tutti noi, che abbiamo combattuto sul campo per lui con ingenti spese personali, ci troviamo ora in perenne minaccia, silenziosi spettatori di quello che un tempo la Tigre di Forlì aveva predetto ai fiorentini, dicendo che la sua festa sarebbe stata la loro vigilia. Fu, infatti, la vigilia per tutti noi, e se non agiremo subito, la sarà per tutt'Italia!”

“Bologna – prese a dire a quel punto Francesco Orsini – ci ha detto apertamente quanto il Borja le sia ostile. L'occupazione di Bologna è dietro l'angolo, probabilmente pianificata per quest'inverno, o per la primavera al più tardi. Il Duca di Valentinois ne vuole fare la capitale del suo Ducato, quello che il papa vuole a tutti i costi, il Ducato di Romagna...”

“Ippolita Sforza – si inserì di nuovo il Cardinale – ha avuto un lodevole merito, nel risvegliare la coscienza del re di Francia, ma come vedete non è sufficiente, e anche in questi giorni in cui la sorella del Valentino è costretta a letto in fin di vita, lui non fa che andare e venire da Ferrara, dando ordini e puntando a Imola, cuore del suo quartiere militare, città da cui farà di certo partire l'offensiva finale!”

“Per riuscire, però, a contrastarlo davvero, ci servono alleati potenti.” fece notare Oliverotto, che aveva saggiato con mano, nel vedere imprigionare molti suoi soldati con motivazioni pretestuose, quanto potesse essere meschino e potente il figlio del papa.

“Firenze ci sarebbe di certo alleata.” prese allora la parola Vitellozzo, puntellato sulle ginocchia, in difficoltà fisicamente, ma mentalmente prontissimo: “I motivi d'odio per il papa non mancano e anche il malumore verso i francesi gioca a nostro favore... Andando e cercando le persone giuste, possiamo piegare la Signoria a nostro vantaggio.”

Ci furono un paio di minuti di silenzio completo. Molti si fidavano relativamente poco di Firenze, perché negli anni aveva dimostrato, non essendo più saldamente in mano a una famiglia in particolare, di essere troppo malleabile e incline a mutare opinione con il mutare del vento.

“In questi giorni – insistette il Vitelli, comprendendo le perplessità dei più – stanno votando per un Gonfaloniere che sia a vita, come il Doge veneziano. Non dobbiamo più temere i cambi di governo... Ottenuta la fiducia del Gonfaloniere, sarà come relazionarsi a un altro Duca o Marchese e non più a una manica di signorotti che tirano la giacchetta del capo di turno ora di qui e ora di lì...”

“Sono d'accordo.” convenne Antonio Giordano: “Firenze è sempre stata difficile da capire proprio a causa di quella pluralità. Morto il Magnifico, non abbiamo più avuto una figura univoca con cui avere a che fare... Ma se faranno questo Gonfaloniere a vita, la cosa cambia, e di molto.”

“Secondo me ci farebbe comodo anche l'appoggio di Venezia.” si aggiunse Paolo Orsini: “Loro hanno protetto il Pandolfaccio per anni e sono stati sempre morbidi, verso i signori romagnoli... Ci scommetto che, solo per indebolire Roma, sarebbero più che pronti a darci uomini e armi per questa impresa.”

Giampaolo Baglioni, che fino a quel momento era stato in silenzio e aveva ascoltato tutti con attenzione, si schiarì la voce e disse: “Siamo tutti d'accordo: non lasceremo sola Bologna e cercheremo aiuti a Firenze e a Venezia. Però io dico che si deve partire dal cuore di tutto questo problema. Per questo propongo di mandare qualcuno a Urbino e sobillare la popolazione. Alla fin fine il Valentino ha conquistato la città da una manciata di settimane... Lo smacco è ancora fresco, possiamo pungerli nell'orgoglio e portare la cittadinanza a una rivolta contro il nuovo tiranno. Se perderà Urbino, quel ragazzino che non è altro perderà anche la lucidità e con essa la guerra che gli scateneremo contro.”

Per qualche istante, tutti i presenti si scambiarono lunghe occhiate silenziose. Nessuno di loro intendeva retrocedere di un passo, eppure, nell'essere arrivati al dunque, al giorno della decisione, tutti loro avvertivano un brivido profondo. Sapevano che, per quanto denigrassero apertamente Cesare Borja, il figlio del papa era in grado di essere cattivo e violento ed erano altrettanto consci del fatto che il pontefice aveva occhi e orecchie ovunque.

“Siamo sicuri, nel cercare l'appoggio di Firenze?” chiese all'improvviso Oliverotto da Fermo, perplesso.

“A parer mio – insistette Vitellozzo – si tratta della potenza più facile da convincere e più vicina alla Romagna che ci sia... Quindi un tentativo va fatto, con cautela, certo, ma va fatto e basta!”

Il dibattito si accese e per quasi un'ora gli uomini che un tempo erano stati fedeli al Valentino deliberarono che i tempi erano maturi e si accordarono su come dividere non solo le spese e le responsabilità, ma scelsero anche chi mandare a parlamentare con Firenze, Venezia e Urbino.

“Innescando per prima Urbino – concluse il Cardinale Orsini, che tra tutti pareva il più entusiasta di tutto quel complicato progetto – la vittoria non potrà che essere nostra.”

“Urbino deve ribellarsi entro e non oltre la fine del mese.” ci tenne a precisare Giampaolo Baglioni, che vedeva nella subitaneità del piano la sua possibile riuscita.

“E sia.” convenne il Giovan Battista: “Se per il momento non abbiamo altro da decidere, proporrei a tutti di mangiare qualcosa... Alcuni di noi più tardi dovranno mettersi sulla via, e non è bene farlo a stomaco vuoto...”

 

“Va bene, se non c'è pericolo...” fece Caterina, guardando più che altro Fortunati, mentre Sforzino restava in attesa con il fiato quasi sospeso.

Il piovano sollevò le sopracciglia e, sperando di non prendersi troppe responsabilità, rispose: “La Tavola di Nostra Donna di Santa Maria Impruneta attira sempre molta gente e il motivo per cui la si è andata a prendere è serio, si tratta, insomma, di chiedere la grazia di eleggere un buon Gonfaloniere a vita...”

“Non hai risposto alla mia domanda.” ribatté la Leonessa: “Ritieni che sia pericoloso per mio figlio andare in città con te per vedere questa reliquia?”

Francesco si grattò la nuca e poi, sempre molto cauto, ribatté: “Se preferisci, puoi far venire con noi anche frate Lauro... Magari sarebbe meglio che Sforzino stesse con lui, che a Firenze non è conosciuto...”

A Caterina spiaceva dire di no al figlio, specie perché non le chiedeva mai nulla e sembrava che tenesse in modo particolare a prendere parte a quella sacra esposizione. Fortunati, per parte sua, fin da subito aveva lasciato intendere che anche secondo lui sarebbe stata una buona idea lasciare che Sforzino partecipasse all'evento...

La donna si morse il labbro e poi guardò di nuovo prima il figlio e poi il fiorentino. Malgrado il loro ultimo battibecco, in cui la Tigre gli aveva proposto di stare lontani per almeno tre settimane, Francesco era tornato da Cascina nel giro di pochi giorni, portando con sé la notizia della venuta in città della sacra Tavola e quella, per la Sforza molto più interessante, della cattura definitiva di Annibale da Varano, preso a Cattolica.

“Lasciate che vada.” implorò una volta di più Sforzino, il volto paffuto che si faceva rubizzo per l'imbarazzo nell'avanzare in modo tanto deciso una richiesta alla madre.

La donna sospirò: “Va bene. Chiederò a frate Lauro di accompagnarvi.” poi, pensandoci un istante, chiese, tanto al ragazzino quanto al piovano: “Vi dispiacerebbe se anche Bernardino venisse con voi?”

Sforzino disse subito di no e, anzi, aggiunse che sarebbe stato felicissimo di andare in città assieme al fratello, mentre Francesco storse la bocca: “Posso parlarti un momento? Da soli.”

Caterina sospirò e poi, dicendo a Sforzino di andare a riferire tutto a Bossi, in modo che si preparasse, fece cenno al fiorentino di sì.

Dopo che il Riario se ne fu andato, la milanese incrociò le braccia sul petto e guardò un punto indefinito della libreria mezza vuota: “Che devi dirmi?”

“Sei sicura che sia una buona idea portare in città anche Bernardino?” chiese il piovano, sulle spine, incapace di dirle apertamente quello che pensava, ossia che il Feo fosse troppo scapestrato e difficile da gestire, per lui e per frate Lauro e che il rischio che si cacciasse in qualche guaio solo per il gusto di farli tribolare era troppo alto.

“Bernardino è sul punto di scoppiare.” spiegò la Tigre, che, fino a quel momento, aveva fatto finta di non accorgersene, ma che ben capiva il malessere del piccolo Feo: “Se non lo portate un po' fuori da questa villa, allora sì che avremo un problema.”

“Ma...” iniziò il religioso, che avrebbe voluto far notare come, fino a quel giorno, la donna non avesse mai proposto nulla del genere e che, quindi, l'urgenza non doveva essere così indifferibile.

“Ti chiederei di portare a Firenze anche Galeazzo, ma temo che lui sarebbe più riconoscibile e di Lorenzo non mi fido, non so mai cosa potrebbe fare...” riprese la Leonessa, troncando sul nascere le proteste del piovano: “Anzi, ne approfitto per dirti che voglio vedere di nuovo mia figlia e anche Giovannino. Il parto ormai è vicino e voglio assicurarmi che stia bene. E Giovannino... Ormai ha quasi quattro anni e mezzo. Se continuerà a vedermi così di rado, finirà per dimenticarsi la mia faccia. Mi stava già succedendo con Bernardino, e non mi sembra il caso di fare due volte lo stesso errore...”

Soverchiato dalle richieste della sua amata, Fortunati si accigliò e fece un gesto con cui le chiedeva di rallentare: “Una cosa per volta.” sottolineò: “Intanto... Va bene, porterò anche Bernardino, ma voglio che ti renda conto che potrebbe essere un problema. Specie perché passeremo la notte in città e...”

“Mio figlio è sveglio.” tagliò corto la Leonessa: “Saprà cavarsela. Fin da piccolo è stato abituato a girare da solo nei bassifondi di Forlì e se l'è sempre cavata, non vedo perché non dovrebbe fare altrettanto a Firenze, con due uomini adulti vicini.”

“Firenze non è Forlì.” precisò il piovano, ma non volle più contraddire Caterina, per paura che si arrabbiasse: “In ogni caso, il giorno dopo è prevista la votazione finale per il Gonfaloniere. Io aspetterei in città finché non avrò notizie ufficiali e solo allora tornerei a portarti i ragazzi...”

“Va bene.” accettò la donna, avvicinandosi a Francesco e dedicandogli un sorriso: “Sono felice di averti al mio fianco.”

Lui la guardò per un lungo istante, in un modo particolare che la milanese non riusciva a capire. E forse proprio per questa sua difficoltà, la Sforza preferì sciogliere quel piccolo attimo di tensione dandogli un bacio veloce sulle labbra.

“Divertitevi, con questa pala...” concluse, come a dire che ormai tutto era deciso.

“Tavola – la corresse l'uomo – tecnicamente è una tavola.”

“Quel che è.” sospirò lei, baciandolo di nuovo, con maggiore insistenza, per poi soggiungere: “Io non ti correggo quando chiami bombarda un falconetto...”

Il piovano, dopo aver aperto la bocca per ribattere e averla subito richiusa, scosse il capo e pretese un terzo bacio dalla sua amata e, solo dopo averlo ricevuto, ci tenne a precisare: “La fede dovrebbe essere di tutti, le armi di pochi...”

 

“La situazione è complicata – stava spiegando il Cardinale Raffaele Sansoni Riario – e ora che Madonna Lucrecia è stata dichiarata fuori pericolo, non credo che il Duca di Valentinois resterà con le mani in mano.”

“Perché non scappiamo anche noi a Savona, come ha fatto nostro cugino?” Ottaviano, nel citare Giuliano Della Rovere aveva allargato platealmente le braccia, quasi a dire che emulare il parente era la soluzione più ovvia e semplice.

“La posizione di nostro cugino – prese allora a dire Raffaele, misurando le parole – è estremamente complessa. Malgrado sia da poco Vescovo di Vercelli, in Vaticano non è amato. È comunque lo zio della moglie di un Varano, il suo sangue è mescolato a quello di metà dei signori spodestati del centro Italia e...”

“Anche il nostro lo è.” fece notare il Riario, sporgendo il mento in fuori: “Anche noi siamo in pericolo: scappiamo.”

“Noi possiamo fare molto, invece.” insistette il Cardinale, che, ora che era finalmente riuscito ad avere quell'incontro con il cugino, voleva che fosse il più proficuo possibile: “Sia per noi stessi sia per vostra madre.”

Solo nell'udire quel plurale Cesare, che era rimasto in silenzio e in disparte fino a quel momento, si sentì in dovere di dire qualcosa: “Io a giorni ripartirò per Pisa: ho troppi impegni che non posso più ignorare. Per nostra madre ho fatto quello che potevo. Ora sta a mio fratello: è lui il maggiore e l'erede.”

“Lo sappiamo tutti che per nostra madre l'unico erede è Galeazzo.” lo frenò Ottaviano, sputando veleno: “E lo sarebbe anche Bianca, se solo non portasse la sottana...”

Raffaele, che non capiva il perché di tanto astio, batté le mani un paio di volte e riprese: “Ora dobbiamo essere come non mai coesi. Io posso mettere i miei soldi e le influenze che ho ancora, ma voi – e questa volta si rivolse solo a Ottaviano – dovete promettermi che vi impegnerete.”

Il giovane, passando una mano tra i lunghi capelli, si prese un momento. Non si era mai impegnato seriamente in nulla, non aveva mai trovato alcunché che ne valesse la pena. Perché avrebbe dovuto cominciare a ventitré anni?

“Vostra madre – provò a dire Sansoni Riario, convinto che fosse quella l'unica molla capace di accendere un guizzo nel cugino – ha sofferto immensamente per la perdita del suo Stato e di certo amerà immensamente colui che l'aiuterà concretamente a riprenderselo.”

Quelle parole macinarono a fondo nella testa di Ottaviano che, alla fine, con tono volutamente svogliato, concesse: “Posso sentire il da farsi e vedere come posso essere utile io...”

Invogliato da quello spiraglio di collaborazione, il Cardinale si schiarì la voce e prese a riassumere con attenzione tutte le novità che si stavano accavallando sullo scacchiere italiano. Parlò di come Miguel de Corella, fedelissimo del Valentino, fosse a Gubbio, in quei giorni, assieme a Ugo di Moncada, per proteggere la rocca da alcune ribellioni e di come si pensava che da lì sarebbe andato verso Rimini. Infatti non era un mistero che Dionigi Naldi stesse difendendo con appena seicento fanti proprio Rimini dal ritorno funesto di Pandolfo Malatesta. Il Valentino in persona aveva chiesto a Michelotto di ripiegare a Rimini il prima possibile, portando con sé non meno di cinquecento fanti, duecento cavalleggeri e cento armigeri, dato che il Pandolfaccio, così incapace come signore di uno Stato, restava comunque un grande soldato e un discreto stratega.

“Anche se nel mezzo – dovette ammettere Raffaele, sollevando le sopracciglia, così preso dalle proprie parole da non notare lo sguardo vuoto di Ottaviano, che non riusciva a seguire il discorso, per quanto non fosse tra le più complesse trattazioni belliche possibili – è verosimile che il Corella dovrà fermarsi a San Leo, perché alcune genti di Urbino, non si è ancora capito sobillate da chi, hanno messo in piedi una vera e propria rivolta...”

“Ci fosse nostra madre – commentò aspro Cesare, le mani sul crocifisso che portava al petto e un'espressione strana in viso, che poteva sottendere tanto disprezzo come ammirazione – avrebbe già capito chi c'è sotto questa rivolta...”

“Nostra madre ha fiuto per la guerra, te lo concedo, ma non ha capito in tempo chi c'era sotto, per esempio, quando hanno fatto a pezzi il suo amante.” commentò con cattiveria Ottaviano: “E anche dopo ci ha capito poco... Ha ammazzato mezza Forlì, ma noi tre siamo ancora qui, vivi e vegeti.”

Il Cardinale, che si sentiva moralmente – e non solo – coinvolto nella morte di Giacomo Feo, avendo ai suoi tempi appoggiato la congiura, pur credendo di essere nel giusto e di favorire a tal modo la cugina, si fece il segno della croce e sbottò: “Non parlate di certe cose con questo tono!”

Il Riario più grande avrebbe voluto far presente all'illustre parente che se quel giorno erano lì a discorrere di guerra e politica era solo perché tutti e tre avevano qualcosa di enorme da farsi perdonare, ma lasciò perdere, non aveva voglia di impantanarsi in un discorso del genere, quando lui per primo non aveva alcuna voglia di ragionare sui propri errori passati.

Il lungo momento di stasi, in cui ciascuno dei presenti rifletté sulla propria posizione, venne interrotto da Raffaele che, con un sospiro, riprese il bandolo della matassa: “Il Duca di Valentinois, ora che Madonna Lucrecia, come vi dicevo, si è ripresa, sta egli stesso andando in Romagna. È probabile che si rechi a Imola, dove ha posto il suo Quartiere Generale, e da lì secondo alcuni marcerà verso nord, per punire la superbia di Bologna. Ecco perché è proprio coi Bentivoglio che dobbiamo cercare un'alleanza.”

“E trovarci dalla parte degli sconfitti?” chiese Ottaviano, con voce strascicata: “Non ci penso proprio...”

“Saremo dalla parte dei vincitori: se nel Centro cominciano le rivolte contro i Borja, alla fine Bologna avrà tutta la Penisola al suo fianco e il figlio del papa nulla potrà contro mezza Italia. In più, i Bentivoglio, grazie a Madonna Ippolita, sono nostri parenti...” valutò il Cardinale, allargando le braccia con fare d'ovvietà.

“Casomai sono nostri parenti.” precisò allora il Riario più grande, indicando sé e il fratello: “Si tratta di una Sforza, non di una Della Rovere o di una Riario...”

“Io sono vostro parente – ribatté allora Raffaele, esponendo una teoria di cui si era sempre sentito araldo – e quindi se i parenti dei miei parenti sono miei parenti, allora anche i Bentivoglio sono miei parenti.”

“A ragionare in questo modo, potreste chiamare fratello perfino il demonio...” sbuffò Ottaviano.

Il Cardinale per primo non aveva alcun interesse a litigare con il congiunto, così, cambiando argomento, portò Ottaviano a più miti consigli e, nel giro di una mezz'ora, nessuno trovò più nulla da dire.

“Allora, per concludere...” sospirò infine Sansoni Riario: “Abbiamo un accordo?”

“Come si è detto: faremo quello che potremo.” accettò il Riario maggiore, congedandosi subito dal cugino e lasciando la saletta.

“Quando ripartirò per Pisa – fece a quel punto Cesare, accorato – prenderete davvero mio fratello con voi? Mia madre, di certo, si sentirà più tranquilla, nel saperlo accompagnato da voi, piuttosto che qui a Piacenza da solo...”

“Lo porterò con me, come deciso.” convenne il Cardinale: “Anche se Ottaviano è un uomo adulto, e voi ne parlate come se avesse bisogno di una balia...”

Il Riario fissò a lungo il parente che, malgrado i suoi quarantadue anni, sembrava molto più vecchio in quel momento: “Non vivevo con mio fratello da molto tempo: anche io non avrei creduto che gli servisse una balia, stante la sua età...” e poi, dopo un attimo di esitazione, riprese: “Voi che avete molta più voce di me in Vaticano, vi prego, se non si riuscisse a sistemarlo altrimenti, trovategli un cappello rosso e un angolo di mondo che sia tranquillo, dove possa starsene per conto suo senza far danni...”

Raffaele, stupito da quella preghiera, così angosciata da spaventarlo, annuì subito e poi disse: “Ora dobbiamo pensare a quel che ci siamo detti. Tutto il resto verrà da sé.”

“Mi auguro che abbiate con voi molto denaro.” soffiò infine Cesare, facendosi il segno della croce e baciando poi il crocifisso: “Mio fratello ha molti vizi, probabilmente per colpa di mia madre che non l'ha mai frenato, e se non li soddisfa nel modo e nei tempi che intende lui, tende a diventare difficile da gestire.”

Il Cardinale aveva capito da tempo che non sarebbe stato facile, avere a che fare con il giovane Ottaviano, eppure a ogni parola di Cesare la sua determinazione vacillava.

“Io baderò a lui come fosse figlio mio – concluse comunque Raffaele, allargando un po' le spalle, quasi a voler simboleggiare così la strenua determinazione a prendersi quel fardello, seppur temporaneamente – e state certo che finché sarà con me non correrà rischio alcuno.”

Il Riario lo ringraziò di cuore e poi gli propose di pregare insieme prima dell'ora di cena. Per quanto non fosse una sua priorità, in quel momento, il Sansoni Riario accettò volentieri e seguì il cugino nella cappella gentilizia del palazzo, felice di vedere almeno in quel giovane uomo un barlume sincero di fede cristiana.

 

“Come sarebbe a dire che Bernardino non si trova da nessuna parte?” la voce di Fortunati si era fatta così acuta che frate Lauro temette di vederlo stramazzare al suolo da un momento all'altro.

“Andate a sentire cosa deciderà la Signoria...” provò a stemperare proprio Bossi, abbozzando il suo consueto sorriso serafico e agitando la mano in aria, come nulla fosse: “Di certo il nostro Carlo si farà vivo presto...”

Sforzino stava entrando nella saletta proprio in quel momento e, nel sentire il nome Carlo, appellativo con cui Bernardino era ormai chiamato da tutti, salvo che dai fratelli, dalla madre e dal piovano, lo allarmò. In effetti quando si era svegliato, poco prima, non l'aveva trovato nel lettuccio accanto al suo, ma, conoscendolo, aveva pensato che fosse già in giro per il palazzotto a combinare disastri.

Fortunati era pallido come un cencio e faticava a muovere la lingua, del tutto impaniata. Il suo peggior incubo si era fatto realtà e lui non si era accorto di nulla. Aveva creduto che lasciare i due figli della Tigre assieme a frate Lauro presso quell'abitazione – proprietà di un suo conoscente fidato – sarebbe bastato a evitare disastri, e invece...

“Il nostro Carlo – riprese Bossi, facendo del suo meglio per convincere il piovano a calmarsi e andare a fare quello che la Tigre voleva da lui, ossia scoprire chi sarebbe stato eletto Gonfaloniere a vita – conosce la città, lo sapete. Non è la prima volta che vi si avventura da solo... Vedrete che appena sarà chiaro, rientrerà da solo...”

“Voi sapete dove si è cacciato?” chiese Francesco, accorgendosi in quel momento dell'arrivo di Sforzino: “È vostro fratello! Vi avrà detto qualcosa!”

In effetti, il giorno prima, appena finita la processione per la Tavola di Nostra Donna di Santa Maria Impruneta, Bernardino gli aveva detto, con aria misteriosa, che quella notte aveva intenzione di fare molte scoperte. Il Riario aveva subodorato il desiderio del fratello minore di voler scappare e star fuori tutta notte, ma non l'aveva preso sul serio, convintissimo che non sarebbe riuscito a uscire di nascosto come aveva fatto spessissimo dalla rocca di Ravaldino.

“Rientrerà a breve.” fece Sforzino, ostentando una sicurezza che non aveva: “Andate pure alla Signoria o dove dovete, tanto mio fratello sarà qui nel giro di un'ora al massimo.”

Francesco fissò attentamente il viso rotondo del ragazzino e i suoi occhi, che sembravano limpidi come due specchi d'acqua. Non aveva mai visto né malizia né falsità nel Riario, tanto meno si aspettava di trovarle quella mattina, dopo che il giorno addietro Sforzino non aveva fatto altro che pregare davanti alla Tavola...

“E va bene.” concluse, volendo dar credito alla buonafede del figlio della Tigre: “Mi raccomando, però, se dovesse ritardare anche solo di un minuto, esigo che mi mandiate a cercare, in modo che possa attivarmi personalmente per ritrovarlo!”

Una volta ribadito di nuovo il concetto, il piovano si decise a far quello che doveva e, tra una preghiera silenziosa e un intercalare di disappunto, uscì dal palazzotto per andare alla piazza della Signoria, nella speranza di poter seguire da vicino l'elezione del Gonfaloniere, così da poter sia sapere il nome del prescelto, sia saggiare gli umori della città.

Arrivato in loco, cercando nella folla che già si stava accalcando un volto amico, come quello di Jacopo Salviati, si trovò invece faccia a faccia con Niccolò Machiavelli.

“Messer Fortunati...” fece questo, osservandolo in modo indagatore: “Siete qui anche voi... Certo che avete buon tempo, per seguire tutti i vostri affari, e quelli di Firenze e anche quelli della Leonessa di Romagna... Siete ancora il suo confessore?”

Sorpreso da quella domanda, Francesco si ricordò solo in un secondo momento dei commenti aspri che Caterina faceva sempre, nel sentir nominare Machiavelli. Si erano conosciuti, era bene rammentarlo, in un momento difficile, a Forlì, ma evidentemente entrambi erano rimasti segnati dalla reciproca antipatia che, a distanza di anni, ancora era palpabile.

Così, dissimulando al meglio ogni tipo di emozione, il piovano annuì e, occhieggiando verso la porta del palazzo della Signoria, sperando che si liberasse presto per potervi entrare e lasciare Niccolò al suo destino, rispose: “Sì, sì, ho questa incombenza... Noi uomini di Dio non possiamo sottrarci, quando un'anima penitente chiede aiuto.”

L'altro sollevò le sopracciglia e arricciò il naso adunco, prima di commentare: “Ne ha di peccati da farsi perdonare, quella belva...”

“Come avete detto?” Fortunati aveva sentito benissimo, ma voleva dare al Machiavelli un'occasione per tornare sui suoi passi senza essere ripreso apertamente per la sua mancanza di rispetto.

“Dicevo – fece allora questi, alzando la voce per farsi sentire ugualmente sopra al brusio crescente dei presenti – che quella donna ha molte cose di cui chiedere perdono a Dio. Certo, ha avuto una vita complicata, non sta a me farle una colpa dei suoi vizi capitali, quali lussuria in primo luogo e ira in secondo, però...”

“Non sta a voi: solo Dio la può giudicare.” tagliò corto il piovano, cominciando a muoversi in avanti, seguendo la fiumana di gente.

“Quella fiera...” continuò a dire Niccolò, stando accanto a Francesco, mentre avanzavano a fatica nella ressa: “Se non fosse stato che mi avevano messo in guardia, si sarebbe presa anche me!”

“Se pensate che avesse mire anche su di voi – non si trattenne Fortunati, che invece ben sapeva quanto Machiavelli facesse ribrezzo alla Tigre – allora è proprio vero quello che dicono di lei, ossia che non va per il sottile e le basta vedere un paio di brache per cadere in tentazione.”

Non riuscendo a capire se quella fosse una battuta di scherno rivolta alla Sforza o proprio a lui, Niccolò fece un sorrisetto teso e riprese, cercando di riportare la conversazione su un piano a lui favorevole: “Non vi invidio, comunque... Voi siete un sant'uomo, lo sanno tutti, a Firenze, e avete con fervore abbracciato una vita fatta di preghiera e castità... Per quello nessuno si oppone a farvi stare al suo fianco in modo tanto stretto... Se foste un uomo appena più terreno e meno santo, quella meretrice avrebbe sedotto anche voi e, una volta che vi avesse preso come amante, vi avrebbe usato come una sua pedina, senza pietà, come ha fatto sempre con gli uomini che ha avuto... Invece di redimerla, insomma, avreste finito a diventare parte della sua dannazione e lei sarebbe stata la vostra!”

Fortunati, nel sentire e, soprattutto, nel capire a fondo quel discorso, cominciò a sudare freddo. Non tanto perché si sentisse giudicato come peccatore, né perché si ritenesse uno stupido ad aver ceduto alle richieste di Caterina, diventando in effetti suo amante, ma quanto perché quelle parole lo mettevano davanti a una verità universale che quella stessa mattina aveva volutamente ignorato: le persone non sempre si comportavano come ci si sarebbe attesi da loro.

Il suo pensiero era corso subito a Sforzino. Quella mattina, quando il giovane Riario gli aveva assicurato di essere al corrente dei progetti di Bernardino, e lo aveva tranquillizzato sull'ora di rientro del Feo, Fortunati aveva deciso di credergli senza colpo ferire, ritenendo Sforzino incapace di mentire tanto facilmente. Esattamente come a Firenze nessuno immaginava che proprio lui, il piovano di Cascina, irreprensibile al punto da essere definito spesso un 'santo', fosse in grado di trascorrere una notte di passione con una donna come la Tigre.

Così come lui era stato in grado di trasformarsi in un altro uomo per amore della Sforza, così il Riario poteva essere stato capace di mostrarsi bugiardo per amore del fratello...

La sola idea che le cose fossero tutt'altro che sotto controllo fece sì che il suo cuore battesse all'impazzata e la sua vista si offuscasse. Niccolò, al suo fianco, aveva ripreso a parlare, ma Fortunati non era nelle condizioni di seguire alcun discorso. L'unica cosa che poteva fare era allontanarsi e trovare un modo per calmarsi, seguire la riunione della Signoria, pregare che Bernardino stesse bene e poi correre al palazzotto e attivarsi nel caso in cui il piccolo Feo non fosse ancora tornato.

“Scusatemi...” fece Francesco, guardando un punto indefinito e accelerando, per quanto poteva, il passo: “Ho visto un amico e devo...”

Machiavelli non ebbe la prontezza di trovare una scusa per trattenerlo e così, non riuscendo a stargli dietro, lo perse tra la folla.

 

   
 
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