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Autore: Nao Yoshikawa    17/07/2022    4 recensioni
Dieci nuclei familiari, dieci situazioni diverse tra loro: disfunzionali o complicate o fuori dalla cosiddetta "norma".
Anche se alla fine, si sa, tutti quanti sono all'eterna ricerca di una sola cosa: l'amore.
Byakuya detestava tornare al proprio appartamento, specie a quell’ora. Dopo la morte di Hisana aveva preferito andare a vivere da un’altra parte, in un luogo dove non avrebbe avuto ricordi dolorosi.
A Orihime piaceva molto l’odore di casa sua. Profumo di colori a tempera misto a biscotti appena sfornati.
Ishida era un po’ seccato, non solo per la stanchezza, ma perché odiava quando Tatsuki non rispettava i piani. Anche se comunque non si sarebbe arrabbiato a priori.
Rukia era provata, si poteva capire dal suo tono di voce. Era brava a nascondere i timori dietro una facciata di allegria ed energia, ma Ichigo la conosceva bene.
Naoko era indispettita. Possibile che nessuno capisse il suo dramma?
Ai muoveva le gambe con agitazione. Indossava delle graziose scarpette di vernice nera e molti le dicevano spesso che aveva il visino da bambola, con i capelli scuri e gli occhi di una sfumatura color dell’oro.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai, Yaoi | Personaggi: Gin Ichimaru, Inoue Orihime, Kurosaki Ichigo, Nuovo personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
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Capitolo trentadue
 
Ai era stanca, aveva auto una giornata impegnativa. Prima la scuola, poi aveva ricevuto la terribile notizia dell’incidente di Miyo. Poi era andata in ospedale a trovarla. Adesso invece non aveva voglia di fare proprio niente. Se ne stava lì, in ginocchio sul pavimento, un braccio poggiato sul tavolo, ad accarezzare Jin Jin.
«Ai, vuoi andare a dormire?» domandò Nemu, mentre si scioglieva la treccia. Lei scosse la testa.
«Sono stanca, ma non tanto da dormire. Sono preoccupata per Miyo.»
«Non preoccuparti per lei. Starà bene, te lo posso assicurare» aveva risposto Mayuri. A sua volta sentiva addosso una stanchezza strana, più emotiva che fisica. Per questo diceva sempre che emotivamente era bene non farsi coinvolgere quando facevi il medico. Alle volte falliva anche lui. Oramai ci stava scendendo a patti con l’idea di essere un essere umano come tutti. Ai sollevò la testa e fece segno ai suoi genitori di avvicinarsi.
«Devo fare una domanda.»
«Solo una?» domandò Mayuri stancamente, sedendosi di fronte a lei. Ai si fece attenta e si aggrappò al suo braccio.
«È vero che non mi volevate?»
Quella domanda le premeva da tempo. Certo, ora le cose stavano iniziando ad andare meglio, ma Ai non dimenticava. Quelle cose poi non si potevano dimenticare e lei voleva sapere. Oramai non poteva fare più male di così. Nemu arrossì, mentre e si torturò le ciocche di capelli. Mayuri guardò sua moglie e poi guardò Ai. Quante volte le aveva detto di non porre domande sciocche? E invece aveva sempre posto le domande più intelligenti, più giuste, a cui nemmeno un adulto avrebbe saputo rispondere.
«Questa è una domanda difficile a cui rispondere» ammise Mayuri, che in genere aveva sempre la risposta a tutto. Nemu si inginocchiò accanto a lui, portandogli una mano su una spalla. Quella era una domanda a cui doveva rispondere anche lei. E lo avrebbe fatto senza mentire o girarci attorno.
«Quando ho scoperto di essere incinta, è stato inaspettato» iniziò a raccontare Nemu. «All’inizio mi sono così spaventata, Ai. Non sapevo cosa avrei fatto né se sarei stata in grado di fare la madre. Però sai… la paura e il panico sono durati poco» le sue labbra si incurvarono in un sorriso. Quel periodo era stato il più strano e meraviglioso della sua vita. «Ti ho sempre voluto, Ai. Ma la paura a volte ti blocca.»
Ai sospirò e si sentì un po’ sollevata. Per tanto aveva convissuto con l’idea che non fosse stata voluta. Mayuri capì che ora toccava a lui parlare.
«Per me la cosa è andata un po’ diversamente. Paura, avevo paura, certo. Direi che ero terrorizzato. Dicevo che con i bambini non ci sapevo fare, che non avevo istinto paterno. Non l’ho realizzato subito perché mi sembrava assurdo che da me potesse nascere qualcosa. Cioè… io ci ho messo il cinquanta per cento del lavoro, chiaramente. Insomma, in modo molto stupido e confusionario sto cercando di dire che è vero: all’inizio ero terrorizzato. Come avrei fatto? Non si studia certo per essere genitore, nessuno te lo insegna. Però volevo anche conoscerti, vedere come saresti stata. Chi saresti diventata. Anche io penso di averti sempre voluta. Ma lo hai visto anche tu, Ai, come io sia negato in certe cose. Anche se ora ci sto provando e…»
Mayuri aveva parlato a lungo, ma si era fermato quando aveva visto sia Ai che Nemu trattenere a stento le lacrime.
«… Ora che ho detto di sbagliato?» domandò a disagio. Nemu scosse la testa.
«Niente. È che tutte queste cose non me le avevi mai dette. Sono felice di saperle.»
Ai singhiozzò.
«Ma allora io non sono un errore.»
E dicendo ciò si asciugò le lacrime sulla manica. Mayuri si protese in avanti e prese il suo viso tra le mani.
«Oh, che pazienza. Di errori ne ho e ne abbiamo fatti tanti, ma tu rientri tra ciò che di buono abbiamo fatto.»
«Direi la cosa migliore» aggiunse Nemu. Ai si sentiva così calda in quel momento. Non doveva immaginare di essere avvolta in un abbraccio, perché ora ad abbracciarla erano veramente entrambi i suoi genitori. Era affamata di affetto e amore e finalmente poteva riceverlo nel modo in cui desiderava.
Dopo quel confronto emozionante e qualche lacrime, Ai crollò tra le braccia di Mayuri, il quale poi la mise a letto, attento a non svegliarla. Poi, mentre richiudeva la porta, sollevò lo sguardo su Nemu. Lei se ne stava poggiata allo stipite, alle spalle la loro camera da letto. Aveva sul viso un’espressione che raramente le vedeva addosso: maliziosa, dolce e innamorata. Lui si avvicinò, serio, senza dire una parola, perché credeva di avere già capito.
«Lo sai, a me non è mai piaciuto dormire da sola» sussurrò.
Lui annuì.
«E se devo essere onesta, nemmeno a me è mai piaciuto»
Nemu sorrise e poi gli lanciò un’occhiata lasciva. L’espressione di Mayuri si rilassò, cosa che succedeva raramente. E accennò addirittura a un sorriso, mentre chiudeva la porta e lasciavano tutto il mondo fuori.
 
Yoruichi e Kisuke si erano messi d’accordo su una questione importante: dovevano parlare con Hikaru. Loro figlio se ne stava a leggere i suoi manga con il gatto appollaiato sulle sue gambe. Yami stava ascoltando la musica nella sua cameretta. E loro lo spiavano.
«Vai prima tu» sussurrò Yoruichi.
«Ma perché io? Dai, va prima tu.»
«Kisuke, comportati da adulto!» borbottò lei.
«Ma io sono adulto, è solo che non so come approcciarmi, mi sento stupido.»
Yoruichi sospirò e poi lo guardò.
«Va bene, con calma. Allora andiamo insieme.»
Loro erano una squadra e come tale dovevano comportarsi. Cercarono di approcciarsi a Hikaru nel modo più naturale possibile, ma il bambino capì subito che doveva esserci qualcosa sotto: era molto raro che i suoi genitori gli parlassero insieme e nello stesso momento.
«E-ehi, mio caro. Cosa stai leggendo?» domandò Kisuke, un po’ impacciato.
«Un fumetto fantascientifico molto interessante» Hikaru sollevò lo sguardo su di loro. «Voi dovete parlarmi, vero?»
Yoruichi sbuffò.
«Ma insomma, non riusciamo proprio a nascondere niente. Sì, in realtà è proprio così. Ma non preoccuparti, non hai fatto niente di male, anzi.»
Kisuke capì che doveva essere lui il primo a prendere il discorso, dopotutto era a lui che Ai aveva fatto quella confidenza.
«Sì, vedi Hikaru. Ai ha parlato, mi ha detto che ti senti invisibile e trascurato» disse con un’allegria decisamente fuori contesto, che gli fece guadagnare un’occhiata omicida da parte di sua moglie. Hikaru invece arrossì.
«Ma… ma… ma come te l’ha detto? Anzi, me lo dovevo aspettare» disse nascondendo il viso dietro il suo fumetto. Ma Yoruichi cercò il suo sguardo.
«Se c’è qualcosa che devi dirci, puoi dirla. Noi siamo qui per ascoltare.»
Quelle parole ebbero l’effetto di far arrossire ancora di più Hikaru, non abituato a tutte quelle attenzioni. Posò il fumetto e sospirò.
«Amh… quello che ha detto Ai è vero. È che io… non lo so… a volte mi sento invisibile. Tranne quando ho gli attacchi d’asma, lì non sono invisibile. Però non mi piace avere le attenzioni solo in quei casi. È che… uffa. Io con voi non c’entro niente. Mamma, sicuro che non mi avete adottato?»
Yoruichi provò una grande tenerezza nel sentire suo figlio porle questa domanda. A volte Hikaru aveva certe uscite che potevano sembrare divertenti, ma né Yoruichi né Kisuke ridevano mai. Hikaru si sentiva diverso da tutti per via del suo animo timido, tranquillo, a volte malinconico. Gli accarezzò i capelli.
«Bambino mio, certo che no. Sei decisamente nato da me, non posso sbagliarmi. È vero, tu sei diverso da Yami, e sei diverso da noi e se tu ti sei sentito invisibile, la colpa è nostra.»
Hikaru sgranò gli occhi, il suo viso andava a fuoco. Tutte quelle attenzioni erano strane, ma gli piacevano eccome. Kisuke sorrise, imbarazzato.
«È proprio vero. Se puoi credermi, figlio mio, per noi non sei mai stato invisibile, ti abbiamo sempre visto. Dovevamo farlo meglio ed è quello a cui miriamo d’ora in poi. Puoi perdonarci?»
Oh, Hikaru era proprio incline al perdono. Soprattutto verso la sua mamma che ora lo stringeva, e verso il suo papà, a cui forse non somigliava caratterialmente, ma che adorava comunque. Quindi fece finta di pensarci su.
«Mmh. Sì, posso. Forse è bene che Ai ve l’abbia detto, io sono troppo timido per dire queste cose» borbottò e allora Yoruichi lo strinse più forte. In quel bambino, per certe cose, lei si rivedeva. Anche lei tendeva a chiudersi, a non dire quello che le passava per la testa quando era preoccupata. Quindi non erano poi così diversi.
«Ai è una brava bambina, mi piace proprio. Vi do la mia benedizione» disse Kisuke, che dava già per scontato che quei due sarebbero finiti insieme un giorno. Anzi, in realtà lo sperava.
«Papà, uffa, non dire così! Che vergogna» disse cercando di nascondere la sua espressione imbarazzata. Poi però divenne subito serio. «Voi non state per lasciarvi… vero?»
Quella era anche stata la paura di Yoruichi per un po’. Ma adesso sapeva che non si sarebbero lasciati. Doveva solo imparare ad accettare le situazioni così come venivano, quelle su cui non aveva controllo, senza giudicarsi. Perché dopotutto amava Kisuke più di ogni altra cosa e dubitava che qualcuno avrebbe mai preso il suo posto.
«Oh, no» lo rassicurò Kisuke. «Io e tua madre abbiamo discusso molto di recente, è vero. Ma adesso andrà tutto meglio. Vero, mia adorata Yoruichi?»
Lei sentì il suo braccio che si stringeva attorno alle proprie spalle. E sentì un brivido che le piacque parecchio.
«Ma certo, tesoro. Sta tranquillo, Hikaru. Ci impegneremo.»
Il bambino annuì e si sentì come se un grosso peso fosse sparito dal suo stomaco. Sapeva bene cosa si provava quando gli mancava il respiro, ma adesso la sensazione era tutta il contrario: poteva respirare a pieni polmoni.
 
 
Che Hayato fosse strano dall’incidente di Miyo, Momo lo aveva notato sin da subito. Suo figlio ne stava affrontando di ogni, dalla separazione tra lei e Sosuke, all’aver assistito all’incidente di una sua compagna di scuola. Anche se Hayato, più che traumatizzato, le sembrava chiuso in sé stesso e questo per molti versi era anche peggio. Così aveva chiesto l’aiuto di Toshiro, l’aiuto per sé stessa a dire il vero.
«Sono davvero preoccupata per Hayato. Ho provato a parlarci, ma mi dice che è tutto a posto e che non ha niente da dire. Non l’ho mai visto così colpevole, s’incolpa per quello che è successo a Miyo. Ma perché?»
Momo camminava avanti e indietro, mordendosi un’unghia. Toshiro, seduto tra i cuscini di seta del sofà, sembrava un po’ pensieroso.
«Shiro, ma mi ascolti?» domandò Momo attirando la sua attenzione.
«Amh. Sì, scusa. È solo che c’è una cosa che non ti ho detto» l’ultima cosa che voleva era fare preoccupare Momo, ma non poteva tenerglielo nascosto. «Temo che casa tua sia circondata dai giornalisti»
Momo aveva esclamato un che cosa?! e aveva compiuto un salto strabiliante, affacciandosi alla finestra. Vivendo al decimo piano di un lussuoso palazzo non era certo facile accorgersene, ma stava comunque cercando di scovare i paparazzi da lassù. Con il tempo Momo si era abituata alla stampa, in quanto moglie di uno degli avvocati più famosi e facoltosi di Tokyo. Ma era sempre stata abituata a stare sullo sfondo accanto a Sosuke, appunto, non al centro dell’attenzione. Si era già saputo della loro separazione? E anche del tradimento? I giornalisti adoravano le storie di tradimenti.
«Shiro! Ma perché non me lo hai detto subito?»
«Mi dispiace, non mi sembrava il caso!» esclamò lui, arrossendo. «Hanno provato a farmi delle domande, ma sono scappato. Ma penso si capisca che sono io il tanto famigerato amante. Magnifico, ho sempre sognato di essere al centro di uno scandalo» disse con ironia. Momo se l’era aspettato. Ed era sicura che per Sosuke sarebbe stato anche peggio. Per quanto suo marito fosse decisamente più bravo di lei a gestire quella situazione, le dispiaceva comunque.
Sospirò e andò a sedersi accanto a lui.
«Tra qualche settimana se ne saranno già dimenticati. Almeno spero. Mi dispiace se ti ho messo in questa situazione, di certo non ti auguravi questo.»
«No, direi di no, ma ce la posso fare. So che voglio stare con te, quindi tutto il resto non importa» disse facendo spallucce. Toshiro non era uno che si perdeva in dichiarazioni smielate, aveva sempre quel modo un po’ buffo e timido di pronunciarsi. E Momo lo adorava.
«Ti va bene anche se sarà difficile? Non intendo solo adesso. Ma saremo spesso sotto giudizio. E con mio figlio sarà così difficile.»
Momo si portò una mano sul viso e Toshiro prese quella stessa mano e la guardò negli occhi.
«Sono piccolo, ma resistente. Ci vuole ben altro per farmi paura. Le chiacchiere non mi spaventano. Hayato invece un po’ mi spaventa, ma per quello ci vuole tempo.»
Momo annuì. Poi si fece piccola piccola e si strinse tra le sue braccia Era strano, c’era stato un tempo in cui aveva amato essere stretta tra le braccia di Sosuke, così alto e forte. Toshiro invece era perfino più basso di lei, più giovane. Però si sentiva al sicuro, come se niente potesse farle male.
 
Gin Ichimaru era un uomo calmo. Soprattutto, era uno che non si stressava mai, soprattutto al lavoro. Ma ultimamente la sua pazienza era messa a dura prova, perché i giornalisti avevano preso a tormentare anche lui, in quanto assistente di Sosuke Aizen. Quel giorno era sbottato e con il suo solito sorriso – quella volta un po’ nervoso – aveva detto: Se volete fare gossip da quattro soldi, andate a cercare qualcun altro, perché io non collaborerò di certo a tutto questo. Buona giornata.
Poi si era richiuso nel suo ufficio e aveva sospirato, mentre Aizen lo guardava.
«E dire che di solito la gente mi piace e mi diverte. Non in questo caso. Siamo assaliti dai giornalisti nemmeno fossimo delle rockstar.»
«Figurati, ci sono abituato» disse Sosuke, tranquillo. Anche se proprio tranquillissimo non era. Per quanto bravo fosse ad affrontare quelle situazioni, per adesso era troppo nervoso, addirittura triste per via di Shinji. Aveva voluto chiudere con lui esattamente come aveva fatto anni prima, ma questa volta il motivo era ben diverso. Non c’era nessun ostacolo alla loro relazione, se non proprio sé stesso. Le cose sarebbero cambiate? Di sicuro. Sarebbe stato facile? Non per forza. Aveva forse paura? No, lui non aveva paura di niente, non poteva avere paura, non lui. Gin lo guardava e aveva già capito: conosceva Sosuke Aizen da una vita e ora lo vedeva umano come non mai. Lo vedeva spogliato della sua invincibilità. Questo era strano.
«Le cose con Shinji non vanno molto bene, eh?» domandò.
Aizen non gli aveva detto nulla, lo aveva capito da solo, Sosuke giocherellò con una penna.
«Ha deciso di chiudere. La prima volta non ha fatto così male e non capisco perché. Questa situazione sfugge al mio controllo. Lo sai che evito sempre di farmi coinvolgere sentimentalmente, questa volta invece non sono stato molto bravo. Magnifico» sorrise, stanco. Gin allora si avvicinò.
«Lui deve piacerti davvero molto» commentò.
Sosuke sollevò lo sguardo.
«A me Shinji non piace, io lo amo» dichiarò, sicuro. Dirlo al diretto interessato era un conto, ma dirlo anche a Gin, al resto del mondo, era decisamente un altro conto. Gin gli sorrise.
«Allora non deve essere così difficile capire cosa fare» affermò, infilandosi le mani in tasca. Sosuke fece spallucce.
«Forse. Comunque devo anche pensare a mio figlio. Ho capito che lui ha bisogno di me. Intendo, del mio lato più umano.»
«Ah, su questo sono assolutamente d’accordo!» esclamò Gin ad un tratto più allegro. «E a proposito di Hayato… tu e tua moglie siete ancora decisi a farvi la guerra per l’affido?»
Fino a qualche tempo prima, a Sosuke sarebbe piaciuto avere il controllo anche su quella situazione, prendere con sé Hayato e crescerlo come lui voleva e riteneva più giusto. Adesso però non era più sicuro di niente. C’era tanto a cui doveva pensare e non sapeva a cosa dedicarsi per primo.
«No, immagino di no. Se Hayato vorrà vivere con lei, lo accetterò. È sicuramente un genitore migliore di me.»
Gin sollevò le sopracciglia e poi sorrise. La presenza di Shinji a Sosuke faceva proprio bene. Sperò, in cuor suo, che le cose si rivolvessero al più presto, ma adesso toccava ad Aizen fare la sua mossa.
 
La notizia della separazione di Sosuke e Momo era arrivata perfino sul web. Renji leggeva la notizia ad occhi sgranati, incredulo.
«Non ho parole, dico sul serio. Sapevo che Aizen fosse importante e famoso, ma non fino a questo punto. Povero Shinji, per fortuna nessuno sa ancora niente di lui, ma che brutta situazione, non lo invidio per niente!»
Byakuya gli lanciò uno sguardo: Renji se ne stava seduto sul pavimento mentre mangiava un pocky.
«Sono sicuro che Shinji ne saprà venire fuori, è un tipo in gamba lui. Cambiando un attimo discorso: ti andrebbe di uscire?»
Renji finì di divorare il pocky che aveva in bocca e che per poco non gli andò di traverso.
«Ma certo! Dove andiamo?» domandò. Byakuya non rispose. Forse era una sorpresa, forse voleva portarlo in qualche posto speciale? E a dire il vero Renji non vedeva l’ora di scoprire l’arcano. Non presero la moto, ma l’auto. E quando venti minuti dopo arrivarono davanti al cimitero, Renji guardò Byakuya, pensando ad uno scherzo.
«Vuoi uccidermi? Che ho fatto?» domandò, iniziando a sudare freddo. Byakuya avrebbe riso, se solo la situazione non fosse stata così seria.
«Macché, no. Avanti, scendi» gli disse. Renji lo seguì, più confuso che altro, un cimitero era un posto un po’ strano per un appuntamento. Poi però capì perché si trovavano lì: lo stava portando alla tomba di Hisana. E infatti non si erano sbagliati: lui l’aveva condotto proprio lì e Renji in un primo momento non seppe cosa dire (cosa si diceva in certi casi?). Vide Byakuya chinarsi per cambiare l’acqua ai fiori, lo sguardo basso e malinconico. Poi lo vide congiungere le mani.
«Ciao, Hisana. Scusa, non vengo da un po’… ma ultimamente la mia vita è stata pazzesca. Sono venuto qui con Renji, come puoi vedere?»
Nel sentirsi chiamato in causa, Renji arrossì e si inginocchiò a sua volta. Se la ricordava bene Hisana, donna dal temperamento dolce e mite, era stata la compagna perfetta per Byakuya.
«Amh, sì. Sono io» disse goffamente. Ma Byakuya che intenzioni aveva? Messo lì si sentiva fuori posto, era come se stesse assistendo a qualcosa di troppo intimo. Byakuya gli aveva portato una mano sulla spalla, come a donargli una carezza.
«Volevo solo dirti che io e Renji stiamo insieme. Lui con me è paziente, e sai bene quanta pazienza ci voglia per stare con me. Sai, mi ama da una vita e con me non si è mai arreso. E di questo lo ringrazio.»
Il viso di Renji divenne dello stesso colore dei suoi capelli. Se Byakuya aveva avuto intenzione di sorprenderlo, ci stava riuscendo. Si voltò a guardarlo, sconvolto.
«Quindi… puoi stare tranquilla. Perché adesso sto bene. E starò bene perché adesso so che non sono immeritevole di amore come pensavo. So che avresti voluto questo per me, ma mi ci è voluto tempo.»
Di solito era Renji quello loquace dei due. Adesso era Byakuya che parlava, lui che stava zitto, lui che si asciugava una lacrima. Maledizione, era riuscito a farlo commuovere. Byakuya aveva voluto che il suo passato e il suo presente (che sempre avrebbero fatto parte di lui) s’incontrassero.
«Ma insomma, avresti almeno potuto avvertirmi, non così» singhiozzò e poi sospirò e cercò di darsi un contengo. Le labbra di Byakuya si incurvarono in un sorriso. E poi strinse la sua mano.
«E quindi, anche se lo conosci già… volevo presentarti il mio compagno, Renji.»
Quest’ultimo sgranò gli occhi. Era successo, Byakuya lo aveva riconosciuto come suo compagno, come suo futuro. Era una sensazione piacevole, di calore proprio lì, all’altezza del cuore. Tirò su col naso e poi sorrise.
«Io, amh… non preoccuparti, Hisana. Mi prenderò io cura di questo testardo. Ma anche lui si prenderà cura di me! Accidenti, troppe emozioni» borbottò poi, strofinandosi il viso con una mano. L’espressione di Byakuya era seria, ma serena. Era come se fosse tornato a respirare. Come se fosse in pace con sé stesso e come se potesse finalmente ricominciare.
«È vero. Ehi, Renji…» lo chiamò. Renji riconobbe nel suo sguardo qualcosa che non aveva mai visto. Sembrava volerlo. Totalmente e senza riserve.
 
Un’ora dopo erano tornati a casa. A casa di Renji, che però oramai era come se fosse la loro. Che probabilmente lo sarebbe diventata. Renji guardò Byakuya, il quale si stava lisciando i capelli.
«Ho bisogno di una doccia» sussurrò. Renji arrossì a distolse lo sguardo. C’era una tensione palpabile e lui, come un perfetto idiota, non sapeva come gestirla.
«S-sì, va bene.»
Byakuya assottigliò lo sguardo e sospirò. Doveva prendere lui l’iniziativa. Si sbottonò la camicia.
«Falla con me» disse soltanto, togliendosi la camicia e lasciandola cadere sul pavimento. Renji sgranò gli occhi. Ebbe l’impressione di sentire il coro dell’alleluia. E poi sorrise.
«Sì, certo. Vengo subito.»
 
 
Quando qualche giorno dopo Momo aveva visto suo figlio venire da lei, chiedendole di accompagnarlo in ospedale, era rimasta colpita. Con Hayato non aveva preso il discorso, il ragazzino non sembrava proprio propenso. E in effetti non si era sbagliata: in un primo momento Hayato si era rifiutato di vedere Miyo, si sentiva troppo in colpa. Poi però ci aveva pensato, in quei giorni. Si era detto che di difetti ne aveva tanti, ma che almeno non era un codardo. Non voleva esserlo e quindi doveva parlare con lei. Momo era stata subito disponibile. Un po’ stava imparando a capirlo, suo figlio. Ma che avesse un animo più profondo di quanto potesse sembrare, l’aveva intuito. In questo le somigliava.
Somigliava sia a lei che a Sosuke. Così lo aveva accompagnato al St. Luke.
«Vuoi che venga dentro con te?» domandò. Hayato scosse la testa.
«Vado da solo. Rimani qui, eh» le raccomandò. E poi compì un respiro profondo.
 
Miyo stava meglio. Stare in ospedale non era poi così male. L’infermiera Kurostuchi ogni tanto passava a vedere come stava. E poi c’era Hanataro che la faceva ridere e lo stesso si poteva dire per il dottor Kurosaki. Sua madre e suo padre, inoltre, non litigavano più. Certo, era strano e Miyo era sicura che i due si stessero sforzando molto per non litigare. E magari qualche volta sarebbe capitato ancora, ma per quanto le riguardava andava bene così. Ora sembravano impegnati a dedicarsi a lei e questo le piaceva. Non vedeva però l’ora di uscire da lì, tornare a scuola, vedere i suoi amici.
Per fortuna sua, Shinji le aveva portato una pila di libri ed essendo quella la sua passione, non si lamentava di certo.
Miyo non si aspettava che Hayato venisse a trovarla. Sapeva che prima o poi si sarebbero incontrati (o scontrati). Che lui venisse in ospedale l’aveva sorpresa, ma nemmeno tanto. Quando lo aveva visto entrare, aveva messo da parte il suo libro.
«Hayato?» domandò, battendo le palpebre. Hayato era sempre lui, con quell’espressione arrogante e imbronciata, ma Miyo ci lesse dentro tanto altro, come il senso di colpa e il sollievo.
«Sì, sono io. Allora stai meglio» borbottò.
«Eh, sì. Tra qualche giorno torno a casa, ma non potrò usare il braccio per un po’. Per fortuna che per leggere i libri non mi servono mani» Miyo cerco di buttarla sul ridere, ma si accorse anche che Hayato era serio e quindi ci rinunciò. «Amh… gli altri mi hanno detto che sei rimasto qui fin quando l’intervento non è finito. Grazie. Non dovevi.»
«Invece dovevo» Hayato strinse i pugni. «È colpa mia se ti hanno investita, vero? Io ti dicevo sempre che dovevi sparire. Però non volevo questo. Non riesco a smettere di pensarci.»
Miyo inarcò le sopracciglia. Hayato credeva di essere il colpevole del suo incidente? Perché tutti si sentivano in colpa? Non era stata colpa di nessuno e lei non si sentiva arrabbiata.
«Ma non è stata colpa tua! È successo e comunque io sto bene. Non ci devi pensare, su, su!» esclamò allegra, come se nulla fosse. Hayato sollevò lo sguardo e allora decise di arrendersi, di smetterla di tenersi dentro quello che invece si teneva.
«Lo sai, penso che ti ho sempre invidiata. Perché tu sei buona e io invece no.»
Miyo sorrise e gli fece segno di avvicinarsi.
«Le persone non sono buone o cattive. Noi siamo persone e possiamo comportarci o bene o male. Se tu adesso vuoi iniziare a comportarti bene, non è mica troppo tardi!»
Davvero non era troppo tardi? Hayato si sentiva così male.
«Io… lo spero. Non eri tu quella invisibile, ma io. E non è colpa tua se la mia famiglia è un disastro. Mia madre e mio padre non si amano. Mia madre ama quel ragazzino e mio padre…»
«Ama il mio, lo so. Pensi che diventeremo fratelli?» domandò Miyo spontanea. Hayato fece una smorfia.
«Non lo so, sarebbe troppo strano! E poi… non so nemmeno se stanno ancora insieme, non ci capisco niente.»
Miyo sorrise, divertita.
«Ah, ma non hai detto che sarebbe brutto. Hai visto? Questo è un passo in avanti.»
Hayato arrossì e si rifiutò di rispondere. Aveva visto suo padre con Shinji. Lo guardava in un modo strano. Forse doveva essere quello l’amore.
«Comunque, se loro si amano, devono assolutamente stare insieme! Credo che si amino da tanto tempo» Miyo strinse un pugno. «Gli adulti sono testardi.»
«E complicati» concluse Hayato. E poi la guardò. «Mi dispiace per…»
«Tutto a posto, non ti preoccupare» Miyo gli sorrise. Ed era sincera.
Lei era sempre stata sincera.
Quando Shinji era tornato da sua figlia, tutto si era aspettata meno che vedere Hayato. Gli fece un effetto strano, soprattutto perché lui somigliava molto a Sosuke.
«Ah… non sapevo avessi visite. Emh… Hayato» lo salutò con un cenno del capo. Hayato ricambiò lo sguardo. Non era sicuro che Shinji gli piacesse. Però era gentile e se suo padre lo amava, doveva avere qualcosa di buono. Ma per capirlo doveva conoscerlo.
«Adesso io… me ne devo andare perché mia madre mi aspetta. Ci… ci vediamo, okay?»
Shinji lo osservò allontanarsi, un po’ sospettoso. Poi si disse che avrebbe potuto chiamare Sosuke, ma… no, era meglio di noi.
«Tu e Hayato siete amici, adesso?» chiese a Miyo, la quale era tornata a leggere.
«Sì, credo di sì. E tu e suo padre dovreste prendere esempio da noi» disse severa. «Io non ho capito se state ancora insieme no. Ma tanto se vi amate veramente tornerete insieme, io ne sono sicura!»
Le parole di Miyo risuonarono come una pericolosa predizione. Shinji era rimasto talmente colpito e turbato da non sapere cosa rispondere. Era già tornato da lui una volta. Come poteva tornare di nuovo?

Nota dell'autrice
Dopo tante peripezie e sofferenze, era giusto che alcune situazioni venissero chiartire, qui mi sono concentrata su alcune, nel prossimo ci saranno anche gli altri personaggi. Ai, Mayuri e Nemu finalmente si comportano come una famiglia, Yoruichi e Kisuke chiariscono con Hikaru, Byakuya fa un bellissimo gesto e lui e Renji oramai sono una coppia fissa. Gli unici a cui va un po' meno bene sono Toshiro e Momo e Shinji e Aizen, ma la situazione di quest'ultimi due si protarrà fino alla fine, il perché lo vedrete. Questo capitolo, come il prossimo, è piuttosto tranquillo, questo perché dopo succederanno un bel po' di cose :P
Alla prossima.
Nao
   
 
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