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Autore: Leo_Zanardi    21/07/2022    0 recensioni
Il primo libro della serie "RUNICA"
Ed è una giovane forgiatrice di talento, e non gli importa di nessuno.
Jen è una ragazza di campagna, sa poco del mondo, ma vorrebbe saperne ancora meno.
Valiel non è a casa da nessuna parte, ma l’amore lo riporta sempre a sé.
Questa non è la storia di come salveranno il mondo, realizzeranno i loro sogni, o compiranno grandi imprese.  Eppure questa storia avrà un significato per tanti uomini e donne, interi popoli e regni la ricorderanno. Ma per loro, avrà mai un significato?
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L’ARMATA CHIMERICA

 

In uno scontro militare, la prima battaglia è  tra le menti dei generali, ciascuno cerca di comprendere a fondo l’altro e di vincerne l’intelligenza. Carpite le chiavi dell’intelletto nemico, questi è perduto. Si crea un paradosso: che sia l’intelligenza il punto debole di un esercito?

Luger Clow Camden, Riflessioni

 

Irisa diede un ultimo colpo a Fulvospirito perché accelerasse il galoppo. Il cavallo sembrò quasi non aspettare altro ed accelerò bruscamente verso la loro ultima fermata che si intravedeva con chiarezza sulla cima del promontorio: Svalir-Bae, uno dei sei villaggi costruiti lungo la catena montuosa di Sky-Enda. Sotto di lei, sotto le cime montuose che percorreva da giorni, le coste dov’era avvenuto il disastro e i villaggi a valle erano per lo più coperti da un manto bianco di nebbia che scintillava incantevole rispondendo alla luce del sole. Solo oltre era possibile vedere qualche stralcio del Mar Bianco, anch’esso era uno specchio d’argento liquido che mozzava il fiato. Sembrava che tutto il mondo di sotto fosse avvolto in una calma ed in un silenzio che lo rendevano una unica, infinita massa di bellezza e serenità priva d’eventi. Ma era vero il contrario.

«Vai, bello, vai!»

Fulvospirito, come ogni cavallo del regno delle amazzoni, era cresciuto con lei, conosceva intimamente la forma del corpo di Irisa adagiato al suo e ogni tono, gesto, addirittura pensiero che esprimeva attraverso di esso. E adesso, sebbene non potesse comprenderne il motivo, coglieva l’angoscia di lei. Si fermò solo quando la palizzata che costituiva il cancello di Svalir-Bae si chiuse dietro di loro, circondata da una piccola platea.

«Gente del Rah» annunciò Irisa a voce alta, smontando da cavallo «la mia signora la Regina Aryl, Padrona di Runeh, Sovrana del Nadorhai, Sommo Comandante delle Amazzoni, vi porge i saluti».

Per quanto fosse risultato evidente dal primo istante che si trattava di una amazzone giunta dal Nadorhai, il suo aspetto lasciò molti montanari, specialmente maschi, a bocca aperta. La sua figura snella e atletica era chiusa in una uniforme di robusta pelle color nocciola, che si chiudeva con un girocollo di pelliccia chiara. La grossa spada lunga, curva e sottile, così come l’elmo dalle grandi corna e le bardature a stecche, erano di un minerale lucido: la rossa ceramica di Rikila che si diceva fosse leggera come carta eppure robusta abbastanza da farne un’arma. Era nel complesso un’apparizione esotica, elegante e potente per loro. Ma non ci misero molto a cambiare radicalmente opinione: appena Irisa tolse l’elmo il suo viso scuro da ragazzina, gli occhi vagamente a mandorla colmi d’inesperienza e incerti sotto i chiari capelli con la coda arruffata, molti sorrisero scettici.

«Salute, guerriera del Nadorhai» esordì un uomo imponente e barbuto dal piccolo gruppo che la accoglieva, in tutta evidenza un capo villaggio o qualcosa di simile «dunque la Regina Aryl ha risposto alla chiamata del nostro re?»

Irisa assentì col capo e aggiunse: «La Quinta Cavalleggeri delle Amazzoni è stata distaccata per intero. Precedo la mia comandante di appena tre giorni».

Tuttavia, pensò Irisa, nei volti non c’era tanto sollievo quanto si aspettava di vederne. In effetti nessuno sembrò particolarmente felice o tranquillizzato, nemmeno l’uomo che si era rivolto a lei per primo.

«C’è qualcosa che dovrei sapere, signor…?»

«Folar» si presentò «sono il capo villaggio… cioè lo sono finché mio zio… il precedente capo non tornerà».

Irisa aggrottò la fronte: «Tornerà… da dove?»

L’assembramento iniziò rapidamente a disperdersi. Evidentemente molti di loro avevano già sentito la storia innumerevoli volte e non pensavano che Irisa avesse nient’altro di rilevante da dire loro. Seguì il taciturno Folar fino a che non si sedettero su una roccia da cui si vedeva buona parte della vallata, erano solo loro due e pochi altri, evidentemente amici fidati del montanaro. La fissò negli occhi.

«Insomma, mi risponda».

«Re Olster ha radunato tutti i vecchi clan di guerrieri di Sky-Enda, Graent-Halli e Fjaran-Marmar. Parliamo di decine e decine di clan che hanno discendenze… bè, centenarie… risalenti a quando i nostri antenati barbari giunsero qui e sfidarono gli elfi per colonizzare le Lande di Rah. È una chiamata a cui chiunque abbia onore e rispetti le nostre tradizioni non può sottrarsi».

«E vostro zio, che avrebbe dovuto accogliere qui a Svalir-Bae la Comandante della Quinta Cavalleggeri in persona, ha imbracciato una spada che a stento saprà ancora reggere ed ha lasciato il villaggio in mano a nessuno?» il tono di Irisa si fece severo: le amazzoni erano pragmatiche e queste abitudini rituali le consideravano pressappoco come la Chiesa della Dea, tollerabili o forse condivisibili ma comunque fastidiose e in definitiva inutili.

«Zio Rudreg non può ignorare una chiamata agli antichi clan…» insistette Folar, abbassando la testa per la contrizione.

«Va bene, capisco. In ogni caso non temete per il vostro vecchio zio, anche noi dobbiamo congiungerci alle forze alleate di Re Olster fra pochi giorni. Appena lo troverò, farò il possibile per farlo tornare al villaggio».

Folar sgranò gli occhi, significando che Irisa non aveva capito qualcosa di essenziale. Si guardò intorno, aspettando che fossero rimasti in pochi intorno a loro.

«Mi scusi, sto girando intorno al problema. Lo zio non tornerà, signora. Prima ho detto a quel modo per non allarmare le donne e i bambini. Nessuno dei nostri tornerà a Sky-Enda».

«Non dite così. Le forze alleate…»

«Signora, le forze alleate… non esistono più. Sono svanite tre giorni fa».

«Svaniti? Vuole dire che sono caduti in battaglia?»

Sembrò quasi che il montanaro la compatisse: «Svaniti vuol dire proprio… svaniti. Sono scomparsi, da un giorno all’altro. Per l’esattezza il giorno dopo il loro schieramento su Fjaran-Marmar. Se ci fosse stata una battaglia la nebbia non ce l’avrebbe fatta vedere, specie da questa distanza, ma ne avremmo comunque avuto notizia. Invece non abbiamo ricevuto notizie di alcun genere».

«Mi faccia capire» chiese Irisa con una punta di nervosismo «fra tre giorni la Quinta Cavalleggeri del Nadorhai arriverà qui per confluire nel vostro esercito. Un esercito che non esiste».

«Che non esiste più» corresse lui.

«E come è possibile tutto questo?»

«Speravamo che potesse dircelo lei…»

***

Passarono due giorni. Irisa alloggiò in una piccola locanda con appena due stanze di legno inumidito dalle nevicate invernali. Pensò e ripensò a quello che sapeva dei chimerici, a quello che ciascuna amazzone sapeva: dove veniva il Chimaer, solitamente veniva anche l’armata di creature. Erano loro a richiamare il Chimaer o piuttosto erano essi stessi partoriti da esso laddove si manifestava? Le ipotesi erano innumerevoli; il loro numero, le loro tattiche e la loro forza erano sempre differenti, volta per volta, andavano osservati sul campo – molti eserciti del passato, inorgogliti dalle prime facili vittorie, erano caduti al secondo o terzo scontro senza riuscire a spiegarsi come e perché; il Chimaer si allargava e quando lo faceva la terra diveniva inabitabile, a quel punto combattere l’orda di chimerici per riconquistare terreno non aveva senso, tanto valeva ritirarsi e difendere i territori ancora liberi dallaq nefasta influenza del Chimaer, si trattava in sostanza di formare un cordone di contenimento; infine, nessuno sapeva esattamente spiegare che aspetto avessero o di che natura fossero gli strani esseri; alcuni raccontavano di averne trucidati a decine mentre questi rimanevano immobili e impassibili a contemplare il nulla, anche se queste storie si consideravano vaneggiamenti.

«Non so praticamente niente» ammise infine con nervosismo all’ennesima richiesta di Folar.

«Ma… non siete voi forse una amazzone? Non venite educati per combattere i chimerici?»

Irisa scosse la testa, infastidita.

«Le amazzoni sono la forza d’elite del Nadorhai».

«Elite?»

«Ci sono insegnate cose che gli uomini apprendono con più difficoltà e lentezza, tra cui le arti della guerra che richiedono un certo rapporto con gli animali, le arti marziali armoniche basate sulla danza, lo studio approfondito della guerra psicologica e della storia della strategia…»

«Pensavo che i chimerici fossero vostra competenza» mormorò Folar con malcelato disappunto.

«Non mi fraintenda. Siamo il meglio che il regno può offrire, ecco perché la Regina ci affida gli incarichi più duri… inclusi quelli che hanno a che fare con il Chimaer».

«Dunque dovete conoscere il Chimaer!» insistette l’uomo.

«Non è così semplice. Ci viene insegnato a rendere la nostra mente flessibile, le strategie adattabili, l’osservazione pronta e acuta. Una armata di chimerici non va nominata, cioè etichettata, ma studiata sul campo: si presenta con infiniti aspetti e comportamenti, stabilire quali strategie usare nell’infinito repertorio dei nostri generali e quando usarle è la chiave per avere successo. Mi ha capito?»

«No» tagliò corto Folar.

L’ultima sera notò che ormai i montanari la guardavano con occhi diversi: erano sfiduciati e spaventati, convinti che fondamentalmente il suo arrivo non avrebbe cambiato nulla, che non poteva liberarli dalla paura del Chimaer, che era poi la paura dell’ignoto. Non per nulla, pensò, si diceva che le nella vita di una amazzone la battaglia con i chimerici rappresentava un punto di passaggio unico nel suo genere. Imparare centinaia e centinaia di schemi e tattiche e arti marziali, poi liberare la mente da tutti, poi riprendere solo quello che serve: il suo generale ci sarebbe riuscito?

«Certo che sì» disse a sé stessa prima di addormentarsi, perché la sua fiducia nel suo generale era assoluta.

All’alba del terzo giorno, Svalir-Bae fu occupata dalla Quinta Cavalleggeri dell’esercito amazzone proveniente dal Nadorhai. Alla sua guida c’era una donna con una uniforme simile a quella di Irisa, con due enormi corna d’ariete di ceramica rossa ornate di tintinnanti cerchi d’oro zecchino. La differenza d’abbigliamento suggeriva immediatamente una differenza di gerarchia, sebbene la comandante trattasse Irisa come sua pari. Del resto, l’esercito amazzone preferiva al concetto di gerarchia quello della suddivisione di compiti e responsabilità. Come Irisa , anche la comandante – Ariadne – si tolse l’elmo per salutare il capo villaggio Folar, rivelando lunghi capelli chiari e un viso regolare ma dall’espressione severa eloquentemente segnato da una brutta cicatrice obliqua. A differenza di Irisa  la Comandante Ariadne fu subito accolta come un veterano degno di rispetto, sebbene fosse ancor più esile e minuta della sua sottoposta – fatto questo che non stupiva nessuno, perché la forza militare del Nadorhai si basava sulla disciplina, la grazia e la flessibilità, non su forza e resistenza. Ariadne si consultò a lungo con alcune sue compagne e poi chiese più volte a Folar un resoconto degli avvenimenti di quegli ultimi giorni, o meglio dell’assenza di avvenimenti, poi ringraziò il capo villaggio e tutti i suoi compaesani per l’ospitalità, annunciando la smobilitazione della Quinta Cavalleggeri nel corso della mattinata seguente. Quando in cielo apparve l’aurora boreale, Irisa fu svegliata e montò in sella a Fulvospirito per cavalcare a fianco di Sirescuro, il possente stallone di Ariadne.

«Cosa faremo, Ariad- voglio dire, Comandante?» chiese Irisa dopo qualche ora di trotto sotto il cielo multicolore.

«Non lo so ancora. Dovremo recarci sul Fjaran-Marmar e vedere da noi».

«Ma quale forza potrebbe spazzare via una forza simile in pochi giorni senza lasciar traccia?»

«Sai bene che non ci sono certezze nelle terre infestate dal Chimaer».

«Sì» sospirò Irisa «lo so. Ma anche se le forze del Rah fossero state sconfitte, avrebbero dovuto lasciare qualche traccia… un messaggio… almeno qualche sopravvissuto… insomma… sono spariti!»

Ariadne si volse tristemente in basso: «Non conosci i chimerici. Ma lo capirai presto».

«Tu invece? Tu conosci i chimerici?»

«No. Ma ho sentito storie di alcune guerriere andate e venute dall’Oceano Orientale dove la Bocca del Chimaer minaccia le coste del Mohtam e del Nadorhai. E ho sentito di eventi molto più inquietanti di questo».

Irisa strinse i pugni e fece un gesto d’esortazione: «Meglio così! Devo essere pronta anche io a combattere… la Bocca del Chimaer che minaccia le nostre terre non sarà molto diversa da questa… immagino».

Ariadne rise nervosamente: «Chi può dirlo? Si dice che non esistano due Bocche uguali».

Irisa sbuffò: «Queste conversazioni finiscono sempre allo stesso modo».

«È vero».

Il Nadorhai e il vicino regno di Mohtam erano sotto costante minaccia della Bocca del Chimaer dell’Oceano Orientale, che si era aperto tra il “Grande Astro”, il continente chiamato Astermagna in cui i due regni erano situati e le “Sabbie Cieche”, o Nerimkora. Entrambi i continenti, e tutti coloro che ci vivevano, sentivano quella minaccia costantemente sulle loro teste; eppure ogni domanda sul Chimaer riceveva da sempre quello stesso tipo di risposta sconsolata e vaga, come se una legge non scritta avesse imposto a tutti coloro che ne avevano esperienza diretta di rispondere allo stesso modo. Non serviva insistere, né mostrarsi spaventati, men che meno mostrarsi spavaldi: nessuno si sentiva di dare risposte più chiare e a nessuno capitava di riceverle, in tutta l’Astermagna, in tutta la Nerimkora. Niente di strano.

Dopo un’altra ora di silenzio, Ariadne parlò nuovamente: «Avremo degli alleati comunque».

«Alleati? Ma se le truppe regolari del Rah sono annientate…»

«Infatti non appartengono alle Lande… sono mercenari» illustrò Ariadne con tono di disapprovazione e aggiunse con tono severo «non creare problemi quando li vedrai».

***

Quando Irisa li trovò ammassati lungo la vallata non trattenne un’espressione di disgusto. Non avevano una formazione chiara né minimamente ordinata, certamente non avevano nemmeno uniformi ed anzi portavano masse di pelli, pellicce, zanne, ossa, teschi e monili di pietre colorate indossate da ciascuno in diverso modo, neppure portavano armi ben identificabili dato che era impossibile distinguere se questa o quella forma intagliata nella selce fosse spada o mazza, scudo o ascia, pugnale o falcetto. Si muovevano scompostamente e si impegnavano nelle più triviali attività: qualcuno sghignazzava con dei compagni, qualcuno mangiava con la grazia di una bestia, qualcuno faceva a botte con il commilitone più vicino.

«Orchi!?!» si sbalordì Irisa guardando Ariadne.

La Comandante Ariadne cercò di trattenere il disgusto, ma ora che li vedeva da vicino anche lei non poteva dissimulare totalmente le sue reazioni: «Truppe mercenarie… come ho detto».

«Orchi mercenari» sottolineò l’altra, innervosita.

Originari della Nerimkora, gli orchi erano un popolo di orgogliosi guerrieri per vocazione tanto quanto per necessità: passavano la maggior parte delle loro vite nomadi a combattere marchingegni del Mondo Antico che vagavano senza posa tra le dune del loro continente desertico. Ma da quando erano salpati per conoscere altre terre ed erano approdati nel Nadorhai, gli attriti con il regno delle amazzoni erano stati innumerevoli e anche la pace, raggiunta dieci anni prima con coraggio e fatica di entrambe le parti, traballava. Non poteva essere diversamente: nel credo orchesco, ogni forma di legge o regola era una forma di vigliaccheria e lo scopo vero della “civiltà” era far apparire forti i deboli che non vivono i propri istinti. All’opposto, Irisa era cresciuta secondo i Comandamenti di Runeh, le leggi più importanti che i nadoriani ponevano persino al di sopra della Chiesa della Dea. Cresciuta nel dovere e nella servitù, come ogni cittadina o cittadino del Nadorhai, era stata studiata fin da piccola per ricevere a quattordici anni il compito che si confaceva alla sua indole e, sempre come ogni altra nadoriana, il senso della sua vita stava nel perfezionarsi sempre più nel suo compito, non nel liberarsi da esso. Poiché nella cultura marziale del Nadorhai era il desiderio a fondare l’infelicità, reprimere il desiderio e concentrarsi sul dovere portava l’ordine e la pace. Erano due culture che si negavano reciprocamente e ciascuna era obbligata a vedere l’esistenza dell’altra come una minaccia.

«Dobbiamo combattere… con gli orchi?»

«Dobbiamo e lo faremo, per richiesta del sovrano del Rah. È impensabile contravvenire ad una richiesta di Re Olster nelle sue stesse terre, bada. Se può confortarti, non credo che a loro spiaccia meno che a noi».

«Non vedo come una cosa simile potrebbe confortare chicchessia ».

Irisa dovette mordersi la lingua: un primo gruppetto di orchi veniva già verso di loro. Erano tanto alti in piedi da superare quasi i loro cavalli, ma le zanne sporgenti e storte e le narici larghe e deformi toglievano ogni sorta di solennità a quelle figure possenti e atletiche.

«Ciao, ragazze dei cavalli» grugnì un orco con il volto coperto da un mascherone «anche voi siete qui per rendere la vita

Nessuno si scompose: era notoriamente il modo degli orchi per chiedere se si andava in cerca di battaglie.

«Salute, voi del Quarto Popolo» rispose Ariadne annuendo.

Gli orchi grugnirono soddisfatti: quell’appellativo era un grande riconoscimento per loro, che avevano faticato molto per entrare nel Trattato dei Popoli stipulato quasi un secolo addietro.

«Marceremo insieme, dunque» ridacchiò un altro orco ancora.

Irisa capì subito che non c’era gerarchia in quella marmaglia armata, quindi ciascuno parlava quando meglio credeva. Con un breve passaparola l’assembramento apprese quella decisione – o era più corretto dire che la decisione veniva presa collettivamente, nel momento stesso in cui si diffondeva? Irisa non sapeva distinguere con certezza le due cose – e si mise in movimento, animato da molta più curiosità che diffidenza al pensiero di combattere a fianco delle “ragazze dei cavalli” che tante volte i loro padri e alcuni dei più anziani avevano affrontato in battaglia nelle praterie del Nadorhai.

«Questa situazione mi disgusta» puntualizzò Irisa dopo mezz’ora di marcia.

Le file ordinate della Quinta Cavalleggeri, che marciavano tutte alla stessa velocità cercando di mantenersi parallele mentre discendevano la pineta, erano ora frammiste a bande scoordinate, schiamazzanti e spesso incomprensibilmente gioiose, come se quegli orchi fossero ansiosi di sperimentare la loro probabile morte imminente contro la minaccia più angosciante del mondo conosciuto.

«Sopporta in silenzio» ordinò Ariadne «tieni presente che probabilmente questa che vedi è tutta la forza militare rimasta alle Lande di Rah».

«Altre parole di conforto».

«A proposito di questo… in caso non ce la facessimo, occorre che un gruppo di sei che sceglierai tu tornino indietro».

«Come…?»

«Hai capito perfettamente. Non possiamo rischiare che chiunque combatta dopo di noi sia senza alcuna informazione come lo siamo noi ora».

«Informazioni, eh?» s’intromise un orco basso e curvo che stava alla destra di Irisa, quello col mascherone di terracotta rossa ornato da un ventaglio di piume multicolori; avanzava zoppicando e appoggiandosi ad un bastone spesso dove erano graffiate innumerevoli tacche, forse significanti il numero di nemici uccisi. Sulla schiena portava un enorme lama curva di legno che gli orchi chiamavano boomerang e che si diceva tornasse sempre in mano a chi l’aveva lanciata, se era abile abbastanza.

«Ci trovi qualcosa di divertente, orco?» si stizzì Irisa notando che il suo volto mascherato sussultava come quando si ride sotto i baffi.

«Voi e il vostro modo di andare in guerra! Le vostre tattiche macchinose e contorte si schianteranno contro i mostri del Chimaer come vento contro le montagne. Vedrete presto cosa può fare la vera forza, dove può spingere il vero coraggio».

«Credi?» ribatté la ragazza prima che Ariadne potesse intromettersi «Allora vedremo alla fine della settimana chi sarà ancora vivo».

Un altro orco si aggiunse alla conversazione: «Oh, lo vedremo di certo, ragazza dei cavalli. Ma sappi che abbiamo un vantaggio: non speriamo  affatto di essere vivi alla fine della settimana».

***

Calò la sera e dopo una giornata di marcia era sempre più difficile mantenere le file ordinate e parallele di cavalieri tra i fitti pini, persino gli orchi che si muovevano come un branco di animali della foresta avevano difficoltà. Inoltre erano ormai nel versante settentrionale del Graent-Halli, esposto ai venti gelidi del Mar Bianco, così che la temperatura pareva scendere ad ogni passo. Ma la cosa più inquietante era che da diverse ore molti si erano convinti, sebbene non passassero mai dallo stesso punto, che in qualche modo stessero ugualmente girando in tondo. In effetti, dietro i pini illuminati da un pallido sole, c’erano solo altri pini, illuminati allo stesso modo, altri stretti sentieri, altro sottobosco umido. Come se il mondo fosse diventato una unica sconfinata pineta.

«Cos’è quello?» chiese un orco indicando qualcosa di bianco che si muoveva tra gli alberi.

Irisa e Ariadne fermarono la loro fila e, com’erano addestrate a fare, tutte le altre capofila fecero lo stesso. La macchia guizzò da un albero all’altro, come indecisa se mostrarsi del tutto, poi prese a correre senza incertezze verso di loro. Era una volpe dal pelame candido e dalla immensa coda, che si fermò solo quando fu esattamente innanzi alla punta del gruppo. Col muso allungato ma espressivo, troppo per un semplice animale, sembrò scambiarsi un cenno con la comandante, che smontò da cavallo.

«Sono Ariadne Anistos, comandante della Quinta Cavalleggeri dell’Esercito Amazzone al servizio di sua Maestà la Regina Aryl del Nadorhai».

La volpe sembrò accogliere quella presentazione con una specie di sorriso, prima di compiere un movimento rapido e inaspettato con la coda. In un attimo, era stata sostituita da un elfo vestito di pelliccia bianca, dai colori talmente candidi da sembrare quasi albino. Sugli occhi glauchi inforcò un paio di piccoli occhiali, prima di profondersi in un vistoso inchino.

«Salute a voi, Ariadne Anistos. Sono Vonselas Sul Seix, arcidruido al servizio di Re Hion, Sovrano di Vonselas e di tutti gli elfi della neve».

Dopo un attimo di indecisione, sembrò accorgersi degli orchi. Li squadrò tutti con calma prima di concentrarsi su quello che indossava il mascherone.

«Voi comandate questi guerrieri del Quarto Popolo, signore?»

L’orco gli venne incontro claudicante e poi gli tese la mano che non reggeva il bastone inciso. Irisa notò per un attimo che la mano tesa non era rugosa o callosa come quella di altri orchi e la cosa la insospettì.

«Nessuno comanda chi decide per sé e gli orchi decidono per sé. Ma sono comunque il più anziano in questa tribù. Abrai Kub-Rul. Lieto di conoscervi, elfo della neve».

La mano delicata dell’arcidruido strinse quella grande e forte di Abrai.

«Vonselas?» si chiese Irisa a bassa voce.

«La conosci?» fece una sua compagna.

«Come si potrebbe non conoscerla? In Astermagna sono rimaste solo quattro grandi città elfiche…»

Ma, per quanto ricordava, era ben distante dalla strada che avevano in mente di percorrere da Svalir-Bae al Fjaran-Marmar.

«Siamo vicini a Vonselas… ci siamo persi, dunque?» osservò Ariadne

L’arcidruido Seix stirò un sorriso: «Non siete i primi. Le pinete del Graent-Halli sembrano a volte voler smarrire i pellegrini di proposito. Accetterete, credo, l’ospitalità degli elfi della neve?»

L’anziano Abrai si grattò la nuca e si diresse verso altri orchi. Non essendoci un vero capo, dovevano decidere il da farsi. Ariadne chiamò a sé le capofila con un cenno, spiegando che mancavano evidentemente diversi giorni di marcia per Fjaran-Marmar. Irisa non smise di fissare l’elfo, cortese nelle parole e nei modi, ma freddo nello sguardo. Quando tornò volpe, lo seguirono per ore tra i pini e Irisa ebbe la netta sensazione che, qualsiasi strada stesse facendo, nessuno avrebbe mai potuto trovare la stessa strada se non in quel modo.

«Un’illusione? Una magia…» ipotizzò Irisa mentre seguivano la volpe.

«Credo di sì» soppesò la comandante.

Si diceva che gli elfi della neve fossero tanto ospitali e cortesi quanto determinati a controllare rigidamente i propri ospiti, ora riusciva a comprendere meglio il senso di quella diceria: se gli elfi della neve non avessero deciso di accoglierli, avrebbero vagato nella pineta per giorni, forse sarebbero semplicemente morti di fame e freddo in quei boschi.

«Non rilassiamoci troppo» sussurrò Ariadne.

Il sole era ormai scomparso dal cielo, lasciandovi solo i residui della sua luce, quando finalmente la pineta si aprì e si ritrovarono in campo aperto. Certo, non poteva esattamente definirsi un campo: era piuttosto una sconfinata lastra di ghiaccio, evidentemente una baia che racchiudeva una porzione di mare gelato. A riconferma di ciò, la punta di una gigantesca nave metallica, di quelle risalenti al Mondo Antico, si affacciava obliqua dal ghiaccio come se avesse cercato di salvarsi dalle acque.

«Comandante, è quantomeno strano. Chi è questo elfo? Perché ci fidiamo di lui? E come può, come possiamo pensare di far passare un contingente armato a piedi sul ghiaccio?»

Alle parole di una delle più giovani, Irisa stava quasi per scattare a difendere Ariadne ma si trattenne.

«Mi fido di lui perché so dove ci porta» affermò Ariadne senza indecisioni «quel vascello in rovina, quello del Mondo Antico… marca l’entrata a Vonselas, di questo sono certa… è segnato nelle mappe. Eravamo evidentemente fuori dal sentiero prestabilito e di parecchio».

«Ma come possiamo aver fatto un errore del genere?» chiese la giovane amazzone senza perdere di vista l’elfo in forma di volpe che gironzolava sul ghiaccio come cercasse qualcosa.

«Nessun errore» spiegò Abrai intento, pareva, a grattarsi la schiena con vari frammenti conficcati nel bastone «è un sortilegio degli elfi della neve. Quando temono per la loro città, fanno in modo che chi entra nelle pinete del Graent-Halli si smarrisca».

«È logica circolare» obiettò Irisa «dite che gli elfi ci avrebbero stregato perché abbiamo invaso le loro terre ma è proprio il loro sortilegio che ci ha portati nelle loro terre».

«Forse è il loro modo per convocarci» suppose l’orco.

«Ho studiato a fondo la civiltà elfica e non ho mai sentito di questa usanza. Gli elfi ci hanno fatto un grave sgarbo, di proposito».

«Non lo avete sentito, questo è certo» concesse Abrai «ma questo perché i vostri testi riportano solo tutto ciò che è provato e certo. Ma esistono le dicerie, le leggende, le fiabe, i miti. E spesso aiutano a comprendere più dei dati e dei documenti».

«Certo amate molto far filosofia, per essere un orco».

Prima che Abrai potesse rispondere, l’arcidruido Seix era già tornato da loro, stavolta in forma di elfo.

«Potete attraversare adesso. Il ghiaccio vi reggerà tutti, purché teniate le file serrate».

In effetti ad Irisa parve che l’aspetto della calotta fosse cambiato leggermente, ma non sapeva mettere a fuoco in cosa. Ad ogni modo, attraversarono senza problemi, il ghiaccio sotto i loro piedi solido come pietra.

***

Uscendo dal caseggiato dal tetto appuntito, ma con tutti i tratti dell’architettura elfica – contorni morbidi, decori floreali, pietra chiara – la sensazione di fastidio agli occhi si acuì sensibilmente. Irisa riusciva a stento a tenere aperti gli occhi e capì subito il perché: ad eccezione delle calde luci delle vetrate, tutta la città elfica di Vonselas era avvolta in un innaturale bagliore azzurrino che ora, sotto il cielo notturno, risaltava in maniera quasi impressionante. Eppure era una città molto viva: fino al tramonto gli elfi avevano occupato le strade come in qualsiasi capitale umana, c’erano comitive che chiacchieravano, bambini che giocavano e mercanti che esponevano la merce; a parte i loro modi eccessivamente pacati, gli elfi della neve sembravano del tutto simili agli umani nelle città del Nadorhai. Solo quel persistente azzurro era in qualche maniera alienante, eppure nessuno di loro sembrava esserne disturbato.

«Strano, vero?»

Irisa sobbalzò e quasi mise mano all’arma prima di riconoscere dietro di sé l’orco anziano, Abrai.

«Siete voi, Abrai Kub-Rul. Cosa sarebbe strano?»

«Come sarebbe a dire, cosa? Questo luogo è strano».

Indicò col bastone uno dei molti, maestosi alberi che si innalzavano dalla membrana di ghiaccio su cui era edificata la città.

«Provate, ad esempio, ad avvicinarvi a quello».

Irisa accolse il suggerimento e rimase immediatamente a bocca aperta: l’albero non era realmente un albero, ma ghiaccio che sembrava cristallizzato spontaneamente in una forma quasi identica ad una grossa quercia dal tronco scuro e dai rami spogli e contorti, eppure vagamente illuminato da quella iridescenza azzurra.

«Questo è… ghiaccio! Ghiaccio in questa forma. Mi… mi domandavo perché ci fossero degli alberi così diversi dagli aghifogli del Rah… ma questo è… sbalorditivo».

«Già, sbalorditivo, vero? Immagino che anche voi siate infastidita da questa luce azzurra. Ora capite che questo luogo non segue le ordinarie leggi della natura. In un certo senso, la città stessa è una manifestazione di magia elfica. Del resto, come potrebbe una città reggersi su di un lago ghiacciato?»

Irisa toccò il ghiaccio con mano, ancora incredula. In tutta la città c’erano altre formazioni simili a cespugli fioriti, piante grasse, frutti tondeggianti: era tutto scolpito nel ghiaccio, tutto attraversato dalle sfumature più fredde dell’arcobaleno. Era puro potere, manifestato in quella forma sotto gli occhi di ogni cittadino di Vonselas, ogni giorno.

«Non avrei immaginato mai di vedere un luogo del genere in tutta la mia vita… è così… diverso da tutto ciò a cui sono abituata».

«Questo significa diventare più saggi: conoscere il diverso».

«Parlate in modo davvero strano, per un orco».

Gli sembrò di percepire che sogghignava sotto la maschera: «Non mi avete prestato attenzione, mi pare».

Non fece in tempo a finire la frase che entrambi furono distratti da qualcos’altro. La Comandante Ariadne e l’arcidruido Seix venivano verso di loro con passo deciso seguendo la strada principale tra le case appuntite.

«Qualcosa non va, ragazza dei cavalli?» chiese Abrai.

Ariadne non spiccicò parola, fu Seix a parlare: «Il Re di Vonselas vi chiede udienza, orco anziano».

«Non posso parlare e decidere per la mia tribù. Essa non ha nessun capo sopra di sé».

«Ma a noi occorre un rappresentante con cui parlare».

«Posso… cercare di accontentarvi. Ma dovrò parlarne col resto della tribù».

Irisa guardò la sua Comandante cercando di capire cosa stava accadendo, ma non vi lesse nulla.

«E sia, orco anziano. Vi aspetteremo nella piazza principale».

Andando di fretta, l’andatura zoppicante di Abrai era ancora più evidente.

«Sono convocata anche io. Ci è permesso portare con noi un guardiano» disse improvvisamente Ariadne «e vorrei che venissi tu con me, Irisa».

«Perché?» chiese la ragazza, sempre più disorientata.

«Vieni e basta».

***

Dopotutto, nel continente erano rimasti solo quattro assembramenti stabili di elfi e quindi solo quattro Sovrani Elfici. Era normale, pensava Irisa, essere intimorita al cospetto di una delle persone più influenti del continente. Ma la realtà superò ogni aspettativa. Da fuori, il cancello della dimora di Re Hion sembrava un edificio come tanti altri, che si aprì al minimo cenno di una mano di Seix (Irisa sospettò che non si sarebbe aperto in nessuna altra maniera) incassato nella fiancata di una montagna. Avevano percorso un largo corridoio di legno intarsiato per diversi metri, fino a entrare in una ampia sala ovale.

«Maestà» salutò semplicemente Seix inginocchiandosi.

Il ghiaccio intorno a loro non era vuoto. Intrappolati nel bianco Irisa poteva vedere un bel numero – ad occhio nudo ne poteva già distinguere mezza dozzina – di creature immense risalenti ad un’altra era. Erano rettili giganteschi dalle forme molto diverse tra loro, ma tutti possenti e feroci, perfettamente conservati come in una teca di cristallo.

«Ma cosa…»

Non concluse la frase, vedendo che Ariadne si inginocchiava pensò piuttosto ad imitarla subito. Con sua sorpresa, nemmeno Abrai si astenne dal chinare la testa, subito seguito dalla sua guardia, un giovane orco impostato con un’ascia bipenne sulle spalle.

«Maestà, ecco i visitatori».

Il minuto corpo di Hion, avvolto in una morbida pelliccia nera, riposava a gambe incrociate al centro di una struttura formata da una bolla vitrea, un trono trasparente per quel piccolo sovrano. Sul suo volto di elfo bambino c’era un’espressione serena e quasi sognante.

«Salute, guerriere amazzoni. Salute, gente del quarto popolo».

Non appena aprì gli occhi, incredibilmente, anche gli esseri preistorici nel ghiaccio fecero lo stesso, sgranarono i loro occhi inumani fissando tutti loro. A Irisa sembrò che l’intera sala ghiacciata avesse emesso un respiro che le era arrivato come una vibrazione, fino alle ossa. Ogni cosa, a Vonselas, era creata dalla magia; quella sala era il cuore di quella magia, il nucleo da cui si emanava, ad Irisa sembrò che le rizzasse i capelli in testa.

«Salute a voi, maestà» ribatterono Ariadne e Abrai sostanzialmente in coro.

Irisa si sentì tremare, impressionata da quel ragazzino dall’immenso potere. Poteva sentire in lui il malessere che ogni sovrano elfico era costretto a provare se la sua terra soffriva, come stavano certamente soffrendo le terre che circondavano Vonselas; percepiva il dolore e l’angoscia fremere sotto la pelle del Re, eppure la sua espressione ed il suo tono non lasciavano trasparire nulla nonostante in qualche modo quel dolore ora fosse entrato dentro tutti loro.

«Ci inchiniamo umilmente al vostro cospetto, maestà. A nome della Regina Aryl vi porto i saluti del Regno del Nadorhai e, personalmente, vi esprimo tutta la nostra gratitudine per l’ospitalità dimostrata».

Hion sorrise: «Grazie, Comandante Ariadne. Vi chiederete perché vi ho convocato qui».

L’idea di Abrai, che gli elfi li avessero sostanzialmente costretti con la magia a deviare verso la loro città, trovò conferma in quelle parole.

«Immagino sia per darci un messaggio» esordì Abrai «so che, per la sua posizione, la Bocca del Chimaer vi ha impedito la maggior parte delle comunicazioni con il Rah».

Hion annuì con la testa: «Esattamente, orco anziano. Saprete che Re Olster ha mobilitato alcuni clan guerrieri delle sue terre e un vero e proprio esercito dei suoi lupi guardiani per difendere Fjaran-Marmar. E saprete che questo dispiego di forze è sparito nel nulla».

Seguì un breve silenzio: nessuno aveva bisogno di confermare quelle parole.

«Vi posso dire con assoluta certezza cosa ha inghiottito quell’esercito. Si è trattato di uno spasmo della Bocca del Chimaer».

«Uno… spasmo? Che significa?»

Ariadne sembrò voler incenerire Irisa con lo sguardo per aver parlato quando non doveva, ma non ne ebbe il tempo. Re Hion, per nulla infastidito dall’intrusione, si spiegò immediatamente.

«L’influenza del Chimaer non ha un raggio stabile. A volte si espande all’improvviso e in quei casi corrompe qualcosa nel suo raggio d’azione. A volte corrompe solo gli oggetti inanimati, altre volte solo gli esseri senzienti, altre volte ancora solo certe categorie di oggetti. Come certamente saprete, non ci sono criteri precisi. Chiamiamo queste vibrazioni improvvise spasmi della Bocca del Chimaer».

«Quindi state dicendo…»

«…che uno spasmo della Bocca del Chimaer ha inghiottito e corrotto le forze mobilitate sulla spiaggia» concluse Hion completando la frase di Ariadne.

«Ebbene, qual è il messaggio da recapitare?» tagliò corto Abrai.

«È molto semplice. Noi chiediamo formalmente a Re Olster e a chiunque altro voglia sostenerlo di non inviare altri soldati nel Fjaran-Marmar».

Pur semicoperta dall’elmo rosso, l’espressione sgomenta di Ariadne si distingueva benissimo.

«Non… non direte sul serio».

«Io comprendo il modo di pensare dei Re umani. Se non si inviassero eserciti nei pressi della Bocca del Chimaer, il vostro popolo penserebbe che non siete in grado di occuparvi del problema. Sarebbe il panico, il terrore, la follia forse. Ma inviare dei soldati, laddove non possono fare altro che morire per cotali ragioni, è quasi un sacrificio umano. La mia gente non lo gradisce, né io intendo permetterlo d’ora in poi».

«Maestà» obiettò Ariadne dopo qualche minuto di un silenzio di ghiaccio, dove Irisa non aveva neanche la forza per parlare «il nostro compito è combattere le creature che la Bocca del Chimaer partorisce sulle nostre terre. Se nessuno se ne occupasse…»

«Se e quando l’orda arrivasse alle nostre porte, avrebbe senso combatterla. Prima di allora, avvicinare degli uomini ad una Bocca del Chimaer non produce alcun risultato utile. Nel caso in questione le armate non sono semplicemente state trucidate, ma invece sono state corrotte dall’influsso del Chimaer. Sono chimerici adesso… parte dell’orda che dite di voler combattere. È stato peggio che lasciarli a difendere le loro case, non trova?»

«È questo il messaggio, allora» fece l’orco, stranamente ben poco turbato dalle parole del sovrano elfico.

«Noi consegneremo il messaggio come voi chiedete, maestà. Ma non potete non considerare cosa accadrebbe alle Lande di Rah se si lasciasse incustodito la Bocca del Chimaer del Mar Bianco».

Hion sospirò appena: «Cosa accadrà alle Lande, dite? E cosa invece accadrà al mondo intero? Questo è il terzo caso di Bocca aperta nel mondo conosciuto. Se ne apriranno altri? Ancora chiedo: se bastassero già questi a inghiottire tutto?»

«Ma alcuni sono stati chiusi!» sbottò Irisa, indignata dallo scherno verso il suo esercito e la sua lotta; ma appena fece per alzarsi, Ariadne le afferrò una spalla quasi artigliandola e la costrinse a rimanere in ginocchio.

«Chiusi? Certo, alcuni lo hanno detto, ma la verità spesso si perde nella storia. Sono stati chiusi o si sono chiusi da soli? Ricorderete di maghi che secoli fa si vantarono di aver chiuso con le loro arti la Bocca del Chimaer nelle isole degli elfi del Sole… che poi si diressero a quella nel continente che in un tempo ancor più antico ospitava la mia gente e i loro domini. Non fu mai sigillata, quella Bocca del Chimaer… e oggi chiamiamo quella terra il Continente Rubato… la terra che il Chimaer ha sottratto alla mia gente».

«Maestà, queste sono leggende che…»

«Conosco le vostre leggi e i vostri principi» interruppe Hion e poi recitò con tono rispettoso: «“Solo ciò che può essere documentato fa parte della Storia”… non dice così un Comandamento di Runeh?»

«Pur supponendo che esista un cosiddetto Continente Rubato» insistette Ariadne «volendo seguire quest’ordine di pensieri, vi chiedo: se una sola Bocca ha potuto inghiottire un continente in passato, cosa dobbiamo pensare ora che l’Astermagna è toccata da due di esse, da nord e da est?»

«Chi può dirlo? Un tempo c’erano tre Bocche del Chimaer schiuse intorno all’Isola di Tamerlyn eppure oggi sono richiuse».

«Perché gli arcidruidi degli elfi del Sole le hanno sigillate».

«Questo è quanto sostengono loro».

«Questo dice la storia».

Irisa sentì i due orchi accanto a loro ridacchiare: per loro, tutte queste disquisizioni di principio erano una perdita di tempo e dibattere se la storia dovesse basarsi su precise documentazioni piuttosto che su leggende tramandate da sculture e disegni allegorici era interessante quanto discutere di che forma dovessero avere i sassi.

«La storia è assai meno oggettiva di quanto credete, Comandante. Ma non voglio rischiare di offendere la vostra cultura con questa diatriba. Quanto intendevo è chiaro, spero…»

«Intendete dire che sia la mia gente che la vostra vanta una comprensione ed un controllo sule Bocche del Chimaer che non possiede. Questo ovviamente non è del tutto infondato, ma ciò non significa che schierare i nostri eserciti contro la Bocca del Chimaer sia insensato».

“Non significa che sia insensato”? Come sarebbe? Se davvero non ne sappiamo nulla cosa stiamo andando a fare?

Irisa si sorprese di sé stessa, di aver avuto quel pensiero improvviso che sembrava spuntato dal nulla e al contempo gli suonava molto più semplice e naturale di quello che Ariadne sosteneva.

«Capisco la vostra posizione» concesse Re Hion «la mia è una semplice richiesta che, date le mie difficoltà nel comunicare col mondo esterno, vi sto chiedendo di consegnare a chi può considerarla».

Irisa digrignò inavvertitamente i denti: quella conversazione era risultata alquanto sgradevole.

«Neppure io voglio offendere voi, maestà. Vi prego di perdonarmi per avervi contraddetto e ovviamente vi garantisco che consegneremo il messaggio. Tuttavia concedetemi di dirvelo un’ultima volta: non comprendo. Da come parlate, sembra non ci si possa basare su nulla, che l’unica certezza sia l’incertezza. Che profitto viene dal pensare così?»

Re Hion non rispose immediatamente, anzi scambiò uno sguardo col suo consigliere come fosse incerto su cosa rispondere.

«Profitto» ripeté «forse avete ragione, non c’è alcun profitto a chiamare l’ignoto col suo nome. Ma è una professione di verità».

«E questo è tutto quello che c’è da dire? Che l’ignoto è ignoto?» s’intromise di nuovo Irisa ma stavolta Ariadne, sovrappensiero, non ci badò.

«Non è forse questa l’essenza stessa del Chimaer? La punizione per ciò che noi mortali abbiamo realizzato nel Mondo Antico… non smettiamo mai di sperare di poterlo governare, di comprenderlo… ma se così fosse come potremmo espiare le nostre colpe?»

«In quest’ordine di idee, come si potrebbe escludere che questa espiazione non porti con sé la fine del mondo stesso?»

Re Hion e il suo consigliere Seix si scambiarono una rapida occhiata, prima che lo sguardo rassegnato del piccolo elfo tornasse sui quattro che stavano inginocchiati al suo cospetto.

«Vi ho forse fatto credere che sto escludendo tale eventualità?»

Nessuno aggiunse altro. Uno ad uno i rettili preistorici intrappolati nel ghiaccio chiusero gli occhi, il ragazzino seduto sulla bolla di vetro li chiuse per ultimo, dando a Irisa l’impressione che il giovane elfo non fosse Re Hion, ma solo la bocca con cui l’entità nota come Hion parlava ai mortali.

«Sua altezza vi ringrazia per l’attenzione» concluse Seix.

***

Irisa si svegliò di colpo rovesciando le coperte. Le venne da strofinarsi gli occhi e cercò svogliatamente la fonte della luce calda che invadeva la stanza. Era un fuoco acceso nel camino, dall’altro lato della stanza. Ariadne era seduta davanti ad esso, ancora nuda, con uno sguardo mobile eppure perso, quasi fosse tutta presa dall’arredamento elfico intorno a loro. Irisa per prima cosa si legò d’istinto i capelli in alto, nella sua solita coda arruffata, quindi poggiò i piedi sul pavimento freddo e le venne accanto in silenzio, inginocchiandosi e ponendole la testa sulle gambe.

«Non riesci a dormire?»

Ariadne le carezzò la testa: «Scusa, ti ho svegliata?»

«No… immagino di essere nervosa, stanotte».

Irisa le baciò un fianco e poi si sollevò un po’ per finire contro il suo seno, quel seno grande e morbido che le aveva sempre invidiato. Con un dito carezzò le sue labbra.

«Sei preoccupata?»

Ariadne se la portò vicino con le mani e Irisa accettò di buon grado, supponendo che lei volesse baciarla. Invece la fissava con una serietà ed una tristezza che lei non gli aveva mai visto nei suoi grandi occhi color miele.

«E tu? Un sovrano elfico ha appena detto che tu… che tutte noi siamo carne da macello e che forse il mondo stesso è condannato. Non sei preoccupata? O meglio… arrabbiata?»

Fu lei a baciarla brevemente, per poi stendersi di nuovo su di lei, guardando fuori una di quelle strane strutture di ghiaccio così incredibilmente simili ad alberi, quel segno concreto di magia.

«Questi elfi non sono cattivi, ma sono gente strana. Fra un paio di giorni avremo raggiunto Fjaran-Marmar e abbattuto ogni singolo chimerico che troveremo. Qualsiasi cosa pensino loro non fa differenza per me. Credo nei Comandamenti, credo nella Regina, credo nel mio esercito e quello che so e che ha sempre funzionato è questo: che tutto ciò che esce da una Bocca del Chimaer va sterminato».

«Ci credi…»

Irisa fu attraversata per un unico istante dal desiderio di confessare ad Ariadne che aveva dubitato, profondamente, di quell’insieme di idee e certezze su cui basavano le loro azioni. Ma l’istinto le consigliò di evitarlo.

«Ma certo. E voglio dimostrarlo, lo voglio davvero… sono anni che lo voglio… come tutte le altre, certamente».

Ariadne disse quasi bisbigliando: «In me… in me credi?»

Si voltò di scatto: non l’aveva mai sentita con una voce così rotta, così vulnerabile. Forse anche Ariadne non voleva confessare gli stessi timori?

«Che dici? Certo che credo in te… l’ho sempre fatto. Come Comandante… come sorella amazzone… e come mia compagna».

«Sei certa di quello che dici? C’è un ordine che devo darti».

Irisa stirò un sorrisetto imbarazzato: «Non ho mai disobbedito ad un tuo ordine, men che meno quando siamo entrambe nude…»

Rimase profondamente delusa. Provocava molto raramente e quando lo faceva Ariadne reagiva sempre con il massimo dell’entusiasmo. Invece stavolta parve non averla nemmeno sentita.

«Non ti piacerà, Irisa».

Era davvero seria, pensò prendendole entrambe le mani e baciandole: «Farò tutto quello che vuoi, Ari».

«Ti ho chiesto di scegliere sei ragazze che possano tornare indietro per fare rapporto sulla situazione nel caso perdessimo la battaglia».

«Non la perderemo, ma me ne ricordo. Ci ho già pensato».

«Tu devi essere una delle sei».

Irisa le lasciò le mani con tanta fulmineità che sembrò aver preso la scossa. Ebbe l’impulso di allontanarsi da lei e lo assecondò, così rapidamente che inciampò all’indietro sul tappeto di pelliccia. Poi un secondo impulso le fece domandare se non era stata troppo brusca, se forse non l’aveva ferita. Ma alzando la testa verso la sua compagna, vide che anche in quel caso non aveva mutato espressione.

«Tu devi essere una delle sei» ripeté, quasi meccanicamente.

«No».

«Hai detto che avresti fatto qualsiasi cosa».

«Non mi stai dando un ordine da Comandante, ma da mia fidanzata, e oltre ad essere ingiusto è anche offensivo. No. Assolutamente no».

Si alzò: sentiva addirittura la necessità di rivestirsi. Parlava freneticamente, senza riuscire a concludere le frasi e riusciva a stento a maneggiare i suoi vestiti.

«E poi tu… ed io non… io…»

«Irisa…»

«Non… non ci credo… non ci credo che vuoi farmi questo!»

«Irisa».

«Perché, perché ora?»

«Irisa Floran!»

Si fermò, ma non riusciva a guardarla in faccia. Parlò ancora piena di rabbia.

«Sei sempre stata chiara con me. Se volevo amarti, non dovevano esserci dubbi sul fatto che non favorissi me sopra le altre. Ho accettato di essere cauta, di non farti nemmeno una carezza in pubblico. Ho accettato tutti i compiti più pesanti o più pericolosi che mi hai affidato. Se ci scoprissero, nessuna corte marziale ti potrebbe contestare, nessuno oserebbe dire che mi hai trattato meglio delle altre. In cambio di tutto questo, non ho mai neppure una volta potuto baciarti alla luce del sole… è stata dura, molto dura!»

«Lo so» ammise l’altra, ma senza dare segni di cedimento.

«Un anno di sacrifici! E ora… proprio ora! Prima della battaglia più importante della mia vita, mi chiedi di scappare? Proprio adesso metti la mia vita al di sopra di quella delle nostre compagne!»

Stava sbagliando qualcosa in quella conversazione e lo sapeva: neanche in quel caso Ariadne cambiò espressione. Cosa non le stava dicendo?

«Non ti ho chiesto di andare come mia fidanzata, ma come mia subordinata. C’è una ragione ben precisa».

Irisa attese un po’, poi lasciò cadere i vestiti, di nuovo nuda davanti a lei: il senso di quel gesto era chiaro, ma lo esplicitò comunque con le parole.

«Scusami, io… devo lasciarti spiegare, credo… dovrei saperlo che tu… non ti abbasseresti a questo… non coscientemente».

«Neanche inconsciamente» precisò con fermezza «c’è un motivo, ti ripeto».

Irisa tornò silenziosamente accanto alla sua compagna. Tremava di freddo, Ariadne coprì lei e sé stessa con una coperta.

«Non mi sono mai vergognata di essere tua, prima di stanotte. Se c’è un motivo dimmelo, ti prego. Il solo dubbio che tu possa… favorirmi, mi distrugge. Mi umilia».

«C’è un motivo, ti ripeto. Una Comandante non può abbandonare le sue sorelle amazzoni in battaglia. Eccetto me, però, solo quei due orchi – che non considero – e infine tu, avete udito quel messaggio. Non voglio darlo ad altre, ma non voglio nemmeno che vada perduto».

Irisa spalancò gli occhi, stupita: «Cosa stai dicendo? Quel messaggio era una farneticazione! Abbiamo passato ogni singolo mese in accademia a farci ripetere quanto non ci sia peggior minaccia dei chimerici. Quell’elfo ci ha gentilmente chiesto di lasciarli perdere e fare come se non ci fossero. Vuoi riportare questo messaggio alle orecchie della Regina Aryl?»

Ariadne la strinse con forza, ma senza dolcezza: come l’aveva stretta già un’altra volta, quel giorno, al cospetto del Re Hion.

«Ho solo un dubbio. Solo un piccolo dubbio che quel messaggio non sia un delirio. Un dubbio minimo, ma…»

«Il senso di quel messaggio… di tutto quello che l’elfo ha detto… è che niente di quello che facciamo ha realmente senso. Se fosse vero, a chi mai dovremmo dirlo?»

Ma a quel punto della conversazione, il pensiero di confessare i suoi dubbi ad Ariadne non sembrava più inopportuno, bensì piuttosto spaventoso.

Ariadne la strinse ancora più forte, scuotendola: «Iri! Quante volte hai sentito parlare dei chimerici, nella tua vita?»

«Quante… volte…? Non lo ricordo… tantissime…» ormai l’incerto terreno di quella conversazione sconfinava nell’angoscia.

«E quante volte qualcuno ti ha parlato delle loro origini? O di come mai spariscono di colpo? O di cosa vogliano i chimerici, in realtà, di perché li combattiamo?»

«A… Ari, mi stai facendo male… lasciami».

«Rispondi! Quante volte?»

«Mai! Lo sai… la Chiesa si occupa di queste cose! È solo a questo che serve, quella dannata Chiesa. Sono tutte cose che mi hai insegnato tu, Ari! Che ti prende stanotte?»

La lasciò, ma contrariamente alle sue previsioni Irisa non uscì dalla coperta che le avvolgeva entrambe, né si allontanò.

«Anche a me le insegnò una sorella di grado più alto. Anni fa come poi io l’ho insegnato alle mie sorelle minori… come te. Però…»

«Però…?»

Le venne un dubbio. Forse, molto semplicemente, il momento della grande prova rappresentato dalla Bocca del Chimaerv si avvicinava e Ariadne non aveva altro che una naturale e ben comprensibile paura. Forse quel che avrebbe davvero voluto erano rassicurazioni.

«Ari!» chiamò, carezzandole una guancia «Facciamo un patto. Arriveremo lì con le altre… combatterò e vincerò, ne sono certa. Ma se invece le cose si dovessero mettere male… allora andrò. Andrò subito, appena lo ordinerai! Riporterò quello che è successo e il messaggio di Re Hion. D’accordo?»

«Sicura che lo farai?»

«Sicura. Come sono sicura che non ce ne sarà bisogno».

La baciò con passione.

«È solo paura. Sarà una battaglia importante. Abbiamo solo un po’ di paura, è normale» la rassicurò ancora e ancora, senza però convincere per prima sé stessa.

***

Passeggiò per un po’ lungo la strada ghiacciata: la luce gelida dell’alba si allargò rapidamente su tutta quella città innaturale che era Vonselas. Sebbene fosse molto presto, diversi elfi iniziavano a traversare le strade pronti a intraprendere le loro faccende quotidiane.

«Cosa fate qui?» chiese Irisa all’orco che trovò seduto sotto un grande albero di ghiaccio, su un promontorio da cui si vedeva una buona porzione di città.

«La mia tribù preferisce rimanere accampata fuori. A me invece piace questa città» spiegò Abrai togliendosi il mascherone dal viso.

«Ma…!»

Era senza parole: a volto scoperto Abrai Kub-Rul aveva una barba grigia ben curata, tagliata tutta alla stessa lunghezza, come i capelli intorno alle tempie. Si aggiustò gli occhialini tondi dall’aria preziosa che gli stavano scivolando sul naso. Aveva qualcosa di raffinato e austero nello sguardo, se non fosse stato per le zanne ricurve e i vestiti di pelli, sarebbe stato l’individuo più distinto che Irisa ricordasse di aver mai visto.

«Hai un viso… diverso da quello che pensavo, sotto la maschera».

L’orco rise: «Già! Ti immaginavi un muso da guerriero pieno di cicatrici, eh?»

«Bè, sì».

«E invece no. Sono tornato alla mia tribù qualche anno fa. Per la maggior parte della mia vita ho vissuto come poeta di corte in Nistria».

«Un orco poeta?!?»

«Ci sono anche orchi pittori e musici, cosa credi?» ribatté indispettito «Ero anche molto apprezzato. Forse senza saperlo hai studiato qualche mio sonetto da piccola. Se fossi nistriana ne sapresti qualcuno a memoria, so che li insegnano nelle scuole».

«Oh. Eri… felice?»

Abrai sospirò: «Ma certo. La vita di corte è fantastica. Cibo raffinato, ottime letture, persino belle donne ho avuto».

«Risparmiami i dettagli» interruppe Irisa con un piccolo brivido di disgusto.

«Ehi, sei un po’ razzista, ragazza».

«Io? Non è vero! Io…»

Si voltarono entrambi: erano piuttosto sicuri di aver visto un’ombra immensa, una massa scura muoversi sotto la calotta di ghiaccio su cui Vonselas era costruita, come qualcosa di indefinibile che nuotava sotto la superficie. Ma nessuno degli elfi che sotto di loro si affaccendavano reagirono come se la cosa potesse rappresentare una minaccia. Per loro era normale come vedere gli uccelli in cielo.

«Che… che posto assurdo…»

«Già, ma mi piace scoprire luoghi come questo» ammise Abrai osservando il suo mascherone.

Irisa gli si sedette accanto.

«Allora, orco… perché sei tornato alla tribù?»

Abrai guardò il cielo come se i ricordi volassero lì tra le nuvole e dovesse riacciuffarli con lo sguardo.

«Avevo avuto molte dispute con la mia famiglia. Ero un guerriero talentuoso, dicevano, un giovane promettente. Ma a me... non interessava molto. Ho vissuto come ho voluto. Poi mio padre è morto, poi mio fratello, sono rimaste solo le mie sorelle e mia madre. Sono vecchio ormai, volevo provare… a farle contente. Morire come un vero orco. Quindi tre anni fa… sono tornato».

«Morire» ripeté Irisa «perché voi orchi siete convinti che si vada in guerra per morire? Sembra quasi che ci speriate».

«Sciocca bambina, cosa credi che sia la guerra?» chiese Abrai Kub-Rul rialzandosi e indossando nuovamente il mascherone «Non è altro che questo… migliaia di storie che si interrompono, che spariscono… prima sono uniche… speciali… poi… finiscono nella spazzatura senza che nessuno le ricordi. Prepararsi a diventare spazzatura… morire mangiati dai corvi… significa solo avere chiaro il senso di ciò che si fa».

Irisa rimase sovrappensiero.

«È stato bello parlarti, ragazza dei cavalli. Ora devo…»

«Aspetta» scattò lei «c’è una cosa che voglio chiederti».

Abrai assentì con un breve e ironico inchino.

«Chiedi allora».

Avrebbe voluto chiedere se i timori di Ariadne e i suoi – tanto profondi che non aveva avuto il coraggio di confessarli a nessuno – fossero in qualche modo giustificati, se erano un segno da non sottovalutare. Ma ovviamente non poteva chiederlo a lui.

«Quello che abbiamo sentito… da Re Hion… tu cosa ne pensi?»

Abrai si strinse le spalle: «Perché ti turba?»

Irisa abbassò il viso: «Il Chimaer è un mistero. Rappresenta l’ignoto. Questo lo so. Ma arrivare a definirci dei sacrifici umani...».

Abrai iniziò a discendere dal promontorio verso le strade della periferia di Vonselas, dandole le spalle. Parlò piano, senza voltarsi a guardarla.

«Tutti i soldati sono sacrifici umani. Credono di sapere perché vanno in guerra, ma non lo sanno. E prima di accorgersene… sono finiti nella spazzatura».

***

All’alba di due giorni dopo raggiunsero una spiaggia di ciottoli chiari stesa su un mare grigio e immobile. Quella costa bianca, che si spandeva per chilometri, costituiva la regione delle Lande di Rah nota come Fjaran-Marmar.

«E… eccolo» annunciò Ariadne dopo una brevissima occhiata.

«Io…» Irisa non riuscì a spiccicare più un’altra parola e si rammaricò amaramente di non avere una Dea da pregare, a differenza dei fedeli sparsi negli altri cinque regni.

Abrai si avvicinò ai loro cavalli: «È proprio lui».

Traslucida, evanescente, la Bocca del Chimaer si allungava per diversi chilometri in tutta la sua innaturalezza. Se Irisa avesse voluto descriverlo, poteva solo paragonarlo ad una gigantesca spina dorsale appartenuta ad un animale crestato, un oggetto morto che galleggiava pigramente sull’acqua, ma anche quella descrizione non rifletteva a pieno ciò che era, non rifletteva i suoi movimenti ritmici come se si spostasse pigramente sul fondale marino, i suoi innaturali colori di un nero cielo notturno trapuntato da un firmamento rosso violaceo e il fumo nero che veniva progressivamente spruzzato – o forse, espirato – fuori in densi getti sottili. Il fumo nero era a sua volta incredibile, perché appena era libero in aria si condensava in forme geometriche, forme che poi fluttuavano senza scopo formando una nube di prismi neri al di sopra di quella cresta. Era, nel complesso, una forma che non aveva significato, non aveva funzione, non rispondeva ad alcuna classificazione; solo in un punto, verso il centro, la cresta si inarcava e sembrava tenere incastonato in sé un globo perfettamente sferico.

«Ecco» osservò Abrai emozionato, indicando col bastone quella sfera «è proprio vero che ciascuna Bocca del Chimaer è diversa dagli altri, questa non assomiglia per niente a quella che vidi da bambino. Ma quel globo è uguale a quello che vedono i pochi che tornano dal cuore della Bocca del Chimaer nell’Oceano Orientale. Quello… è la fonte del Chimaer».

«La fonte del Chimaer…» fece eco Irisa , tremando: stava osservando quel globo e questo, per qualche ragione, le dava una sensazione che oltrepassava di parecchio quella che avrebbe saputo definire come vertigine.

«Smetti di fissarlo, Irisa» raccomandò Ariadne e la ragazza fu felice di sentire la voce della sua Comandante e compagna.

Si rese conto che se non avesse sentito quella voce non avrebbe avuto idea dello stato in cui la sua mente avrebbe potuto essere in quel momento, dove quella sfera avrebbe potuto risucchiarla semplicemente guardandola fissa. Distolse lo sguardo, avvertendo subito una grande emicrania.

«L’orda chimerica… dov’è?» chiese appena fu di nuovo in sé.

«Ecco che arriva qualcuno» avvertì l’orco, inspiegabilmente felice, rivolto ad uno stormo di strane figure volanti.

Irisa li vide. Un tempo erano stati umani, forse bambini, ma certamente non lo erano più. Quello che era stato il cranio si era gonfiato e riempito di buchi, come una grossa spugna, e li faceva fluttuare in aria come mongolfiere umanoidi. La cosa più strana era la materia di cui erano fatti, che certamente non era carne; sembrava come una porzione di firmamento stellato strappato al cielo e rimodellato, ma di un assurdo impasto di colori salmone e avorio. Nella massa puntinata e semitrasparente scorse per un attimo, per l’appunto, gli accenni dell’ossatura di bambini umani e questo le suscitò quasi un conato di vomito. Aveva assistito qualche volta a invocazioni di angeli o demoni, ma nessuna apparizione dava il senso di straniamento, di alterità, che davano quelle cose.

«Chimerici. Coloro che sono toccati dal Chimaer» commentò l’orco anziano «Brutta storia davvero. Se questa Bocca è instabile può avere uno spasmo e toccarci tutti. Finiremmo come quelli».

«A… allora… dobbiamo andarcene subito!» commentò un’amazzone al fianco di Ariadne.

La Comandante non riuscì a parlare, o forse non volle, ma fu Irisa a farlo: «No. Siamo qui per presidiare queste coste, ricordatelo. Neppure un chimerico può oltrepassare questa regione!»

Gli umanoidi in aria ammutolirono e si paralizzarono di colpo. Le loro teste sembrarono farsi improvvisamente pesantissime e li fecero precipitare come sassi nell’acqua marina.

«Ma tu faresti meglio ad andartene, Irisa» disse Ariadne «Ricordi, giusto? Serve che informi qualcuno. Ci vogliono maghi… maghi potenti, per chiudere una Bocca del Chimaer, e questo è chiaramente ancora aperto».

Irisa si lasciò sfuggire una smorfia irritata da sotto l’elmo. Non aveva forse espresso, qualche notte prima, il dubbio che le Bocche del Chimaer non potessero essere chiuse in qualsiasi maniera? L’unica funzione di quelle parole era di dare una giustificazione alle altre per mandare via solo lei. Non le piaceva, non riusciva a scrollarsi di dosso l’idea che Ariadne la volesse favorire e così le sembrava di ingannare le sue sorelle d’armi.

Abrai sbuffò: «Maghi? Eh eh eh. Sono balle. La Bocca del Chimaer non viene chiusa da nessuno, al massimo si chiude da sé».

«La Bocca del Chimaer può essere domata».

«No, non può, è la sua stessa natura che ce lo dice».

«Questo lo dicono quelli che non credono nel futuro!» sbottò Irisa e a stento si trattenne dal chiedergli ancora se credeva alle parole del Re degli elfi della neve, ma preferì fermarsi lì.

«O quelli che non credono alle favole» insistette l’orco, senza scomporsi «ma fate come credete, ragazze dei cavalli. Niente fa più differenza, ora».

Impugnò il robusto bastone come una mazza, e proprio allora, come l’avesse evocata, l’orda uscì dall’acqua. Si mosse rapidissima e compatta, come una unica fiumana di individui, e descrisse un semicerchio percorrendo diversi metri di spiaggia per poi invertire marcia e rituffarsi in acqua. Sembrava di osservare la spira di un enorme serpente che usciva e rientrava nella sua tana, ignorando totalmente orchi ed amazzoni in egual modo.

«Cosa… cosa fanno?»

Non aveva mai visto una cosa del genere: correvano verso di loro – ma non stavano guardando loro – invertivano marcia e si rituffavano in acqua. Nessun esercito avrebbe mai potuto muoversi così, prestare il fianco agli avversari schierati con tanta sconsideratezza. Ma proprio per l’evidente idiozia di quel movimento, né le amazzoni né gli orchi aggredivano. Rimanevano basiti a guardare quella massa di esseri eterei e multiformi.

«Cosa diavolo fanno!?»

«Chi lo sa?» rispose l’orco, senza muoversi «le azioni dei chimerici non hanno alcun senso comprensibile. Spero che decidano di aggredirci presto, perché potrebbero passare giorni prima che si accorgano di noi. Sarebbe una bella noia. Forse è meglio aggredirli subito».

Aggredirli, pensò Irisa, con che cosa? Con la manovra a tenaglia flessibile? L’accerchiamento immobile? Le tattiche di guerriglia a spirale? Tutte le strategie che le amazzoni sapevano eseguire con la perfezione di una danza elegante si basavano sempre e comunque sull’indovinare e anticipare il ragionamento del nemico. E ovviamente anticipare ciò che faceva e pensava un chimerico era impossibile, bisognava osservarlo sul campo, ma…

«Ci stanno…»

«…ignorando del tutto».

…ma cosa si poteva fare, invece, se il nemico che non ragionava affatto? Se era mosso, come sembrava, dalla pura irrazionalità? In quel caso osservare un chimerico sul campo era del tutto inutile. Non c’erano risposte giuste, perché non c’erano domande.

«Ariadne…?»

«Non parlarmi ora. Sto pensando».

Ma a cosa si poteva pensare? Senza trovare risposta, provava una paura profonda e indescrivibile ed una unica certezza: non avrebbe mai voluto essere lasciata sola ad affrontare quella paura, quindi non poteva nemmeno immaginare di essere lei ad abbandonare la prima linea lasciando le sue compagne faccia a faccia con i chimerici.

«I- io… non voglio andarmene. Rimarrò qui…»

«La vera guerriera è non chi imbraccia l’arma e taglia teste, ma chi esegue gli ordini assicurando la vittoria» ribatté Ariadne citando un motto tipico dell’esercito amazzone.

«Anche l’ordine più insignificante, l’incarico più umile, è decisivo ben più di un campione che vada in battaglia secondo il suo capriccio» proseguì recitando Irisa.

Ariadne annuì verso la sua compagna, compiaciuta. Ma forse dentro di lei sapeva che quelle parole Irisa le aveva pronunciate senza sentirle sue.

«Non indugiare, vai».

Irisa osservava quell’esercito rapidissimo e quel poco che vedeva spiegava ben poco. L’unico tratto in comune era la massa di nero e polvere iridescente di cui erano composti, che ricordava un ammasso di astri, anche se ciascuno era di un diverso insieme di colori brillanti, e gli accenni di ossa visibili all’interno, unico memento di ciò che erano prima della corruzione. A parte quello era difficile trovare due elementi, tra tutti, che fossero almeno simili per aspetto. Molte, moltissime altre forme di quell’orda che non poteva essere definita, classificata o spiegata, Irisa non riuscì neppure a distinguerle, certo erano stati qualcos’altro, prima che il Chimaer li toccasse alterando la trama stessa della realtà, ma ora erano solo incroci e ibridi di cose preesistenti, senza una precisa identità, forme come ombre che erano un po’ animali e un po’ vegetali, un po’ persone e un po’ oggetti. Creature indefinite, senza scopo o con uno scopo inconoscibile e incomunicabile, pronte a spargersi nel continente senza che nessuno potesse prevedere o capire il loro comportamento che poteva variare dalla stasi totale alla violenza raccapricciante e immotivata. Erano la follia stessa, ma più solidi e concreti di qualsiasi pensiero, una follia che camminava tra i mortali e invadeva il loro mondo di ragioni e sentimenti senza spiegazione alcuna. Erano i chimerici e in quel nome unico c’era tutta la loro unicità.

«Non ci attaccano…» si lamentò uno degli orchi.

Irisa si sorprese della calma e della compostezza degli orchi, da sempre convinti che l’essenza della vittoria fosse prendere l’iniziativa per primi con audacia e aggressività. Nessuno di loro si sognò di scagliarsi su quelle creature per primo e lei ne comprese rapidamente il motivo: non pensavano di poterla sopraffare, quindi il senso dello scontro sarebbe stato sopravvivere a oltranza tenendo il litorale il più a lungo possibile, come una diga di carne ed ossa che la vita stessa, la vita come Irisa la conosceva, poneva a difesa per evitare di essere sommersa dall’insensata esistenza di quella fiumana. E così, per una volta, persino gli orchi non attaccavano prima di essere attaccati.

«Forse stann…»

Le parole di una compagna accanto a lei si persero, perché la moltitudine accelerò il passo producendo un fragore che copriva ogni altro suono. Infine, seguendo la loro rotta priva di scopo, si erano tutti rituffati in acqua ed erano svaniti in un mare improvvisamente immobile e silenzioso.

«Sono… andati via?» chiese Irisa.

«Per ora» ribatté Ariadne «per giorni, forse, o per qualche minuto. Devi andare! È un ordine!»

Irisa deglutì, amareggiata. In una società definita da legge, disciplina e – se necessario – dall’annullamento di sé stessi, solo una cosa poteva seguire un ordine: l’obbedienza. Strinse le briglie di Fulvospirito.

«Come desideri, Comandante. Vado».

Le sembrò che Ariadne la stesse fregando: gli unici argomenti che poteva opporre a quel preciso ordine riguardavano la loro relazione e lei non poteva usarli perché l’ordine era stato impartito in pubblico. La guardò fisso e anche lei ricambiò lo sguardo.

Cosa devo dire alla ragazza che amo, con cui potrei aver fatto l’amore per l’ultima volta? si chiese ossessivamente in quella manciata di secondi.

Forse Ariadne lo vide, perché anche i suoi occhi si fecero dolci e tristi. Ma non ci fu tempo di dire nulla. Un’unica gigantesca onda si era sollevata, ed era chiaro che l’acqua era molto meno trasparente di come avrebbe dovuto essere, piena di un arcobaleno di fosforescenze che solo i chimerici potevano produrre; il muro d’acqua marina si curvò sulla spiaggia e sembrò sputare volontariamente le prime creature multiformi sul terreno di Fjaran-Marmar. Le stesse che prima avevano ignorato i due eserciti ora si scagliavano contro bersagli sparsi, urlando con un odio che una creatura mortale non sapeva provare e che non era stato scatenato da alcuna causa precisa. A fianco di Irisa, Abrai Kub-Rul urlava con voce estatica, con quella particolare inflessione di voce di chi si vede venire incontro un caro vecchio amico, un’unica parola ripetuta.

«Morte! Morte!»

Si fiondò su un chimerico blu e giallo che poteva ricordare qualcosa tra un rinoceronte e un ometto gobbo e lo colpì col bastone con tutta la violenza che aveva. La creatura fu percossa più volte facendo finta che l’orco non esistesse, prima di reagire d’improvviso con l’enorme chela da granchio che aveva sul braccio destro. Ma da quell’istante si fece un avversario tenace e preparato e Abrai prese a parare a fatica, arretrando.

«Ari».

Irisa ignorò ogni cosa. Una cosa verdastra simile ad una figura di donna stirata per lungo si era fiondata vicino ad Ariadne, aggredendola con un lungo braccio dritto come un arpione. L’amazzone l’aveva affrontata con sapienti mulinazioni dello spadone senza cadere da Sirescuro. L’istinto di Irisa era stato di correre verso di lei a darle manforte, ma non ne aveva avuto il tempo: uno dei minuti umanoidi-mongolfiera era volato sopra di loro ed era caduto a testa in giù, esplodendo in un rosa accecante. Al diradarsi della luce, Ariadne e la sua avversaria erano ormai polvere, solo una gamba di Sirescuro, che ancora si muoveva convulsa, ricordava che Ariadne era esistita. Si era consumato tutto in una manciata di secondi.

«Ari».

«Morte! Morteeeeeeeeeeee!»

Abrai Kub-Rul aveva disintegrato quella che poteva essere la testa della cosa, che si era rotta come frammenti di roccia. Ma il corpo continuava a vibrare colpi, seppure adesso procedendo alla cieca. Altre di quelle creature piombarono sulla folla esplodendo.

«Ari…»

Alla terza volta che non ricevette risposta, una compagna le si avvicinò: «Irisa, l’ordine della Comandante! Devi andare, devi andare subito!»

«Io…»

«Irisa, mi senti?»

Un essere lungo e snodato come un serpente, ma dal torso più simile ad un gatto di montagna, avvolse la compagna che la chiamava nelle sue spire di luce nero e lilla e la strinse, spingendola a strabuzzare gli occhi e a vomitare sangue.

«Iris- »

La creatura strappò la testa della ragazza con una zampata.

«Ari» ripeté Irisa, mentre la creatura le saltava addosso lasciando penzolare il corpo straziato della compagna sul suo cavallo.

Reagì d’istinto, si abbassò flessuosamente rimanendo attaccata a Fulvospirito solo per le gambe, lasciandosi scavalcare dalla creatura, la attraversò per lungo con la spada, dalle fauci fino a metà del corpo.

«Irisa!» le corse incontro un’altra, giovanissima, lei riconobbe a stento che era una delle cinque che aveva selezionato per accompagnarle, le altre quattro non riusciva a vederle.

«Irisa, dobbiamo andare via!»

La ragazza e il suo cavallo si difendevano caparbiamente a colpi di spada e zoccoli da chimerici che ricordavano ombre o piuttosto umani appiattiti sul pavimento e strisciavano rapidi come lucertole.

«Irisa, ascoltami!»

Dietro di loro, l’avversario di Abrai Kub-Rul rotolava a terra sconfitto mentre l’orco, con diversi suoi compagni, si avventava su un grosso chimerico ripugnante: il corpo color vino era di enorme cinghiale con zanne sproporzionate mentre al posto del viso stava un corpo umanoide, impossibilmente obeso, che rideva in maniera oscena, quasi sessuale, mentre camminava lentamente sui corpi di alcune ragazze schiacciandole col suo peso. Irisa si voltò tenendo salde le briglie, pronta a prendere parte a quell’assedio di gruppo contro quell’essere schifoso.

«Ascoltami, dannazione!» fece la più giovane fermandole il braccio e scuotendola «l’ordine della Comandante! Dobbiamo andare!»

Finalmente si decise ad obbedire a quell’ordine, anche se chi lo aveva impartito non c’era più.

***

Per giorni, Irisa non avrebbe ricordato altro che le ultime immagini di quella battaglia assurda, la crudeltà insensata con cui quelle creature variopinte e multiformi schiacciavano le sue compagne d’armi e i mercenari orchi mentre questi cercavano di improvvisare qualche sorta di difesa. Le forme surreali facevano rapidamente sparire, alle sue spalle, tutto ciò che era stato familiare mentre davanti a lei c’era solo la cinta di colline tra Fjaran-Marmar e Graent-Halli, contro la quale colma di rimorso si lanciava con tutta la foga di cui era capace. I rumori dello scontro si allontanavano rapidamente. Dopo pochi minuti, dietro di sé sentì appena un grido soffocato, una voce di ragazzina che spariva, soffocata.

«E… ehi..:?»

Dietro di lei, la sua compagna non c’era più. Erano seguite? In ogni caso, era rimasta sola. Scosse le briglie e Fulvospirito accelerò.

«Corri! Corri…»

Il cavallo corse per ore, finché tutto ciò che rimase erano gli zoccoli di lui che dava ogni scintilla della sua energia nel galoppo, in sincrono con la volontà del suo cavaliere interamente concentrata sul compito di portare notizia di quella inevitabile disfatta. E forse, per effetto di quel legame misterioso che univa ciascuna guerriera amazzone al suo cavallo, Fulvospirito riusciva anche a sentirne la rabbia e l’indignazione che ribollivano dentro di lei, senza sapere bene su cosa o su chi abbattersi. Dopotutto, nel Nadorhai si parlava della Bocca del Chimaer più o meno ogni giorno, eppure né lei né le sue compagne, nemmeno una, erano minimamente preparate a ciò che aveva visto. Quasi che la Bocca del Chimaer fosse una realtà ineluttabile, persino paragonabile alla morte, contro cui non aveva senso organizzare tattiche e addestrare eserciti. Era davvero così? Davvero ogni tentativo era affidato unicamente al caso, come sosteneva Re Hion, come aveva detto anche Abrai Kub-Rul, proprio come un cavaliere, persino il più potente e saggio e ben addestrato non può nulla contro la morte, se non sperare di vivere un giorno in più? E se era così, perché questa verità non veniva insegnata loro sin dall’inizio?

«Fulvospirito! Fulvospirito!» urlò il nome del cavallo ancora e ancora, e ormai più che tenere le briglie ne abbracciava il collo muscoloso.

Non c’era null’altro che lei e il cavallo, adesso. I pini di Graent-Halli si erano diradati, lasciando spazio alle sterminate Steppe Cinerine, che coprivano quasi un terzo delle Lande di Rah. Era solo silenzio rotto dal galoppo del cavallo e dalla sua voce tremante che ne chiamava il nome di una delle poche creature, forse, che non avevano mentito a lei ed alle sue compagne d’arme. Sullo sfondo della terra grigia si stagliava lontanissima la ripida montagna sopra la quale si ergeva, addirittura oltre le nubi, l’Ubervorour, città da cui Re Olster controllava tutte le Lande; ma lei si era ormai addormentata mentre il cavallo continuava la sua cavalcata, ignorando la capitale del regno, e dirigendosi d’istinto verso il Nadorhai, lungo la strada che aveva percorso nei mesi scorsi e che ricordava bene.

«Fulvospirito…» chiamò ancora il cavallo quando, il giorno dopo, si svegliò.

L’andatura del cavallo le fece immediatamente capire il suo errore: era sfinito e, non si fossero fermati, sarebbe presto stramazzato al suolo. Le montagne, dalle rocce di diversi colori, le maestose cascate e la vegetazione rigogliosa che invadeva prepotentemente vecchissime rovine di cemento le fecero immediatamente realizzare che doveva aver avvicinato da qualche ora i confini del Rah e che presto avrebbe cavalcato nel Nanad, al bordo dell’Entroterra Selvaggio. Non aveva amici nel Regno di Mezzo, ma ciononostante doveva per forza sostare altrimenti l’animale sarebbe morto. E così fece, fermandosi sotto un grosso albero caduto che si affacciava su una splendida vallata. Appena interrotto il movimento, sia lei che il cavallo piombarono nel sonno più profondo, addormentandosi stremati .

«Aah!» urlò nello svegliarsi, perché sognava ancora la battaglia del Fjaran-Marmar.

Guardò il cielo stellato, prima di notare con suo sommo orrore una porzione di cielo cambiare colore in qualcosa di scarlatto e vermiglio, magenta e cremisi. Balzò in piedi portando la mano allo spadone ricurvo sulla schiena.

«Maledizione…»

Non ci aveva pensato: se i chimerici agivano senza ragione, perché non potevano scegliere di mettersi all’inseguimento di un singolo soldato? Dopotutto, conoscevano solo il capriccio. Quindi, come pensava, la sua compagna era davvero stata raggiunta e uccisa. Anche Fulvospirito si agitava, terrorizzato.

«Ca… capisci quello che dico?»

Avvolto in bagliori di tutti i toni del rosso, il chimerico non rispose. Cosa poteva essere stato un tempo? La testa di un ippocampo, un torso umano scarno a sormontare un corpo equino emaciato, ma più di tutto la colpirono gli arti: ripiegate indietro come ali, il chimerico sfoggiava due paia chele affilate come quelle di una mantide che con ogni evidenza erano armi letali.

«Perché non mi hai aggredito subito?»

Era evidente: non capiva niente di quello che lei diceva. Strinse più saldamente l’elsa. Attaccare o non attaccare? Ma appena fece un movimento, dal muso a tubicino di quella cosa uscì un verso come il richiamo di un uccello e subito scattarono le chele veloci e precise come spade, evitò le prime tre ma l’ultima si allungò maggiormente, tagliando il tronco con la precisione di una sega.  Non era difficile capire cosa sarebbe successo se avesse centrato lei. Stringendo la lama di ceramica rossa con la mano, Irisa studiò il suo nemico. Era più probabile che lui battesse lei in velocità d’esecuzione, quindi cosa aspettava per un secondo attacco?

«Ehi!»

Come si aspettava, prese l’urlo come una provocazione e cercò di tagliare esattamente il punto in cui Irisa si trovava. Schivò e cercò di mozzargli un arto, ma fu inutile: tornò indietro più in fretta, come una molla. Il paio di chele inferiori scattò insieme, Irisa saltellò indietro per non farsi trafiggere i piedi e schivò a fatica l’ultimo colpo. Ma aveva notato una cosa: il momento in cui estrofletteva l’arto non era lo stesso in cui la faceva scendere per colpire, quindi quella frazione di secondo in cui le chele erano ferme era il momento per colpirle. Ultimo tentativo: l’avrebbe mutilato, o sarebbe stata tagliata in due.

«Ehi!»

Ma stavolta non era stata lei a urlare, sebbene ne avesse l’intenzione. Un robusto figuro a cavallo era piombato giù dalla collina e, appena il chimerico lo aveva notato, una lama curva di duro legno era volata nella notte. Il boomerang staccò la testa del chimerico di netto per poi ritornare indietro ed essere ripreso con maestria. Irisa si sentì cedere le gambe per la stanchezza

«Buono bello, buono» cercò di calmare Fulvospirito mentre si lasciava cadere sul tronco.

Il nuovo arrivato smontò da cavallo e quello subito scappò via: non era suo, in tutta evidenza.

«Ecco un altro… che è finito nella spazzatura».

«Tu sei…»

«Sì, sono io» confermò l’orco-poeta, con uno strano fiatone.

«Accidenti, ragazza, dei cavalli… non ti sei accorta che ti seguiva?»

«Abrai, tu… Grazie. Ma perché mi hai seguita?» si lasciò scivolare ancor di più, fino a finire seduta sull’erba.

«Ho cercato di riprenderti… ma poi è stato il cavallo, ha fatto tutto da solo».

Continuava ad avere una voce strana.

Si sedette  pesantemente accanto a lei e prese un bel respiro. Guardarono il corpo del chimerico che si sgonfiava, perdeva luminosità e poi iniziava a sbriciolarsi. In qualche minuto, non ne rimase nulla.

«Eh. Questi mostri sono pieni di aria».

Rise, ma era come se ad ogni frase che pronunciava gli venisse sottratto qualcosa che Irisa non individuava con precisione.

«Io… devo davvero ringraziarti, orco… anzi, Abrai».

«Eh! Prego. Peccato sia finita così… non morirò come poeta né come orco. Che fregatura».

«Chi ti dice che non morirai come orco?»

«Bè» disse con una punta di ironia amara «un nostro detto dice: orco, non morirai con onore se morirai per una ferita alla schiena».

Irisa sgranò gli occhi, alzandosi a fatica: «Fammi vedere la schiena!»

«È inutile. Ho passato giorni a inseguire te e quel mostro… ho perso troppo sangue» spiegò e finalmente Irisa capì che ad ogni parola si indeboliva.

«Fammi vedere!»

«E allora cosa farai? Sei un medico forse?»

«Non puoi andartene così!»

«E chi lo dice, ragazza dei cavalli?»

«Tu! Non hai detto che volevi morire da orco? Finisce così la tua storia?»

«Sei una bambina sciocca. Te l’ho detto che la guerra è così… non importa che storia hai… chi sei… finisce tutto… nella spazzatura».

Rise ancora, ma stavolta era debolissimo. Era come se avesse messo tutto quello che era rimasto della sua vita nel colpo che aveva ucciso il chimerico.

«Sai, forse è meglio così. Non  muoio da orco, uccidendo. Ma muoio  salvando una vita. Sì, è bello. È come il finale di un poema… la mia ultima poesia…»

«Fammi vedere la ferita, stupido orco!» si alzò e cercò di sollevare quel corpo pesante per le spalle.

«Lasciami dormire, sciocca bambina… vai a fare quello che devi».

«E cos’è? Cos’è che devo fare, eh? Cosa devo fare?» chiese scuotendolo.

Ma Abrai Kub-Rul, orco poeta, non disse più niente.

***

Seppellì Abrai in mattinata, scavando con le mani.

«Non finirai nella spazzatura… non finirai mangiato dai corvi».

Fu un lavoro pesante, le mani le dolevano. Andò a sciacquarsi in un fiumiciattolo lì vicino, dove anche Fulvospirito poté bere un poco.

«Bevi, bello, riposa…»

Il fiumiciattolo scendeva lungo un pendio roccioso, fino ad una valle piena di enormi rovine del Mondo Antico, alti palazzi squadrati invasi dalla vegetazione. Era l’ultima vallata prima dell’Entroterra Selvaggio, una parte del Nanad che preferiva di gran lunga evitare. Cavalcò nei giorni seguenti con l’unico obiettivo di non sconfinare in quelle giungle, pericolose forse quanto i chimerici stessi.

«Ehi, e quella?» disse dopo giorni di cavalcata, avvistando una sagoma dalla forma curiosa.

Una specie di cittadella di ciminiere fumanti sorgeva su di un plateau, dalla cui base sembrava stata asportata da un enorme cucchiaio una porzione circolare di pietra, così che nella cavità tondeggiante si accampavano molti viaggiatori. La riconobbe, ne aveva sentito parlare.

«La Forgia di Juelrok…» era una città-officina la cui popolazione era per lo più composta da elfi e nani di superficie.

«Coraggio, Fulvospirito. Ci fermeremo lì»

Lei sostò con il cavallo sotto la volta della cavità, sui cui arrivavano di riflesso i raggi del sole, facendo splendere di mille colori la sostanza cristallina che la componeva, come se un’ondata di calore avesse fuso e poi vetrificato quella parte della roccia. Secondo alcune leggende, le avrebbe spiegato un mercante nanico nel corso della serata, Juelrok era stata formata proprio così durante la Grande Guerra del Mondo Antico, dove si scatenavano poteri tanto grandi da rendere verosimile una simile cicatrice impressa nella terra. Era un luogo accogliente, ricco di vita, di fascino e di storia, e dopo giorni di fatica e angoscia quella serenità era allettante come una droga. Fu quasi tentata di rimanerci, ma proprio per questo fu assalita ancora dai rimorsi: a quest’ora, era probabile, nessuna compagna era ancora viva o addirittura era diventata un chimerico. Magari proprio in quel momento la Regina Aryl decideva di inviare un altro contingente, non meno ignorante di quanto non fosse stata la Quinta Cavalleggeri, verso le Lande di Rah, o magari perché no, esortava gli altri re dei Sei Regni a fare lo stesso. L’urgenza di consegnare il messaggio di Re Hion, di sentire la risposta della Regina, di impedire un’altra inutile spedizione, tornò pressante: l’ingiustificabile privilegio di essere ancora viva, a differenza di tutti quelli che erano rimasti sulla costa, aveva senso solo se fosse riuscita in questa missione.

«Perdonami, Fulvospirito. So che sei stanco ma… ancora uno sforzo, ti prego. Per Ari… per Sirescuro… per le nostre compagne».

Rimontò alla fine della mattinata, nonostante il cavallo fosse tutto fuorché ristabilito, poi seguì un altro giorno di corsa e di silenzio e stavolta lei nemmeno ne chiamava il nome certa com’era che persino la bestia, malgrado la totale comprensione che avevano l’uno per i sentimenti dell’altra, fosse risentita per il trattamento che riceveva. Solo nella notte fonda dello stesso giorno si rese conto che non si ricordava di mangiare da ormai tre giorni e a quel punto la debolezza le piombò addosso tutta insieme, come di colpo, facendola svenire sul cavallo. All’alba del quarto giorno, il suo miglior amico e destriero era moribondo e lei riusciva a stento a sollevare il collo senza chiudere gli occhi. Alla sera del quarto giorno una divisione dei templari del Nanad raccolse una giovane ragazza stremata e incapace di reggersi in piedi, che piangeva disperata sul corpo di un cavallo morto.

   
 
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