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Autore: Adeia Di Elferas    30/07/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina stava aspettando pazientemente che la lasciassero entrare da Bianca e intanto ripensava all'incontro avuto poco prima con suo figlio Giovannino. L'aveva trovato, come sapeva, d'altronde, coi capelli più lunghi di quanto avrebbe voluto e con gli abiti da bambina che ormai stonavano con il suo aspetto.

Il piccolo Medici era stato come sempre scatenato, aveva giocato davanti a lei, le aveva raccontato le sue giornate e l'aveva implorata di prenderlo con sé per sempre, facendole stringere il cuore. Era in salute, non lo si poteva negare, ma cominciava a intravedersi in lui un'inquietudine che si poteva ben spiegare con la sua vita in convento, mascherato da bambina orfana e sempre accudito da suore perlopiù anziane o poco amichevoli.

Quando il bambino le aveva chiesto, almeno, se non poteva portarlo con sé, di dare ordine a chi di dovere di lasciarlo dormire con un lume acceso, dato che non sopportava il buio assoluto, e di fare in modo che con lui ci fosse qualcuno, di notte, non riuscendo a prendere sonno facilmente se era da solo, la Tigre aveva subito girato la richiesta alla Superiora, ma dubitava che qualcuno l'avrebbe ascoltata davvero.

Rimpiangeva un po' di non aver voluto lasciare il figlio alle Murate dove, di certo, una suore dolce e docile come Suor Ubbidienza l'avrebbe coccolato come un figlio. Tuttavia aveva appurato, parlandone diffusamente sia con Fortunati, sia con De Marzi – che sembrava molto addentro a quel genere di questioni – come il convento d'Annalena fosse indubbiamente più sicuro, e quindi la questione non sussisteva.

In compenso, la Leonessa non era riuscita a trattenersi quando una delle suore, prima di lasciarla uscire, le aveva detto: “Il nostro ospite deve imparare a moderare la sua vivacità. Non basta che impari le preghiere e le orazioni... Non diventerà mai un buon prete, e nemmeno un Vescovo, figurasi un Cardinale, se continuerà così!”

“Ho vissuto a sufficienza alla corte di un papa – aveva ribattuto Caterina, con tono calmo, ma implacabile – da augurarmi che mio figlio tutto faccia fuorché il prete, il Vescovo e il Cardinale!”

Ancora in quel momento, mentre aspettava davanti alla porta di legno spessa che la separava dall'ala del monastero in cui stava sua figlia, la milanese poteva rivedere lo sguardo sconcertato della suora e quasi le venne da ridere.

Quando finalmente la monaca di turno le permise di accedere al corridoio che portava alla cella di Bianca, Caterina cercò di non pensare più al suo figlio più piccolo e a concentrarsi sulla figlia che stava per riabbracciare.

La Riario, grossa di nove mesi, ormai, teneva entrambe le mani sul ventre, il volto un po' sofferente, ma non per questo senza sorriso. Le chiese di accomodarsi e quando furono sedute l'una accanto all'altra le domandò, in apprensione, quale fosse il motivo della sua visita.

“Avevo voglia di passare un po' di tempo con te.” spiegò la Sforza: “Fortunati doveva venire in città e così ne ho approfittato. Volevo vedere come stavi... E sono stata anche da Giovannino.”

Dopo aver chiesto qualche notizia sul bambino, Bianca domandò: “E sei stata anche da Cornelia?”

Sentendosi un po' in colpa per non aver nemmeno pensato di fare una breve sosta anche dalla nipote che si trovava alle Murate, la donna scosse il capo e mormorò: “Non ne ho avuto il modo...”

Le due donne parlarono per un po' del più e del meno e poi, mentre Caterina posava lentamente una mano sul ventre di Bianca, la conversazione si spostò inevitabilmente sul parto ormai molto vicino.

“Secondo la levatrice potrebbero mancare due o tre giorni...” sospirò la Riario, abbassando lo sguardo verso il proprio ventre: “Spero che vada tutto bene...”

In quel momento, mentre osservava le occhiaie della giovane, la Tigre ripensò a sua sorella Bianca, sepolta da anni in una tomba di pietra, a Imola, assieme al corpicino della sua bambina mai nata.

La paura che le strinse lo stomaco le diede quasi la nausea e, più per far coraggio a se stessa che non alla figlia, la Sforza decretò: “Tu sei forte: sei mia figlia. Andrà tutto bene.”

La Riario annuì, evitando di mettere a parte la madre delle ansie che la scortavano ormai giorno e notte, dei brutti ricordi legati alla morte per parto della zia, e a tutte le preoccupazioni di ordine pratico che l'avrebbero travolta anche se tutto fosse andato bene: all'improvviso prendersi cura di un neonato, benché in parte lo avesse già fatto con il fratello Giovannino, le sembrava un compito troppo difficile per lei.

Si sentiva sola e indifesa e anche se avvertiva la volontà ferrea di sua madre di aiutarla, avrebbe preferito di gran lunga avere già al suo fianco Troilo, come legittimo sposo. La stabilità era ciò che le mancava. Fin da bambina, anzi, aveva avuto la sensazione costante di rincorrere la stabilità, senza mai afferrarla del tutto. Ora come non mai la vedeva come un suo obiettivo, come qualcosa di irrinunciabile...

“Quando nascerà troverai un modo per avvisare in fretta Troilo da parte mia?” chiese la ragazza, stringendo poi gli occhi e guardando la madre in modo penetrante.

Caterina si era aspettata, prima o poi, una richiesta così diretta da parte della figlia, e ormai aveva anche maturato dentro di sé la convinzione che Creobola non fosse male, come delatrice di una simile notizia. Con la giusta scorta, sarebbe arrivata abbastanza indisturbata fino nel parmense e il De Rossi, avendola già incontrata durante i suoi soggiorni a Firenze, l'avrebbe riconosciuta e l'avrebbe ascoltata senza dubbio.

Così rispose: “Sì, non preoccuparti: ho già predisposto tutto.”

La Riario si sforzò di sembrare più serena e la ringraziò, per poi chiedere come stessero Galeazzo, Bernardino e Sforzino.

La Tigre fece un breve resoconto per tutti e tre, sorvolando sull'ultima bravata del Feo, ma poi volle tornare al discorso principe di quel momento: “Come lo chiamerai?” domandò, toccando di nuovo il pancione della figlia.

Proprio in quel momento un movimento rapido e quasi impalpabile strappò una risata a Caterina, dandole l'illusione di aver avuto un primo concreto contatto con il nipote, mentre rese più seria Bianca che, guardandosi il ventre, rispose: “Vorremmo chiamarlo Pier Maria, se fosse un maschio.”

“E c'è un ragionamento, dietro a questo nome?” chiese la Sforza, che comunque si era attesa una scelta che propendesse per i nomi rossiani.

“Pier Maria il Grande ha portato la famiglia dei De Rossi a un periodo di grande splendore e noi vorremmo che fosse di buon auspicio, nella speranza di creare una famiglia numerosa e forte.” si mise a spiegare Bianca.

“Quindi diciamo che per questa scelta ha pesato più il volere del tuo amato.” parafrasò Caterina, senza usare un tono severo, ma non trattenendosi dal sollevare appena un sopracciglio.

“Il prossimo, lo deciderò io.” ribatté la giovane, con una certa veemenza: “Se sarà possibile, ci alterneremo, nella scelta...”

“Avete già deciso di avere molti figli?” chiese la Leonessa, a titolo informativo.

“Tutti quelli che Dio ci vorrà dare.” rispose la Riario.

“Non è una passeggiata, affrontare una gravidanza e partorire...” si permise di far presente la madre.

“Me ne sto rendendo conto, ma...” Bianca sospirò e poi guardò la Leonessa, cercando le parole più adatte per portarla a seguire il suo ragionamento: “Sai come si fa a riconoscere un albero robusto?”

L'altra non disse nulla, ma era evidente che un'idea l'avesse. La figlia sperò solo che la sua visione del mondo potesse almeno in quello coincidere con quello della Sforza.

“Un albero rigoglioso lo si riconosce dalle radici forti. E quelle le ho io.” iniziò la Riario, posando una mano sul braccio della madre e stringendo appena, come a ringraziarla per averle fornito le radici forti di cui parlava: “E poi deve avere un tronco forte, e quello è Troilo. E in ultimo, deve avere tante foglie, verdi e rigogliose, e quelle saranno i nostri figli.”

Caterina si prese un po' di tempo. Quell'aspetto di Bianca le era sfuggito quasi del tutto fino a quel momento. Non si era mai resa conto appieno quanto sua figlia fosse ambiziosa. Il suo non era solo il desiderio di avere una famiglia numerosa per riempire dei vuoti affettivi che, evidentemente, aveva, ma era anche quello di affermarsi nella società in un modo che fosse convenzionale, ma allo stesso tempo che l'appagasse.

“Tu e il De Rossi ne avete parlato?” fece la milanese, non volendo suonare inquisitoria.

“Sì, e abbiamo lo stesso modo di pensare. Ci intendiamo e siamo uniti in questo progetto.” la rassicurò la Riario: “Inoltre siamo d'accordo sul fatto che lo Stato andrà guidato a quattro mani: non intendo starmene davanti al focolare, tra un figlio e l'altro. Grazie al vostro esempio, ho imparato molto e anche se di tante cose ancora mi manca esperienza diretta, governerò assieme a lui e faremo della nostra unione la fortuna del nostro Stato.”

Le parole che erano appena uscite dalle labbra di Bianca la fecero sembrare anche troppo matura e determinata alla madre che, schiarendosi la voce, quasi intimorita dalla fermezza della figlia, chiese, con maggior leggerezza: “E se fosse una femmina? Avete pensato a come chiamarla?”

La Riario, un po' stranita da quel cambio di marcia, scosse il capo, temendo che la Tigre si aspettasse di sentirsi rispondere subito 'Caterina' e così disse solo: “No, non ci abbiamo pensato, perché... Sono sempre stata convinta che sia un maschio.”

La Sforza non osò contraddirla, dato che lei per prima, il più delle volte – specie nel corso delle sue due ultime gravidanze – aveva avuto la sensazione netta di sapere il genere del nascituro in anticipo.

“Certo che – si permise comunque di commentare – ammetterai che se fosse una femmina, tante cose sarebbero più facili.”

“Lo so.” ribatté all'istante Bianca, deglutendo rumorosamente.

“Comunque vada – volle precisare una volta di più la madre – io ti aiuterò. Ci sono, hai capito? Io ci sono.”

Con un moto di commozione che non riuscì a frenare, la giovane si protese in avanti, verso la Tigre, e l'abbracciò, ringraziandola con un sussurro. Anche se di norma sapeva controllare discretamente le sue emozioni, in quei giorni la Riario si sentita mutevole e incline ad assecondare gli umori del momento. Sperava che dopo il parto la situazione si normalizzasse in fretta, perché cominciava a non saper più gestire i lunghi momenti di apatia e quelli, più brevi, ma molto intensi, di paura o agitazione.

Caterina percepì in parte le difficoltà della figlia e, volendo fare tutto il possibile per rasserenarla, quando sciolsero il loro abbraccio preferì cominciare a parlare di argomenti più leggeri, in modo da distrarla.

Restarono insieme per tutto il tempo concesso alla Leonessa e poi, quando le campane suonarono l'ora che la donna aveva pattuito come limite massimo per la sua visita, le due dovettero salutarsi.

“Mi raccomando.” fece subito Caterina, prima di andare alla porta, porgendo qualche moneta che aveva appositamente portato dalla villa per la figlia: “Quando sarà il momento non esitare a farmi chiamare. Dai queste a chi manderai, in modo che sia più veloce.”

La ragazza prese il denaro e assicurò che avrebbe fatto così e poi, stringendo appena la mano della madre, sussurrò: “Salutami i miei fratelli, in particolare Galeazzo.”

La milanese annuì, non facendo una colpa alla Riario per quel favoritismo. In fondo sapeva che Sforzino era quello che aveva legato meno coi fratelli, per carattere più che altro, mentre Bernardino, per Bianca, restava una questione spinosa.

Non volendo ricordare la correlazione tra la figlia e la morte di Giacomo Feo, Caterina la salutò una volta per tutte e chiamò la suora affinché l'accompagnasse all'uscita.

La carrozza che l'avrebbe riportata a Castello era già in strada, pronta per lei. Con un sospiro, la donna vi salì e richiuse lo sportellino, avvedendosi solo in un secondo momento del fatto che sul sedile c'era già qualcuno.

“Che ci fai qui?” chiese, fissando Fortunati e sedendoglisi accanto, mentre la carretta partiva: “Mi avevi detto che ti saresti fermato in città almeno un paio di giorni...”

L'uomo aveva lo sguardo cupo e il suo viso era una maschera di serietà: “Abbiamo delle cose di cui parlare.”

“Dimmi.” fece allora la donna, accigliandosi a sua volta.

Il piovano si massaggiò il mento, su cui stava lasciando crescere una fitta barba scura, inframmezzata a qualche pelo grigio e bianco. Era stata la stessa Sforza a consigliargli di fare così, sostenendo che gli conferisse un'aria meno austera. In quel momento, però, la donna un po' si pentiva del suo suggerimento, dato che quel massaggiarsi la barba lo rendeva ancor più meditabondo e difficile da comprendere...

“Soderini – cominciò Francesco, cercando le parole migliori per riportare la notizia alla sua amata Caterina – è tornato oggi da Arezzo.”

“Era buon tempo che lo facesse.” commentò la donna.

“E... Insomma ha dovuto occuparsi subito di alcuni affari urgenti...” riprese l'uomo, lanciando un'occhiata alla Sforza, come per accertarsi che fosse abbastanza calma per poter proseguire senza farla esplodere.

In un momento di scarsa lucidità, la Leonessa pensò che tra questi affari urgenti potesse esserci perfino la custodia di Giovannino, e in un momento di follia immaginò il nuovo Gonfaloniere a vita decidere, come prima risoluzione del suo mandato, di affidare il bambino a Lorenzo il Popolano...

Quando il piovano riprese a parlare, però, questa strampalata ipotesi crollò, ma ciò che la sostituì non fu poi tanto meglio, per Caterina.

“La situazione si sta facendo complicata... Sembra che molti condottieri si stiano ribellando al Valentino e che addirittura Bologna stia prendendo apertamente una posizione opposta al Borja, ma Firenze non può rischiare di inimicarsi così il papa e, di rimando, anche la Francia... Gli Orsini e i Vitelli hanno mandato dei loro uomini per convincere la Repubblica a dare alla causa soldati e armi, ma capisci anche tu quanto sarebbe stato rischioso schierarsi così platealmente con loro...” iniziò a farfugliare Fortunati, alzando già le mani, pronto, istintivamente, a ripararsi da qualche colpo inatteso: “Così Soderini ha mandato seduta stante Niccolò Machiavelli al Valentino, che si trova a Imola, per offrirgli il sostegno pieno di Firenze...”

Caterina era immobile. Aveva le labbra socchiuse e gli occhi verdi indagavano il volto di Francesco per capire quanto ci fosse di vero nelle parole che le aveva appena rivolto. Le sembrava a dir poco assurdo ciò che aveva appena sentito. Perché mai Soderini avrebbe dovuto mandare Niccolò Machiavelli – un uomo che lei detestava, certo, ma comunque un promettente diplomatico di Firenze – a parlamentare con il figlio del papa? Perché Firenze stava offrendo la sua amicizia ai Borja, quando perfino i loro tirapiedi si stavano ritorcendo loro contro? Ma soprattutto, perché i Salviati avevano così caldamente spinto per far eleggere Soderini, facendole credere che fosse una gran cosa anche per lei, quando poi lo stesso Soderini si stava dimostrando fin da subito a favore del Valentino, e quindi contro di lei?

“Che cosa..?” riuscì a mormorare la Tigre, mentre il calessino riceveva uno scossone e le toglieva la voce il fiato.

“Questa è la cosa più...” cominciò a dire il piovano, ma a quel punto la Leonessa tornò a ruggire.

“Mi avete ingannato tutti!” gridò, colpendo l'uomo su una spalla e poi cercando di picchiare con tutte le sue forze su ogni punto del suo corpo che trovava non difeso: “Perché?! Soderini doveva essere in nostro favore! Me l'avevate giurato tutti! Perché hanno scelto il figlio del papa?! Perché l'hanno fatto? Non lo sanno quello che mi ha fatto? Non lo sanno come mi ha trattata? Non lo sanno che si prenderà gioco di tutti e soggiogherà anche Firenze?! Quando sarà qui... Quando sarà qui...”

Il piovano si spaventò vedendo la donna tremare. Non lo colpiva più e da un lato il piovano avrebbe preferito che ricominciasse. Era sbiancata e i suoi occhi vagavano senza sosta per ogni angolo dell'abitacolo.

Per puro caso, Francesco riuscì ad anticiparla, impedendole di aprire la portina e buttarsi giù dalla carrozza in corsa: “Che stai facendo?!” le gridò.

“Falla fermare! Falla fermare!” gracchiò Caterina, agitandosi ancora di più: “Ferma! Ferma!”

Fortunati era sicuro che il cocchiere non avrebbe risposto a quell'urlo, dato che, immaginando una reazione non proprio composta della sua amante, aveva dato ordine di non arrestare la corsa se non a destinazione, quali che fossero stati i rumori provenienti dall'abitacolo.

“Non verrà a Firenze.” la rassicurò, stringendola con forza, più per immobilizzarla che non per darle conforto.

La Leonessa, scapigliata e ansante, si divincolò per un po', come un pesce nella rete, ma senza opporre una reale resistenza. Prima che riuscisse a dire cosa pensava, scoppiò in un pianto dirotto e balbettò appena qualche frase difficile da comprendere.

Il piovano l'ascoltò con attenzione e avvertì tutto il suo smarrimento e la sua paura. Temeva che se Firenze si fosse consegnata al Valentino e lui fosse entrato in città, l'avrebbe cercata, l'avrebbe ripresa e ne avrebbe fatto scempio, finendo, questa volta, per ucciderla davvero.

“Non voglio che mi tocchi mai più...” rantolò alla fine la donna, premendo il volto contro il giubbetto nero del piovano.

Per tutto il resto del viaggio, nessuno dei due disse altro. La Sforza cercò di frenare il pianto e ricomporsi, mentre Francesco le accarezzò la testa e le diede qualche bacio sulla fronte di quando in quando, senza mai spingersi oltre.

Solo quando furono in vista della villa, la milanese trovò il fiato dire: “Adesso mi lascerai prendere un cavallo e mi lascerai andare nel bosco.”

Fortunati stava già scuotendo il capo, per dire che era pericoloso, che lei non era nelle condizioni, che i servi avrebbero parlato...

Ma Caterina lo fissò con lo sguardo freddo e distante che aveva usato tante volte quando si era trovata a comandare su un intero esercito di uomini, e gli ribadì: “Mi lascerai andare nel bosco, da sola. Prova a evitarlo, e capirai perché mi chiamavano la Tigre di Forlì.”

L'uomo non provò più a opporsi, ma, anzi, si mise a lambiccarsi per cercare una scusa da usare con i servi e con chi avesse chiesto dove fosse la Leonessa.

Arrivati a destinazione, la donna andò direttamente nelle stalle, prese lo stallone dai tranquilli occhi color nocciola che tanto le piaceva e, senza aspettare che venisse sellato, vi salì in groppa e partì al galoppo verso il limitare del bosco.

 

Da Imola era giunto l'ordine di Cesare di ricongiungersi il prima possibile con lui, per decidere il da farsi, dato che, ormai, i ribelli si stavano facendo troppo numerosi e decisamente troppo intraprendenti. Michelotto aveva preso la notizia con un misto di irritazione e sollievo. Da un lato faticava ancora a sopportare il modo in cui l'amico lo trattava, inviandogli dispacci scritti di fretta, come avrebbe fatto con un qualsiasi sottoposto, ma d'altro canto era lieto di avere il nulla osta per sistemare rapidamente la questione di Giulio Cesare da Varano e ritornare al fianco del Borja.

A quanto aveva capito, parlando con il messaggero che gli aveva consegnato l'ordine, la rocca di San Leo era stata presa con l'inganno e l'attacco era stato rivendicato dal Vitelli, da Oliverotto e da tutta la bella compagnia che fino al giorno prima aveva mendicato una spada proprio dal Valentino...

Siccome Cesare temeva che quello fosse solo l'inizio di un terremoto ben peggiore, era ovvio che volesse accanto a sé il Corella. Miguel era certo che la sua presenza non gli servisse solo per motivi meramente militari, ma anche per avere un sostegno morale e un po' di vicinanza.

Così, finalmente sicuro di non agire in modo troppo affrettato, ma nel lecito permesso datogli da Cesare stesso, Michelotto salì con passo veloce le scale dalla rocca di Pergola. Aveva detto ai suoi scomodi ospiti di prepararsi, perché a breve sarebbero stati ricevuti dal Duca di Valentinois, per la cena, e invece per loro – o meglio, per uno di loro – aveva un progetto molto più divertente.

Incrociate due guardie, poco prima della stanza in cui aveva fatto sistemare Giulio Cesare, Miguel diede le disposizioni del caso per la custodia dell'Ottoni e della di lui moglie – di cui il Borja, almeno per il momento, non voleva sbarazzarsi – e poi bussò alla porta del Varano.

Questi, con voce malferma gli diede il permesso per entrare. Era stato vestito dalla figlia di tutto punto, usando gli abiti gentilmente offerti dal Corella. Malgrado l'età, agghindato a quel modo faceva ancora una certa impressione... Non era difficile immaginarselo giovane e forte in sella al suo cavallo da guerra, intento a sbraitare ordini a destra e a manca.

Trovando comico il paragone con il suo stato attuale, Miguel fece un sorrisetto che venne mal interpretato dall'anziano che, alzandosi dalla sedia su cui era appollaiato, disse: “Sono felice di vedervi allegro... Si capisce che il vostro Cesare vi mancava più di quel che volete dire...”

Quell'accenno fece subito tornare serio Michelotto che, attento come una volpe, chiese: “Che volete dire?”

Il Varano, tossendo, sollevò gli occhi stanchi su di lui e poi inclinò appena la testa: “Non guardatemi così... Sono un vecchio e ai vecchi è concesso dire tutto, non trovate? E poi non è un vizio così grave, quello in cui voi e il Duca indulgete... C'è pieno il mondo di sodomiti e uomini contro natura...”

Il Corella socchiuse appena gli occhi e, intanto, strinse nel pugno il laccio di seta che aveva appositamente scelto per portare a termine il suo lavoro.

“Avete in famiglia una santa – disse Miguel, alludendo alla figlia prediletta di Giulio Cesare, Camilla, suora ben nota in ambiente vaticano, in aria di santità da tempo – non dovreste dire certe parole.”

“La santa è mia figlia, non io.” soffiò il Varano, facendo un paio di passi, iniziando a trovarsi insofferente dinnanzi a tante chiacchiere: “Andiamo? Il vostro amico potrebbe offendersi se tardiamo...”

Michelotto fece un mezzo sorriso, e aspettò che il vecchio gli fosse accanto. Solo in quel momento, con uno scatto fulmineo, arrotolò il laccio di finissima seta al suo fragile collo rugoso e strinse.

Giulio Cesare non provò quasi a ribellarsi. D'istinto, si portò le mani nodose alla gola, ma le sue dita non riuscivano nemmeno ad afferrare il laccio che lo stava uccidendo. Si dimenò, sputò sangue, i suoi occhi si riempirono di petecchie e sembrarono gonfiarsi, mentre la sua lingua protrudeva orrendamente dalle labbra sempre più bluastre.

L'aria nella stanza era immobile. Solo gli spasmi e i singulti strozzati del Varano coprivano il respiro pesante di Miguel.

Il Corella continuò a stringere anche quando sentì il corpo farsi pesante e senza più vita. Restò immobile ancora per dei minuti interi, sostenendo con la sola forza delle mani il cadavere.

Alla fine, con sdegno, lo lasciò crollare in terra. Riprese il nastro di seta, facendosi appunto mentale di farne dono a Cesare, e poi guardò il defunto Giulio Cesare da Varano e si fece il segno della croce.

“La tua santa – gli disse, come se davvero potesse ancora sentirlo – adesso avrà un'anima in più per cui pregare.”

   
 
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