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Autore: edoardo811    30/07/2022    1 recensioni
La Foschia è svanita. I confini del campo sono scomparsi e ora tutto il mondo può vedere i mostri per quello che sono realmente.
DANIEL non è mai stato un ragazzo socievole, per un motivo o per un altro, si è sempre trovato meglio da solo, lontano da tutti, perfino dal Campo Giove. Nemmeno i mostri hanno mai provato ad ucciderlo, come se non fosse mai esistito realmente.
CAMILLE è un pericolo, per sé stessa e per gli altri, una figlia di Trivia abbandonata in fasce, indesiderata, costretta a convivere con un lato di sé che non vuole fronteggiare, per paura di quello che potrebbe scatenare.
KIANA è una figlia di Venere, orgogliosa e testarda, che dovrà fare i conti con le conseguenze delle sue azioni.
Tra auguri scansafatiche, eroici pretori e conflitti interiori nel Campo Giove, tre ragazzi diversi tra loro, tre nullità della Quinta Coorte, si ritroveranno con un obiettivo comune: imbarcarsi in un viaggio tra mostri, traditori, nuovi e vecchi nemici per impedire che il mondo sprofondi nel caos.
Genere: Avventura, Fantasy, Hurt/Comfort | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Dei Minori, Ecate, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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XXIII

Il Vacuo



I fulmini precipitarono su di lui. Daniel cominciò a correre, alternandosi tra i salti nell’ombra, mentre il vento ululava su di lui e la terra esplodeva in mille pezzi sotto il peso degli attacchi di Ashley.

«Questa storia finisce ora!» urlò proprio lei, alzandosi in volo.

Lo inseguì sfruttando le correnti d’aria, i capelli che svolazzavano, il corpo circondato da un’aura di elettricità e gli occhi che lampeggiavano di blu. 

«Io salverò Roma!»

Daniel si voltò e sollevò le mani. «Tu non salverai nemmeno te stessa.»

Due proiettili di luce nera sfrecciarono nell’aria. Ashley li scansò per un soffio, per poi gridare ancora. Un altro fulmine precipitò su Daniel, questa volta partendo proprio dal corpo della figlia di Giove. Il ragazzo creò una barriera d’oscurità, contro la quale s’infranse senza arrecare nessun danno.

Ancora una volta, non ebbe idea di come ci riuscì. Il suo corpo, i suoi poteri, gli davano quello di cui aveva bisogno ogni volta che era necessario. Se voleva colpire un bersaglio lontano, partivano i dardi; se voleva combattere da vicino, creava le lame con le braccia; se voleva difendersi, creava una barriera, oppure l’oscurità formava un’armatura su di lui. 

E ogni volta, si sentiva invincibile. I mostri erano poco più che insetti per lui, Lamia era stata una passeggiata nel parco, nemmeno Elias era riuscito a sfiorarlo: Ashley non aveva alcuna speranza.

La figlia di Giove si tuffò in picchiata su di lui, la punta della lancia che mirava alla sua gola. Daniel sollevò il braccio. L’impatto fu così forte che sentì i piedi sprofondare nella terra, ma almeno aveva parato quell’assalto. Ashley rimase sopra di lui, a fare pressione con la mascella serrata, e Daniel riuscì a sogghignare.

«Tutto qui?»

Trasformò anche il secondo braccio in una lama e tentò di colpirla al fianco, ma Ashley si ritrasse in tempo. Atterrò a qualche metro di distanza da lui, ma Daniel non le concesse il lusso di riposarsi: si fiondò su di lei e cominciò a tempestarla di attacchi, obbligandola a indietreggiare.

La lancia e le spade di oscurità si scontrarono tra loro per decine, centinaia di volte, sotto al cielo che crepitava e con il vento che ruggiva.

Daniel era convinto che tutta la forza di Ashley risiedesse nei suoi poteri, invece stava combattendo molto bene anche con la lancia. Forse non era sopravvalutata come credeva. Tuttavia, non poteva nulla contro di lui. Non era uno spadaccino, non aveva mai imparato a combattere, ma sentiva sempre di sapere cosa fare e quando farlo, in qualsiasi momento, come se fosse nato per quello.

Come se il suo unico scopo fosse stato quello di combattere contro di lei, un giorno.

Schivò un affondo di Ashley e rispose con un colpo mirato al suo fianco, che però lei deviò con l’asta della lancia. Roteò su sé stessa e dimenò la lancia, ma Daniel la bloccò un attimo prima che potesse squarciargli il petto. Vi fu un attimo di stallo, in cui le lame rimasero premute tra loro e gli occhi dei due avversari rimasero incastonati gli uni sugli altri.

«E tu saresti questa grande eroina?» domandò Daniel, accorgendosi delle braccia tremanti di Ashley nel tentativo di vincere quella prova di forza con lui. 

La ragazza digrignò i denti. «E tu saresti umano?»

«Ma che razza di domanda…»

Ashley urlò di nuovo. Un fulmine piombò dal cielo proprio su di loro. Attraversò la ragazza senza farle nemmeno un graffio e si scaricò su Daniel, che invece fu scaraventato via. Passarono diversi secondi prima che toccasse di nuovo terra. Rotolò incontrollabile, ferendosi sul terreno dissestato. 

Riuscì a rimettersi in ginocchio, stordito, appena in tempo per sentire un altro crepito. Il vento si alzò, spingendolo a terra e impedendogli di rimettersi in piedi. Un altro fulmine piombò su di lui. Sollevò un’altra barriera d’oscurità, ma questa volta l’impatto con il fulmine fu molto più violento, tanto che sentì il respiro mozzarsi. 

Rimase bloccato sulle ginocchia, con quello che gli sembrava il peso del cielo sopra le spalle. Digrignò i denti, mentre le scintille azzurre del fulmine si sprigionavano lungo l’arco oscuro che aveva creato sulla sua testa. Per tutto il tempo continuò a sentire il grido di Ashley. Non sarebbe riuscita a controllare quel fulmine ancora per molto. Doveva resistere ancora un po’, anche se si sentiva l’intero corpo in fiamme. Digrignò i denti fino a sentire male alla bocca. Gli sembrò di sprofondare centimetro dopo centimetro nella terra, ma non demorse. Non poteva fallire. 

Il peso diminuì all’improvviso. Il fulmine si dissolse, lasciandolo finalmente libero. Dissolse la barriera e cadde carponi, il fiato pesante e la fronte madida di sudore. 

«E pensare che per un attimo mi avevi perfino intimorita.» 

Daniel alzò la testa e vide Ashley marciare verso di lui, la lancia stretta nel pugno e un sorrisetto beffardo stampato in faccia. 

«Che ingenua. Ho rispedito nel Tartaro mostri molto più pericolosi di te quando ero ancora una bambina. Tu non sei nulla, Vacuo.» Sollevò la lancia. «E adesso, torna da dove sei venuto.»

Affondò la lama per finirlo, ma Daniel non aveva alcuna intenzione di accontentarla. Sollevò una mano e afferrò la lancia a mezz’aria, fermandola un istante prima che potesse affondargli nella gola. Con il braccio che tremava per lo sforzo si rimise in piedi, mentre il sorriso di scherno di Ashley andava pian piano affievolendosi. 

«Io… non mi farò fermare da te.» Cominciò a camminare verso di lei, costringendola a indietreggiare. 

Quelle immagini tornarono a tormentare la sua mente. I corpi neri che lo attaccavano, la terra che ribolliva, la donna che lo chiamava suo servitore. 

«Io… sono stato scelto. Sono… l’ultimo rimasto. Io sono… oscurità

Gridò con quanto fiato avesse in corpo e tranciò a metà la lancia di Ashley con il braccio libero. Vi fu un’esplosione assordante, seguita dalle urla di entrambi. Daniel sentì la terra staccarsi dai piedi per poi tornare poco dopo, mentre cadeva rovinosamente per la seconda volta. 

Rimase con il viso puntato verso il cielo, le orecchie che fischiavano e ancora quella puzza di plastica bruciata che avvolgeva l’aria. Tossì e si girò su un fianco. Poco distante, udì i gemiti della sua avversaria. Quel suono infuse in lui la scarica di adrenalina di cui aveva bisogno. 

Le gambe gli tremarono per lo sforzo, ma riuscì a reggersi in piedi. Vide Ashley a terra, con un taglio sulle labbra e tra le mani soltanto più la parte inferiore della lancia. Anche lei si stava rimettendo in ginocchio. Lo scrutò con quanto odio avesse in corpo. «Non avresti dovuto farlo…»

Gettò via ciò che restava della sua arma e sguainò la spatha che teneva al fianco. «Me la pagherai.»

A Daniel scappò un altro sorrisetto. Nonostante lo scontro pressappoco alla pari, non sembrava per nulla spaventata. Doveva ammetterlo, ammirava la sua tenacia. Tuttavia c’era una linea molto sottile tra coraggio e stupidità e lei si stava pericolosamente avvicinando sempre di più alla seconda categoria. 

«Fatti avanti, figlia di Giove.» 

Ashley non si fece pregare. Si fece sospingere dal vento e sfrecciò verso di lui come una freccia. Se Daniel non si fosse abbassato in tempo, l’avrebbe decapitato in un sol colpo. 

Indietreggiò mentre Ashley urlava furibonda e dimenava la spada d’Oro Imperiale, che scintillava nonostante il cielo nuvoloso. Le loro lame rintoccarono ancora e ancora, anche se questa volta gli attacchi di Ashley erano molto meno precisi e molto più irruenti, dettati dalla rabbia. A differenza sua, Daniel si sentiva incredibilmente calmo. Deviò un fendente e sferrò un affondo. Ashley scartò di lato per evitarlo, ma la lama d’oscurità le aprì uno squarcio sul fianco. Grugnì di dolore e quel verso fu come un segnale, per Daniel.

Cominciò lui a incalzarla, obbligandola a rimanere sulla difensiva. All’inizio lei riuscì a resistere ai suoi attacchi, ma stava rallentando, stava esitando, e i primi barlumi di incertezza stavano cominciando ad apparire nei suoi occhi. 

Forse, in un angolo della sua mente, il pensiero che qualcosa che non avrebbe mai creduto potesse accadere, il pensiero di perdere, aveva cominciato a germogliare.

Forse, aveva paura.

Ancora una volta la spatha balenò di fronte al suo volto. Bloccò il polso di Ashley a mezz’aria e le sferrò un calcio allo stomaco. La figlia di Giove barcollò all’indietro con il respiro mozzato, ma Daniel non aveva ancora finito. Ormai era come uno squalo che aveva fiutato il sangue della preda. Nulla l’avrebbe fermato.

Ashley si difese al limite delle sue capacità, ma più lo scontro proseguiva e più Daniel si sentiva forte. Più la figlia di Giove si mostrava vulnerabile, più lui si sentiva motivato. Diverse ferite apparirono sul corpo di Ashley, sul viso, sul fianco, sotto i vestiti strappati. La vista del suo sangue non fece altro che animarlo ancora di più.

«E adesso? Ti intimidisco?» le domandò, mentre lei indietreggiava quasi annaspando in cerca d’aria.

La ragazza serrò la mascella. I suoi denti erano macchiati di rosso, per via del sangue che le colava dal labbro. «Non mi farò sconfiggere da te!»

Urlò di nuovo a perdifiato. La terra tremò da quanto forte il vento cominciò a soffiare. Terra e sassolini cominciarono a sfrecciare su Daniel, che fu costretto a proteggersi il volto e soprattutto gli occhi, per non farsi accecare. Indietreggiò, ma mantenne l’equilibrio nonostante le forti folate d’aria. Ashley approfittò dello spazio ottenuto e si staccò da terra con un balzo. Fluttuò sopra di lui, mentre tutto attorno a loro il vento si addensava in un gigantesco tornado. Adesso erano nell’occhio del ciclone e in mezzo ad esso gli occhi azzurri e spettrali di Ashley brillarono come i lampi che domava. 

«Ti distruggerò, Vacuo!»

Un altro fulmine piombò all’interno del tornado, e questo sembrava molto più grosso e potente di tutti gli altri. Daniel creò un’altra barriera e l’impatto tra le due forze fu così assordante che non si sarebbe stupito se l’avessero sentito fino a Furnace Creek. L’energia che si sprigionò probabilmente fu sufficiente ad alimentare da sola una città intera. 

Daniel avvertì l’oscurità scorrergli nelle vene come il sangue. Le braccia gli tremarono, non per lo sforzo di sostenere quel fulmine, ma per la fatica nel contenere tutto quel potere dentro di sé. Schiuse la bocca in un sorriso sadico. Non avrebbe perso, mai. Lui era lì per quello. Era lì per uccidere. 

Urlò a perdifiato, sovrastando perfino il grido di Ashley, e le tenebre salirono verso il cielo, respingendo il fulmine con loro. Non riuscì a vedere la reazione della figlia di Giove, ma l’esplosione che si susseguì gli fece capire che aveva centrato il bersaglio. 

Ashley gridò, ancora, ma questa volta fu un verso di dolore così straziante da far accapponare la pelle. Non quella di Daniel, però. 

Il tornado svanì nel nulla, il mondo smise di tremare e sabbia e sassolini tornarono a riadagiarsi a terra, mentre l’autoproclamato Pontifex Maximus precipitava dal cielo. La vide agitare le mani, forse nel tentativo di chiamare a sé altre correnti d’aria, ma anziché mantenere il volo riuscì a malapena ad attutire la propria caduta. Si schiantò a terra ed emise un ultimo urlo, per poi rimanere lì, a contorcersi e a gemere, l’armatura, i capelli e il viso sporchi di sangue. 

Il respiro di Daniel si calmò poco per volta, mentre ammirava la scena. Rilassò le spalle e distese il suo sorriso. Era finita. Aveva vinto lui. Ora, mancava soltanto il colpo di grazia.

Si avvicinò alla ragazza con tutta la calma che poteva permettersi. La vide girarsi su un fianco e provare a strisciare, ma riuscì appena a muoversi di qualche centimetro prima di stramazzare del tutto. 

«Che scena patetica. Sarebbe questa la potente figlia di Giove?» gracchiò. «Dimmi, sei ancora convinta di poter…»

Smise di camminare. Tutto a un tratto, gli sembrò di avvertire la presenza di qualcuno: un’aura di potere così forte da spazzarlo via con un solo soffio. Si voltò di scatto e sentì il respiro mozzarsi.

Fatum era apparso dal nulla dietro di lui. Il suo aspetto era lo stesso del loro primo incontro, l’armatura, le spade, il mantello e l’elmo di Ferro dello Stige. 

«T-Tu?!» domandò Daniel. «Che ci fai qui?!» 

«Il mio dovere.»

Il dio cominciò a camminare verso di lui. Daniel sussultò e sollevò una mano di riflesso, anche se sapeva di non poterlo battere davvero. «Avevi detto che mi avresti lasciato andare! Adesso vuoi rimangiarti così le tue parole?!»

«Non sono qui per te, Daniel.» 

Fatum si fermò. Accennò con il mento in un punto oltre le spalle di Daniel e il ragazzo sussultò. Gli fu subito chiaro cosa intendesse dire. 

«N-Non… non può finire così…» sussurrò Ashley proprio in quel momento. 

Daniel si voltò e la vide mentre tentava di nuovo di strisciare, alternandosi tra gemiti di dolore e pianto, la stessa scena che poco prima aveva trovato così tanto soddisfacente e che adesso, tutto a un tratto, gli trasmetteva la sensazione opposta. Rimase così preso da lei che a malapena si accorse di Fatum che gli passava accanto. Torreggiò sopra di Ashley, ma lei non sembrò nemmeno accorgersi di lui. Continuò a strisciare e a mormorare: «I-Io… io non morirò qui…»

«Non si può fuggire dal proprio destino» disse Fatum, senza nemmeno alzare la testa dalla ragazza morente. Sembrava che parlasse con lei, ma Daniel ebbe l’impressione che si stesse riferendo anche a lui. 

Gli sembrò di avere della sabbia nella bocca. «Che… che cosa vuoi farle?» 

«Nulla che tu non abbia già fatto. Il mio compito è solo quello di accompagnarla nel suo ultimo viaggio.»

Non appena udì quelle parole, un brivido percorse la schiena di Daniel. Gli tornarono in mente le parole che proprio Fatum gli aveva rivolto. Avrebbe fatto del male. Avrebbe ucciso. L’oscurità lo avrebbe consumato. 

Daniel sollevò di nuovo le mani. Le tenebre scivolarono lungo le sue dita. Ripensò al modo in cui Camille, Kiana e Penelope l’avevano guardato. Ripensò anche a come si era comportato con loro, quando aveva attaccato le ninfe, e quando aveva combattuto contro Elias. 

La sua attenzione scese più in basso, verso il suo petto, dove Ashley l’aveva colpito con il primo fulmine. A quel punto spalancò gli occhi. Un lungo sfregio gocciolante partiva da appena sotto al collo fino ad arrivare in mezzo ai pettorali. Però non era un taglio. Sembrava… una crepa. La pelle pallida tutt’attorno alla ferita era diventata ancora più bianca, anziché annerirsi per le bruciature, e il liquido che stava uscendo da lì… non era sangue. Era nero come la pece, come l’oscurità che lui controllava.

Con la mano che tremava come una foglia cercò di sfiorare la ferita. Non sentì alcun dolore quando la toccò. L’oscurità gli bagnò la punta delle dita. «Ma… ma cosa…?»

L’oscurità… era… dentro di lui? Letteralmente?

Fu come se la sua mente si fosse snebbiata all’improvviso. Osservò di nuovo Ashley, in quelle condizioni, e non provò più nessuna soddisfazione, nessun perverso orgoglio, ma solo una profonda inquietudine. Lui aveva fatto quello. L’aveva quasi uccisa, proprio come aveva fatto con Elias.

“Ma perché?”

Indietreggiò senza nemmeno rendersene conto, disgustato da quello che stava guardando, disgustato da quello che aveva fatto. Quello non era lui. Non poteva essere. Ma allora… chi era lui?

Che diamine stava succedendo?!

Si rivolse di nuovo a Fatum: «Tu… tu mi conosci, vero? Tu… tu sai chi sono? Che… cosa sono?»

Il dio spostò finalmente la sua attenzione da Ashley. L’aria sembrò raffreddarsi di venti gradi quando incrociò il suo sguardo. Daniel pensò che lo stesse scrutando dentro l’anima, ammesso che ne avesse mai avuta una e che non ci fosse oscurità perfino lì. Il dio annuì con singolo, lento movimento della testa.  

«Devi… devi dirmi tutto quello che sai» stabilì Daniel, calmo. 

«La verità ha un duro prezzo. Sei sicuro di volerla scoprire?»

«Non so chi sono, non so da dove vengo, ho trattato malissimo le uniche persone che mi hanno sopportato per tutto questo tempo, e ho una maledetta voce nella testa che continua a dirmi di uccidere chiunque capiti a tiro!» replicò Daniel. «Può essere la verità peggiore di tutto questo?!»

«Migliore o peggiore, non è di questo che si sta parlando.» Fatum si diresse verso di lui con passo lento. «Se vuoi la verità, dovrai accettare le conseguenze che essa comporta.»

Daniel strinse i pugni. Era stanco di tutti quei giri di parole. «Voglio la verità. Non m’importa delle conseguenze.»

Fatum rimase impassibile. Adesso era proprio di fronte a lui, e Daniel non ricordava che fosse così alto. Il dio emise un mugugno pensieroso: «Mh. Sai, Daniel. Credo che ucciderti sarebbe stato molto più semplice.»

L’oscurità salì da terra e li avvolse entrambi. Daniel gridò per la sorpresa e tentò di controllarla, per spingerla via, ma quella non rispose ai suoi comandi. Venne travolto e scaraventato a terra. Sentì il respiro mozzarsi. L’ultima cosa che vide, prima di esserne completamente avvolto, fu l’elmo nero di Fatum che lo scrutava imperterrito dall’alto. 

 

***

 

Si svegliò con la sensazione di star precipitando nel vuoto. Si tirò a sedere con un grido, ma realizzò subito che era tutto a posto. Non stava precipitando, anzi era seduto su una superficie scoscesa. Saggiò il proprio volto e il proprio corpo con le mani e non trovò nulla di fuori posto. Perfino lo squarcio sul petto era rimasto tale e quale. 

Però poi si rese conto che invece qualcosa era cambiato: tutto il resto. 

Non era più nella Death Valley. E non era più giorno. Il paesaggio desolante che lo circondava era molto simile a quello desertico della Valle, ma questa volta era fatto di montagne nere e granitiche, mentre il cielo era di un’inquietante color arancione. Di tanto in tanto era scosso da lampi rossi come il sangue.

Daniel si rimise in piedi, smuovendo il terreno pietroso su cui era seduto. Abbassò gli occhi. Nemmeno quelle pietre sembravano appartenere al mondo che conosceva. Avevano lo stesso colore delle montagne, un nero opaco, ed erano tutte acuminate e spigolose, come… cocci. Ne prese una e la esaminò sbalordito. Si rese conto che tutto quanto era formato da quelle strane pietre, forse perfino le montagne in realtà erano soltanto dei giganteschi cumuli di quegli affari.

«Che… che posto è questo?» sussurrò.

«Siamo nel Tartaro.»

Per poco a Daniel non scappò un altro urlo. Si voltò, trovandosi di nuovo di fronte a Fatum. Volle dirgli di smetterla di apparire dal nulla in quel modo, ma poi il suo cervello processò le parole che aveva appena sentito. 

«Il… Tartaro?!»

Fatum gli passò accanto e cominciò a camminare sul terreno dissestato. Ad ogni suo passo seguiva lo scroscio delle pietre. «Volevi la verità, Daniel. Questa è la verità.»

«Io… non capisco…»

«Questo luogo…» Fatum si voltò verso di lui. «… davvero non ti dice nulla?»

Daniel esitò. Perché doveva essere lui a rispondere alle domande? 

Un altro rumore di ciottoli distolse la sua attenzione. Poco distante da loro, qualcosa si stava sollevando da sotto le pietre. Una figura nera antropomorfa, gobba, senza dita delle mani e dei piedi, senza tratti fisici, senza nulla, soltanto due occhi bianchi come il latte, si issò da sotto terra e lo scrutò intensamente. Il ragazzo indietreggiò, sbalordito.

Era… uguale a quella delle sue visioni. 

Vi furono altri rumori di pietre. Poco per volta, figura dopo figura, da sotto il suolo se ne ersero almeno altre dieci, tutte pressappoco identiche. Antropomorfe, alcune gobbe, altre no, alcune alte, altre più basse, e tutte quante sembravano fatte di… 

«Oscurità…» sussurrò Daniel, per poi abbassare lo sguardo, sulla sua ferita ancora gocciolante. 

Quelle… quelle creature… lui…

Vi fu un sibilo. Tutte le creature erano scattate all’unisono verso di lui, così veloci che non riuscì nemmeno a reagire. Una lo colpì in pieno volto, scaraventandolo a terra. Riuscì a rimettersi carponi, prima che qualcosa si abbattesse sul suo fianco. Gridò di dolore, mentre nella periferia del suo campo visivo vedeva gli stessi proiettili di luce che aveva sempre usato per combattere dirigersi proprio su di lui.

Ordinò all’oscurità di proteggerlo. La barriera si sollevò appena in tempo per parare altri attacchi, ma non appena i proiettili si abbatterono su di essa per poco non perse la concentrazione per lo sforzo di mantenerla attiva: non erano forti come i fulmini di Ashley, ma erano dieci volte tanti. 

In mezzo ai raggi di luce che fischiavano, Daniel vide Fatum, immobile in mezzo alle creature che lo ignoravano bellamente. Sembrava del tutto disinteressato al fatto che stessero cercando di farlo fuori. Poi si ricordò che lui stesso aveva provato a ucciderlo, quindi intuì che poteva anche non aspettarsi aiuti da parte sua. 

Digrignò i denti per la rabbia. Non aveva idea di che cosa fossero quei mostri, perché avessero dei poteri come i suoi, tantomeno perché volessero ucciderlo, ma non gli importava. Non si sarebbe fermato a un passo dallo scoprire la verità su di lui. Urlò furioso e l’oscurità che opprimeva quel luogo si riversò dentro di lui per poi sprigionarsi verso l’esterno come un’esplosione. Quel potere gli era nuovo, ma almeno ottenne l’effetto desiderato.

L’onda d’urto respinse le creature, che rimasero stordite per qualche istante, il tempo necessario a Daniel per poter contrattaccare. Ne abbatté due con i proiettili di luce e ne tranciò una terza a metà. Gli sembrò di tagliare del latte addensato con un coltello. La creatura si divise in due parti e l’oscurità si ritirò sotto terra, ma Daniel non era davvero certo di averla uccisa. Forse l’aveva soltanto fatta sparire per un po’. Per un bel po’, si augurava.

Gli umanoidi rimasti tramutarono le braccia in lame, proprio come lui, ma nessuno riuscì a resistere alla sua furia. Secondo dopo secondo, Daniel si sentiva più forte e motivato. Quelli… erano solo degli ostacoli. Era molto più potente di tutti loro. Uno dopo l’altro, li distrusse tutti.

Quando anche l’ultima creatura venne sconfitta, Daniel rimase immobile in mezzo a quella landa desolata, a riprendere fiato.

«Che… che razza di posto è questo?!» domandò a Fatum, che per tutto il tempo non si era mosso di un millimetro. «Che cos’erano quelle… cose

«Tu sai già la risposta a ciascuna di queste domande, Daniel. La tua mente è stata corrotta, ti hanno impiantato falsi ricordi, credi di essere qualcosa che in realtà non sei. Ma nel profondo, la verità è sempre stata custodita dentro di te.» 

Daniel digrignò i denti. «Credevo che mi avresti detto tutto! Adesso vuoi dirmi che io devo capire tutto quanto da solo, soltanto perché mi hai portato nel Tartaro a vedere un mucchio di sassi?!»

«Questi non sono “sassi”, Daniel. Sono uova.» 

«Che… che cosa?!» Daniel fece vagare lo sguardo lungo tutta quella landa. Doveva distendersi per chilometri e chilometri. Tutto quel luogo… era tutto quanto formato da uova?!

«Centinaia di migliaia di uova. Deposte nell’Erebo, l’oscurità, dalla Notte. Da nostra madre.»

«Nostra… madre?!»

«Sì, Daniel. Tu sei un figlio di Notte. Proprio come me. Siamo fratelli.»

Filius noctis. 

Quelle parole gli perforarono la mente come una freccia. Quelle, e anche ciò che Camille gli aveva detto. Daniel indietreggiò come colpito da uno schiaffo. «Tu… tu menti. Tu menti!»

«No, Daniel. Questa è la verità. Tu sei nato qui. Da una di queste uova. E le creature che hai appena incontrato sono tuoi, nostri, fratelli.»

Daniel osservò il terreno dove le creature erano svanite. «F-Fratelli? I-Io... e loro?!»

«Siete stati creati con uno scopo. Nostra madre voleva il soldato perfetto. Un’arma. Ma soltanto uno di voi lo sarebbe diventato. Quando siete nati, nostra madre ha promesso al più forte che sarebbe andato con lei. Tutti gli altri sarebbero stati abbandonati qui. Vi siete massacrati a vicenda per anni, fino a quando il più forte ha prevalso su tutti gli altri.»

Le immagini balenarono di nuovo nella mente di Daniel. Ora… tutto aveva un significato diverso. Lui… era l’ultimo rimasto. Sentì una lacrima rigargli la guancia. «No…»

«Tu sei stato scelto. Ti è stato dato un corpo. Un contenitore. Qualcosa che potesse creare l'illusione che tu fossi senziente. Vacuo non è solo un soprannome. Vacuo è ciò che tu sei. Vuoto. Nessuna emozione. Nessun sentimento. Solo oscurità. Soltanto dei doveri da svolgere. Sei andato al Campo Giove. Hai fornito informazioni chiave. Il tuo compito era quello di uccidere tutti i semidei più potenti. Elias Crowe. Ashley Flare. Camille Gray.»

«Cam…» sussurrò Daniel, inorridito. Doveva… uccidere Cam?!

«Dovevi impedire che Ecate venisse liberata. Dovevi favorire l’ascesa di nostra madre. E per finire, come Araldo dell’Oscurità, avresti dovuto uccidere l’Araldo della Luce. E a quel punto, la Notte avrebbe regnato per sempre nel mondo.»

«Araldo… della luce?»

«Ma qualcosa non è andato come doveva» proseguì Fatum, inclinando la testa. «Tu... hai cominciato a dimostrare autonomia. Il tuo cervello, la tua mente, si sono sviluppate molto più di quanto avrebbero dovuto. Dovevi confonderti tra gli umani, comportarti come loro, ma hai finito anche col pensare come loro. Sei quasi diventato uno di loro. Non del tutto, ma quasi. Il tanto che bastava per iniziare a diventare problematico. Hai mostrato ritrosia verso gli ordini che ti sono stati dati. Hai anche sviluppato delle emozioni. Forse è per via di quelle due ragazze che hai conosciuto. Forse ti sei affezionato a loro. O forse, è stato qualcun altro a traviarti.»

Daniel pensò a quella donna che aveva sognato. Quella che l’aveva accarezzato e che gli aveva detto di essere ciò che voleva, di non seguire gli ordini di lei. 

Lei. Notte. Sua madre.

Credeva di poter svenire da un momento all’altro. Tutta la sua vita… era stata una menzogna. Non aveva sedici anni, o quelli che erano. Non era cresciuto in orfanotrofio. Non aveva nessun padre. Daniel non era nemmeno il suo vero nome. Come se García avesse mai potuto essere un cognome plausibile. La verità era sempre stata sotto il suo naso, ma era stato troppo stupido e cieco per capirlo. 

Si sentì insignificante come mai prima di allora. Avrebbe voluto sprofondare in mezzo a quei sassi, anzi, uova, e svanire per sempre assieme al resto dei suoi fratelli, fratelli che lui aveva massacrato per anni e anni.

Un’arma. Un assassino. Un carnefice. Ecco cos’era lui. Un mostro in tutti i sensi della parola. 

Cadde in ginocchio. Aveva ottenuto la verità. E quanto, quanto faceva male. Fatum non aveva affatto mentito sul prezzo salato che avrebbe dovuto pagare. 

«Mi dispiace, Daniel.»

Il mostro drizzò la testa. Fatum lo stava scrutando dall’alto, indecifrabile. Un moto di stizza crebbe dentro di lui. 

«No, invece. Non ti dispiace affatto» gli disse. Parlare, pensare, aveva tutto un altro sapore dopo tutto quello che aveva scoperto. Senza quel corpo che aveva, quel... contenitore, lui sarebbe stato proprio come i suoi fratelli, una creatura fatta di oscurità incapace di fare entrambe le cose, in grado solo di eseguire ordini. Non sapeva nemmeno se fossero maschi o femmina. Probabilmente nessuna delle due. «Fino a qualche giorno fa tu volevi uccidermi! Perché dovrebbe dispiacerti?»

Fatum abbassò la testa. Fece un lungo sospiro, poi si sfilò l’elmo, rivelando il suo volto pallido e scavato, e che in effetti, ora che Daniel conosceva la verità, gli assomigliava molto più di quanto potesse immaginare. Sembrava lui, o meglio, il viso che avevano creato per lui, ma più adulto e scavato.

«Li sento… continuamente, Daniel» cominciò a dirgli, con espressione stanca, quasi triste. «Ogni istante che passa, sento i sogni, le speranze, le preghiere degli uomini che si infrangono quando vanno incontro alle loro morti. Sento ogni loro rimpianto, ogni loro paura, quando il filo delle loro vite viene reciso dalle Parche. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, millennio dopo millennio. Soldati in guerra, uomini di tutti i giorni, persone comuni che vengono colpite da mali incurabili, perfino semidei. Tutti implorano di avere un’altra occasione, tutti promettono di comportarsi meglio, di essere diversi. Ma nessuno ottiene mai nulla. Tutti sono costretti a rassegnarsi all’unico destino che ci accomuna tutti quanti. È un dolore… insostenibile. È per questo che io non ho figli. Non potrei mai, in nessuna circostanza, lasciare che qualcun altro oltre a me sia costretto a patire questo fardello. Nessuno merita di vivere così. E tu, fratello… il dolore che causerai sarà superiore a qualsiasi altro, se aiuterai nostra madre a portare a compimento il suo piano. Non ci sarà più giorno, quando la notte coprirà il mondo. Sarà la fine di tutto, e tutti.»

«E per te non sarebbe meglio se tutto sparisse? Almeno non sentiresti più nulla.»

«Alcuni limiti non vanno superati. Il pensiero della morte ci aiuta ad apprezzare la vita. Cosa rimarrebbe del mondo senza nessuna delle due?»

Camille e Kiana tornarono nella mente di Daniel. Non era mai stato gentile con loro. Eppure non l’avevano mai abbandonato. Erano state buone con lui quando lui non meritava affatto che lo fossero. E adesso, con tutto quello che aveva scoperto, quei momenti che aveva trovato tanto fastidiosi adesso gli sembravano i ricordi più belli che aveva. Gli unici momenti in cui si era sentito… voluto. 

«Non possiamo scegliere le nostre famiglie» gli aveva detto quella bambina. «Ma questo non significa che dobbiamo essere come loro.»

Notte, i fratelli che aveva sconfitto, Fatum. Daniel… voleva davvero essere come loro? Voleva davvero continuare a vivere così? Ammesso che quella potesse chiamarsi “vita”. Alternava momenti di lucidità con momenti di follia pura. Quando aveva visto Elias e Ashley aveva perso il controllo, aveva allontanato le persone che lo avevano accettato, le aveva spaventate, e aveva anche scoperto di dover uccidere una di loro. 

Se davvero fosse sopravvissuto… sarebbe tornato da Cam? Per ucciderla

Poteva lui uccidere Cam? Si domandò se fosse proprio per questo motivo che fosse sempre stato così restio a lasciarla avvicinare a lui. Per tutto quel tempo… era rimasto accanto a una persona che gli voleva bene, che lo amava, e che lui invece doveva uccidere. 

Fece un sorriso amaro.

“Che schifo” fu l’unica cosa che gli venne da pensare. 

Che schifo che faceva lui, che schifo che faceva la sua famiglia, la sua vita, tutto quanto. Era un mostro nato da un uovoUn’arma. Una marionetta nelle mani di Notte, sua madre, la stessa che lo aveva obbligato a massacrare i suoi fratelli.

«La tua... vita appartiene solo a te. Trova il tuo percorso, la tua strada. Trova la tua persona» aveva detto la donna con il mantello.

Quella non era vita. Non aveva idea di che cosa fosse, ma di sicuro non era vita. Però… poteva ancora cambiare le cose. Poteva fare una scelta sulla quale Notte non avrebbe avuto alcun controllo. Camille e Kiana non meritavano di morire. Non meritavano di trovarsi di fronte a Fatum. Meritavano di vivere, di essere felici, e di andare incontro ai loro destini quando il tempo sarebbe arrivato. E con loro tutti gli altri, perfino le persone che odiava, o che aveva creduto di odiare, inclusi Ashley ed Elias. Lui non era nessuno per uccidere nessuno. Non era un soldato. O, almeno, non voleva più esserlo.

«Fallo» mormorò, drizzando la testa e incrociando lo sguardo di Fatum. «Uccidimi. Prima che… prima che lei mi controlli ancora. Prima che io faccia altro male.»

Fatum non batté ciglio di fronte a quella decisione. «Ne sei sicuro?»

«Sì. Sono sicuro.»

Aveva perso le uniche persone che avevano mai contato qualcosa per lui. Le sue uniche amiche, inclusa Penelope. Non poteva tornare indietro, non dopo quello che aveva scoperto, non con la consapevolezza che fosse una bomba pronta a esplodere in qualsiasi istante. Non poteva accettarlo. E poi, non aveva famiglia, non aveva amici, non aveva più nulla da perdere. Nessuno avrebbe sentito la sua mancanza. E nemmeno a lui sarebbe mancato vivere. O forse era meglio dire, esistere

«Molto bene» disse Fatum. Sollevò una mano verso di lui. «Sarà breve, fratello.»

Il ragazzo chiuse gli occhi e prese una grossa boccata d’aria, anche se dubitava che l’aria gli servisse davvero. Dubitava tante cose, ormai. 

«Cosa credete di fare?» domandò una voce all’improvviso. 

Daniel trasalì. Quella voce… la conosceva. Sia lui che Fatum si voltarono, e non appena il ragazzo vide quella gigantesca donna sospesa a mezz’aria sopra di loro si pietrificò per lo sgomento. 

Era proprio come l’aveva descritta Camille. L’abito nero con sfumature violacee, luci che pulsavano su di esso come stelle incandescenti, un viso bello ma glaciale e occhi brillanti come diamanti. Però non aveva menzionato le ali: due gigantesche protuberanze che le spuntavano da dietro la schiena, con l’apertura pari a quella di un aereo di linea, fatte di piume nere come inchiostro. O forse era meglio dire come la notte.

«Ma guarda un po’ se non sono i miei figli preferiti!» annunciò quella, agitando la frusta argentata, forse fatta di stelle pure quella, che stringeva nella mano. 

Daniel indietreggiò, gli occhi incastonati su di lei. Ad ogni battito, le sue ali irradiavano così tanta oscurità che si domandò come facesse a controllarla tutta. Ne sarebbe bastata una parte infinitesimale per sopraffarlo completamente.

Si sentì debole, minuscolo, insignificante. Ma soprattutto provò l'impulso irrefrenabile di chinare la testa e non alzarla finché lei non gli avrebbe dato il permesso di farlo. Come un guinzaglio invisibile che lo spingeva a eseguire ogni suo volere. Deglutì, e le parole gli uscirono di bocca di loro spontanea volontà: «Madre…»

 

   
 
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