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Autore: Iaiasdream    08/08/2022    0 recensioni
Vincenzo Gargano, ricco novantenne proprietario terriero, muore lasciando tutti i suoi averi al figlio Diomede e ai due nipoti Stefano e Carmine, a patto che a scadenza di un anno dalla sua morte, uno dei due prenda moglie.
Per non rischiare di perdere tutto, poiché Stefano dieci anni addietro tagliò i ponti con l'intera famiglia, Diomede cerca di affrettare i tempi accettando la proposta di sua cugina Rita Ferrara, facendo sposare Carmine con la procugina Marella.
Il giovane, però, è contrario, poiché innamorato di Arianna, figlia adottiva del cugino di suo padre, da tutti chiamata Aria.
Carmine sembra propenso a non voler piegarsi a quel obbligo e decide con la sua amata di scappare insieme, ma il destino sembra essergli avverso e proprio il giorno previsto per il matrimonio, degli imprevisti inaspettati cambieranno i loro progetti.
A complicare la situazione è anche il ritorno di Stefano, il quale porta con sé un segreto che riguarda Arianna e che insieme dovranno scoprire poiché prima di morire, Vincenzo era propenso a rivelare qualcosa di sconvolgente.
Tra misteri, intrighi e passioni, non mancherà il forte sentimento che travolgerà i due giovani.
Tutti i diritti sono riservati
Genere: Erotico, Mistero, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incest
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Capitolo 12
 
Aria ricordava poco quanto nulla della sua infanzia, almeno fino ai sette anni, quando un misterioso uomo, di cui non aveva memoria su chi fosse e nemmeno che volto avesse, la portò all’orfanotrofio dove rimase fino ai suoi quindici anni.
«Che cosa accadde ai tuoi genitori?» chiese Stefano, approfittando di quel momento di silenzio.
La campagna era completamente in balia della penombra e, se non fosse stato per la luna che imperava nel cielo, non avrebbe mai potuto vedere gli occhi della ragazza bagnarsi di lacrime.
«Mi è stato detto che ebbero un incidente stradale» rispose con voce sommessa. «Prima di conoscere nonno Vincenzo, sono passata da una famiglia all’altra, ma non duravo neanche un mese che mi riportavano all’orfanotrofio. Mi avevano etichettata come una bambina insopportabile e alla fine anche la direttrice si era arresa nel volermi trovare una madre e un padre. Il fatto è che mi comportavo apposta in quella maniera. Al centro c’erano dei bambini più piccoli di me, e vederli piangere ogni volta che andavo via, era una tortura.
Non venivamo trattati come ci si spetta. Né una coccola, non c’è mai stato un bacio della buonanotte, neanche quando ti sbucciavi un ginocchio. Ricordo solo urla, rimproveri e qualche volta volavano anche degli schiaffi.» quell’ultima frase, Aria la pronunciò con un sospiro, dandosi peso sui gomiti e volgendo il viso alla luna.
Le sue lacrime erano visibili e Stefano sentì il disperato bisogno di darle quelle carezze che non aveva mai ricevuto prima, invece, ingoiando a fatica quel groppo che sentiva in gola, chiese: «Vincenzo, come l’hai conosciuto? Sai perché ti portò via di lì?»
«Non gliel’ho mai chiesto e non mi sono posta neanche la domanda. Si presentò in orfanotrofio che avevo la bellezza di quindici anni. Ne erano passati cinque dall’ultimo tentativo di farmi adottare. Avevo capito che non potevo rimanere lì per sempre. L’istituto non poteva mantenere anche me, così mi dissi: o la va, o la spacca. Vincenzo lo conoscevano tutti e… – si fermò per dare spazio a una breve risata – sapere che avrei fatto parte della sua famiglia, che avrei vissuto in campagna, mi fece sentire come una vecchietta che non vede l’ora di ritirarsi dal suo lavoro.»
Anche il fotografo sbuffò un sorriso.
«Mi affidò ad Alberto. Ricordo ancora le sue parole: “Mi dispiace non poterti dare una mamma. Ho solo a portata di mano un papà e un nonno”. Alberto mi ha fatto da madre, da padre, da fratello, da tutto. È stato il primo a volermi veramente bene. Mi ha insegnato tutto quello che so. Mi ha cambiato radicalmente la vita, anche quando ci eravamo accorti che non ero simpatica a tutta la famiglia, che ogni giorno venivo trattata male da Rita, che m’impediva di stare insieme a Marella, che ha inculcato in Mina un inspiegabile odio nei miei confronti, Alberto mi ha sempre difesa, anzi, mi ha regalato Tempesta dicendomi che se volevo farmi veramente un’amica, dovevo optare per gli animali, perché loro sono più umani di noi. E poi, e poi ho conosciuto l’amore…», a quella parola si bloccò, come se avesse pronunciato qualcosa che non andava detta. Anche Stefano trasalì e la guardò come a volerle carpire quella sensazione che aveva subito dissipato.
Capì che stava parlando di Carmine e, nonostante la percepibile sofferenza, le vide brillare il volto, e non negò il fastidio che gli ribolliva nel cuore, ma cercò di non darlo a vedere, così schiarendosi la voce con qualche colpo di tosse, le domandò: «Come stai?»  
Aria si volse di scatto come se fosse stata strattonata, gli regalò uno sguardo carico di sorpresa che non si aspettava quella domanda fatta così a bruciapelo.
D’altronde Stefano conosceva la situazione e lei si era fatta trasportare dai sentimenti. In quel frangente si accorse che oltre a Carmine, non aveva mai avuto con nessun’altro la possibilità di parlare così apertamente di quello che provava o sentiva e lesse negli occhi cristallini di quel ragazzo, sconosciuto fino a quel momento, qualcosa di indescrivibile, qualcosa che le fece fremere il cuore come quando le loro labbra si erano unite per la prima volta. E fu lì che ripensò a quello che era accaduto nelle scuderie la sera del matrimonio tra Carmine e Marella.
A un tratto si accorse di aver smesso di respirare e deviò subito lo sguardo, alzandosi e pulendosi la parte posteriore dei pantaloncini.
Il giovane fotografo la imitò dopo qualche istante, aspettandosi una reazione del genere.
«Sarebbe meglio rincasare – balbettò la ragazza raggiungendo la giumenta – devo rinchiudere Tempesta e tornare da donna Valeria.»
«Perché non dormi a casa tua?»
«Donna Valeria ha bisogno di me» rispose Aria senza voltarsi.
«Ha a che fare con mio padre?»
Aria esitò, poi disse: «Non sono affari che ti riguardano.»
Non contento della risposta e sicuro di aver centrato in pieno, con un balzo, Stefano la raggiunse e, prima ancora che potesse salire su Tempesta, l’afferrò da un braccio voltandola verso di sé.
La sorpresa che ebbe la giovane, non aspettandosi una reazione del genere, la fece barcollare e ritrovarsi petto a petto con il ragazzo e a pochi centimetri dalla sua bocca.
Stefano la osservò a lungo tentato dal volerla baciare, ma chiuse gli occhi stringendoli come se qualcosa li avesse infastiditi e, quando li riaprì, li volse verso la piccola ferita che era ancora vivida sullo zigomo, l’accarezzò con delicatezza.
«So per certo che l’altro ieri è accaduto qualcosa con mio padre.»
«Non farmi domande, ti prego.» lo interruppe sicura di sé ma con voce incrinata dal sentirsi travolta da quella presa e dal profumo di pini d’inverno che aleggiava intorno a lui e che ormai sembrava non volerla abbandonare.
«Aria… – sospirò a quel punto mollando delicatamente la presa – Mio padre non è un uomo che puoi affrontare da sola. Qualunque cosa accada, fidati di me. Anche se non sono Carmine, io… se hai bisogno, vieni da me.»
Aria non seppe descrivere cosa sentì in quel preciso istante, sapeva solo che se non si fosse allontanata da quel ragazzo, avrebbe inferto una ferita al cuore, ancora una volta. E provò lo stesso dolore perché nonostante il ricordo di Carmine era ancora vivido, la sola presenza di Stefano riusciva a dissolverlo come nuvole al vento.
Senza aggiungere nulla salì su Tempesta e se ne andò.
Il fotografo rimase a guardarla, consapevole che l’interesse per lei si stava trasformando in qualcosa di più profondo.
 
***
 
Dalla sera dopo il matrimonio, Stefano si era rifiutato di pranzare e cenare con la famiglia e per non squilibrare la già provata mente di sua madre, le faceva visita prima di andarsi a coricare, ma per altro, non si faceva vedere in giro e non assisteva a quelle riunioni famigliari che lui solo riteneva ipocrite, soprattutto da parte di suo padre, poiché per zia Erminia dovevano essere sacre, tralasciando gli asti che serpeggiavano indisturbati tra gli altri.
La verità era che Stefano aveva programmato di stare lontano il più possibile dal campo visivo di suo padre e da quella sera, dopo aver parlato con Aria, convenne che aveva fatto bene ad agire in quella maniera, poiché per permettere alla ragazza di scoprire che cosa avesse voluto dirle il nonno, meno conoscevano i suoi movimenti e meglio era.
Quando ritornò al casolare però, non fece i conti con la stessa Erminia, la quale sembrava proprio che lo stesse aspettando, seduta sulla poltrona d’entrata.
All’inizio il giovane parve sorpreso di vederla lì, le chiese finanche che cosa ci facesse seduta in penombra e lei invece di rispondere, esordì dicendo: «Cenerai con noi.»
«Sono stanco, non ho fame.»
«Non te lo sto chiedendo.»
Stefano lo sapeva perfettamente, lo aveva sentito l’imperativo in quel tono, ma si limitò lo stesso a sorridere e a ripetere che si sentiva stanco e che voleva andare a coricarsi.
«Allora ritornatene a Firenze.»
Questa volta Stefano la guardò interdetto e non rispose.
«Sei qui da quattro giorni, ma è come se non fossi tornato. Tornatene da dove sei venuto, che cosa ci stai a fare qua? Non sei venuto per il funerale, non hai assistito neppure al matrimonio di tuo fratello. Se non hai motivo di essere qui, allora vattene.»
Sbuffando un sorriso di circostanza, il fotografo incrociò le braccia al petto, senza cambiare espressione: «Ho i miei motivi. Ma non preoccuparti, come ho già detto, non ho intenzione di rimanere qui a lungo.»
«L’hai fatto per l’eredità?»
«Se è questo che credi, ti lascerò il beneficio del dubbio.»
«No, non l’hai fatto per questo. Anche se sono passati dieci anni, non sei cambiato affatto, sei l’unico a essere diverso dai Gargano, diverso da tuo padre. Nei tuoi occhi leggo sfiducia e fai bene a non fidarti. Senti a me: continua così – dicendo questo si alzò, gli fu vicino e gli pose una mano sulla spalla – non fidarti di nessuno» quindi gli diede due pacche e se ne andò lasciandolo solo.
Solo quando si sentì ripetere quell’ultima frase, Stefano comprese. Strabuzzò gli occhi e si volse verso la direzione che aveva preso Erminia per andarsene.
Adesso gli era tutto più chiaro. Sapeva chi gli aveva inviato la lettera.
 
***
 
Mentre continuava a guardarsi allo specchio, le sembrò che il livido che le cerchiava il collo diventasse più scuro fino a sembrare insanguinato.
Gli occhi di Rita erano iniettati di odio e furia, si stava mordendo le labbra mentre si fissava e ignorò il rivolo di sangue che sorpassò il labbro inferiore.
Conosceva bene i livelli di malvagità di suo cugino, ma mai avrebbe immaginato che si sarebbe spinto oltre. Troppo oltre.
L’aveva minacciata di morte. Sì, non era stato un errore di comprensione. Dopo un giorno la prova evidente si era fatta padrona di quell’epidermide che, nonostante i cinquant’anni, era ancora diafana.
Si vide brutta, deturpata, stuprata della sua bellezza.
La furia si fece più intensa dopo quei pensieri, con un gesto secco del braccio scaraventò a terra il contenuto della specchiera, poi trattenendo tra i denti un urlo, si alzò e iniziò a camminare avanti e indietro per la stanza.
Quante volte mi sono umiliata davanti a lui per essergli fedele, pensò. Quante volte per avere quel che disideravo gli ho permesso che mi violasse come donna, ma adesso basta.
Sì, nonostante le avesse promesso che si sarebbe sbarazzato di quella bastarda e che avrebbe accontentato i suoi voleri, aveva perso la pazienza. Voleva fargliela pagare. Voleva fargli provare ciò che stava provando lei.
A un tratto si sentì mancare l’aria, fu come se la rabbia avesse combattuto contro il livido e questo si fosse trasformato in una stretta micidiale, capace di farla soffocare.
Si portò ancora una volta la mano al collo e se lo massaggiò con nervosismo, poi qualcosa attirò la sua attenzione: dal giardino, dove era stato apparecchiato il lungo tavolo per la cena, veniva sua madre accompagnata dal suo bastone e dietro di lei, intento ad allungare il passo per raggiungerla, c’era Stefano. A quel punto, come un fulmine a ciel sereno, le venne in mente un’idea a parer suo brillante. Un’idea che avrebbe portato alla rovina Diomede Gargano.
Non curante del dolore che le stava ancora arrecando il livido, aprì l’armadio e prese un foulard di tulle, bianco con dei fiori e ritornata davanti allo specchio se lo avvolse attorno al collo. Si alzò, ma catturata ancora dalla sua figura riflessa, si vide sciatta, così si prodigò per cancellare quei segni squallidi. Le bastò un velo di fard e una linea di eyeliner sugli occhi scuri.
Uscì.
 
***
 
Era vero che Stefano non aveva appetito, a prescindere dalla decisione che aveva preso due giorni prima, ma era anche vero che quella piccola discussione avuta con la sorella di suo nonno gli aveva accelerato la voglia di sapere, così, si era ritrovato a seguirla deciso a volere delle spiegazioni, ma non aveva fatto i conti con l’ora. Erminia, aveva iniziato a dare ordini a sua nuora e a Mina di curarsi delle portate e metteva loro fretta, dato che Arianna era sparita e quindi due mani in meno scombinavano la sua organizzazione. Si lamentò del comportamento della giovane e nello stesso istante chiese a sua nipote che fine avesse fatto sua madre.
Dopo aver lanciato un’offesa alla sua cuginastra, Mina non ebbe il tempo di dare spiegazioni su Rita che questa, spuntò dal corridoio annunciandosi con uno strano sorriso sulle labbra.
Solo Erminia diede peso alla sua entrata, le altre avevano da fare e Stefano cercava discretamente di attirare l’attenzione dell’anziana, senza successo.
Erminia si comportò come se il giovane non ci fosse, dopo aver fissato interdetta sua figlia e dopo averle ordinato di portare le bevande a tavola, uscì.
Era zoppa, si arrancava al suo bastone, ma fu come se stesse correndo una maratona senza ostacoli, al che il fotografo perse la pazienza e tentò di chiamarla, ma Rita prese la palla al balzo e lo invitò ad aiutarla.
Stefano dapprima cercò d’ignorarla, ma vedendo l’insistenza, acconsentì.
«Puoi preparare una limonata per mia madre?» gli chiese con voce smielata.
«Dove sono i limoni?»
Gli indicò il ripiano accanto al lavandino.
Il ragazzo si avvicinò prodigandosi per eseguire quella richiesta, mentre Rita gli si avvicinava come un cobra pronto per avvinghiare la sua preda e divorarla.
«È un peccato, sai?» riprese dopo qualche istante di silenzio.
«Che cosa?»
«Che tu sia stato lontano così tanto tempo. Sei diventato davvero un bell’uomo» e dicendo questo allungò la sua mano sull’avambraccio, accarezzandoglielo con sensualità.
Stefano, che aveva iniziato a tagliare i limoni, strinse il manico del coltello e volse lo sguardo verso le mattonelle, poi lo posò su quella mano dalle dita fredde e guardò la donna con ostilità.
Lei sorrideva maliziosa, desiderosa di farselo complice alle sue gesta, vogliosa e accattivante, ma lui lesse in quello sguardo la stessa malignità che riusciva a leggere in suo padre. Gli vennero subito in mente quei ricordi dolorosi dove la figura di donna nell’idea di lui bambino si divideva in due categorie: quella che subiva e soffriva in silenzio e quella che rideva sguaiata e godeva della disgrazia dell’altra.
Con uno scatto, senza però scomporsi, si divincolò da quella presa e, lasciati coltello e limoni, uscì dalla cucina senza aggiungere una parola.
Rita si aspettava una reazione del genere, ma non per questo decise di arrendersi. Ridendo, afferrò la metà del limone che il giovane aveva tagliato, alzò la testa, se lo portò sulla lingua e vi spremette il succo, assaporando quell’acidità senza repulsione, lasciando che il di più le fuoriuscisse dalla bocca e le scivolasse sul foulard.
Ormai fuori, Stefano decise comunque di non fermarsi a cena, prima di ritornarsene a casa sua, s’imbatté in Alberto, Cristoforo e Diomede, i quali, non lontani discutevano in maniera tale da non far capire alle donne le loro parole, ma il fotografo riuscì comunque a sentirli, era Cristoforo che parlava e lo faceva in dialetto e, anche se erano passati dieci anni, riuscì a capire cosa diceva.
«Meh Diome’! ma cos’è mo’ quest’idea? Non puoi di punto in bianco venirci a dire che hai fatto fare il preventivo da un geometra. Che cazzo faremo noi, adesso?»
«Lavorerete per me nei terreni che mio padre mi ha lasciato!»
«Ma il testamento…»
«Il testamento dice che voi non verrete mandati via ma continuerete ad essere stipendiati. E pensate che io vi dia i miei soldi senza che voi alziate un braccio?»
Seguì qualche secondo di silenzio dove i fratelli si guardarono come a lasciare il posto a uno dei due per parlare e quel posto lo prese Alberto che, con molta più calma di suo fratello e con un italiano perfetto, si difese dicendo: «Ma noi abbiamo sempre lavorato per voi Gargano. Non ci avete mai pagato senza lavoro, nemmeno quando era ancora in vita zio Vincenzo!»
«Chi semina il grano, chi va a raccogliere le olive? Quando avevate le vacche, chi si occupava di loro? – inveì ancora Cristoforo – io mando un giorno sì, un giorno no, i miei figli a scuola per avere un aiuto in più.»
Diomede era spazientito, anche se in penombra, suo figlio gli lesse in volto il fastidio che quella discussione gli stava dando. Lo vide incrociare le braccia al petto e, reggendo sempre quella sua aria di superiorità verso i suoi cugini, disse: «A questo punto, converrete che tenere i cavalli, che non portano guadagno, non conviene a nessuno. Non conviene a voi, a te Cristoforo, per il tempo che tolgono ai tuoi figli, non conviene a me dato che ho bisogno d’ingrandire l’azienda e trasformare le scuderie in agriturismo sarebbe un affare.»
Aveva sentito bene? Suo padre voleva distruggere quello che i figli di Erminia avevano costruito col loro sangue e sudore?
Stefano ricordò l’ultima telefonata di suo fratello, dove gli raccontava fiero la loro più grande impresa. Carmine gli aveva sempre detto che per i Ferrara e per lui, il maneggio era sempre stato il loro più grande orgoglio e ora, per non si sa quale motivo, suo padre voleva cancellare tutto.
«Il maneggio è anche di Carmine – disse allora Alberto – che cosa penserà…»
«Non penserà a niente!» tagliò corto suo cugino e ora la voce era più alta. «Carmine non conta un cazzo. Quando farà ritorno dal viaggio di nozze, avrà altro a cui badare. Dei cavalli se ne fotterà poco quanto niente!»
I due fratelli non seppero più come replicare, Alberto si passò una mano sulla fronte e scosse il capo, Cristoforo abbassò la testa come un cane bastonato e a quel punto, Stefano che si sentì ribollire il sangue nelle vene, decise d’intervenire dando man forte ai Ferrara.
«Se Carmine avrà altro a cui badare, penserò io al maneggio.» intervenne con una tale audacia, che i fratelli lo guardarono come se avessero avuto una visione, mentre suo padre s’irrigidì atterrito.
«Tu stanne fuori» lo intimò Diomede.
Stefano sorrise strafottente, «E no, mi dispiace. Ma fino a prova contraria, sul testamento c’è il mio nome con tanto di percentuale affianco. Quindi senza la mia approvazione, il maneggio non si tocca.»
Diomede fremette, sciolse la sua posizione, parve voler fare un passo verso quel figlio che aveva diseredato dieci anni fa e che in quel momento lo sbeffeggiava senza alcun rispetto.
Gli unici a sembrare estranei in quello sfondo carico di tensione furono i due Ferrara, che ora guardavano interdetti il cugino, ora volgevano uno sguardo di gratitudine e speranza verso il fotografo.
Forse, se la voce di Erminia non fosse risuonata autoritaria, Diomede e suo figlio, in quel momento, sarebbero arrivati ai ferri corti.
Fu Diomede il primo a muoversi, sorpassò Stefano dandogli una lieve spallata e andò a prendere posto a capotavola. Cristoforo lo seguì a ruota dopo aver dato una pacca sulla spalla del giovane, mentre Alberto gli si piazzò davanti e disse: «Se lo fai per ripicca verso tuo padre, lascia stare.»
Il fotografo tacque.
«Non illuderci. So che hai intenzione di andartene presto, quindi le cose non cambieranno.» e detto questo raggiunse anche lui la famiglia.
Stefano rimase lì, volse lo sguardo a quel cielo privo di nuvole e sorridendo pensò che forse non avrebbe voluto andarsene.
 
***
 
Durante la cena, Diomede ricevette una telefonata alquanto strana. Si alzò allontanandosi, ma la distanza non bastò a non far sentire i suoi strepitii.
A tavola, i presenti si zittirono all’istante. Alberto e Cristoforo si guardarono l’un l’altro per poi tentare di scorgere la figura del loro cugino che si nascondeva dietro gli alberi di ulivo.
Urlava maledizioni, bestemmiava morti, offendeva la persona con cui parlava chiamandolo imbecille buono a nulla, poi il silenzio.
Per non dare sospetti, i Ferrara ripresero chiacchiericci di circostanza, ma l’unica che era sembrata impassibile a quella scena era stata proprio Rita, anzi, sorrideva strafottente fissando il movimento del vino del calice di vetro, che lo faceva roteare in un vortice.
Quando Diomede ritornò a sedersi, la sua rabbia era ancora evidente, aveva l’affanno e tracannò il suo bicchiere di vino ignorando i presenti i quali erano ritornati a guardarlo.
«Qualcosa non va, Diomede?» esordì Erminia.
«Nulla di cui dobbiate preoccuparvi.» rispose secco e freddo, tale da far tacere anche sua zia. Quando ritornò seduto, si passò una mano sulla fronte madida e non appena alzò lo sguardo, involontariamente si ritrovò a guardare quello di Rita.
Le vide un ghigno malefico e gli occhi neri abbacinavano vittoriosi.

 
   
 
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