Le coeur d'une maman
1.
Pirofobia, la paura del fuoco.
L’istinto di scappare alla più piccola
fiamma, all’odore di legna bruciata, alla candela accesa su una torta di
compleanno. Irrazionale. Lei non lo era, affetta di pirofobia si
intende. Il fuoco, semplicemente, lo detestava. Era un vicino caparbio con cui
discutere di una pianta mal potata, di un comignolo spazzolato sbrigativamente
mentre le sue lenzuola fresche e profumate sventolavano al sole. Lui, il fuoco,
il vicino, colui che a tutti i costi vuole ignorare ma puntualmente si
ripresenta, bussa alla sua porta, entra senza permesso, si accomoda sulla
poltrona preferita, proprio quella. L’ha lasciata volutamente nella stanza, in
attesa di un uomo, il suo, quello che le ha promesso di finire lo spettacolo e
portarla fuori a cena. La poltrona su cui nessuno mai si accomoda, nonostante
quella cena non l’abbia mai consumata.
La tacita decisione, sua e di Kaito,
non del fuoco.
Lui è tornato, questa volta senza bussare.
«Non
preoccuparti, tornerò presto»
La solita risposta sbrigativa,
frettolosa, forse un po’ insofferente.
L’età in cui la raccomandazione di un
genitore diventa superflua, opprimente, nonostante gli abbia soltanto chiesto
di prestare attenzione. Tornerà, lo ha detto, ma non lo ha promesso. Kaito le
promesse non le fa, ha smesso nove anni fa.
«Quasi
preferisco quando sei a Las Vegas»
L’indole
ribelle, il borbottio scontento ingoiato dalla porta sbattuta, le montagne
russe adolescenziali. Kaito, però, non è un adolescente normale, non lascia
trapelare emozioni. Lui non la vuole lì, per davvero. La realtà con cui ha
imparato a convivere, anche senza che lui parlasse. Kaito non la odia, odiare è
un parolone troppo grande, ha solo perso il genitore per cui provava maggiormente
amore. L’uomo che lo capiva, masticava la sua stessa
lingua di magia, quello da imitare, in tutto, pure nelle folli vesti bianche
che lo hanno condannato a morte.
«Non
preoccuparti, tornerò presto»
Il fuoco le sorride, alle spalle della giornalista,
indomabile da quattro ore. L’attesa è solo una questione di abitudine.
L’attorcigliarsi di una routine dimenticata, ripiegata su stessa, protratta
all’indietro vero la precedente strada sterrata. Lei questa volta è lontana,
non sente il fumo nei polmoni, può solo vederlo. Il bambino scalciante stretto
al petto non le perfora i timpani con le urla, è lontano pure lui. Leggiadro
come una piuma ha fatto la sua apparizione sulla teca, quella esplosa.
«Non
preoccuparti, tornerò presto»
La giornalista tossisce, si copre la bocca e lei perde il
filo.
Il televisore è impostato sul muto, non vuole sentire la gente urlare, ma così
non può seguire il labiale. Hanno estratto un altro corpo, il quinto, sempre
ferito, ancora nessun morto. La valeriana balla sulla superfice dello stomaco,
la divisa bruciacchiata della polizia svetta sulla barella trascinata di corsa.
Può sospirare, di sollievo misto a egoismo, altrove ci sarà un’altra mamma come
lei appena caduta nello sconforto.
Kaito, però, è ancora disperso, tanto le basta per non
vomitare.
La fede tintinna contro la ceramica, si infrange contro la
durezza stretta tra le dita in cui il sangue ha smesso di circolare. Il
promemoria ingrato del suo primo e unico amore, della sua eterna maledizione.
«Non
preoccuparti, tornerò presto»
La fatiscente tazzona scricchiola e lei allenta la presa,
non vuole distruggere quel ricordo, esuberante e anticonvenzionale come il suo autore.
Il sole blu, le nuvole arancioni, il prato rosa shocking, lei, una figura umana
informe alta quanto l’albero rosso. L’insegnate dell’asilo francese preoccupata
di un eventuale daltonismo inesistente. La tazza conservata gelosamente durante
il trasloco da una nazione all’altra, riposta nella credenza, nell’angolo dove
Kaito non sarebbe mai andato a curiosare.
La prova di essere stata la mamma, quella da amare, come il
papà.
«Kaito, perché hai disegnato le nuvole arancioni?»
«Il bianco non mi piaceva, era noioso»
«Noioso?»
«Sì…tutti usano il bianco, è noioso, così invece è speciale»
La linea torna allo studio, la pubblicità del dentifricio
occupa lo schermo, le notizie del mattino sono concluse. Tre ore al prossimo
aggiornamento, centottanta minuti di attesa. Ha le persiane del soggiorno da
lavare, la lavatrice da caricare, la libreria da rassettare. Ripensa a tutto e ingoia
la punta amarognola delle erbe radicate sul palato.
Le gambe le tremano, colpa della posizione, le ha tenute incrociate.
Poggia la tazza ricolma per metà sul comodino, ha già versato troppe gocce sul
copriletto, preferisce afferrare il telefono. Il numero selezionato ricambia il
suo sguardo, una chiamata, le basterebbe una sola chiamata. Le dita scrollano
la sezione contatti e lo schermo si oscura.
Attende, il sole è quasi sorto, lei attende.
Ricarica la pagina della testata giornalistica prescelta,
aggiornata in tempo reale. Lo sa, è una bugia, passano venti minuti tra un report
e l’altro, non è tempo reale. Lo schermo suda, no, sono le sue mani che
scivolano sulla superfice. L’incendio è stato doloso, tentato omicidio. Il
proprietario del gioiello ha assoldato un dinamitardo, in un forum, il mondo che
va a puttane senza che nessuno ci presti correttamente attenzione. La
disperazione cede il passo alla rabbia, uno sconosciuto ha tentato di ammazzare
suo figlio, a pagamento.
«Non
preoccuparti, tornerò presto»
Sessantottomilaseicentocinquantatré*
yen, il valore della vita di Kaito.
È quanto ha affermato l’uomo, rabbioso, davanti alle telecamere, più
preoccupato per i danni collaterali al suo edificio che una vita stroncata. Era
giustificato, dice, un modo come un altro per togliere di mezzo un criminale,
ammette. I feriti sono pochi poliziotti, le morti continuano a mancare, si è
assicurato che tutti gli innocenti fossero abbastanza lontani. Tutti tranne
lui, tranne il suo Kaito. L’ignobile ladro che aveva osato provare a portare
via la preziosa gemma, quello che meritava una fine così scenica.
«Non
preoccuparti, tornerò presto»
Il
tempo scorre, il sole è ora alto, atri centoventi minuti al prossimo
telegiornale.
Rilegge il trafiletto in attesa del successivo, un sorriso amaro le contorna le
labbra alla frase in grassetto. L’ispettore Nakamori ha alzato le mani sul
riccone pomposo al termine delle dichiarazioni, inferocito, ottenendo in cambio
grane burocratiche e la blanda consolazione di avergli rotto il naso. Troppo
poco, pensa tra sé, immaginando di uccidere quell’ignobile uomo con le sue
mani. Il sapore del desiderio di vendetta lo conosce bene, non è la prima volta
che lo prova, ha alle spalle nove anni di esperienza.
«Non
preoccuparti, tornerò presto»
Il
logo dell’edizione straordinaria del telegiornale interrompe la televendita, la
conduttrice affranca parole su parole cambiando velocemente i fogli dinanzi a
lei. Il cuore accelera, a tratti rallenta, non è più certa di cosa stia
ascoltando. Ha occhi solo per il televisore, il poderoso edificio occupa la
visuale, ingrigito e sfaldato, per tutta la lunghezza degli ultimi dieci piani.
L’incendio è stato domato, la polizia ha cominciato il sopralluogo con i
pompieri. La giornalista questa volta arranca, incastra il microfono sotto la
spalla e solleva la prova di tutta quell’agitazione. Il mantello non più tanto
bianco pende floscio dalle sue mani, quasi del tutto incenerito, e lei lo sa,
non è un’imitazione. Il telaio fuso dell’aliante si confonde con la stoffa, arricciato
grottescamente su stesso, la via di fuga prediletta purtroppo mancata.
«Non
preoccuparti, tornerò presto»
Kaito,
la danza annoiata dei suoi occhi, il sorriso sfacciato, sbilenco, mentre tira
su la zip della felpa uscendo di casa. L’ultima raccomandazione mormorata alla
porta dolcemente richiusa.
«Non
preoccuparti, tornerò presto»
Poche
ore e il ricordo ha già ha mutato forma. Kaito non le ha sorriso, le sarebbe piaciuto
ma non lo ha fatto. È andato via scontento, sbattendo quella porta, allontanandola
dal suo mondo, quello in cui non può più provare a comprenderlo.
«Non
preoccuparti, tornerò presto»
Il
servizio continua senza che lo veda, ha occhi solo per quel ricordo che le strazia
il cuore. Le emozioni l’hanno abbandonata. Resta ferma, immobile, su quel letto
perfetto troppo grande, poi lo sente. Il cigolio, quello familiare, quello della
finestra del bagno non oleata a sufficienza. Tende l’orecchio, il tanto che
basta per il fruscio della stoffa nel corridoio, infine il silenzio. Non sente
più nulla, le orecchie sono ovattate, se Kaito ha cambiato stanza non lo
rileva.
È
una sciocca, se lo ripete una seconda volta accartocciandosi sulle ginocchia,
le mani premute sulla bocca. Lui è vivo, non è morto nell’incendio, è tornato a
casa. Le lacrime contro ogni volontà le inondano gli occhi riversandosi sulle
guance mentre il sollievo le prosciuga le energie, rammentandole la notte
insonne.
Toichi
non c’è più, Kaito è ancora lì.
Silenziosamente
è alla sua porta, le guance asciugate frettolosamente.
Il sole inonda la camera dannatamente ordinata, il desiderio giornaliero con
cui ogni altra madre dovrebbe convivere. Kaito è disteso sul letto, a pancia in
giù, profondamente addormentato. Il pantalone bianco annerito ancora indosso, ignifugo
ma bruciacchiato in più punti, la giacca manca all’appello e poco le importa. Le
braccia lasciate scoperte dalla camicia blu arrotolata le consentono la sua
analisi scrupolosa. Non vi è alcuna bruciatura, qualche escoriazione a malapena
disinfettata ma nessuna pericolosa ustione con cui fare i conti.
Kaito
sta bene, ne è uscito miracolosamente indenne.
Il
sospiro è pesante mentre si avvicina, sfiora la guancia cosparsa di fuliggine
in una carezza appena accennata. Kaito mugugna strofinandosi sul cuscino,
imbrattando di nero le lenzuola, afferrando nel sonno la mano ancora adagiata
sulla sua faccia.
«Papà…»
«Shhh, figliolo…continua a dormire»
Le
corde stringono dolorosamente il suo cuore mentre la voce dell’uomo tanto amato
abbandona naturalmente la sua bocca, un’imitazione facile, la più piccola
intonazione è stampata nella sua memoria, difficile da dimenticare.
Kaito
si rilassa, la presa attorno alla sua mano scompare, il respiro si fa flebile e
leggero. Non c’è posto per lei in questi casi, se n’è fatta una ragione.
«Buonanotte amore mio»
Le
dita sfiorano la franga ricaduta sulla fronte, spazzolano via i superflui
sprazzi di cenere. Le lacrime premono nuovamente agli angoli degli occhi, le
ignora, ricacciandole indietro con un sorriso strozzato. Inspira le tracce di
cenere adagiando un bacio affettuoso sugli ispidi capelli prima di uscire. La
sveglia portata con sé, la tapparella abbassata e la coperta accuratamente
sistemata sulla figura addormentata, infilata dolcemente sotto le lenzuola con
la delicatezza di una fata.
È
riuscita a sistemarlo a letto senza svegliarlo.
Ha
bisogno di un minuto per sé stessa, del suo autocontrollo.
Si sposta in cucina, lontana dalla camera.
Distante dal mormorio flebile soffocato dalle coperte.
«Buonanotte mamma»
Note finali
* circa 500 euro
Sì, sono sempre io, quella
che inizia storie senza aver completato le altre.
Questa volta con protagonista Chikage Kuroba e il suo legame con Kaito, molto
sfaccettato, perlomeno secondo la mia impressione. Mi hanno sempre dato l’idea
di volersi bene ma in un detto non detto, quasi come se dirlo apertamente fosse
un’offesa per Toichi. Kaito vuole bene alla madre più di quanto sia disposto ad
ammettere e lei, beh, come tutti i genitori non sempre se ne rende conto.
Quindi, eccovi un viaggio
di momenti madre-figlio.
In aggiornamento altalenante. ç.ç
Le recensioni sono ben
accette, volendo anche i piccioni viaggiatori, evitiamo però i segnali di fumo,
ci manca solo che scoppi un incendio a causa mia. ❤️
Alla prossima,
Aky
Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà
di Gōshō Aoyama,
questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro