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Autore: Niijika    28/07/2022    0 recensioni
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[youtube][youtube][youtube]Filippo è un ragazzo napoletano dal passato turbolento ma un gran talento musicale. Tra una storia d'amore e l'altra, scrive di Napoli, della sua vita e di quella di chi gli sta intorno, finchè un giorno viene cooptato sotto il nickname "LIBERATO" in un misterioso progetto che si rivela più grande di quanto si aspettasse.
NDA: La storia intreccia temi maturi, ma con linguaggio stemperato per quanto possibile. Ci sono molti riferimenti a Napoli città e al dialetto napoletano, ma limitati spero il giusto per rendere la lettura scorrevole e piacevole anche ai non-Campani. Buona lettura!
Genere: Romantico, Sentimentale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: Movieverse, Otherverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Il 9 Maggio 2016 il cielo incombeva plumbeo su Nisida, il mare scivolava aggressivamente lungo la costa di Bagnoli e la temperatura non era quella che ti aspetteresti da una mattina di primavera napoletana, ma il mio petto era comunque scaldato dalla vista di Teresa che mi aspettava all'uscita dal penitenziario.

L'ultima volta che ci eravamo visti, un anno prima, l'ultimo ricordo di lei era stato il pugno in faccia che mi diede senza troppa forza, indebolito dai singhiozzi del pianto scatenato dalla sentenza di condanna, ma adesso era fortissimo l'abbraccio in cui mi aveva avvolto.

- Non hai portato neanche un ombrello ja, ci stiamo bagnando i capelli – dissi con mezzo sorriso per smorzare l'imbarazzo e l'emozione.
- C'è tuo padre in macchina qui dietro, per questo non l'ho portato – rispose lei, prendendomi per mano per guidarmi verso la macchina.

Era lunedì, quindi sapevo che mia madre non sarebbe potuta venire a prendermi a causa del lavoro. Non che mio padre non lavorasse, ma è ben diverso quando sei un barone dell'università con decine di assistenti sottopagati che possono fare il lavoro al posto tuo.

Non nascosi il mio fastidio nel salutarlo, sedendomi sui sediliposteriori per lasciare che Teresa si sedesse davanti e mi evitasse di stare fianco a fianco con lui.

Durante la detenzione si era saldata ancora più forte in me la convinzione che mio padre continuava ad appallarmi solo perchè ero il suo unico figlio maschio. Non cercò alcuna comunicazione con me per tutto l'anno in cui ero stato dentro, nonostante furono gli avvocati pagati da lui a seguire il mio caso, e ci avevo quasi creduto di essermelo finalmente tolto dalle palle dopo aver scoperto di avere un figlio degenere non adatto al rango della sua famiglia.

- Com'è andata, Filippo? Ti sei fatto crescere la barba? – esordì, accendendo il motore del SUV. Quest'ultima frase la avvertii più come una critica che una domanda.

Non risposi. Teresa rise senza troppa convinzione.

- Gli da un aria più matura – affermò, forse mentendo.

Lasciai morire lì la conversazione per tutto il tempo che impiegammo ad uscire dall'imbottigliamento del tunnel di Fuorigrotta, perdendo lo sguardo oltre la Stazione Marittima ed il cantiere infinito attorno al Maschio Angioino, immaginando l'effetto che mi avrebbe fatto scatafasciarmi sul letto mezzo scassato della mia stanza senza laporta, ma che almeno era il mio.

Arrivati all'angolo con le scale di Rua Catalana mi catapultai fuori dell'auto chiudendomi la portiera alle spalle senza aspettare che papà finissedi invitarmi a prendere non so cosa non so dove per il mio compleanno, e mi persi un attimo a guardare le lanterne di rame che pendevano dai palazzi della mia via, ma per la prima volta senzasentirle del tutto "casa".

I miei compagni di stanza nell'ultimo anno erano stati uno di via Foria e due ragazzetti neri che avrei giurato essere molto più piccoli dime, e con i quali ero riuscito a praticare il mio abbozzatissimo francese e quel poco di inglese che avevo imparato bene alle medie. In qualche modo mi era sembrato di aver vissuto in un microcosmo, crocevia di tante cose che non conoscevo e che alla fine avevo fatto mie, tanto da non credere di appartenere al quartiere Porto più di quanto non appartenessi al golfo di Melilla da dove erano venuti quei due.

Teresa interruppe il mio flusso di pensieri prendendomi per mano espingendomi verso le scale.

- Uè uè, siamo diventati lenti dopo tutti questi mesi di ritmi controllati, eh? - affermò quasi urlando, sventolando l'altra mano ad un centimetro dal mio naso.
- E scusa Tere', dammi il tempo di capire dove sto – risposi, forse troppo seriamente.

Quando entrammo in casa ebbi la sensazione di essere fuori posto. Non riuscivo a riconoscere la maggior parte dei mobili, della disposizione dell'arredamento, persino il frigorifero mi sembrava troppo pieno per gli standard che ricordavo. La mamma aveva lasciato sul tavolo un vassoietto piccolo di paste con un biglietto in cui si leggeva solo "Bentornato" a penna blu, ma che potevo avvertire anche solo guardandolo da lontano quante lacrime calde aveva assorbito mentre veniva scritto.
Dato lo smarrimento iniziale decisi di non andare a vedere camera mia, ma già avevo notato che il telo che copriva l'arco d'ingresso era stato sostituito da una piccola porta non del tutto a misura.
Teresa iniziò a scartare le paste per accaparrarsi l'unico babà della composizione, mentre io lasciai cadere la mia roba in un angolo della cucina e d'istinto afferrai la carmencita sui fornelli per fare il caffè.

Nel silenzio dell'appartamento iniziai finalmente ad avvertire la vibrazione del cellulare per il bombardamento continuo di messaggi che stavo ricevendo da tutta la mattina. In un istante di speranza, un pensiero che non avrei voluto avere mi attraversò da tempia atempia, mentre prendevo il cellulare e guardavo il caos di notifiche sul salvaschermo.

- Erica è ancora in Erasmus, sai, ha esteso di altri 6 mesi – dichiarò Teresa, che notoriamente mi legge nel cervello qualsiasi cosa io faccia, prima ancora di pensarla di mia sponte. E' per questo che non posso nasconderle niente.
Non le feci notare che, come al solito, chiamava Erasmus il programma che in realtà si chiama Intercultura. Ma comunque non risposi affatto, nel vano tentativo di riconnettere le idee e i soliti vaneggiamenti subconsci.
Erica aveva esteso il periodo di studio all'estero perchè sapeva che tanto io stavo dentro? O lo aveva fatto perchè aveva conosciuto qualcun altro a Madrid? Mi accorsi che il dolore al petto tornava bello potente anche a distanza di un anno, quando pensavo a lei. L'ulteriore paura di ritrovare sue o nostre vecchie foto mi tenne ancora più lontano da camera mia.
Ma, qualeche fosse la ragione, le tempistiche davano comunque il suo ritorno prima dell'estate, stando quindi a significare che avrei avuto comunque troppo poco tempo per riabituarmi al mondo di fuori senza il rischio di incontrarla da qualche parte.

- Tu invece niente scuola oggi? - sdrammatizzai sorridendo, sapendo benissimo che stavo parlando con la secchiona del Genovesi.
- Mi sono fatta interrogare apposta ieri, non rompere! - mi confermò lei stessa ciò che già avevo sospettato, conoscendola.

Le porsi la tazzina di caffè fumante e spostai lo zucchero sulla tavola.
- Ho sentito che hai potuto continuare a suonare – disse, quasi come una domanda.
Avevo di proposito tagliato completamente tutti i contatti col mondo esterno, anche quelli permessi. Però tornare a parlare così con Teresa dopo un anno intero non sembrava strano, anzi, avevo la sensazione di averlo fatto anche ieri e il giorno prima senza pausa alcuna.
D'istinto azzardai un pensiero che non avrei mai detto ad alta voce a nessun altro se non a Teresa - Mi sono sentito meno prigioniero quest'anno a Nisida che l'anno scorso con Erica – dissi.

Lei abbassò gli occhi per un attimo, poi si lasciò sfuggire uno sbuffo tra lo sconforto e lo scocciato.
- Lillo io te lo dico, spero che Nisida ti abbia portato fortuna. L'ho visto nei tuoi occhi mentre attraversavamo la strada che sei cambiato veramente. - rispose così alla mia non-domanda.
- Tua mamma mi ha detto che hai imparato a suonare strumenti nuovi, che hai continuato a scrivere pezzi e hai studiato tanto per non perdere l'anno. Queste sono cose che fino ad un anno fa non avresti fatto perchè eri troppo distratto e frustrato dalla situazione con quella. Ti ricordo che sei finito a Nisida anche per pezzo suo! - concluse.
Questa era una cosa che io non avrei mai detto e che continuo a pensare non sia vera. E' vero che la possibilità allettante di spacciare ai quartieri alti la ebbi grazie alle connessioni di lei, ma questa cosa era nella mia vita da prima di incontrarla e lei non era neanche d'accordo che lo facessi.
- Terè non ricominciare... – temevo di tornare ad impelagarci di nuovo nelle sue sfuriate su Erica, ebbi un dejavù.
- No Lillo, mo ormai dovresti proprio averci messo non dico una pietra, ma un macigno sopra 'sta storia! Noi non li abbiamo mai frequentati quei posti prima, e così dovremmo tornare a fare ora. Te l'avevo detto fin dall'inizio che per certa gente siamo passatempi, non persone – mise particolare enfasi sull'ultima frase perchè i discorsi di classe ci avevano sempre uniti.
- Ti ha buttato come uno straccio appena le cose hanno iniziato a mettersi male. Non basta mandarsi i cuoricini su Whatsapp nel cuore della notte per amare veramente una persona, e tu lo sai! L'anno scorso dopo la festa di capodanno a Corso Vittorio mi hai pure detto che ti eri sentito come se stessi diventando tuo padre, e questa cosa ti aveva fatto stare male -.

Come sempre, Teresa sapeva concentrarsi sui dettagli giusti. La sua ultim afrase mi aveva riportato di strapiombo alla terrazza di quel palazzo a Vittorio Emanuele, erano le 2:30 ed il golfo visto da lì sembrava un buco nero circondato da stelle che poi erano i lampioni di Via Caracciolo, Erica era sdraiata nella reclinabile di fianco a me e mi accarezzava lo sterno vicino al ciondolo della collana. Con la coda dell'occhio vedevo il resto della gente che dormiva sui divani del salotto, circondati da alti scaffali pieni di libri che ero sicuro stavano lì per fare scena, perchè in casa di un professore ci vogliono tanti libri, anche se quando ero piccolo sognavo di riuscire a leggerli tutti.
Ma ci sono troppi libri nel mondo e questo pensiero mi atterriva perchè non basta la durata di una vita umana per poter leggere tutto e quando esposi questo pensiero ad Erica lei rise civettuolamente e rispose che quando sarei stato professore anche io come mio padre,allora avrei potuto leggere almeno tutti quei libri che mi servivano per insegnare. Rimasi di pietra al pensiero che lei mi vedesse inquel modo. Quello nella sua testa non era il Filippo di Rua Catalana a cui stava accarezzando lo sterno, era un personaggio fittizio preconfezionato della favola che i suoi genitori avevano impresso a fuoco nella sua immaginazione fin da piccola, una bambina predestinata al benessere di Via Manzoni da sempre e per sempre. Poco importa se stava frequentando uno straccione del quartiere Porto tanto poi, essendo almeno il bastardo di un barone, sarebbe potuto diventare un esimio professore come il padre ed assicurare alla prole lo stile di vita borghese adatto al rango della madre.

Lei disse offesa che questo era un film che mi ero fatto io in testa, che "come fai a pensare certe cose alla nostra età", che la buttavo sempre sui soldi, stare con me diventava sempre uno stress.

Intanto lei sapeva quanto mio padre mi facesse schifo, che all'università non ci volevo andare, e che comunque guarda che non so se te ne sei accorta ma il ragazzo che stai frequentando è uno di giù Napoli che spaccia e stava rischiando la bocciatura al liceo artistico.

Teresa mi riportò al presente con il rumore della tazzina di caffè vuota che si era accappottata sul tavolo.
- Comunque io sto piena di compiti da fare oggi pomeriggio, quindi ci sentiamo più tardi. Fammi sapere se scendi stasera – tagliò corto ed uscì in fretta da casa, lasciandomi a sprofondare da solo nel pensiero tetro di rientrare in camera mia e trovarla stravolta come avevo trovato il resto della casa, o magari anche peggio, trovarla identica a come l'avevo lasciata, piena di foto con Erica appese al muro.

Mi voltai a guardare quell'abbozzo di porta che mia madre aveva pensato fosse una buona idea installare senza consultarmi. Anzi, in passato mi aveva chiesto se "adesso che sei un uomo" volessi una porta vera al posto del telo che aveva sempre separato l'unica camera da letto della casa dal resto degli ambienti di salotto e cucina. Essendoci cresciuto tutta la vita con quel telo come unico riparo dal resto della casa, non lo avevo mai considerato un problema, tanto comunque non avrei mai portato una ragazza in casa mia neanche sotto tortura a prescindere da quello.

Mi ci vollero due sigarette fumate frettolosamente sul balconcino alla francese del soggiorno prima di trovare il coraggio finalmente dimenarmi in camera mia e capire in che stato fosse.

Sarà che mi ero iniziato a fare troppe aspettative, o che lo strano attaccamento alla mia stanza era esponenzialmente cresciuto dopo aver passato un anno chiuso nello stesso cubicolo con altri tre sconosciuti, ma quando entrai in camera tirai un sospiro di sollievo.L 'unica cosa che era cambiata, a parte la porta, era un bel letto nuovo fiammante ad una piazza e mezza, ma tutto il resto era esattamente come lo avevo lasciato seppur fortunatamente senza le foto di Erica in giro.

Sul letto troneggiava un altro biglietto che riportava "Il letto è un regalo di tuo padre", con la stessa penna blu ma stavolta con molta meno commozione del primo biglietto di benvenuto. A quel punto pensai chelo stronzo non aveva scelto un letto più grande a caso, ma perchè a lui Erica forse piaceva persino più che a me.

Posai finalmente le borse in camera, guardai brevemente fuori dalla finestra e poi mi lasciai cadere sulla sedia della scrivania.

Che fare adesso? Probabilmente molti si aspettavano che rispondessi a tutte le chat di gruppo in cui mi stavano ammorbando già dalla mattina per chiamarmi una festa di ritorno in pompa magna. Ma non ne avevo neanche lontanamente voglia. Feci per dare di nuovo un'occhiata alle notifiche sul cellulare ma in realtà i miei occhi stavano vagando nel vuoto. Pensai di darmi per disperso e non rispondere a nessuno per almeno un giorno o due, tanto era infrasettimanale e magari c'avevano tutti qualcos'altro a cui pensare. Invece no.

Squilla il cellulare mentre c'ho ancora i pensieri depressivi e isolazionisti nella testa. Ma è Carmine e non posso non rispondergli. Esordisco con un "" senz'anima e taccio subito in attesa di sue.

- Fratm' ma tu seriamente sei uscito stamattina e manco mi hai detto niente? - urlò l'amico mio all'altro capo della cornetta, non ero sicuro se fosse incazzato o goliardico.

Nel dubbio risposi con molta calma – Chè scherzi, certo che c'ho pensato ma non ho avuto un attimo di tempo fino a mo, che mi è venuto a prendere mio padre fuori a Nisida – mio padre fungeva sempre da carta "scazzo jolly" per cui i miei amici sapevano di dover glissare sulle altre stronzate quando lo nominavo. Carmine capì.
- Comunque bello, stasera ci andiamo a fare una cosa tranquilla, sistemata, giusto per aggiornarci che è passata una vita – disse senza ammettere controbattute.
Non provai neanche ad averne, risposi OK e riattaccai. Un secondo dopo mi scrisse in chat che sarebbe venuto a prendermi alle 22.

In quel momento sentii la porta di casa aprirsi e d'istinto corsi verso mia madre che rientrava da lavoro per la pausa pranzo. - Mammà! - esclamai, abbracciandola fortissimo.
Lei, con le lacrime trattenute a stento, mi strinse di rimando barcamenandosi tra me e le buste della spesa. Con voce spezzata dalla commozione mi chiese se avevo già mangiato. Guardai l'orologio, erano le 14.

- No. Hai fatto tardi oggi – risposi, mettendo a posto la roba dalle buste appena portate da mamma.

- Un bambino ha vomitato su tutto il corridoio e ci abbiamo messo ore a far sparire la scia di acido. Dicono avesse bevuto per sbaglio una medicina per donne partorienti o chissà cosa si era chiavato in corpo – rispose lei in un gran sospiro di esasperazione e decenni di stanchezza accumulata a fare le pulizie in giro per tutta Napoli e provincia.

Si fermò finalmente un attimo per riprendere fiato, con la mano poggiata al tavolo per reggersi in piedi, mi guardò con occhi tra il grave e l'ammirato – Sembri più grande Lilluccio, da quand'è che non ti fai la barba – osservò.

A quel punto ne avevo già abbastanza dei commenti sulla mia barba e ancora non avevo neanche incontrato tutti gli altri amici miei. Mi dissi che a Nisida aveva espletato la sua funzione e forse ora era arrivato il momento di toglierla. Risposi che dopo pranzo mi sarei sistemato e lei sembrò sollevata, ma non eccessivamente.

- Non sei contenta che so' cresciuto finalmente? - la sfruculiai con un mezzo sorriso malizioso.
- La barba è cresciuta, mo vediamo se la testa ha tenuto il passo! - scherzò lei, ma dicendo una cosa seria.

Cucinammo insieme la pasta coi pomodorini freschi e volle sentire tutte le storie di me, dei compagni di cella, delle lezioni di musica e tutto il resto, anche quello che aveva già sentito. Ci sono pochissime cose che nascondo a mia madre, perchè tanto comunque la maggior parte riuscirebbe a scoprirle lo stesso. La droga era tra queste e poi guardate com'è finita.

Mi disse che per l'estate aveva chiesto il favore ad un amico di un suo collega che tiene un bar a via Toledo di pigliarmi dietro al bancone a imparare un po' il mestiere. La paga era talmente misera che tanto valeva farlo gratis per la gloria, ma lei stessa dichiarò che non era tanto per i soldi quanto per farmi capire che posso imparare e fare tante cose belle e diverse nella vita. Era un modo carino per dirmi che spacciare non doveva diventare la mia strada, al di là di quanto uno possa guadagnare facendo certi "mestieri".
Risposi che comunque pagare il giusto gli apprendisti non sarebbe certo un peccato del padre eterno e nessuno andrebbe in bancarotta per questo, lei con un sorrisetto amaro aggiunse – E va' a fare la rivoluzione,va'! - poi finì il suo caffè e andò a stendersi sul divano a riposare prima di menarsi di nuovo altre 4 ore in mezzo alla via.

Io andai in bagno a togliermi finalmente questa foresta nera dalla faccia e farmi una meritata doccia senza che passanti a caso mi guardassero il pene. Dopo ero talmente esausto che mi schiantai a letto e solo letelefonate insistenti di Carmine riuscirono a risvegliarmi, quasi 5 ore più tardi. Lui mi urlò all'orecchio di scendere e io ringraziai di essermi lavato prima di morire sul letto perchè non mi sentivo abbastanza lucido neanche per sciacquarmi la faccia.

Mi chiavai addosso il primo jeans che trovai dentro allo zaino e scesi giù al portone dove Carmine sedeva tronfio sopra ad una bella vespa rossa dall'aria non troppo nuova, ma con lo stencil fresco di Maradona sul frontale sotto al manubrio ed il Che che pendeva dallechiavi.

- Bella, somiglia a quella che mi hanno rubato l'anno scorso – esordii, con mite entusiasmo.
- Sali, c'ho già le birre. Andiamo al pontile come ai vecchi tempi? -.
Annuii, pensando che fosse una buona idea dato che in un freddo martedì sera di Maggio era improbabile che ci fosse troppa gente a Bagnoli. Ovviamente non potevo sapere che c'era un evento privato all'Arenile, ma non me ne preoccupai neanche quando arrivammo e ci schiattammo nell'ultimo metro quadro del pontile prima che si aprisse il mare scuro e burbero diritto di fronte a noi. Guardai Nisida da lì, senza particolari sentimenti, solo apprezzandone la bellezza. Il pontile Nord era il rifugio mio e di Carmine fin da piccoli quando venivamo a giocare a casa di sua zia ad Agnano, quante volte avevo gettato lo sguardo oltre Nisida da lì senza sapere che un giorno non troppo lontano ci sarei finito dentro.

Carmine mi tese una Peroni stappata e mi strizzò l'occhio, per farmi capire che aveva inteso quello a cui stavo pensando e non voleva interrompere il mio flusso di coscienza. Ma non ci mettemmo troppo prima di sprofondare nei miei racconti sulla detenzione, sulla scuola, la musica, i suoi patemi su questa o quell'altra ragazza che aveva conosciuto a scuola o al centro sociale.

Mi chiese se volevo tornare a spacciare e se avevo spaccato la faccia aqualcuno anche dentro solo perchè mi aveva urtato la spalla passando, ma risposi di no a entrambe le cose. Non che pensassi diessere diventato meno impulsivo, o violento diciamo, o che avessi bollato lo spaccio come il male di tutti i mondi perchè semmai adesso avevo "messo la testa a posto", niente di tutto questo.
Ma gli spiegai che l'insegnante di musica dentro mi aveva aperto la mente su un sacco di cose che si possono fare e forse finalmente una cosa che mi sarebbe piaciuto studiare c'era. Non l'avevo ancora detto ai miei per la paura che scoppiassero dalla felicità prima di pagarmi le tasse necessarie, ma comunque dovevo prima riuscire a prendermi la maturità.

Lui mi sembrò entusiasta di questa cosa e mi diede un fragoroso brofist che mi lasciò pure un lieve dolore alle nocche per un po'. Carmine non era neanche lontanamente bravo a scuola, ma faceva l'alberghiero e comunque era sempre miracolosamente riuscito a non farsi bocciare. Non c'erano comunque molti altri amici con cui avrei parlato discuola e di studio senza che mi dessero del pesantone per tagliare corto e continuare a parlare di calcio.
Dopo un paio d'ore di chiacchiericcio ininterrotto, iniziammo a puzzarci di freddo per via del vento che si era alzato e tornammo verso il motorino. Un momento che ero chino a guardare lo stencil di Maradonada vicino mentre Carmine andava a buttare la spazzatura, sentii una voce drammaticamente familiare dall'altra parte del parcheggio. Quando mi voltai ebbi un brivido lungo la schiena che mi arrivò acongelare pure la punta dell'alluce del piede.

Erica stava in piedi a pochi metri da me, scavando dentro la borsetta che teneva appesa alla spalla e parlando con qualcuno che era appena entrato in una macchina che non riconoscevo, dal lato conducente, e che le stava aprendo la portiera dall'interno. Per spostarmi dalla visuale, urtai la macchina che mi stava di fianco, che provocò un tonfo sordo. Senza neanche voltarmi mi menai lungo lungo dietro la macchina sperando che non si fossero girati in tempo per intravedermi. Speranza che ritenni vana quando sentii lei dire adalta voce "Aspetta un attimo" e muovere un passo nella mia direzione. Con la coda dell'occhio vidi Carmine che stava tornando indietro dal cassonetto, camminando lentamente per accendersi una sigaretta. Se Erica lo avesse visto mi avrebbe sgamato 100% che ero io quello che si era tuffato dietro alla macchina.

- Erica dobbiamo andare via mo prima che torna il parcheggiatore – sentii dire a quello dentro la macchina.

Era una voce familiare, forse qualcuno degli amici suoi che era venuto alla festa di Capodanno. Lei si guardò un attimo attorno con circospezione e poi salì in macchina senza dire altro. Mi passarono di fianco quando già avevo fatto in tempo a nascondermi dietro almuretto accanto alla macchina.
Carmine tornò lentamente al motorino, porgendomi una sigaretta e un accendino di plastica verde.

- Mi sembra di aver visto passare mo mo Erica in macchina con quello stronzo dell'amico di famiglia che si portò a mare quella volta che andammo alla Gaiola. - affermò, immaginando già che l'avessi vista anche io.
Annuii senza aggiungere altro. Lui probabilmente non sapeva che lei era rimasta a Madrid tutto l'anno che io ero stato dentro, quindi non era così sorpreso di vederla. Ma io un po' sì. E a quel punto mi chiesi di nuovo se era tornata in tempo per me, perchè sapeva in qualche modo quando sarei uscito, oppure se era stato solo un caso. Figurati se sta ancora pensando a me quando c'ha altri chiattilli con cui uscire e farsi le serate private all'Arenile...

Tornando verso il centro chiesi a Carmine di lasciarmi a piazza Vittoria che volevo fare due passi verso casa a piedi. Ci salutammo con un breve abbraccio e gli dissi che mi sarei fatto vivo presto. Lo guardai salire verso il tunnel oltre la villa comunale e mi chiesi se era l'aria ad essersi fatta pesante oppure la mia testa. Avevamo bevuto non più di due Peroni grandi a testa, ma il vento annunciava pioggia ed io mi ritrovai col fiatone senza aver fatto niente.

Mi voltai verso la ringhiera sul mare di Via Caracciolo, mi avvicinai per prendere una boccata di iodio e non so perchè pensai pure che farmi un'altra sigaretta fosse una buona idea.

Invece di avviarmi verso il centro però, feci dietro-front verso gli chalet di Mergellina, forse alla ricerca di un cornetto caldo di mezzanotte. C'erano due gatti in croce per la strada ed ebbi una strana sensazione di libertà, più di quanto non l'avessi avuta quando avevo messo piede fuori da Nisida quella mattina.

Realizzai che la vista di Erica non mi aveva turbato perchè ero ancora innamorato di lei, ma perchè avevo paura che lei lo fosse ancora dime ed in tal caso non sapevo se avrei saputo resistere ai suo itentativi di tornare insieme, per pura arrendevolezza, lussuria o forse persino masochismo.
In realtà più di una volta durante la nostra relazione avevo avuto la sensazione che lei non fosse affatto innamorata di me, ma quello che voleva era un pupazzo di bell'aspetto e dei quartieri poveri da portarsi a spasso per sembrare più figa, se non addirittura una buona samaritana. Di sicuro le piacevo, come a tante altre ragazze che mi trovavano bello o se non altro pulito, visto che non poteva dirsi lo stesso di tanti altri 17enni del mio liceo. Ma quanto è pericoloso imbarcarsi in una storia già persa in partenza, solo perchè ci si piace fisicamente...

E niente, i miei piedi mi avevano portato dritto in trappola ed inconsciamenteforse lo sapevo pure. Era di fronte agli chalet che ci eravamo incontrati la prima volta, ed era lì che adesso lei mi stava aspettando. Che testa di cazzo a pensare che non mi avesse visto! Non solo stava ad un paio di metri da me nel parcheggio, ma avevo fatto anche un bordello esagerato nel tentativo di nascondermi.

Mentre valutavo se fosse il caso di fingere di non vederla era già troppo tardi, perchè lei stava già venendomi incontro. Aveva un vestito leggero rosa che le avvolgeva morbido i suoi fianchi stretti, i capelli mossi e sciolti in balia del forte vento che veniva dal mare,un rossetto di un colore credo rosso così intenso che le faceva sembrare le labbra ancora più grandi del solito. Sorrideva.

- Sono proprio felice di vederti – disse. Sembrava sincera, e del resto era lei che mi era venuta a cercare.

Sibillai un "Ciao" poco convinto, ma non dissi altro perchè speravo che capisse l'antifona e mi lasciasse in pace in tempi brevi.

Non successe.

Le cose precipitarono.

Senza che me ne accorgessi stavamo già seduti sugli scogli, uno accanto all'altra, in uno dei punti più bui in cui riuscivo a malapena avedere il riflesso della luna sul ciondolo blu che portava al collo. Mi aveva chiesto del carcere, mi aveva raccontato di Madrid, delle sue infuocate conquiste e del suo spagnolo fluente, di com'è calda la Spagna, così tanto che Napoli le sembrava di botto fredda e insostenibile. Mentre diceva questo mi accarezzava la mano, un po' quasi con timidezza, anche se sapevo essere fintissima.
Poi passò ad accarezzarmi il mento perchè "un uccellino" le aveva detto che avevo la barba lunga quando sono uscito, che ancora mo non so chi sia stato ma tanto a Napoli nessuno può mai fare un cazzo di niente senza che mezzo mondo lo venga a sapere. Disse che chissà com'ero sexy con quella barba, che la maturità che c'era nei miei occhi ora si stava diffondendo nel resto del corpo, che "un uomo che è stato in carcere ne ha di storie da raccontare", poi prese a baciarmi e leccarmi con disciplinata insistenza.

Non era affatto piacevole, ma senza neanche accorgermene stavamo facendo sesso e io mi facevo schifo più di quanto a quel punto mi facesse schifo lei. Non lo so perchè sono così, credo di avere dei blackout quando una ragazza mi si concede, al punto da fare cose che non voglio per puro riflesso condizionato. Mi succede la stessa cosa quando m'incazzo così tanto da andare in freva con gente del tutto presa a caso, per sfogo indiscriminato.
Fare sesso con il vento e la pioggia addosso, sugli scogli freddi, con una persona che ormai odiavo, era in realtà una punizione che avevo sotto sotto deciso di infliggere a me stesso quando me ne era stata offerta la possibilità. Come al solito, riuscivo ad essere il peggior nemico di me stesso.

Quando lei fu soddisfatta, si riagganciò il reggiseno e tirò fuori il cellulare per controllare che il rossetto fosse ancora a posto. Poi chiese di farci un ultimo selfie di addio, perchè l'antifona l'aveva capita già da prima ma a quanto pare c'era ancora qualcosa in sospeso che voleva da me e che a finalmente adesso aveva avuto. Probabilmente coronare il sogno di scoparsi un carcerato e sentirsi una cattiva ragazza molto, molto cool.

- Non voglio mai più vederti Erica, sparisci dalla mia vita una volta per tutte – e quella fu veramente, dannatamente, agognatamente la fine.

   
 
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