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Autore: Melisanna    12/08/2022    0 recensioni
Lo avrebbe fatto impazzire, sapere che Steve era lì, in mezzo a quella guerra del cazzo, accanto a lui e non poterlo vedere, non poterlo tenere d’occhio, non potergli impedire di fare una delle sue tante cazzate, che bè, avrebbe fatto comunque, perché era Steve, ma almeno lui sarebbe stato lì a proteggerlo.
Genere: Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: James ’Bucky’ Barnes, Steve Rogers
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Storia scritta per la challange A summer of secrets della pagina Facebook Hurt/Comfort Italia - Fanart and Fanfiction - GRUPPO NUOVO per Noa Colore.
Prompt: In guerra, A e B combattono (Per la stessa fazione o per fazioni diverse, scegliete voi). A viene ferito e B lo deve portare al sicuro.
Fandom: Captain America
Personaggi: Bucky Barnes, Steve Rogers, un po’ tutti gli Howling Commandos


 
Quel siero maledetto

 
 
La nebbia ottundeva i sensi e i pensieri. Per non distrarsi doveva concentrarsi sulla sensazione della corteccia contro la schiena, da cui lo separava solo la ruvida e lisa camicia dell’uniforme. Tutto il resto pareva svanire in un mondo di sogno.

Svaniva anche Steve, appostato sotto di lui, ai piedi dell’albero su cui si era arrampicato. Riusciva a scorgere una vaga ombra blu nel punto in cui doveva trovarsi. E, per una volta, era felice dei colori sgargianti di quella sua maledetta, stupida divisa. Sapere che era lì senza poterlo vedere, lo avrebbe fatto impazzire.

Lo avrebbe fatto impazzire, sapere che Steve era lì, in mezzo a quella guerra del cazzo, accanto a lui e non poterlo vedere, non poterlo tenere d’occhio, non potergli impedire di fare una delle sue tante cazzate, che bè, avrebbe fatto comunque, perché era Steve, ma almeno lui sarebbe stato lì a proteggerlo.

Un rumore attirò la sua attenzione. Un rumore che il suo orecchio allenato riconobbe come quello delle foglie secche, che si affollavano tra i tronchi in quel piovoso inverno francese, schiacciate da pesanti stivali.

Abbassò la canna del Mauser, caricandolo silenziosamente.

Tre forme scure apparvero nella nebbia. Parevano muoversi al rallentatore, in quel candore, ma erano vicine, maledettamente vicine.

Bucky non aspettò di vedere i colori delle uniformi. Sparò tre colpi in rapida successione. Il primo uomo cadde senza un suono, al secondo sfuggì un gorgoglio, mentre la bocca gli si riempiva del sangue della carotide recisa, l’ultimo ebbe il tempo di gridare, prima che il proiettile lo raggiungesse al petto.

Altre grida allarmate si unirono alla prima. La scarica di uno Schmeisser traforò le foglie intorno a lui, costringendolo a spostarsi rapidamente su un ramo dalla parte opposta del tronco. La Browning di Morita gli fece eco, subito seguita dal mortaio di Dum Dum. I tedeschi urlarono, sparando nella nebbia alla cieca. La voce del comandante, che cercava di riportare l’ordine, si alzava sopra le altre.

Bucky ascoltò i gemiti dei moribondi, sorrise e si sporse per sparare di nuovo. Altre due ombre, apparse oltre la protezione della nebbia, caddero.

Si ritirò dietro al tronco soddisfatto, per una volta una missione senza intoppi.

E poi udì Monty urlare “Hanno dei prigionieri!” e ovviamente Steve caricò. Perché cazzo Steve doveva sempre caricare?

Si tuffò in mezzo alle scariche dei fucili e dei mitra, protetto solo dal quel suo scudo maledetto, mentre Bucky gridava, in preda al panico “Smettete di sparare, smette di sparare. Capitano in corpo a corpo!”.

Almeno Dum Dum sembrò aver sentito, perché i colpi di mortaio cessarono. Bucky saltò giù dal ramo, rotolando per attutire il colpo e si precipitò dietro a Steve, riuscendo a malapena a non perderlo di vista, costretto com’era a rallentare ogni volta che alzava il fucile per abbattere uno dei soldati che provavano a sparare a Steve.

Quel pazzo correva a testa bassa verso il punto da cui era arrivato il grido di Monty. Ed era veloce. Maledetto quel siero maledetto.

Una sventagliata di proiettili colpì in pieno lo scudo, che rintoccò come una campana a lutto. Steve rallentò appena. Bucky si schiacciò contro un tronco e lanciò un’occhiata verso il punto da cui era provenuta la scarica. Tra le ombre dei tronchi era sicuro di averne vista una muoversi. Alzò il fucile e fece fuoco. L’uomo stramazzò riverso. Una figura apparve alle sue spalle, afferrò la mitragliatrice e sparò nella direzione opposta. Bucky avrebbe riconosciuto lo stile di Dernier ovunque. Si affrettò a lasciare la postazione e a rincorrere Steve.

Capire dove fosse era anche troppo facile. Bastava seguire le scariche di fucili, le urla di terrore e le grida isteriche del comandante. Purché non gli succedesse niente mentre era ancora così lontano, mentre non lo vedeva e non poteva vegliare su di lui. Ti prego, ti prego fa che non gli succeda niente. Quel grande, grandissimo idiota. Perché aveva dovuto caricare? Stava andando tutto così bene.

Atterrò un soldato che gli si parava davanti colpendolo col calcio del fucile e ad un altro piantò un calcio nel petto prima di sparargli in testa, ne schivò altri due e poi finalmente, finalmente, vide di nuovo Steve, impegnato in combattimento contro troppi, troppi soldati che cercava di arrivare alla camionetta dietro cui si riparava il comandante.

Ma Gabe e Monty, che non si erano mossi dalle loro postazioni, stavano sparando sugli uomini intorno, distratti da Steve, che non pareva curarsi delle pallottole che gli fischiavano intorno. E perché mai avrebbe dovuto curarsene l’imbecille? Perché avrebbe dovuto avere paura di venire fatto a brandelli da un colpo di mortaio? Che una baionetta gli squarciasse il ventre, lasciando le sue viscere rovesciarsi a terra? Che un un proiettile gli facesse esplodere un occhio e attraversasse il cervello?

Bucky sollevò il fucile e tutto rallentò di nuovo. Sentendosi di ghiaccio iniziò ad abbattere uno ad uno i soldati che sparavano a Steve, lasciando a lui quelli in corpo a corpo. Sei, sette, otto colpi. La Schmeisser di cui si era impossessato Dernier continuava a cantare. Nove, dieci. Dal lato opposto del campo di battaglia Jim si avvicinava. Undici, dodici, tredici. Un soldato si avvicinò pericolosamente a Gabe, Monty se ne accorse in tempo e gli sparò alla nuca, due, tre volte. Bucky non lo avrebbe fatto, era troppo occupato a proteggere Steve. Monty lo capiva. Anche Gabe lo capiva. Steve non l’avrebbe capito. Quattordici, quindici… doveva ricaricare.

Doveva ricaricare e per qualche secondo nessuno avrebbe potuto coprire Steve. Si tuffò dietro un albero e con mani tremanti sostituì il caricatore. Quando si voltò, Steve stava disperdendo i soldati intorno a lui, facendo si largo verso il comandante con una pura, strabordante forza fisica. L’uomo esplose cinque colpi contro di lui, prima che Steve saltasse oltre il cofano del veicolo e gli fosse addosso e cominciasse a percuoterlo violentemente con lo scudo, intimando la resa agli altri. Gli uomini alzarono esitanti le mani, sotto la minaccia dei fucili degli Howling Commandos.

Gabe e Monty si avvicinarono prudentemente, puntandogli i fucili addosso e facendo loro segno di gettare le armi. I tedeschi obbedirono. Bucky iniziò a respirare più liberamente.

Lo vide con la coda dell’occhio un secondo prima che sparasse, appostato su un albero esattamente come era stato lui. Vide il suo dito premere sul grilletto in un secondo prolungato per ore, giorni, millenni. Sparò a sua volta quando l’eco del colpo non si era ancora disperso e si precipitò verso Steve senza nemmeno aspettare di vedere il cecchino rotolare giù dal suo nido fra i rami.

Uno schizzo di sangue eruppe dal collo di Steve. Steve lo sfiorò  e guardò incredulo le dita vermiglie, come se non capisse cosa stava succedendo, poi tossì e un fiotto di sangue scuro e nauseabondo gli sgorgò dalle labbra, colandogli sul mento, impiastricciando quell’assurda uniforme, macchiando quell’inutile scudo. Quello scudo inutile che non aveva impedito che un proiettile lo trafiggesse, che i suoi occhi si facessero confusi e opachi e il suo respiro erratico e affannoso. Che non aveva impedito che Steve chiudesse gli occhi e si accasciasse sulle ginocchia.

Bucky fu al suo fianco appena in tempo per aiutarlo a distendersi, urlando “Jim, Jim, Jim! Cazzo, vieni! Jim!” con tutto il fiato che aveva in gola, mentre tentava di fermare il sangue con le mani, stringendo i fori dei proiettili con le dita callose.

Morita si materializzò accanto a loro, il kit di pronto soccorso già fra le mani.  “Ti prego Jim, ti prego Jim! Jim salvalo, salvalo… Jim, ti prego, ti prego Jim”.

Morita, pallido, ma calmo e professionale, tirò fuori la fiaschetta della soluzione Dakincarrel “Adesso ci proviamo, Sergente. Ma ho bisogno che tu resti con la testa sulle spalle. Spostati”.

“Non… non posso lasciarlo… Il sangue, c’è troppo sangue…”

“ Sergente, non fermerai l’emorragia così. Levati di mezzo, devo ricucirlo”.

Bucky riacquistò tanta lucidità quanto bastava ad annuire e a lasciare spazio a Morita, continuando a sorreggere la testa di Steve. Minuscole bolle apparivano tra il sangue che gli sgorgava dalla bocca, a ritmo con il battito discontinuo del suo cuore. Distolse lo sguardo e si obbligò a concentrarsi sulla ferita, fingendo che si trattasse di un altro, chiunque altro, ma non Steve.

Non avrebbe potuto sopportarlo.

Morita rovesciò la fiaschetta di soluzione sulla ferita, ripulendola quanto possibile, mentre il sangue continuava a scorrere. Prese delle bende indicò a Bucky dove premerle per rallentare l’emorragia e si dedicò a suturare l’altro foro di proiettile.

Un punto, un nodo, un punto, un nodo. La punta incurvata dell’ago che bucava la pelle e il muscolo e usciva dall’altra parte, sporca di sangue e di grasso trascinando dietro di sé il catgut attraverso la materia organica. Prima gli strati più interni della ferita, poi quelli esterni. La mano destra insanguinata di Morita che stringeva il nodo, mentre con la sinistra serrava i bordi della ferita. il foro nero del proiettile a malapena visibile in quel macello. Aveva assistito tante volte a quell’operazione, eppure non gli era mai parsa così penosa e sacrilega. Morita finì di occuparsi del foro di entrata e si dedicò a quello di uscita, costringendo Bucky a spostarsi di nuovo.

Solo dopo aver strappato con i denti il filo dopo l’ultimo nodo, Morita alzò lo sguardo e parlò di nuovo “Dobbiamo tornare al campo. Rapidamente. Il mio kit non basta per rattopparlo. E serve un chirurgo vero.”

Ma ce l’avrebbe fatto vero? Le cure di Morita sarebbe bastate a tenerlo vivo fino al rientro, fino al tavolo del chirurgo? Si trattava solo di tornare al campo il prima possibile?

Morita incontrò i suoi occhi e Bucky si rese conto che provava pietà per lui. E si sarebbe vergognato se non avesse avuto così paura, così dannatamente paura. “Non so, Sarge… Un uomo normale sarebbe già morto, ma Cap… Non si sa mai cosa aspettarsi da lui”.

Steve era lì, davanti ai suoi occhi e non era riuscito a proteggerlo. Che scopo aveva se non era nemmeno in grado di proteggere Steve?

Una mano sfiorò la sua. Abbassò lo sguardo appena in tempo, per vedere le palpebre di Steve tremare. Gli occhi blu, confusi e opachi, come gli occhi di Steve non avrebbero mai dovuto essere, si appuntarono nei suoi. “Bu-cky? Buck… Non respiro… Ho… polmonite di nuovo, Buck?”. Sembrava avere di nuovo quattordici anni, di nuovo fragile e minuto.

“Sei stato colpito, Steve. Tu non hai più la polmonite, ricordi?” .

“Fa… male”.

“Non devi parlare, teppista che non sei altro. Non parlare Steve. Mi hai quasi fatto morire di paura. Non vuoi farmi morire, vero?” Gli fece passare un braccio dietro la schiena “Jim dice che dobbiamo tornare al campo, devi alzarti Stevie”. Steve annuì come in sogno e rabbrividì per il dolore, le labbra gli si mossero senza ne uscisse un suono. Bucky sentì il suo peso gravargli sulle spalle, mentre si tirava faticosamente in piedi.

I suoi compagni avevano già provveduto a disarmare i tedeschi e a legare loro le mani e ora lo attorniavano. Gli bastò un’occhiata per capire che non uno credeva che Steve ne sarebbe uscito vivo. Non da una ferita in quel modo, non quando si trovavano a quattro ore di cammino dall’accampamento. Bucky doveva crederci invece, non poteva fare altro.

“Morita e Gabe con me. Prendiamo la camionetta dei crucchi e portiamo il Capitano all’ospedale da campo il prima possibile. Gli altri ci seguano con i prigionieri. Monty ti lascio il comando” Monty assentì, portandosi due dita in un rapido gesto al sopracciglio destro.

Afferrò il meglio possibile la vita di Steve e lo aiutò a girare intorno al veicolo, per salire sul sedile posteriore. Steve si appoggiava a lui con tutto il peso, i piedi che strusciavano, il capo che gli dondolava come quello di una marionetta a cui fosse stato tagliato il filo. Bucky rifiutò di pensarci. Con la camionetta potevano arrivare al campo in un quarto d’ora. Sarebbe andata bene, sarebbe andato tutto bene.

Steve crollò a sedere sul retro della camionetta e Bucky fu costretto a spostarlo come un peso morto, con l’aiuto di Gabe, per metterlo disteso, le gambe troppo lunghe piegate contro una delle portiere. Gabe fece il giro e si piazzò al posto dell’autista, mettendo in moto. Morita accanto a lui che non staccava gli occhi di dosso a Steve. Lui si accucciò tra il sedile posteriore e quelli anteriori, accanto alla testa di Steve.

 Morita gli allungò la borraccia e due compresse di penicillina “Cerca di fargli buttare giù queste e avvertimi se gli sale la febbre”.

Annuì in silenzio e sollevò la testa di Steve. “Steve, ehi Steve, doc dice che devi prendere queste. Steve, riesci? Fallo per me”.
Steve batté le palpebre confuso “Mi fa male… la gola”.

“Lo so, Stevie, ma devi proprio prendere la medicina, ok?”

Steve gli guardò le labbra, come per assorbire le sue parole attraverso gli occhi e poi il palmo dove teneva le due pasticche bianche. Le prese, con un gesto lento come quello di un novantenne e se le mise in bocca. Bucky gli accostò la borraccia alle labbra. Steve bevve un sorso a fatica, tossendo dolorosamente.

“Su, su stai tranquillo, Stevie, adesso andrà meglio, vedrai”. Probabilmente stava mentendo, mentiva anche a sé stesso, ma cos’altro poteva fare? Si sarebbe paralizzato se avesse ammesso anche con sé stesso che Steve avrebbe potuto non superare le prossime ore. Dio, ti prego, ti prego, restituiscimelo, so di non meritare niente, ma Steve, lui sì. Lui non merita di finire qui, ammazzato dai crucchi, senza vedere la fine di questa guerra immonda. Dio, ti prego, so di essere un pessimo cristiano, ma per questa volta, solo per questa, ascoltami. L’hai mandato tu qui. Hai lasciato che creassero quel siero maledetto. L’hai mandato tu qui e ora sta a te salvarlo.

Un gorgoglio sfuggì dalle labbra di Steve e Bucky le ripulì dalla bava e dal sangue e poi si dedicò a ripulirgli il volto, ridotto a una maschera vermiglia e le mani. Pulì un centimetro alla volta, con una delle pezze di Morita, inumidita con la preziosa acqua della borraccia. Strofinò le due scie sanguinolente che scendevano dalle nari e sfregò con la delicatezza di una madre il mento e le guance. Steve odiava essere sporco. Era sempre così attento a essere in ordine, lui. Non perché tenesse all’aspetto, ma perché sua madre gli aveva insegnato così e Steve non avrebbe mai potuto fare niente che non la rendesse meno che orgogliosa.

Eppure l’aveva fatta disperare così tante volte! Perché non poteva disobbedirle, ma ancora meno poteva restare inerte davanti alle ingiustizie e si tuffava a testa bassa, proprio come oggi, proprio come oggi, in discussioni e risse da cui non poteva uscire vincitore. Povera, povera Mary, che vita dura avere un figlio come Steve.

Così Bucky lo pulì meglio che poteva, per Steve, che non sopportava di essere sporco e per Mary, che lo aveva allevato così.
Steve lo guardò per tutto il tempo con quegli occhi confusi e opachi e, mentre stava finendo tossì una risatina “Sei… diventato… mia madre, Buck? Me la ricordavo… più carina”.

“Molto più carina Stevie, molto più carina. Era un angelo tua mamma. Riesci a bere un altro po’? Per tua mamma, Steve”
Non raggiungerla oggi, Steve, non oggi, è troppo presto. Mary, ti prego, lasciamelo ancora, ancora un poco. Scommetto che tu hai dell’ottima compagnia, lassù, in paradiso. Qui all’inferno, io ho bisogno di Steve.

Steve annuì e Bucky gli avvicinò la borraccia. Steve non tentò nemmeno di afferrarla, lasciò che Bucky la inclinasse quanto bastava a fargli scendere qualche goccia tra le labbra e inghiottì, tossendo sangue e saliva.

La motoretta avanzava nella nebbia, Gabe gli occhi fissi davanti a sé, Morita che scrutava dal finestrino, cercando tracce di eventuali nemici. Per Bucky esisteva soltanto Steve.

“Stai con me Steve, ok? Stai con me”. Perché ai feriti – ai moribondi – si dicevano sempre le stesse cose? Come se fosse stato nelle loro mani andarsene o rimanere. Ma Steve, Steve, di certo aveva la forza di far andare anche questa situazione nel modo in cui avrebbe voluto. Era Steve, lui era capace di compiere miracoli. Doveva solo crederci. Solo volerlo. “L’agente Carter ti sta aspettando Steve, non puoi fargli questo”. Non puoi farmi questo “Non vorrai deluderla? So che non vuoi. Uno schianto come lei. Davvero Steve, ci hai messo un po’, ma alla fine ti sei preso la migliore di tutte. Mi hai fregato, accidenti”. Lo aveva fregato davvero, sapeva che sarebbe successo prima o poi, che qualcuna sarebbe arrivata e glielo avrebbe rubato ma sembrava comunque troppo presto. Sarebbe sembrato sempre troppo presto. Ma non avrebbe protestato, non si sarebbe lamentato, Dio, ti prego, sarò solo felice per loro, ma ti prego, fallo vivere. “Quando l’ho vista la prima volta, con quel vestito rosso, ci sono rimasto di sasso. Non pensavo che avessi tanto gusto, Stevie, lo ammetto. Considerati fortunato che lei abbia un pessimo gusto, invece e che tu le piaccia anche con questo naso a becco e questa testaccia dura. Mi piace l’agente Carter, sì, mi piace veramente. Potrei anche insegnarle la ricetta del mio crumble di mele.” Qualunque cosa, purché vivesse “Te lo ricordi il mio crumble, Steve? Mi sembrano passati secoli dall’ultima volta che l’ho cucinato”.

“…ricordo. B-buono”.

“Ssssh. Non parlare Stevi, non parlare, ti fa male alla gola. Ti ricordi come lo facevamo? Con il pane raffermo e le briciole avanzante dei biscotti e giusto un poco di zucchero e margarina per dargli un po’ di sapore”.

Lanciò un’occhiata dietro di sé, ai sedili anteriori. Morita lo stava fissando e aveva di nuovo quell’aria intenta e compassionevole. Bucky lo guardò, implorando non sapeva cosa. Morita parve capirlo “Non è un uomo come gli altri, Sergente. Se qualcuno può farcela, quello è lui. Certo sarebbe utile se sapessi cos’è quella roba che gli hanno iniettato”.

Bucky scrollò le spalle, non sapeva molto più di Morita “È forte, veloce… più resistente, ma non so come funzioni. Si ammala meno spesso, questo sì”.

“Speriamo che almeno lo protegga dalle infezioni”.

“Ci vuole ancora tanto, Jim?”

“Dobbiamo andare piano, Sarge, con questa nebbia. E non vorrai sballottarlo troppo? Dobbiamo farcelo arrivare vivo al campo”.

“Certo… al campo”.

“Arriveremo in tempo, Sarge, fidati di me. Tienilo sveglio, continua a parlargli”.

“Ehi, Ehi, Steve, hai sentito cosa dice Jim? Devi restare sveglio. Apri quegli occhioni blu” . Steve lo guardò, gli occhi opachi e confusi, così poco da Steve, gli occhi di un moribondo.

“Sai, prima che fossi fatto prigioniero e tu arrivassi a salvarmi… un giorno, un giorno d’autunno ero nel su della Francia ed ero andato in avanscoperta con due commilitoni. Al ritorno ci siamo fermati in una fattoria”. Cercò di riportarla alla memoria, così come l’aveva vista, un frammento di imperitura bellezza in mezzo agli orrori della guerra, le ombre degli alberi da frutto che si allungavano sull’erba imbiondita dal sole calante, la facciata di pietra antica calda e accogliente, con l’intricato disegno di rampicanti e le grandi finestre a tutto sesto. “Ci siamo fermati a cercare qualcosa da mangiare e la padrona di casa ci ha cotto delle salsicce. Non hai idea di cos’erano quelle salsicce, Steve! Divine! Non mangiavo così da mesi. E dopo, mentre andavamo via, ho raccolto delle mele e me le sono messe in tasca”.

Lo scrocchio sotto i denti di quelle mele calde di sole era stato ancora più soddisfacente delle salsicce. Sapevano di vita vera, infanzia e pace. “ Che mele, Stevie! Un po’ bruttine a vedersi, gialle, maculate di marrone, ma il sapore! Il sapore! Non me le scorderò mai delle mele così, Steve! Dovresti assaggiarle”.

“Mi… -iacerebbe”.

“Allora, allora ascoltami, quando questa guerra sarà finita ti porterò lì, a vedere la colonica e ad assaggiare le salsicce e ci compreremo tutte le mele che vorremo. E ti farò un crumble, Stevie! Un crumble come non l’hai mai assaggiato, con la farina vera e lo zucchero e, lo giuro! Un panetto intero di burro, di quello giallo che non avevamo mai i soldi per comprare”.

Gli scansò i ciuffi incrostati di sangue dalla fronte, controllandogli la temperatura. Era sempre fresco, per fortuna. “Non vorrai morire prima di assaggiarlo, vero? Se no, non saprei con chi dividerlo. Il crumble migliore di sempre”.

“Ci siamo quasi, Sarge” la voce di Gabe lo fece sussultare. Gettò un’occhiata fuori dalla finestra e riconobbe con sollievo il terreno intorno al campo. Poco lontano intravedeva le ombre delle prime tende.

“Ci siamo quasi, Stevie, ci siamo quasi”.

Gabe sventolò uno straccio bianco  dal finestrino, prima che qualcuno avesse l’idea di sparare su quella kublewagen con tanto di svastica. “Siamo gli Howling! Abbiamo requisito la camionetta. Il Capitano è ferito, ci serve un medico subito”.

Una guardia corse via, verso l’ospedale da campo, gli altri soldati attorniarono il veicolo e li aiutarono a tirare fuori Steve.
Bucky rimase al suo fianco tutto il tempo, silenzioso e impassibile.

Aspettò che i barellieri, allarmati, afferrassero Steve e lo trasportassero nella tenda dell’ospedale. Aspettò che il chirurgo gli ponesse una sfilza di domande rapide e severe, a cui rispose con la maggior precisione possibile. Aspettò che infilassero a Steve l’ago di una flebo sottopelle, attaccato a un sacca di sangue scuro che presto si sarebbe mescolato al suo. Aspettò di vedere Steve che sprofondava nel sonno, sotto l’effetto dell’anestesia, la maschera di plastica macchiata di rosso ancor prima dell’inizio dell’intervento.

Solo allora cercò un angolo riparato e si mise a piangere. Benedetto quel siero benedetto.
 
 
 
 

 
  
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