L’ARMATA CHIMERICA
In uno
scontro militare, la prima battaglia è
tra le menti dei generali, ciascuno cerca di comprendere a fondo
l’altro e di
vincerne l’intelligenza. Carpite le chiavi
dell’intelletto nemico, questi è
perduto. Si crea un paradosso: che sia l’intelligenza il
punto debole di un
esercito?
– Luger
Clow Camden, Riflessioni
Irisa diede un ultimo colpo a
Fulvospirito perché accelerasse il galoppo. Il cavallo
sembrò quasi non
aspettare altro ed accelerò bruscamente verso la loro ultima
fermata che si
intravedeva con chiarezza sulla cima del promontorio: Svalir-Bae, uno
dei sei
villaggi costruiti lungo la catena montuosa di Sky-Enda. Sotto di lei,
sotto le
cime montuose che percorreva da giorni, le coste dov’era
avvenuto il disastro e
i villaggi a valle erano per lo più coperti da un manto
bianco di nebbia che
scintillava incantevole rispondendo alla luce del sole. Solo oltre era
possibile vedere qualche stralcio del Mar Bianco, anch’esso
era uno specchio
d’argento liquido che mozzava il fiato. Sembrava che tutto il
mondo di sotto
fosse avvolto in una calma ed in un silenzio che lo rendevano una
unica,
infinita massa di bellezza e serenità priva
d’eventi. Ma era vero il contrario.
«Vai, bello,
vai!»
Fulvospirito, come ogni cavallo
del regno delle amazzoni, era cresciuto con lei, conosceva intimamente
la forma
del corpo di Irisa adagiato al suo e ogni tono, gesto, addirittura
pensiero che
esprimeva attraverso di esso. E adesso, sebbene non potesse
comprenderne il
motivo, coglieva l’angoscia di lei. Si fermò solo
quando la palizzata che
costituiva il cancello di Svalir-Bae si chiuse dietro di loro,
circondata da
una piccola platea.
«Gente del Rah»
annunciò Irisa a
voce alta, smontando da cavallo «la mia signora la Regina
Aryl, Padrona di
Runeh, Sovrana del Nadorhai, Sommo Comandante delle Amazzoni, vi porge
i
saluti».
Per quanto fosse risultato
evidente dal primo istante che si trattava di una amazzone giunta dal
Nadorhai,
il suo aspetto lasciò molti montanari, specialmente maschi,
a bocca aperta. La
sua figura snella e atletica era chiusa in una uniforme di robusta
pelle color
nocciola, che si chiudeva con un girocollo di pelliccia chiara. La
grossa spada
lunga, curva e sottile, così come l’elmo dalle
grandi corna e le bardature a
stecche, erano di un minerale lucido: la rossa ceramica di Rikila che
si diceva
fosse leggera come carta eppure robusta abbastanza da farne
un’arma. Era nel
complesso un’apparizione esotica, elegante e potente per
loro. Ma non ci misero
molto a cambiare radicalmente opinione: appena Irisa tolse
l’elmo il suo viso
scuro da ragazzina, gli occhi vagamente a mandorla colmi
d’inesperienza e
incerti sotto i chiari capelli con la coda arruffata, molti sorrisero
scettici.
«Salute, guerriera del
Nadorhai»
esordì un uomo imponente e barbuto dal piccolo gruppo che la
accoglieva, in
tutta evidenza un capo villaggio o qualcosa di simile «dunque
la Regina Aryl ha
risposto alla chiamata del nostro re?»
Irisa assentì col capo e
aggiunse: «La Quinta Cavalleggeri delle Amazzoni è
stata distaccata per intero.
Precedo la mia comandante di appena tre giorni».
Tuttavia, pensò Irisa,
nei volti
non c’era tanto sollievo quanto si aspettava di vederne. In
effetti nessuno
sembrò particolarmente felice o tranquillizzato, nemmeno
l’uomo che si era
rivolto a lei per primo.
«C’è
qualcosa che dovrei sapere,
signor…?»
«Folar» si
presentò «sono il capo
villaggio… cioè lo sono finché mio
zio… il precedente capo non tornerà».
Irisa aggrottò la
fronte:
«Tornerà… da dove?»
L’assembramento
iniziò
rapidamente a disperdersi. Evidentemente molti di loro avevano
già sentito la
storia innumerevoli volte e non pensavano che Irisa avesse
nient’altro di
rilevante da dire loro. Seguì il taciturno Folar fino a che
non si sedettero su
una roccia da cui si vedeva buona parte della vallata, erano solo loro
due e
pochi altri, evidentemente amici fidati del montanaro. La
fissò negli occhi.
«Insomma, mi
risponda».
«Re Olster ha radunato
tutti i
vecchi clan di guerrieri di Sky-Enda, Graent-Halli e Fjaran-Marmar.
Parliamo di
decine e decine di clan che hanno discendenze…
bè, centenarie… risalenti a
quando i nostri antenati barbari giunsero qui e sfidarono gli elfi per
colonizzare le Lande di Rah. È una chiamata a cui chiunque
abbia onore e
rispetti le nostre tradizioni non può sottrarsi».
«E vostro zio, che
avrebbe dovuto
accogliere qui a Svalir-Bae la Comandante della Quinta Cavalleggeri in
persona,
ha imbracciato una spada che a stento saprà ancora reggere
ed ha lasciato il
villaggio in mano a nessuno?» il tono di Irisa si fece
severo: le amazzoni
erano pragmatiche e queste abitudini rituali le consideravano
pressappoco come
la Chiesa della Dea, tollerabili o forse condivisibili ma comunque
fastidiose e
in definitiva inutili.
«Zio Rudreg non
può ignorare una
chiamata agli antichi clan…» insistette Folar,
abbassando la testa per la
contrizione.
«Va bene, capisco. In
ogni caso
non temete per il vostro vecchio zio, anche noi dobbiamo congiungerci
alle
forze alleate di Re Olster fra pochi giorni. Appena lo
troverò, farò il
possibile per farlo tornare al villaggio».
Folar sgranò gli occhi,
significando che Irisa non aveva capito qualcosa di essenziale. Si
guardò
intorno, aspettando che fossero rimasti in pochi intorno a loro.
«Mi scusi, sto girando
intorno al
problema. Lo zio non tornerà, signora. Prima ho detto a quel
modo per non
allarmare le donne e i bambini. Nessuno dei nostri tornerà a
Sky-Enda».
«Non dite
così. Le forze
alleate…»
«Signora, le forze
alleate… non
esistono più. Sono svanite tre giorni fa».
«Svaniti? Vuole dire che
sono
caduti in battaglia?»
Sembrò quasi che il
montanaro la
compatisse: «Svaniti vuol dire proprio… svaniti.
Sono scomparsi, da un giorno
all’altro. Per l’esattezza il giorno dopo il loro
schieramento su Fjaran-Marmar.
Se ci fosse stata una battaglia la nebbia non ce l’avrebbe
fatta vedere, specie
da questa distanza, ma ne avremmo comunque avuto notizia. Invece non
abbiamo
ricevuto notizie di alcun genere».
«Mi faccia
capire» chiese Irisa
con una punta di nervosismo «fra tre giorni la Quinta
Cavalleggeri del Nadorhai
arriverà qui per confluire nel vostro esercito. Un esercito
che non esiste».
«Che non esiste
più» corresse
lui.
«E come è
possibile tutto
questo?»
«Speravamo che potesse
dircelo
lei…»
***
Passarono due giorni. Irisa
alloggiò in una piccola locanda con appena due stanze di
legno inumidito dalle
nevicate invernali. Pensò e ripensò a quello che
sapeva dei chimerici, a quello
che ciascuna amazzone sapeva: dove veniva il Chimaer, solitamente
veniva anche
l’armata di creature. Erano loro a richiamare il Chimaer o
piuttosto erano essi
stessi partoriti da esso laddove si manifestava? Le ipotesi erano
innumerevoli;
il loro numero, le loro tattiche e la loro forza erano sempre
differenti, volta
per volta, andavano osservati sul campo – molti eserciti del
passato,
inorgogliti dalle prime facili vittorie, erano caduti al secondo o
terzo
scontro senza riuscire a spiegarsi come e perché; il Chimaer
si allargava e
quando lo faceva la terra diveniva inabitabile, a quel punto combattere
l’orda
di chimerici per riconquistare terreno non aveva senso, tanto valeva
ritirarsi
e difendere i territori ancora liberi dallaq nefasta influenza del
Chimaer, si
trattava in sostanza di formare un cordone di contenimento; infine,
nessuno
sapeva esattamente spiegare che aspetto avessero o di che natura
fossero gli
strani esseri; alcuni raccontavano di averne trucidati a decine mentre
questi
rimanevano immobili e impassibili a contemplare il nulla, anche se
queste
storie si consideravano vaneggiamenti.
«Non so praticamente
niente»
ammise infine con nervosismo all’ennesima richiesta di Folar.
«Ma… non siete
voi forse una
amazzone? Non venite educati per combattere i chimerici?»
Irisa scosse la testa,
infastidita.
«Le amazzoni sono la
forza
d’elite del Nadorhai».
«Elite?»
«Ci sono insegnate cose
che gli
uomini apprendono con più difficoltà e lentezza,
tra cui le arti della guerra
che richiedono un certo rapporto con gli animali, le arti marziali
armoniche
basate sulla danza, lo studio approfondito della guerra psicologica e
della
storia della strategia…»
«Pensavo che i chimerici
fossero
vostra competenza» mormorò Folar con malcelato
disappunto.
«Non mi fraintenda. Siamo
il
meglio che il regno può offrire, ecco perché la
Regina ci affida gli incarichi
più duri… inclusi quelli che hanno a che fare con
il Chimaer».
«Dunque dovete conoscere
il
Chimaer!» insistette l’uomo.
«Non è
così semplice. Ci viene
insegnato a rendere la nostra mente flessibile, le strategie
adattabili,
l’osservazione pronta e acuta. Una armata di chimerici non va
nominata, cioè etichettata, ma
studiata sul campo: si
presenta con infiniti aspetti e comportamenti, stabilire quali
strategie usare
nell’infinito repertorio dei nostri generali e quando usarle
è la chiave per
avere successo. Mi ha capito?»
«No»
tagliò corto Folar.
L’ultima sera
notò che ormai i
montanari la guardavano con occhi diversi: erano sfiduciati e
spaventati,
convinti che fondamentalmente il suo arrivo non avrebbe cambiato nulla,
che non
poteva liberarli dalla paura del Chimaer, che era poi la paura
dell’ignoto. Non
per nulla, pensò, si diceva che le nella vita di una
amazzone la battaglia con
i chimerici rappresentava un punto di passaggio unico nel suo genere.
Imparare
centinaia e centinaia di schemi e tattiche e arti marziali, poi
liberare la
mente da tutti, poi riprendere solo quello che serve: il suo generale
ci
sarebbe riuscito?
«Certo che
sì» disse a sé stessa
prima di addormentarsi, perché la sua fiducia nel suo
generale era assoluta.
All’alba del terzo
giorno, Svalir-Bae
fu occupata dalla Quinta Cavalleggeri dell’esercito amazzone
proveniente dal Nadorhai.
Alla sua guida c’era una donna con una uniforme simile a
quella di Irisa, con
due enormi corna d’ariete di ceramica rossa ornate di
tintinnanti cerchi d’oro
zecchino. La differenza d’abbigliamento suggeriva
immediatamente una differenza
di gerarchia, sebbene la comandante trattasse Irisa come sua pari. Del
resto,
l’esercito amazzone preferiva al concetto di gerarchia quello
della
suddivisione di compiti e responsabilità. Come Irisa , anche
la comandante –
Ariadne – si tolse l’elmo per salutare il capo
villaggio Folar, rivelando
lunghi capelli chiari e un viso regolare ma dall’espressione
severa
eloquentemente segnato da una brutta cicatrice obliqua. A differenza di
Irisa la Comandante
Ariadne fu subito
accolta come un veterano degno di rispetto, sebbene fosse ancor
più esile e
minuta della sua sottoposta – fatto questo che non stupiva
nessuno, perché la
forza militare del Nadorhai si basava sulla disciplina, la grazia e la
flessibilità, non su forza e resistenza. Ariadne si
consultò a lungo con alcune
sue compagne e poi chiese più volte a Folar un resoconto
degli avvenimenti di
quegli ultimi giorni, o meglio dell’assenza di avvenimenti,
poi ringraziò il
capo villaggio e tutti i suoi compaesani per
l’ospitalità, annunciando la
smobilitazione della Quinta Cavalleggeri nel corso della mattinata
seguente.
Quando in cielo apparve l’aurora boreale, Irisa fu svegliata
e montò in sella a
Fulvospirito per cavalcare a fianco di Sirescuro, il possente stallone
di
Ariadne.
«Cosa faremo, Ariad-
voglio dire,
Comandante?» chiese Irisa dopo qualche ora di trotto sotto il
cielo
multicolore.
«Non lo so ancora.
Dovremo
recarci sul Fjaran-Marmar e vedere da noi».
«Ma quale forza potrebbe
spazzare
via una forza simile in pochi giorni senza lasciar traccia?»
«Sai bene che non ci sono
certezze
nelle terre infestate dal Chimaer».
«Sì»
sospirò Irisa «lo so. Ma
anche se le forze del Rah fossero state sconfitte, avrebbero dovuto
lasciare
qualche traccia… un messaggio… almeno qualche
sopravvissuto… insomma… sono
spariti!»
Ariadne si volse tristemente in
basso: «Non conosci i chimerici.
Ma
lo capirai presto».
«Tu invece? Tu conosci i
chimerici?»
«No. Ma ho sentito storie
di
alcune guerriere andate e venute dall’Oceano Orientale dove
la Bocca del
Chimaer minaccia le coste del Mohtam e del Nadorhai. E ho sentito di
eventi
molto più inquietanti di questo».
Irisa strinse i pugni e fece un
gesto d’esortazione: «Meglio così! Devo
essere pronta anche io a combattere… la
Bocca del Chimaer che minaccia le nostre terre non
sarà molto diversa da
questa… immagino».
Ariadne rise nervosamente:
«Chi
può dirlo? Si dice che non esistano due Bocche
uguali».
Irisa sbuffò:
«Queste
conversazioni finiscono sempre allo stesso modo».
«È
vero».
Il Nadorhai e il vicino regno di
Mohtam erano sotto costante minaccia della Bocca del Chimaer
dell’Oceano Orientale,
che si era aperto tra il “Grande Astro”, il
continente chiamato Astermagna in
cui i due regni erano situati e le “Sabbie Cieche”,
o Nerimkora. Entrambi i
continenti, e tutti coloro che ci vivevano, sentivano quella minaccia
costantemente sulle loro teste; eppure ogni domanda sul Chimaer riceveva da sempre quello
stesso tipo di risposta
sconsolata e vaga, come se una legge non scritta avesse imposto a tutti
coloro
che ne avevano esperienza diretta di rispondere allo stesso modo. Non
serviva
insistere, né mostrarsi spaventati, men che meno mostrarsi
spavaldi: nessuno si
sentiva di dare risposte più chiare e a nessuno capitava di
riceverle, in tutta
l’Astermagna, in tutta la Nerimkora. Niente di strano.
Dopo un’altra ora di
silenzio,
Ariadne parlò nuovamente: «Avremo degli alleati
comunque».
«Alleati? Ma se le truppe
regolari del Rah sono annientate…»
«Infatti non appartengono
alle
Lande… sono mercenari» illustrò Ariadne
con tono di disapprovazione e aggiunse
con tono severo «non creare problemi quando li
vedrai».
***
Quando Irisa li trovò
ammassati
lungo la vallata non trattenne un’espressione di disgusto.
Non avevano una
formazione chiara né minimamente ordinata, certamente non
avevano nemmeno
uniformi ed anzi portavano masse di pelli, pellicce, zanne, ossa,
teschi e
monili di pietre colorate indossate da ciascuno in diverso modo,
neppure
portavano armi ben identificabili dato che era impossibile distinguere
se
questa o quella forma intagliata nella selce fosse spada o mazza, scudo
o
ascia, pugnale o falcetto. Si muovevano scompostamente e si impegnavano
nelle
più triviali attività: qualcuno sghignazzava con
dei compagni, qualcuno
mangiava con la grazia di una bestia, qualcuno faceva a botte con il
commilitone più vicino.
«Orchi!?!» si
sbalordì Irisa
guardando Ariadne.
La Comandante Ariadne
cercò di
trattenere il disgusto, ma ora che li vedeva da vicino anche lei non
poteva
dissimulare totalmente le sue reazioni: «Truppe
mercenarie… come ho detto».
«Orchi
mercenari» sottolineò l’altra,
innervosita.
Originari della Nerimkora, gli
orchi erano un popolo di orgogliosi guerrieri per vocazione tanto
quanto per
necessità: passavano la maggior parte delle loro vite nomadi
a combattere
marchingegni del Mondo Antico che vagavano senza posa tra le dune del
loro continente
desertico. Ma da quando erano salpati per conoscere altre terre ed
erano
approdati nel Nadorhai, gli attriti con il regno delle amazzoni erano
stati
innumerevoli e anche la pace, raggiunta dieci anni prima con coraggio e
fatica
di entrambe le parti, traballava. Non poteva essere diversamente: nel
credo
orchesco, ogni forma di legge o regola era una forma di vigliaccheria e
lo
scopo vero della “civiltà” era far
apparire forti i deboli che non vivono i
propri istinti. All’opposto, Irisa era cresciuta secondo i
Comandamenti di
Runeh, le leggi più importanti che i nadoriani ponevano
persino al di sopra
della Chiesa della Dea. Cresciuta nel dovere e nella
servitù, come ogni
cittadina o cittadino del Nadorhai, era stata studiata fin da piccola
per
ricevere a quattordici anni il compito che si confaceva alla sua indole
e,
sempre come ogni altra nadoriana, il senso della sua vita stava nel
perfezionarsi sempre più nel suo compito, non nel liberarsi
da esso. Poiché
nella cultura marziale del Nadorhai era il desiderio a fondare
l’infelicità,
reprimere il desiderio e concentrarsi sul dovere portava
l’ordine e la pace.
Erano due culture che si negavano reciprocamente e ciascuna era
obbligata a
vedere l’esistenza dell’altra come una minaccia.
«Dobbiamo
combattere… con gli
orchi?»
«Dobbiamo e lo faremo,
per
richiesta del sovrano del Rah. È impensabile contravvenire
ad una richiesta di
Re Olster nelle sue stesse terre, bada. Se può confortarti,
non credo che a
loro spiaccia meno che a noi».
«Non vedo come una cosa
simile
potrebbe confortare chicchessia ».
Irisa dovette mordersi la lingua:
un primo gruppetto di orchi veniva già verso di loro. Erano
tanto alti in piedi
da superare quasi i loro cavalli, ma le zanne sporgenti e storte e le
narici
larghe e deformi toglievano ogni sorta di solennità a quelle
figure possenti e
atletiche.
«Ciao, ragazze dei
cavalli»
grugnì un orco con il volto coperto da un mascherone
«anche voi siete qui per rendere la
vita?»
Nessuno si scompose: era
notoriamente il modo degli orchi per chiedere se si andava in cerca di
battaglie.
«Salute, voi del Quarto
Popolo»
rispose Ariadne annuendo.
Gli orchi grugnirono soddisfatti:
quell’appellativo era un grande riconoscimento per loro, che
avevano faticato
molto per entrare nel Trattato dei Popoli stipulato quasi un secolo
addietro.
«Marceremo insieme,
dunque»
ridacchiò un altro orco ancora.
Irisa capì subito che
non c’era
gerarchia in quella marmaglia armata, quindi ciascuno parlava quando
meglio
credeva. Con un breve passaparola l’assembramento apprese
quella decisione – o
era più corretto dire che la decisione veniva presa
collettivamente, nel
momento stesso in cui si diffondeva? Irisa non sapeva distinguere con
certezza
le due cose – e si mise in movimento, animato da molta
più curiosità che diffidenza
al pensiero di combattere a fianco delle “ragazze dei
cavalli” che tante volte
i loro padri e alcuni dei più anziani avevano affrontato in
battaglia nelle
praterie del Nadorhai.
«Questa situazione mi
disgusta»
puntualizzò Irisa dopo mezz’ora di marcia.
Le file ordinate della Quinta
Cavalleggeri, che marciavano tutte alla stessa velocità
cercando di mantenersi
parallele mentre discendevano la pineta, erano ora frammiste a bande
scoordinate, schiamazzanti e spesso incomprensibilmente gioiose, come
se quegli
orchi fossero ansiosi di sperimentare la loro probabile morte imminente
contro
la minaccia più angosciante del mondo conosciuto.
«Sopporta in
silenzio» ordinò
Ariadne «tieni presente che probabilmente questa che vedi
è tutta la forza
militare rimasta alle Lande di Rah».
«Altre parole di
conforto».
«A proposito di
questo… in caso
non ce la facessimo, occorre che un gruppo di sei che sceglierai tu
tornino
indietro».
«Come…?»
«Hai capito
perfettamente. Non
possiamo rischiare che chiunque combatta dopo di noi sia senza alcuna
informazione come lo siamo noi ora».
«Informazioni,
eh?» s’intromise
un orco basso e curvo che stava alla destra di Irisa, quello col
mascherone di
terracotta rossa ornato da un ventaglio di piume multicolori; avanzava
zoppicando e appoggiandosi ad un bastone spesso dove erano graffiate
innumerevoli tacche, forse significanti il numero di nemici uccisi.
Sulla
schiena portava un enorme lama curva di legno che gli orchi chiamavano boomerang e che si diceva tornasse
sempre in mano a chi l’aveva lanciata, se era abile
abbastanza.
«Ci trovi qualcosa di
divertente,
orco?» si stizzì Irisa notando che il suo volto
mascherato sussultava come
quando si ride sotto i baffi.
«Voi e il vostro modo di
andare
in guerra! Le vostre tattiche macchinose e contorte si schianteranno
contro i
mostri del Chimaer come vento contro le montagne. Vedrete presto cosa
può fare
la vera forza, dove può spingere il vero coraggio».
«Credi?»
ribatté la ragazza prima
che Ariadne potesse intromettersi «Allora vedremo alla fine
della settimana chi
sarà ancora vivo».
Un altro orco si aggiunse alla
conversazione: «Oh, lo vedremo di certo, ragazza dei cavalli.
Ma sappi che
abbiamo un vantaggio: non speriamo affatto di essere
vivi alla fine della
settimana».
***
Calò la sera e dopo una
giornata
di marcia era sempre più difficile mantenere le file
ordinate e parallele di
cavalieri tra i fitti pini, persino gli orchi che si muovevano come un
branco
di animali della foresta avevano difficoltà. Inoltre erano
ormai nel versante
settentrionale del Graent-Halli, esposto ai venti gelidi del Mar
Bianco, così
che la temperatura pareva scendere ad ogni passo. Ma la cosa
più inquietante
era che da diverse ore molti si erano convinti, sebbene non passassero
mai
dallo stesso punto, che in qualche modo stessero ugualmente girando in
tondo.
In effetti, dietro i pini illuminati da un pallido sole,
c’erano solo altri
pini, illuminati allo stesso modo, altri stretti sentieri, altro
sottobosco
umido. Come se il mondo fosse diventato una unica sconfinata pineta.
«Cos’è
quello?» chiese un orco
indicando qualcosa di bianco che si muoveva tra gli alberi.
Irisa e Ariadne fermarono la loro
fila e, com’erano addestrate a fare, tutte le altre capofila
fecero lo stesso.
La macchia guizzò da un albero all’altro, come
indecisa se mostrarsi del tutto,
poi prese a correre senza incertezze verso di loro. Era una volpe dal
pelame
candido e dalla immensa coda, che si fermò solo quando fu
esattamente innanzi
alla punta del gruppo. Col muso allungato ma espressivo, troppo per un
semplice
animale, sembrò scambiarsi un cenno con la comandante, che
smontò da cavallo.
«Sono Ariadne Anistos,
comandante
della Quinta Cavalleggeri dell’Esercito Amazzone al servizio
di sua Maestà la
Regina Aryl del Nadorhai».
La volpe sembrò
accogliere quella
presentazione con una specie di sorriso, prima di compiere un movimento
rapido
e inaspettato con la coda. In un attimo, era stata sostituita da un
elfo
vestito di pelliccia bianca, dai colori talmente candidi da sembrare
quasi
albino. Sugli occhi glauchi inforcò un paio di piccoli
occhiali, prima di
profondersi in un vistoso inchino.
«Salute a voi, Ariadne
Anistos.
Sono Vonselas Sul Seix, arcidruido al servizio di Re Hion, Sovrano di
Vonselas
e di tutti gli elfi della neve».
Dopo un attimo di indecisione,
sembrò accorgersi degli orchi. Li squadrò tutti
con calma prima di concentrarsi
su quello che indossava il mascherone.
«Voi comandate questi
guerrieri
del Quarto Popolo, signore?»
L’orco gli venne incontro
claudicante e poi gli tese la mano che non reggeva il bastone inciso.
Irisa
notò per un attimo che la mano tesa non era rugosa o callosa
come quella di
altri orchi e la cosa la insospettì.
«Nessuno comanda chi
decide per
sé e gli orchi decidono per sé. Ma sono comunque
il più anziano in questa
tribù. Abrai Kub-Rul. Lieto di conoscervi, elfo della
neve».
La mano delicata
dell’arcidruido
strinse quella grande e forte di Abrai.
«Vonselas?» si
chiese Irisa a
bassa voce.
«La conosci?»
fece una sua
compagna.
«Come si potrebbe non
conoscerla?
In Astermagna sono rimaste solo quattro grandi città
elfiche…»
Ma, per quanto ricordava, era ben
distante dalla strada che avevano in mente di percorrere da Svalir-Bae
al Fjaran-Marmar.
«Siamo vicini a
Vonselas… ci
siamo persi, dunque?» osservò Ariadne
L’arcidruido Seix
stirò un
sorriso: «Non siete i primi. Le pinete del Graent-Halli
sembrano a volte voler
smarrire i pellegrini di proposito. Accetterete, credo,
l’ospitalità degli elfi
della neve?»
L’anziano Abrai si
grattò la nuca
e si diresse verso altri orchi. Non essendoci un vero capo, dovevano
decidere
il da farsi. Ariadne chiamò a sé le capofila con
un cenno, spiegando che
mancavano evidentemente diversi giorni di marcia per Fjaran-Marmar.
Irisa non
smise di fissare l’elfo, cortese nelle parole e nei modi, ma
freddo nello
sguardo. Quando tornò volpe, lo seguirono per ore tra i pini
e Irisa ebbe la
netta sensazione che, qualsiasi strada stesse facendo, nessuno avrebbe
mai
potuto trovare la stessa strada se non in quel modo.
«Un’illusione?
Una magia…»
ipotizzò Irisa mentre seguivano la volpe.
«Credo di
sì» soppesò la
comandante.
Si diceva che gli elfi della neve
fossero tanto ospitali e cortesi quanto determinati a controllare
rigidamente i
propri ospiti, ora riusciva a comprendere meglio il senso di quella
diceria: se
gli elfi della neve non avessero deciso di accoglierli, avrebbero
vagato nella
pineta per giorni, forse sarebbero semplicemente morti di fame e freddo
in quei
boschi.
«Non rilassiamoci
troppo»
sussurrò Ariadne.
Il sole era ormai scomparso dal
cielo, lasciandovi solo i residui della sua luce, quando finalmente la
pineta
si aprì e si ritrovarono in campo aperto. Certo, non poteva
esattamente
definirsi un campo: era piuttosto una sconfinata lastra di ghiaccio,
evidentemente una baia che racchiudeva una porzione di mare gelato. A
riconferma di ciò, la punta di una gigantesca nave
metallica, di quelle
risalenti al Mondo Antico, si affacciava obliqua dal ghiaccio come se
avesse
cercato di salvarsi dalle acque.
«Comandante, è
quantomeno strano.
Chi è questo elfo? Perché ci fidiamo di lui? E
come può, come possiamo pensare
di far passare un contingente armato a piedi sul ghiaccio?»
Alle parole di una delle
più
giovani, Irisa stava quasi per scattare a difendere Ariadne ma si
trattenne.
«Mi fido di lui
perché so dove ci
porta» affermò Ariadne senza indecisioni
«quel vascello in rovina, quello del
Mondo Antico… marca l’entrata a Vonselas, di
questo sono certa… è segnato nelle
mappe. Eravamo evidentemente fuori dal sentiero prestabilito e di
parecchio».
«Ma come possiamo aver
fatto un
errore del genere?» chiese la giovane amazzone senza perdere
di vista l’elfo in
forma di volpe che gironzolava sul ghiaccio come cercasse qualcosa.
«Nessun errore»
spiegò Abrai
intento, pareva, a grattarsi la schiena con vari frammenti conficcati
nel
bastone «è un sortilegio degli elfi della neve.
Quando temono per la loro
città, fanno in modo che chi entra nelle pinete del
Graent-Halli si smarrisca».
«È logica
circolare» obiettò
Irisa «dite che gli elfi ci avrebbero stregato
perché abbiamo invaso le loro
terre ma è proprio il loro sortilegio che ci ha portati
nelle loro terre».
«Forse è il
loro modo per
convocarci» suppose l’orco.
«Ho studiato a fondo la
civiltà
elfica e non ho mai sentito di questa usanza. Gli elfi ci hanno fatto
un grave
sgarbo, di proposito».
«Non lo avete sentito,
questo è
certo» concesse Abrai «ma questo perché
i vostri testi riportano solo tutto ciò
che è provato e certo. Ma esistono le dicerie, le leggende,
le fiabe, i miti. E
spesso aiutano a comprendere più dei dati e dei
documenti».
«Certo amate molto far
filosofia,
per essere un orco».
Prima che Abrai potesse
rispondere, l’arcidruido Seix era già tornato da
loro, stavolta in forma di
elfo.
«Potete attraversare
adesso. Il
ghiaccio vi reggerà tutti, purché teniate le file
serrate».
In effetti ad Irisa parve che
l’aspetto della calotta fosse cambiato leggermente, ma non
sapeva mettere a
fuoco in cosa. Ad ogni modo, attraversarono senza problemi, il ghiaccio
sotto i
loro piedi solido come pietra.
***
Uscendo dal caseggiato dal tetto
appuntito, ma con tutti i tratti dell’architettura elfica
– contorni morbidi,
decori floreali, pietra chiara – la sensazione di fastidio
agli occhi si acuì
sensibilmente. Irisa riusciva a stento a tenere aperti gli occhi e
capì subito
il perché: ad eccezione delle calde luci delle vetrate,
tutta la città elfica
di Vonselas era avvolta in un innaturale bagliore azzurrino che ora,
sotto il
cielo notturno, risaltava in maniera quasi impressionante. Eppure era
una città
molto viva: fino al tramonto gli elfi avevano occupato le strade come
in
qualsiasi capitale umana, c’erano comitive che
chiacchieravano, bambini che
giocavano e mercanti che esponevano la merce; a parte i loro modi
eccessivamente pacati, gli elfi della neve sembravano del tutto simili
agli
umani nelle città del Nadorhai. Solo quel persistente
azzurro era in qualche
maniera alienante, eppure nessuno di loro sembrava esserne disturbato.
«Strano, vero?»
Irisa sobbalzò e quasi
mise mano
all’arma prima di riconoscere dietro di sé
l’orco anziano, Abrai.
«Siete voi, Abrai
Kub-Rul. Cosa
sarebbe strano?»
«Come sarebbe a dire,
cosa?
Questo luogo è strano».
Indicò col bastone uno
dei molti,
maestosi alberi che si innalzavano dalla membrana di ghiaccio su cui
era
edificata la città.
«Provate, ad esempio, ad
avvicinarvi a quello».
Irisa accolse il suggerimento e
rimase immediatamente a bocca aperta: l’albero non era
realmente un albero, ma
ghiaccio che sembrava cristallizzato spontaneamente in una forma quasi
identica
ad una grossa quercia dal tronco scuro e dai rami spogli e contorti,
eppure
vagamente illuminato da quella iridescenza azzurra.
«Questo
è… ghiaccio! Ghiaccio in
questa forma. Mi… mi domandavo perché ci fossero
degli alberi così diversi
dagli aghifogli del Rah… ma questo è…
sbalorditivo».
«Già,
sbalorditivo, vero?
Immagino che anche voi siate infastidita da questa luce azzurra. Ora
capite che
questo luogo non segue le ordinarie leggi della natura. In un certo
senso, la
città stessa è una manifestazione di magia
elfica. Del resto, come potrebbe una
città reggersi su di un lago ghiacciato?»
Irisa toccò il ghiaccio
con mano,
ancora incredula. In tutta la città c’erano altre
formazioni simili a cespugli
fioriti, piante grasse, frutti tondeggianti: era tutto scolpito nel
ghiaccio,
tutto attraversato dalle sfumature più fredde
dell’arcobaleno. Era puro potere,
manifestato in quella forma sotto gli occhi di ogni cittadino di
Vonselas, ogni
giorno.
«Non avrei immaginato mai
di
vedere un luogo del genere in tutta la mia vita…
è così… diverso da tutto
ciò a
cui sono abituata».
«Questo significa
diventare più
saggi: conoscere il diverso».
«Parlate in modo davvero
strano,
per un orco».
Gli sembrò di percepire
che
sogghignava sotto la maschera: «Non mi avete prestato
attenzione, mi pare».
Non fece in tempo a finire la
frase che entrambi furono distratti da qualcos’altro. La
Comandante Ariadne e
l’arcidruido Seix venivano verso di loro con passo deciso
seguendo la strada
principale tra le case appuntite.
«Qualcosa non va, ragazza
dei
cavalli?» chiese Abrai.
Ariadne non spiccicò
parola, fu
Seix a parlare: «Il Re di Vonselas vi chiede udienza, orco
anziano».
«Non posso parlare e
decidere per
la mia tribù. Essa non ha nessun capo sopra di
sé».
«Ma a noi occorre un
rappresentante con cui parlare».
«Posso…
cercare di accontentarvi.
Ma dovrò parlarne col resto della
tribù».
Irisa guardò la sua
Comandante
cercando di capire cosa stava accadendo, ma non vi lesse nulla.
«E sia, orco anziano. Vi
aspetteremo nella piazza principale».
Andando di fretta,
l’andatura
zoppicante di Abrai era ancora più evidente.
«Sono convocata anche io.
Ci è
permesso portare con noi un guardiano» disse improvvisamente
Ariadne «e vorrei
che venissi tu con me, Irisa».
«Perché?»
chiese la ragazza,
sempre più disorientata.
«Vieni e basta».
***
Dopotutto, nel continente erano
rimasti solo quattro assembramenti stabili di elfi e quindi solo
quattro
Sovrani Elfici. Era normale, pensava Irisa, essere intimorita al
cospetto di
una delle persone più influenti del continente. Ma la
realtà superò ogni
aspettativa. Da fuori, il cancello della dimora di Re Hion sembrava un
edificio
come tanti altri, che si aprì al minimo cenno di una mano di
Seix (Irisa
sospettò che non si sarebbe aperto in nessuna altra maniera)
incassato nella
fiancata di una montagna. Avevano percorso un largo corridoio di legno
intarsiato per diversi metri, fino a entrare in una ampia sala ovale.
«Maestà»
salutò semplicemente
Seix inginocchiandosi.
Il ghiaccio intorno a loro non
era vuoto. Intrappolati nel bianco Irisa poteva vedere un bel numero
– ad
occhio nudo ne poteva già distinguere mezza dozzina
– di creature immense
risalenti ad un’altra era. Erano rettili giganteschi dalle
forme molto diverse
tra loro, ma tutti possenti e feroci, perfettamente conservati come in
una teca
di cristallo.
«Ma
cosa…»
Non concluse la frase, vedendo
che Ariadne si inginocchiava pensò piuttosto ad imitarla
subito. Con sua
sorpresa, nemmeno Abrai si astenne dal chinare la testa, subito seguito
dalla
sua guardia, un giovane orco impostato con un’ascia bipenne
sulle spalle.
«Maestà, ecco
i visitatori».
Il minuto corpo di Hion, avvolto
in una morbida pelliccia nera, riposava a gambe incrociate al centro di
una
struttura formata da una bolla vitrea, un trono trasparente per quel
piccolo
sovrano. Sul suo volto di elfo bambino c’era
un’espressione serena e quasi
sognante.
«Salute, guerriere
amazzoni.
Salute, gente del quarto popolo».
Non appena aprì gli
occhi,
incredibilmente, anche gli esseri preistorici nel ghiaccio fecero lo
stesso,
sgranarono i loro occhi inumani fissando tutti loro. A Irisa
sembrò che
l’intera sala ghiacciata avesse emesso un respiro che le era
arrivato come una
vibrazione, fino alle ossa. Ogni cosa, a Vonselas, era creata dalla
magia;
quella sala era il cuore di quella magia, il nucleo da cui si emanava,
ad Irisa
sembrò che le rizzasse i capelli in testa.
«Salute a voi,
maestà»
ribatterono Ariadne e Abrai sostanzialmente in coro.
Irisa si sentì tremare,
impressionata da quel ragazzino dall’immenso potere. Poteva
sentire in lui il
malessere che ogni sovrano elfico era costretto a provare se la sua
terra
soffriva, come stavano certamente soffrendo le terre che circondavano
Vonselas;
percepiva il dolore e l’angoscia fremere sotto la pelle del
Re, eppure la sua
espressione ed il suo tono non lasciavano trasparire nulla nonostante
in
qualche modo quel dolore ora fosse entrato dentro tutti loro.
«Ci inchiniamo umilmente
al
vostro cospetto, maestà. A nome della Regina Aryl vi porto i
saluti del Regno
del Nadorhai e, personalmente, vi esprimo tutta la nostra gratitudine
per
l’ospitalità dimostrata».
Hion sorrise: «Grazie,
Comandante
Ariadne. Vi chiederete perché vi ho convocato qui».
L’idea di Abrai, che gli
elfi li
avessero sostanzialmente costretti con la magia a deviare verso la loro
città,
trovò conferma in quelle parole.
«Immagino sia per darci
un
messaggio» esordì Abrai «so che, per la
sua posizione, la Bocca del Chimaer vi
ha impedito la maggior parte delle comunicazioni con il Rah».
Hion annuì con la testa:
«Esattamente,
orco anziano. Saprete che Re Olster ha mobilitato alcuni clan guerrieri
delle
sue terre e un vero e proprio esercito dei suoi lupi guardiani per
difendere Fjaran-Marmar.
E saprete che questo dispiego di forze è sparito nel
nulla».
Seguì un breve silenzio:
nessuno
aveva bisogno di confermare quelle parole.
«Vi posso dire con
assoluta
certezza cosa ha inghiottito
quell’esercito. Si è trattato di uno spasmo della
Bocca del Chimaer».
«Uno… spasmo? Che significa?»
Ariadne sembrò voler
incenerire Irisa
con lo sguardo per aver parlato quando non doveva, ma non ne ebbe il
tempo. Re
Hion, per nulla infastidito dall’intrusione, si
spiegò immediatamente.
«L’influenza
del Chimaer non ha
un raggio stabile. A volte si espande all’improvviso e in
quei casi corrompe
qualcosa nel suo raggio d’azione. A volte corrompe solo gli
oggetti inanimati,
altre volte solo gli esseri senzienti, altre volte ancora solo certe
categorie
di oggetti. Come certamente saprete, non ci sono criteri precisi.
Chiamiamo
queste vibrazioni improvvise spasmi della
Bocca del Chimaer».
«Quindi state
dicendo…»
«…che uno
spasmo della Bocca del
Chimaer ha inghiottito e corrotto le forze mobilitate sulla
spiaggia» concluse
Hion completando la frase di Ariadne.
«Ebbene, qual
è il messaggio da
recapitare?» tagliò corto Abrai.
«È molto
semplice. Noi chiediamo
formalmente a Re Olster e a chiunque altro voglia sostenerlo di non
inviare
altri soldati nel Fjaran-Marmar».
Pur semicoperta dall’elmo
rosso,
l’espressione sgomenta di Ariadne si distingueva benissimo.
«Non… non
direte sul serio».
«Io comprendo il modo di
pensare
dei Re umani. Se non si inviassero eserciti nei pressi della Bocca del
Chimaer,
il vostro popolo penserebbe che non siete in grado di occuparvi del
problema.
Sarebbe il panico, il terrore, la follia forse. Ma inviare dei soldati,
laddove
non possono fare altro che morire per cotali ragioni, è
quasi un sacrificio
umano. La mia gente non lo gradisce, né io intendo
permetterlo d’ora in poi».
«Maestà»
obiettò Ariadne dopo
qualche minuto di un silenzio di ghiaccio, dove Irisa non aveva neanche
la
forza per parlare «il nostro compito è combattere
le creature che la Bocca del
Chimaer partorisce sulle nostre terre. Se nessuno se ne
occupasse…»
«Se e quando
l’orda arrivasse
alle nostre porte, avrebbe senso combatterla. Prima di allora,
avvicinare degli
uomini ad una Bocca del Chimaer non produce alcun risultato utile. Nel
caso in
questione le armate non sono semplicemente state trucidate, ma invece
sono
state corrotte dall’influsso del Chimaer. Sono chimerici
adesso… parte dell’orda
che dite di voler combattere. È stato peggio che lasciarli a
difendere le loro
case, non trova?»
«È questo il
messaggio, allora»
fece l’orco, stranamente ben poco turbato dalle parole del
sovrano elfico.
«Noi consegneremo il
messaggio
come voi chiedete, maestà. Ma non potete non considerare
cosa accadrebbe alle
Lande di Rah se si lasciasse incustodito la Bocca del Chimaer del Mar
Bianco».
Hion sospirò appena:
«Cosa
accadrà alle Lande, dite? E cosa invece accadrà
al mondo intero? Questo è il
terzo caso di Bocca aperta
nel mondo
conosciuto. Se ne apriranno altri? Ancora chiedo: se bastassero
già questi a
inghiottire tutto?»
«Ma alcuni sono stati
chiusi!»
sbottò Irisa, indignata dallo scherno verso il suo esercito
e la sua lotta; ma
appena fece per alzarsi, Ariadne le afferrò una spalla quasi
artigliandola e la
costrinse a rimanere in ginocchio.
«Chiusi? Certo, alcuni lo
hanno
detto, ma la verità spesso si perde nella storia. Sono stati
chiusi o si sono
chiusi da soli? Ricorderete di maghi che secoli fa si vantarono di aver
chiuso
con le loro arti la Bocca del Chimaer nelle isole degli elfi del
Sole… che poi
si diressero a quella nel continente che in un tempo ancor
più antico ospitava
la mia gente e i loro domini. Non fu mai sigillata, quella Bocca del
Chimaer… e
oggi chiamiamo quella terra il Continente Rubato… la terra
che il Chimaer ha
sottratto alla mia gente».
«Maestà,
queste sono leggende
che…»
«Conosco le vostre leggi
e i
vostri principi» interruppe Hion e poi recitò con
tono rispettoso: «“Solo ciò
che può essere documentato fa parte della
Storia”… non dice così un Comandamento
di Runeh?»
«Pur supponendo che
esista un
cosiddetto Continente Rubato» insistette Ariadne
«volendo seguire quest’ordine
di pensieri, vi chiedo: se una sola Bocca ha potuto inghiottire un
continente
in passato, cosa dobbiamo pensare ora che l’Astermagna
è toccata da due di esse,
da nord e da est?»
«Chi può
dirlo? Un tempo c’erano
tre Bocche del Chimaer schiuse
intorno all’Isola di Tamerlyn eppure oggi sono
richiuse».
«Perché gli
arcidruidi degli elfi
del Sole le hanno sigillate».
«Questo è
quanto sostengono
loro».
«Questo dice la
storia».
Irisa sentì i due orchi
accanto a
loro ridacchiare: per loro, tutte queste disquisizioni di principio
erano una
perdita di tempo e dibattere se la storia dovesse basarsi su precise
documentazioni piuttosto che su leggende tramandate da sculture e
disegni
allegorici era interessante quanto discutere di che forma dovessero
avere i
sassi.
«La storia è
assai meno oggettiva
di quanto credete, Comandante. Ma non voglio rischiare di offendere la
vostra
cultura con questa diatriba. Quanto intendevo è chiaro,
spero…»
«Intendete dire che sia
la mia
gente che la vostra vanta una comprensione ed un controllo sule Bocche
del
Chimaer che non possiede. Questo ovviamente non è del tutto
infondato, ma ciò
non significa che schierare i nostri eserciti contro la Bocca del
Chimaer sia
insensato».
“Non significa che sia
insensato”? Come sarebbe? Se davvero non ne sappiamo
nulla cosa stiamo andando a fare?
Irisa si sorprese di sé
stessa,
di aver avuto quel pensiero improvviso che sembrava spuntato dal nulla
e al
contempo gli suonava molto più semplice e naturale di quello
che Ariadne
sosteneva.
«Capisco la vostra
posizione»
concesse Re Hion «la mia è una semplice richiesta
che, date le mie difficoltà
nel comunicare col mondo esterno, vi sto chiedendo di consegnare a chi
può
considerarla».
Irisa digrignò
inavvertitamente i
denti: quella conversazione era risultata alquanto sgradevole.
«Neppure io voglio
offendere voi,
maestà. Vi prego di perdonarmi per avervi contraddetto e
ovviamente vi
garantisco che consegneremo il messaggio. Tuttavia concedetemi di
dirvelo
un’ultima volta: non comprendo. Da come parlate, sembra non
ci si possa basare
su nulla, che l’unica certezza sia l’incertezza.
Che profitto viene dal pensare
così?»
Re Hion non rispose
immediatamente, anzi scambiò uno sguardo col suo consigliere
come fosse incerto
su cosa rispondere.
«Profitto» ripeté «forse
avete ragione, non c’è alcun profitto a
chiamare l’ignoto col suo nome. Ma è una
professione di verità».
«E
questo è tutto quello che c’è da dire?
Che l’ignoto è ignoto?»
s’intromise di
nuovo Irisa ma stavolta Ariadne, sovrappensiero, non ci badò.
«Non è forse
questa l’essenza
stessa del Chimaer? La punizione per ciò che noi mortali
abbiamo realizzato nel
Mondo Antico… non smettiamo mai di sperare di poterlo
governare, di
comprenderlo… ma se così fosse come potremmo
espiare le nostre colpe?»
«In
quest’ordine di idee, come si
potrebbe escludere che questa espiazione non porti con sé la
fine del mondo
stesso?»
Re Hion e il suo consigliere Seix
si scambiarono una rapida occhiata, prima che lo sguardo rassegnato del
piccolo
elfo tornasse sui quattro che stavano inginocchiati al suo cospetto.
«Vi ho forse fatto
credere che
sto escludendo tale eventualità?»
Nessuno aggiunse altro. Uno ad
uno i rettili preistorici intrappolati nel ghiaccio chiusero gli occhi,
il
ragazzino seduto sulla bolla di vetro li chiuse per ultimo, dando a
Irisa
l’impressione che il giovane elfo non fosse Re Hion, ma solo
la bocca con cui
l’entità nota come Hion parlava ai mortali.
«Sua altezza vi ringrazia
per
l’attenzione» concluse Seix.
***
Irisa si svegliò di
colpo
rovesciando le coperte. Le venne da strofinarsi gli occhi e
cercò
svogliatamente la fonte della luce calda che invadeva la stanza. Era un
fuoco
acceso nel camino, dall’altro lato della stanza. Ariadne era
seduta davanti ad
esso, ancora nuda, con uno sguardo mobile eppure perso, quasi fosse
tutta presa
dall’arredamento elfico intorno a loro. Irisa per prima cosa
si legò d’istinto
i capelli in alto, nella sua solita coda arruffata, quindi
poggiò i piedi sul
pavimento freddo e le venne accanto in silenzio, inginocchiandosi e
ponendole
la testa sulle gambe.
«Non riesci a
dormire?»
Ariadne le carezzò la
testa:
«Scusa, ti ho svegliata?»
«No… immagino
di essere nervosa,
stanotte».
Irisa le baciò un fianco
e poi si
sollevò un po’ per finire contro il suo seno, quel
seno grande e morbido che le
aveva sempre invidiato. Con un dito carezzò le sue labbra.
«Sei
preoccupata?»
Ariadne se la portò
vicino con le
mani e Irisa accettò di buon grado, supponendo che lei
volesse baciarla. Invece
la fissava con una serietà ed una tristezza che lei non gli
aveva mai visto nei
suoi grandi occhi color miele.
«E tu? Un sovrano elfico
ha
appena detto che tu… che tutte noi siamo carne da macello e
che forse il mondo
stesso è condannato. Non sei preoccupata? O
meglio… arrabbiata?»
Fu lei a baciarla brevemente, per
poi stendersi di nuovo su di lei, guardando fuori una di quelle strane
strutture di ghiaccio così incredibilmente simili ad alberi,
quel segno
concreto di magia.
«Questi elfi non sono
cattivi, ma
sono gente strana. Fra un paio di giorni avremo raggiunto Fjaran-Marmar
e
abbattuto ogni singolo chimerico che troveremo. Qualsiasi cosa pensino
loro non
fa differenza per me. Credo nei Comandamenti, credo nella Regina, credo
nel mio
esercito e quello che so e che ha sempre funzionato è
questo: che tutto ciò che
esce da una Bocca del Chimaer va sterminato».
«Ci
credi…»
Irisa fu attraversata per un
unico istante dal desiderio di confessare ad Ariadne che aveva
dubitato,
profondamente, di quell’insieme di idee e certezze su cui
basavano le loro
azioni. Ma l’istinto le consigliò di evitarlo.
«Ma certo. E voglio
dimostrarlo,
lo voglio davvero… sono anni che lo voglio… come
tutte le altre, certamente».
Ariadne disse quasi bisbigliando:
«In me… in me credi?»
Si voltò di scatto: non
l’aveva
mai sentita con una voce così rotta, così
vulnerabile. Forse anche Ariadne non
voleva confessare gli stessi timori?
«Che dici? Certo che
credo in te…
l’ho sempre fatto. Come Comandante… come sorella
amazzone… e come mia
compagna».
«Sei certa di quello che
dici?
C’è un ordine che devo darti».
Irisa stirò un
sorrisetto
imbarazzato: «Non ho mai disobbedito ad un tuo ordine, men
che meno quando
siamo entrambe nude…»
Rimase profondamente delusa.
Provocava molto raramente e quando lo faceva Ariadne reagiva sempre con
il
massimo dell’entusiasmo. Invece stavolta parve non averla
nemmeno sentita.
«Non ti
piacerà, Irisa».
Era davvero seria, pensò
prendendole
entrambe le mani e baciandole: «Farò tutto quello
che vuoi, Ari».
«Ti ho chiesto di
scegliere sei
ragazze che possano tornare indietro per fare rapporto sulla situazione
nel
caso perdessimo la battaglia».
«Non la perderemo, ma me
ne
ricordo. Ci ho già pensato».
«Tu devi essere una delle
sei».
Irisa le lasciò le mani
con tanta
fulmineità che sembrò aver preso la scossa. Ebbe
l’impulso di allontanarsi da
lei e lo assecondò, così rapidamente che
inciampò all’indietro sul tappeto di
pelliccia. Poi un secondo impulso le fece domandare se non era stata
troppo
brusca, se forse non l’aveva ferita. Ma alzando la testa
verso la sua compagna,
vide che anche in quel caso non aveva mutato espressione.
«Tu devi essere una delle
sei»
ripeté, quasi meccanicamente.
«No».
«Hai detto che avresti
fatto
qualsiasi cosa».
«Non mi stai dando un
ordine da
Comandante, ma da mia fidanzata, e oltre ad essere ingiusto
è anche offensivo.
No. Assolutamente no».
Si alzò: sentiva
addirittura la
necessità di rivestirsi. Parlava freneticamente, senza
riuscire a concludere le
frasi e riusciva a stento a maneggiare i suoi vestiti.
«E poi tu… ed
io non… io…»
«Irisa…»
«Non… non ci
credo… non ci credo
che vuoi farmi questo!»
«Irisa».
«Perché,
perché ora?»
«Irisa Floran!»
Si fermò, ma non
riusciva a
guardarla in faccia. Parlò ancora piena di rabbia.
«Sei sempre stata chiara
con me.
Se volevo amarti, non dovevano esserci dubbi sul fatto che non
favorissi me
sopra le altre. Ho accettato di essere cauta, di non farti nemmeno una
carezza
in pubblico. Ho accettato tutti i compiti più pesanti o
più pericolosi che mi
hai affidato. Se ci scoprissero, nessuna corte marziale ti potrebbe
contestare,
nessuno oserebbe dire che mi hai trattato meglio delle altre. In cambio
di
tutto questo, non ho mai neppure una volta potuto baciarti alla luce
del sole…
è stata dura, molto dura!»
«Lo so» ammise
l’altra, ma senza
dare segni di cedimento.
«Un anno di sacrifici! E
ora…
proprio ora! Prima della battaglia più importante della mia
vita, mi chiedi di
scappare? Proprio adesso metti la mia vita al di sopra di quella delle
nostre
compagne!»
Stava sbagliando qualcosa in
quella conversazione e lo sapeva: neanche in quel caso Ariadne
cambiò
espressione. Cosa non le stava dicendo?
«Non ti ho chiesto di
andare come
mia fidanzata, ma come mia subordinata. C’è una
ragione ben precisa».
Irisa attese un po’, poi
lasciò
cadere i vestiti, di nuovo nuda davanti a lei: il senso di quel gesto
era
chiaro, ma lo esplicitò comunque con le parole.
«Scusami, io…
devo lasciarti
spiegare, credo… dovrei saperlo che tu… non ti
abbasseresti a questo… non coscientemente».
«Neanche
inconsciamente» precisò
con fermezza «c’è un motivo, ti
ripeto».
Irisa tornò
silenziosamente
accanto alla sua compagna. Tremava di freddo, Ariadne coprì
lei e sé stessa con
una coperta.
«Non mi sono mai
vergognata di
essere tua, prima di stanotte. Se c’è un motivo
dimmelo, ti prego. Il solo
dubbio che tu possa… favorirmi, mi distrugge. Mi
umilia».
«C’è
un motivo, ti ripeto. Una
Comandante non può abbandonare le sue sorelle amazzoni in
battaglia. Eccetto
me, però, solo quei due orchi – che non considero
– e infine tu, avete udito
quel messaggio. Non voglio darlo ad altre, ma non voglio nemmeno che
vada
perduto».
Irisa spalancò gli
occhi,
stupita: «Cosa stai dicendo? Quel messaggio era una
farneticazione! Abbiamo
passato ogni singolo mese in accademia a farci ripetere quanto non ci
sia
peggior minaccia dei chimerici. Quell’elfo ci ha gentilmente
chiesto di
lasciarli perdere e fare come se non ci fossero. Vuoi riportare questo messaggio alle orecchie della
Regina Aryl?»
Ariadne la strinse con forza, ma
senza dolcezza: come l’aveva stretta già
un’altra volta, quel giorno, al
cospetto del Re Hion.
«Ho solo un dubbio. Solo
un
piccolo dubbio che quel messaggio non sia un delirio. Un dubbio minimo,
ma…»
«Il senso di quel
messaggio… di
tutto quello che l’elfo ha detto… è che
niente di quello che facciamo ha
realmente senso. Se fosse vero, a chi mai dovremmo dirlo?»
Ma a quel punto della
conversazione, il pensiero di confessare i suoi dubbi ad Ariadne non
sembrava
più inopportuno,
bensì piuttosto spaventoso.
Ariadne la strinse ancora
più
forte, scuotendola: «Iri! Quante volte hai sentito parlare
dei chimerici, nella
tua vita?»
«Quante…
volte…? Non lo ricordo…
tantissime…» ormai l’incerto terreno di
quella conversazione sconfinava
nell’angoscia.
«E quante volte qualcuno
ti ha
parlato delle loro origini? O di come mai spariscono di colpo? O di
cosa
vogliano i chimerici, in realtà, di perché li
combattiamo?»
«A… Ari, mi
stai facendo male…
lasciami».
«Rispondi! Quante
volte?»
«Mai! Lo sai…
la Chiesa si occupa
di queste cose! È solo a questo che serve, quella dannata
Chiesa. Sono tutte
cose che mi hai insegnato tu, Ari! Che ti prende stanotte?»
La lasciò, ma
contrariamente alle
sue previsioni Irisa non uscì dalla coperta che le avvolgeva
entrambe, né si
allontanò.
«Anche a me le
insegnò una
sorella di grado più alto. Anni fa come poi io
l’ho insegnato alle mie sorelle
minori… come te. Però…»
«Però…?»
Le venne un dubbio. Forse, molto
semplicemente, il momento della grande prova rappresentato dalla Bocca
del
Chimaerv si avvicinava e Ariadne non aveva altro che una naturale e ben
comprensibile paura. Forse quel che avrebbe davvero voluto erano
rassicurazioni.
«Ari!»
chiamò, carezzandole una
guancia «Facciamo un patto. Arriveremo lì con le
altre… combatterò e vincerò,
ne sono certa. Ma se invece le cose si dovessero mettere
male… allora andrò.
Andrò subito, appena lo ordinerai! Riporterò
quello che è successo e il
messaggio di Re Hion. D’accordo?»
«Sicura che lo
farai?»
«Sicura. Come sono sicura
che non
ce ne sarà bisogno».
La baciò con passione.
«È solo paura.
Sarà una battaglia
importante. Abbiamo solo un po’ di paura, è
normale» la rassicurò ancora e
ancora, senza però convincere per prima sé stessa.
***
Passeggiò per un
po’ lungo la
strada ghiacciata: la luce gelida dell’alba si
allargò rapidamente su tutta
quella città innaturale che era Vonselas. Sebbene fosse
molto presto, diversi
elfi iniziavano a traversare le strade pronti a intraprendere le loro
faccende
quotidiane.
«Cosa fate
qui?» chiese Irisa
all’orco che trovò seduto sotto un grande albero
di ghiaccio, su un promontorio
da cui si vedeva una buona porzione di città.
«La mia tribù
preferisce rimanere
accampata fuori. A me invece piace questa città»
spiegò Abrai togliendosi il
mascherone dal viso.
«Ma…!»
Era senza parole: a volto
scoperto Abrai Kub-Rul aveva una barba grigia ben curata, tagliata
tutta alla
stessa lunghezza, come i capelli intorno alle tempie. Si
aggiustò gli
occhialini tondi dall’aria preziosa che gli stavano
scivolando sul naso. Aveva
qualcosa di raffinato e austero nello sguardo, se non fosse stato per
le zanne
ricurve e i vestiti di pelli, sarebbe stato l’individuo
più distinto che Irisa
ricordasse di aver mai visto.
«Hai un viso…
diverso da quello
che pensavo, sotto la maschera».
L’orco rise:
«Già! Ti immaginavi
un muso da guerriero pieno di cicatrici, eh?»
«Bè,
sì».
«E invece no. Sono
tornato alla
mia tribù qualche anno fa. Per la maggior parte della mia
vita ho vissuto come
poeta di corte in Nistria».
«Un orco
poeta?!?»
«Ci sono anche orchi
pittori e
musici, cosa credi?» ribatté indispettito
«Ero anche molto apprezzato. Forse
senza saperlo hai studiato qualche mio sonetto da piccola. Se fossi
nistriana
ne sapresti qualcuno a memoria, so che li insegnano nelle
scuole».
«Oh. Eri…
felice?»
Abrai sospirò:
«Ma certo. La vita
di corte è fantastica. Cibo raffinato, ottime letture,
persino belle donne ho
avuto».
«Risparmiami i
dettagli»
interruppe Irisa con un piccolo brivido di disgusto.
«Ehi, sei un
po’ razzista,
ragazza».
«Io? Non è
vero! Io…»
Si voltarono entrambi: erano
piuttosto sicuri di aver visto un’ombra immensa, una massa
scura muoversi sotto
la calotta di ghiaccio su cui Vonselas era costruita, come qualcosa di
indefinibile che nuotava sotto la superficie. Ma nessuno degli elfi che
sotto
di loro si affaccendavano reagirono come se la cosa potesse
rappresentare una
minaccia. Per loro era normale come vedere gli uccelli in cielo.
«Che… che
posto assurdo…»
«Già, ma mi
piace scoprire luoghi
come questo» ammise Abrai osservando il suo mascherone.
Irisa gli si sedette accanto.
«Allora, orco…
perché sei tornato
alla tribù?»
Abrai guardò il cielo
come se i
ricordi volassero lì tra le nuvole e dovesse riacciuffarli
con lo sguardo.
«Avevo avuto molte
dispute con la
mia famiglia. Ero un guerriero talentuoso, dicevano, un giovane
promettente. Ma
a me... non interessava molto. Ho vissuto come ho voluto. Poi mio padre
è
morto, poi mio fratello, sono rimaste solo le mie sorelle e mia madre.
Sono
vecchio ormai, volevo provare… a farle contente. Morire come
un vero orco.
Quindi tre anni fa… sono tornato».
«Morire»
ripeté Irisa «perché voi
orchi siete convinti che si vada in guerra per morire?
Sembra quasi che ci speriate».
«Sciocca bambina, cosa
credi che
sia la guerra?» chiese Abrai Kub-Rul rialzandosi e indossando
nuovamente il
mascherone «Non è altro che questo…
migliaia di storie che si interrompono, che
spariscono… prima sono uniche…
speciali… poi… finiscono nella spazzatura senza
che nessuno le ricordi. Prepararsi a diventare spazzatura…
morire mangiati dai
corvi… significa solo avere chiaro il senso di
ciò che si fa».
Irisa rimase sovrappensiero.
«È stato bello
parlarti, ragazza
dei cavalli. Ora devo…»
«Aspetta»
scattò lei «c’è una
cosa che voglio chiederti».
Abrai assentì con un
breve e
ironico inchino.
«Chiedi allora».
Avrebbe voluto chiedere se i
timori di Ariadne e i suoi – tanto profondi che non aveva
avuto il coraggio di
confessarli a nessuno – fossero in qualche modo giustificati,
se erano un segno
da non sottovalutare. Ma ovviamente non poteva chiederlo a lui.
«Quello che abbiamo
sentito… da
Re Hion… tu cosa ne pensi?»
Abrai si strinse le spalle:
«Perché ti turba?»
Irisa abbassò il viso:
«Il
Chimaer è un mistero. Rappresenta l’ignoto. Questo
lo so. Ma arrivare a
definirci dei sacrifici umani...».
Abrai iniziò a
discendere dal
promontorio verso le strade della periferia di Vonselas, dandole le
spalle.
Parlò piano, senza voltarsi a guardarla.
«Tutti i soldati sono
sacrifici
umani. Credono di sapere perché vanno in guerra, ma non lo
sanno. E prima di
accorgersene… sono finiti nella spazzatura».
***
All’alba di due giorni
dopo
raggiunsero una spiaggia di ciottoli chiari stesa su un mare grigio e
immobile.
Quella costa bianca, che si spandeva per chilometri, costituiva la
regione
delle Lande di Rah nota come Fjaran-Marmar.
«E…
eccolo» annunciò Ariadne dopo
una brevissima occhiata.
«Io…»
Irisa non riuscì a
spiccicare più un’altra parola e si
rammaricò amaramente di non avere una Dea
da pregare, a differenza dei fedeli sparsi negli altri cinque regni.
Abrai si avvicinò ai
loro
cavalli: «È proprio lui».
Traslucida, evanescente, la Bocca del Chimaer si allungava per
diversi chilometri in tutta la sua innaturalezza. Se Irisa avesse
voluto
descriverlo, poteva solo paragonarlo ad una gigantesca spina dorsale
appartenuta ad un animale crestato, un oggetto morto che galleggiava
pigramente
sull’acqua, ma anche quella descrizione non rifletteva a
pieno ciò che era, non
rifletteva i suoi movimenti ritmici come se si spostasse pigramente sul
fondale
marino, i suoi innaturali colori di un nero cielo notturno trapuntato
da un
firmamento rosso violaceo e il fumo nero che veniva progressivamente
spruzzato
– o forse, espirato – fuori in densi getti sottili.
Il fumo nero era a sua
volta incredibile, perché appena era libero in aria si
condensava in forme
geometriche, forme che poi fluttuavano senza scopo formando una nube di
prismi
neri al di sopra di quella cresta. Era, nel complesso, una forma che
non aveva
significato, non aveva funzione, non rispondeva ad alcuna
classificazione; solo
in un punto, verso il centro, la cresta si inarcava e sembrava tenere
incastonato in sé un globo perfettamente sferico.
«Ecco»
osservò Abrai emozionato,
indicando col bastone quella sfera «è proprio vero
che ciascuna Bocca del
Chimaer è diversa dagli altri, questa non assomiglia per
niente a quella che
vidi da bambino. Ma quel globo è uguale a quello che vedono
i pochi che tornano
dal cuore della Bocca del Chimaer nell’Oceano Orientale.
Quello… è la fonte del
Chimaer».
«La fonte del
Chimaer…» fece eco
Irisa , tremando: stava osservando quel globo e questo, per qualche
ragione, le
dava una sensazione che oltrepassava di parecchio quella che avrebbe
saputo
definire come vertigine.
«Smetti di fissarlo,
Irisa»
raccomandò Ariadne e la ragazza fu felice di sentire la voce
della sua
Comandante e compagna.
Si rese conto che se non avesse
sentito quella voce non avrebbe avuto idea dello stato in cui la sua
mente
avrebbe potuto essere in quel momento, dove quella sfera avrebbe potuto
risucchiarla semplicemente guardandola fissa. Distolse lo sguardo,
avvertendo
subito una grande emicrania.
«L’orda
chimerica… dov’è?» chiese
appena fu di nuovo in sé.
«Ecco che arriva
qualcuno»
avvertì l’orco, inspiegabilmente felice, rivolto
ad uno stormo di strane figure
volanti.
Irisa li vide. Un tempo erano
stati umani, forse bambini, ma certamente non lo erano più.
Quello che era
stato il cranio si era gonfiato e riempito di buchi, come una grossa
spugna, e
li faceva fluttuare in aria come mongolfiere umanoidi. La cosa
più strana era
la materia di cui erano fatti, che certamente non era carne; sembrava
come una
porzione di firmamento stellato strappato al cielo e rimodellato, ma di
un
assurdo impasto di colori salmone e avorio. Nella massa puntinata e
semitrasparente scorse per un attimo, per l’appunto, gli
accenni dell’ossatura
di bambini umani e questo le suscitò quasi un conato di
vomito. Aveva assistito
qualche volta a invocazioni di angeli o demoni, ma nessuna apparizione
dava il
senso di straniamento, di alterità, che davano quelle cose.
«Chimerici. Coloro che
sono
toccati dal Chimaer» commentò l’orco
anziano «Brutta storia davvero. Se questa
Bocca è instabile può avere uno spasmo e toccarci
tutti. Finiremmo come
quelli».
«A…
allora… dobbiamo andarcene
subito!» commentò un’amazzone al fianco
di Ariadne.
La Comandante non riuscì
a
parlare, o forse non volle, ma fu Irisa a farlo: «No. Siamo
qui per presidiare
queste coste, ricordatelo. Neppure un chimerico può
oltrepassare questa
regione!»
Gli umanoidi in aria ammutolirono
e si paralizzarono di colpo. Le loro teste sembrarono farsi
improvvisamente
pesantissime e li fecero precipitare come sassi nell’acqua
marina.
«Ma tu faresti meglio ad
andartene, Irisa» disse Ariadne «Ricordi, giusto?
Serve che informi qualcuno.
Ci vogliono maghi… maghi potenti, per chiudere una Bocca del
Chimaer, e questo
è chiaramente ancora aperto».
Irisa si lasciò sfuggire
una
smorfia irritata da sotto l’elmo. Non aveva forse espresso,
qualche notte
prima, il dubbio che le Bocche del Chimaer non potessero essere chiuse
in
qualsiasi maniera? L’unica funzione di quelle parole era di
dare una
giustificazione alle altre per mandare via solo lei. Non le piaceva,
non
riusciva a scrollarsi di dosso l’idea che Ariadne la volesse
favorire e così le
sembrava di ingannare le sue sorelle d’armi.
Abrai sbuffò:
«Maghi? Eh eh eh.
Sono balle. La Bocca del Chimaer non viene chiusa da nessuno, al
massimo si
chiude da sé».
«La Bocca del Chimaer
può essere
domata».
«No, non può,
è la sua stessa
natura che ce lo dice».
«Questo lo dicono quelli
che non
credono nel futuro!» sbottò Irisa e a stento si
trattenne dal chiedergli ancora
se credeva alle parole del Re degli elfi della neve, ma
preferì fermarsi lì.
«O quelli che non credono
alle
favole» insistette l’orco, senza scomporsi
«ma fate come credete, ragazze dei
cavalli. Niente fa più differenza, ora».
Impugnò il robusto
bastone come
una mazza, e proprio allora, come l’avesse evocata,
l’orda uscì dall’acqua. Si
mosse rapidissima e compatta, come una unica fiumana di individui, e
descrisse
un semicerchio percorrendo diversi metri di spiaggia per poi invertire
marcia e
rituffarsi in acqua. Sembrava di osservare la spira di un enorme
serpente che
usciva e rientrava nella sua tana, ignorando totalmente orchi ed
amazzoni in
egual modo.
«Cosa… cosa
fanno?»
Non aveva mai visto una cosa del
genere: correvano verso di loro – ma non stavano guardando
loro – invertivano
marcia e si rituffavano in acqua. Nessun esercito avrebbe mai potuto
muoversi
così, prestare il fianco agli avversari schierati con tanta
sconsideratezza. Ma
proprio per l’evidente idiozia di quel movimento,
né le amazzoni né gli orchi
aggredivano. Rimanevano basiti a guardare quella massa di esseri eterei
e
multiformi.
«Cosa diavolo
fanno!?»
«Chi lo sa?»
rispose l’orco,
senza muoversi «le azioni dei chimerici non hanno alcun senso
comprensibile.
Spero che decidano di aggredirci presto, perché potrebbero
passare giorni prima
che si accorgano di noi. Sarebbe una bella noia. Forse è
meglio aggredirli
subito».
Aggredirli, pensò Irisa,
con che
cosa? Con la manovra a tenaglia flessibile? L’accerchiamento
immobile? Le
tattiche di guerriglia a spirale? Tutte le strategie che le amazzoni
sapevano
eseguire con la perfezione di una danza elegante si basavano sempre e
comunque
sull’indovinare e anticipare il ragionamento del nemico. E
ovviamente
anticipare ciò che faceva e pensava un chimerico era
impossibile, bisognava
osservarlo sul campo, ma…
«Ci
stanno…»
«…ignorando
del tutto».
…ma cosa si poteva fare,
invece,
se il nemico che non ragionava affatto?
Se era mosso, come sembrava, dalla pura irrazionalità? In
quel caso osservare un
chimerico sul campo era del tutto inutile. Non c’erano
risposte giuste, perché
non c’erano domande.
«Ariadne…?»
«Non parlarmi ora. Sto
pensando».
Ma a cosa si poteva pensare?
Senza trovare risposta, provava una paura profonda e indescrivibile ed
una
unica certezza: non avrebbe mai voluto essere lasciata sola ad
affrontare
quella paura, quindi non poteva nemmeno immaginare di essere lei ad
abbandonare
la prima linea lasciando le sue compagne faccia a faccia con i
chimerici.
«I- io… non
voglio andarmene.
Rimarrò qui…»
«La
vera guerriera è non chi imbraccia l’arma e taglia
teste, ma chi
esegue gli ordini assicurando la vittoria»
ribatté Ariadne citando un motto
tipico dell’esercito amazzone.
«Anche
l’ordine più insignificante, l’incarico
più umile, è decisivo ben
più di un campione che vada in battaglia secondo il suo
capriccio» proseguì
recitando Irisa.
Ariadne annuì verso la
sua
compagna, compiaciuta. Ma forse dentro di lei sapeva che quelle parole
Irisa le
aveva pronunciate senza sentirle sue.
«Non indugiare,
vai».
Irisa osservava
quell’esercito
rapidissimo e quel poco che vedeva spiegava ben poco. L’unico
tratto in comune
era la massa di nero e polvere iridescente di cui erano composti, che
ricordava
un ammasso di astri, anche se ciascuno era di un diverso insieme di
colori
brillanti, e gli accenni di ossa visibili all’interno, unico
memento di ciò che
erano prima della corruzione. A parte quello era difficile trovare due
elementi, tra tutti, che fossero almeno simili per aspetto. Molte,
moltissime
altre forme di quell’orda che non poteva essere definita,
classificata o
spiegata, Irisa non riuscì neppure a distinguerle, certo
erano stati
qualcos’altro, prima che il Chimaer li toccasse alterando la
trama stessa della
realtà, ma ora erano solo incroci e ibridi di cose
preesistenti, senza una
precisa identità, forme come ombre che erano un
po’ animali e un po’ vegetali,
un po’ persone e un po’ oggetti. Creature
indefinite, senza scopo o con uno
scopo inconoscibile e incomunicabile, pronte a spargersi nel continente
senza
che nessuno potesse prevedere o capire il loro comportamento che poteva
variare
dalla stasi totale alla violenza raccapricciante e immotivata. Erano la
follia
stessa, ma più solidi e concreti di qualsiasi pensiero, una
follia che
camminava tra i mortali e invadeva il loro mondo di ragioni e
sentimenti senza
spiegazione alcuna. Erano i chimerici e in quel nome unico
c’era tutta la loro
unicità.
«Non ci
attaccano…» si lamentò
uno degli orchi.
Irisa si sorprese della calma e
della compostezza degli orchi, da sempre convinti che
l’essenza della vittoria
fosse prendere l’iniziativa per primi con audacia e
aggressività. Nessuno di
loro si sognò di scagliarsi su quelle creature per primo e
lei ne comprese
rapidamente il motivo: non pensavano di poterla sopraffare, quindi il
senso
dello scontro sarebbe stato sopravvivere a oltranza tenendo il litorale
il più
a lungo possibile, come una diga di carne ed ossa che la vita stessa,
la vita
come Irisa la conosceva, poneva a difesa per evitare di essere sommersa
dall’insensata esistenza di quella fiumana. E
così, per una volta, persino gli
orchi non attaccavano prima di essere attaccati.
«Forse
stann…»
Le parole di una compagna accanto
a lei si persero, perché la moltitudine accelerò
il passo producendo un fragore
che copriva ogni altro suono. Infine, seguendo la loro rotta priva di
scopo, si
erano tutti rituffati in acqua ed erano svaniti in un mare
improvvisamente
immobile e silenzioso.
«Sono… andati
via?» chiese Irisa.
«Per ora»
ribatté Ariadne «per
giorni, forse, o per qualche minuto. Devi andare! È un
ordine!»
Irisa deglutì,
amareggiata. In
una società definita da legge, disciplina e – se
necessario – dall’annullamento
di sé stessi, solo una cosa poteva seguire un ordine:
l’obbedienza. Strinse le
briglie di Fulvospirito.
«Come desideri,
Comandante.
Vado».
Le sembrò che Ariadne la
stesse
fregando: gli unici argomenti che poteva opporre a quel preciso ordine
riguardavano la loro relazione e lei non poteva usarli
perché l’ordine era
stato impartito in pubblico. La guardò fisso e anche lei
ricambiò lo sguardo.
Cosa devo dire alla ragazza che
amo, con cui potrei aver fatto l’amore per
l’ultima volta? si chiese ossessivamente in quella
manciata di
secondi.
Forse Ariadne lo vide,
perché
anche i suoi occhi si fecero dolci e tristi. Ma non ci fu tempo di dire
nulla.
Un’unica gigantesca onda si era sollevata, ed era chiaro che
l’acqua era molto
meno trasparente di come avrebbe dovuto essere, piena di un arcobaleno
di
fosforescenze che solo i chimerici potevano produrre; il muro
d’acqua marina si
curvò sulla spiaggia e sembrò sputare
volontariamente le prime creature multiformi
sul terreno di Fjaran-Marmar. Le stesse che prima avevano ignorato i
due
eserciti ora si scagliavano contro bersagli sparsi, urlando con un odio
che una
creatura mortale non sapeva provare e che non era stato scatenato da
alcuna
causa precisa. A fianco di Irisa, Abrai Kub-Rul urlava con voce
estatica, con
quella particolare inflessione di voce di chi si vede venire incontro
un caro
vecchio amico, un’unica parola ripetuta.
«Morte! Morte!»
Si fiondò su un
chimerico blu e
giallo che poteva ricordare qualcosa tra un rinoceronte e un ometto
gobbo e lo
colpì col bastone con tutta la violenza che aveva. La
creatura fu percossa più
volte facendo finta che l’orco non esistesse, prima di
reagire d’improvviso con
l’enorme chela da granchio che aveva sul braccio destro. Ma
da quell’istante si
fece un avversario tenace e preparato e Abrai prese a parare a fatica,
arretrando.
«Ari».
Irisa ignorò ogni cosa.
Una cosa
verdastra simile ad una figura di donna stirata per lungo si era
fiondata
vicino ad Ariadne, aggredendola con un lungo braccio dritto come un
arpione.
L’amazzone l’aveva affrontata con sapienti
mulinazioni dello spadone senza cadere
da Sirescuro. L’istinto di Irisa era stato di correre verso
di lei a darle
manforte, ma non ne aveva avuto il tempo: uno dei minuti
umanoidi-mongolfiera
era volato sopra di loro ed era caduto a testa in giù,
esplodendo in un rosa
accecante. Al diradarsi della luce, Ariadne e la sua avversaria erano
ormai
polvere, solo una gamba di Sirescuro, che ancora si muoveva convulsa,
ricordava
che Ariadne era esistita. Si era consumato tutto in una manciata di
secondi.
«Ari».
«Morte!
Morteeeeeeeeeeee!»
Abrai Kub-Rul aveva disintegrato
quella che poteva essere la testa della cosa, che si era rotta come
frammenti
di roccia. Ma il corpo continuava a vibrare colpi, seppure adesso
procedendo
alla cieca. Altre di quelle creature piombarono sulla folla esplodendo.
«Ari…»
Alla terza volta che non
ricevette risposta, una compagna le si avvicinò:
«Irisa, l’ordine della
Comandante! Devi andare, devi andare subito!»
«Io…»
«Irisa, mi
senti?»
Un essere lungo e snodato come un
serpente, ma dal torso più simile ad un gatto di montagna,
avvolse la compagna
che la chiamava nelle sue spire di luce nero e lilla e la strinse,
spingendola
a strabuzzare gli occhi e a vomitare sangue.
«Iris- »
La creatura strappò la
testa
della ragazza con una zampata.
«Ari»
ripeté Irisa, mentre la creatura
le saltava addosso lasciando penzolare il corpo straziato della
compagna sul
suo cavallo.
Reagì
d’istinto, si abbassò
flessuosamente rimanendo attaccata a Fulvospirito solo per le gambe,
lasciandosi scavalcare dalla creatura, la attraversò per
lungo con la spada,
dalle fauci fino a metà del corpo.
«Irisa!» le
corse incontro
un’altra, giovanissima, lei riconobbe a stento che era una
delle cinque che
aveva selezionato per accompagnarle, le altre quattro non riusciva a
vederle.
«Irisa, dobbiamo andare
via!»
La ragazza e il suo cavallo si
difendevano caparbiamente a colpi di spada e zoccoli da chimerici che
ricordavano ombre o piuttosto umani appiattiti sul pavimento e
strisciavano
rapidi come lucertole.
«Irisa,
ascoltami!»
Dietro di loro,
l’avversario di
Abrai Kub-Rul rotolava a terra sconfitto mentre l’orco, con
diversi suoi
compagni, si avventava su un grosso chimerico ripugnante: il corpo
color vino
era di enorme cinghiale con zanne sproporzionate mentre al posto del
viso stava
un corpo umanoide, impossibilmente obeso, che rideva in maniera oscena,
quasi
sessuale, mentre camminava lentamente sui corpi di alcune ragazze
schiacciandole col suo peso. Irisa si voltò tenendo salde le
briglie, pronta a
prendere parte a quell’assedio di gruppo contro
quell’essere schifoso.
«Ascoltami,
dannazione!» fece la
più giovane fermandole il braccio e scuotendola
«l’ordine della Comandante!
Dobbiamo andare!»
Finalmente si decise ad obbedire
a quell’ordine, anche se chi lo aveva impartito non
c’era più.
***
Per giorni, Irisa non avrebbe
ricordato altro che le ultime immagini di quella battaglia assurda, la
crudeltà
insensata con cui quelle creature variopinte e multiformi schiacciavano
le sue
compagne d’armi e i mercenari orchi mentre questi cercavano
di improvvisare
qualche sorta di difesa. Le forme surreali facevano rapidamente
sparire, alle
sue spalle, tutto ciò che era stato familiare mentre davanti
a lei c’era solo
la cinta di colline tra Fjaran-Marmar e Graent-Halli, contro la quale
colma di
rimorso si lanciava con tutta la foga di cui era capace. I rumori dello
scontro
si allontanavano rapidamente. Dopo pochi minuti, dietro di
sé sentì appena un
grido soffocato, una voce di ragazzina che spariva, soffocata.
«E…
ehi..:?»
Dietro di lei, la sua compagna
non c’era più. Erano seguite? In ogni caso, era
rimasta sola. Scosse le briglie
e Fulvospirito accelerò.
«Corri!
Corri…»
Il cavallo corse per ore,
finché
tutto ciò che rimase erano gli zoccoli di lui che dava ogni
scintilla della sua
energia nel galoppo, in sincrono con la volontà del suo
cavaliere interamente
concentrata sul compito di portare notizia di quella inevitabile
disfatta. E
forse, per effetto di quel legame misterioso che univa ciascuna
guerriera
amazzone al suo cavallo, Fulvospirito riusciva anche a sentirne la
rabbia e
l’indignazione che ribollivano dentro di lei, senza sapere
bene su cosa o su
chi abbattersi. Dopotutto, nel Nadorhai si parlava della Bocca del
Chimaer più
o meno ogni giorno, eppure né lei né le sue
compagne, nemmeno una, erano
minimamente preparate a ciò che aveva visto. Quasi che la
Bocca del Chimaer
fosse una realtà ineluttabile, persino paragonabile alla
morte, contro cui non
aveva senso organizzare tattiche e addestrare eserciti. Era davvero
così?
Davvero ogni tentativo era affidato unicamente al caso, come sosteneva
Re Hion,
come aveva detto anche Abrai Kub-Rul, proprio come un cavaliere,
persino il più
potente e saggio e ben addestrato non può nulla contro la
morte, se non sperare
di vivere un giorno in più? E se era così,
perché questa verità non veniva
insegnata loro sin dall’inizio?
«Fulvospirito!
Fulvospirito!»
urlò il nome del cavallo ancora e ancora, e ormai
più che tenere le briglie ne
abbracciava il collo muscoloso.
Non c’era
null’altro che lei e il
cavallo, adesso. I pini di Graent-Halli si erano diradati, lasciando
spazio
alle sterminate Steppe Cinerine, che coprivano quasi un terzo delle
Lande di
Rah. Era solo silenzio rotto dal galoppo del cavallo e dalla sua voce
tremante
che ne chiamava il nome di una delle poche creature, forse, che non
avevano
mentito a lei ed alle sue compagne d’arme. Sullo sfondo della
terra grigia si
stagliava lontanissima la ripida montagna sopra la quale si ergeva,
addirittura
oltre le nubi, l’Ubervorour, città da cui Re
Olster controllava tutte le Lande;
ma lei si era ormai addormentata mentre il cavallo continuava la sua
cavalcata,
ignorando la capitale del regno, e dirigendosi d’istinto
verso il Nadorhai,
lungo la strada che aveva percorso nei mesi scorsi e che ricordava bene.
«Fulvospirito…»
chiamò ancora il
cavallo quando, il giorno dopo, si svegliò.
L’andatura del cavallo le
fece
immediatamente capire il suo errore: era sfinito e, non si fossero
fermati,
sarebbe presto stramazzato al suolo. Le montagne, dalle rocce di
diversi
colori, le maestose cascate e la vegetazione rigogliosa che invadeva
prepotentemente vecchissime rovine di cemento le fecero immediatamente
realizzare che doveva aver avvicinato da qualche ora i confini del Rah
e che
presto avrebbe cavalcato nel Nanad, al bordo dell’Entroterra
Selvaggio. Non
aveva amici nel Regno di Mezzo, ma ciononostante doveva per forza
sostare
altrimenti l’animale sarebbe morto. E così fece,
fermandosi sotto un grosso
albero caduto che si affacciava su una splendida vallata. Appena
interrotto il
movimento, sia lei che il cavallo piombarono nel sonno più
profondo,
addormentandosi stremati .
«Aah!»
urlò nello svegliarsi,
perché sognava ancora la battaglia del Fjaran-Marmar.
Guardò il cielo
stellato, prima
di notare con suo sommo orrore una porzione di cielo cambiare colore in
qualcosa di scarlatto e vermiglio, magenta e cremisi. Balzò
in piedi portando
la mano allo spadone ricurvo sulla schiena.
«Maledizione…»
Non ci aveva pensato: se i
chimerici agivano senza ragione, perché non potevano
scegliere di mettersi
all’inseguimento di un singolo soldato? Dopotutto,
conoscevano solo il
capriccio. Quindi, come pensava, la sua compagna era davvero stata
raggiunta e
uccisa. Anche Fulvospirito si agitava, terrorizzato.
«Ca… capisci
quello che dico?»
Avvolto in bagliori di tutti i
toni del rosso, il chimerico non rispose. Cosa poteva essere stato un
tempo? La
testa di un ippocampo, un torso umano scarno a sormontare un corpo
equino
emaciato, ma più di tutto la colpirono gli arti: ripiegate
indietro come ali,
il chimerico sfoggiava due paia chele affilate come quelle di una
mantide che
con ogni evidenza erano armi letali.
«Perché non mi
hai aggredito
subito?»
Era evidente: non capiva niente
di quello che lei diceva. Strinse più saldamente
l’elsa. Attaccare o non attaccare?
Ma appena fece un movimento, dal muso a tubicino di quella cosa
uscì un verso
come il richiamo di un uccello e subito scattarono le chele veloci e
precise
come spade, evitò le prime tre ma l’ultima si
allungò maggiormente, tagliando
il tronco con la precisione di una sega.
Non era difficile capire cosa sarebbe successo se avesse
centrato lei.
Stringendo la lama di ceramica rossa con la mano, Irisa
studiò il suo nemico.
Era più probabile che lui battesse lei in
velocità d’esecuzione, quindi cosa
aspettava per un secondo attacco?
«Ehi!»
Come si aspettava, prese
l’urlo
come una provocazione e cercò di tagliare esattamente il
punto in cui Irisa si
trovava. Schivò e cercò di mozzargli un arto, ma
fu inutile: tornò indietro più
in fretta, come una molla. Il paio di chele inferiori scattò
insieme, Irisa
saltellò indietro per non farsi trafiggere i piedi e
schivò a fatica l’ultimo
colpo. Ma aveva notato una cosa: il momento in cui estrofletteva
l’arto non era
lo stesso in cui la faceva scendere per colpire, quindi quella frazione
di
secondo in cui le chele erano ferme era il momento per colpirle. Ultimo
tentativo: l’avrebbe mutilato, o sarebbe stata tagliata in
due.
«Ehi!»
Ma stavolta non era stata lei a
urlare, sebbene ne avesse l’intenzione. Un robusto figuro a
cavallo era
piombato giù dalla collina e, appena il chimerico lo aveva
notato, una lama
curva di duro legno era volata nella notte. Il boomerang
staccò la testa del
chimerico di netto per poi ritornare indietro ed essere ripreso con
maestria.
Irisa si sentì cedere le gambe per la stanchezza
«Buono bello,
buono» cercò di
calmare Fulvospirito mentre si lasciava cadere sul tronco.
Il nuovo arrivato smontò
da
cavallo e quello subito scappò via: non era suo, in tutta
evidenza.
«Ecco un
altro… che è finito nella
spazzatura».
«Tu
sei…»
«Sì, sono
io» confermò
l’orco-poeta, con uno strano fiatone.
«Accidenti, ragazza, dei
cavalli…
non ti sei accorta che ti seguiva?»
«Abrai, tu…
Grazie. Ma perché mi
hai seguita?» si lasciò scivolare ancor di
più, fino a finire seduta sull’erba.
«Ho cercato di
riprenderti… ma
poi è stato il cavallo, ha fatto tutto da solo».
Continuava ad avere una voce
strana.
Si sedette
pesantemente accanto a lei e prese un bel
respiro. Guardarono il corpo del chimerico che si sgonfiava, perdeva
luminosità
e poi iniziava a sbriciolarsi. In qualche minuto, non ne rimase nulla.
«Eh. Questi mostri sono
pieni di
aria».
Rise, ma era come se ad ogni
frase che pronunciava gli venisse sottratto qualcosa che Irisa non
individuava
con precisione.
«Io… devo
davvero ringraziarti,
orco… anzi, Abrai».
«Eh! Prego. Peccato sia
finita
così… non morirò come poeta
né come orco. Che fregatura».
«Chi ti dice che non
morirai come
orco?»
«Bè»
disse con una punta di
ironia amara «un nostro detto dice: orco,
non morirai con onore se morirai per una ferita alla schiena».
Irisa sgranò gli occhi,
alzandosi
a fatica: «Fammi vedere la schiena!»
«È inutile. Ho
passato giorni a
inseguire te e quel mostro… ho perso troppo
sangue» spiegò e finalmente Irisa
capì che ad ogni parola si indeboliva.
«Fammi vedere!»
«E allora cosa farai? Sei
un
medico forse?»
«Non puoi andartene
così!»
«E chi lo dice, ragazza
dei
cavalli?»
«Tu! Non hai detto che
volevi
morire da orco? Finisce così la tua storia?»
«Sei una bambina sciocca.
Te l’ho
detto che la guerra è così… non
importa che storia hai… chi sei… finisce
tutto…
nella spazzatura».
Rise ancora, ma stavolta era
debolissimo. Era come se avesse messo tutto quello che era rimasto
della sua
vita nel colpo che aveva ucciso il chimerico.
«Sai, forse è
meglio così.
Non muoio da orco, uccidendo. Ma muoio salvando una
vita. Sì, è
bello. È come il finale di un poema… la mia
ultima poesia…»
«Fammi vedere la ferita,
stupido
orco!» si alzò e cercò di sollevare
quel corpo pesante per le spalle.
«Lasciami dormire,
sciocca
bambina… vai a fare quello che devi».
«E
cos’è? Cos’è che devo fare,
eh? Cosa devo fare?» chiese scuotendolo.
Ma Abrai Kub-Rul, orco poeta, non
disse più niente.
***
Seppellì Abrai in
mattinata,
scavando con le mani.
«Non finirai nella
spazzatura…
non finirai mangiato dai corvi».
Fu un lavoro pesante, le mani le
dolevano. Andò a sciacquarsi in un fiumiciattolo
lì vicino, dove anche
Fulvospirito poté bere un poco.
«Bevi, bello,
riposa…»
Il fiumiciattolo scendeva lungo
un pendio roccioso, fino ad una valle piena di enormi rovine del Mondo
Antico,
alti palazzi squadrati invasi dalla vegetazione. Era l’ultima
vallata prima
dell’Entroterra Selvaggio, una parte del Nanad che preferiva
di gran lunga
evitare. Cavalcò nei giorni seguenti con l’unico
obiettivo di non sconfinare in
quelle giungle, pericolose forse quanto i chimerici stessi.
«Ehi, e
quella?» disse dopo
giorni di cavalcata, avvistando una sagoma dalla forma curiosa.
Una specie di cittadella di
ciminiere fumanti sorgeva su di un plateau, dalla cui base sembrava
stata
asportata da un enorme cucchiaio una porzione circolare di pietra,
così che
nella cavità tondeggiante si accampavano molti viaggiatori.
La riconobbe, ne
aveva sentito parlare.
«La Forgia di
Juelrok…» era una
città-officina la cui popolazione era per lo più
composta da elfi e nani di
superficie.
«Coraggio, Fulvospirito.
Ci
fermeremo lì»
Lei sostò con il cavallo
sotto la
volta della cavità, sui cui arrivavano di riflesso i raggi
del sole, facendo
splendere di mille colori la sostanza cristallina che la componeva,
come se
un’ondata di calore avesse fuso e poi vetrificato quella
parte della roccia.
Secondo alcune leggende, le avrebbe spiegato un mercante nanico nel
corso della
serata, Juelrok era stata formata proprio così durante la
Grande Guerra del
Mondo Antico, dove si scatenavano poteri tanto grandi da rendere
verosimile una
simile cicatrice impressa nella terra. Era un luogo accogliente, ricco
di vita,
di fascino e di storia, e dopo giorni di fatica e angoscia quella
serenità era
allettante come una droga. Fu quasi tentata di rimanerci, ma proprio
per questo
fu assalita ancora dai rimorsi: a quest’ora, era probabile,
nessuna compagna
era ancora viva o addirittura era diventata un chimerico. Magari
proprio in
quel momento la Regina Aryl decideva di inviare un altro contingente,
non meno
ignorante di quanto non fosse stata la Quinta Cavalleggeri, verso le
Lande di
Rah, o magari perché no, esortava gli altri re dei Sei Regni
a fare lo stesso.
L’urgenza di consegnare il messaggio di Re Hion, di sentire
la risposta della
Regina, di impedire un’altra inutile spedizione,
tornò pressante:
l’ingiustificabile privilegio di essere ancora viva, a
differenza di tutti
quelli che erano rimasti sulla costa, aveva senso solo se fosse
riuscita in
questa missione.
«Perdonami, Fulvospirito.
So che
sei stanco ma… ancora uno sforzo, ti prego. Per
Ari… per Sirescuro… per le
nostre compagne».
Rimontò alla fine della
mattinata, nonostante il cavallo fosse tutto fuorché
ristabilito, poi seguì un
altro giorno di corsa e di silenzio e stavolta lei nemmeno ne chiamava
il nome
certa com’era che persino la bestia, malgrado la totale
comprensione che
avevano l’uno per i sentimenti dell’altra, fosse
risentita per il trattamento
che riceveva. Solo nella notte fonda dello stesso giorno si rese conto
che non
si ricordava di mangiare da ormai tre giorni e a quel punto la
debolezza le
piombò addosso tutta insieme, come di colpo, facendola
svenire sul cavallo.
All’alba del quarto giorno, il suo miglior amico e destriero
era moribondo e
lei riusciva a stento a sollevare il collo senza chiudere gli occhi.
Alla sera
del quarto giorno una divisione dei templari del Nanad raccolse una
giovane
ragazza stremata e incapace di reggersi in piedi, che piangeva
disperata sul
corpo di un cavallo morto.