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Autore: JulesB    12/08/2022    1 recensioni
Satoru si ritrova a fare i conti con la perdita di Suguru, in un appartamento vuoto e nuovo che non gli appartiene (modern au).
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Geto Suguru, Gojo Satoru
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Satoru era stanco. Lui e Suguru si erano separati qualche settimana prima, una secchiata d’acqua gelida che aveva colto impreparato Satoru. Gli ultimi mesi erano stati un vero e proprio strazio, tra il trovare un appartamento nuovo e lo spostare un’intera vita in un bilocale minuscolo e ristretto, vuoto, senza alcun ricordo ad esso legato. E da quando si era stabilito lì, nella sua nuova casa, non era più riuscito a dormire. 
 

Ogni notte si svegliava in preda al panico, da solo in un letto matrimoniale. Gli mancavano le braccia di Suguru che lo stringevano durante la notte, quel suo corpo caldo avvolto a Satoru; i suoi capelli neri che spesso si appiccicavano sul suo viso; i suoi respiri regolari sul collo di Satoru, che spesso gli provocavano un brivido lungo la schiena; quei mille più uno baci prima di addormentarsi serenamente.
 

Quanto era difficile costruire la felicità e la quotidianità, ma quanto era facile distruggerla nell’arco di una manciata di minuti.
 

Per Satoru era difficile capire come tutto potesse essere finito, come ogni promessa si fosse rivelata vuota. La testa piena di perché, che non avrebbero mai ricevuto una risposta. E, anche se ne avesse ottenuta una, a chi avrebbe giovato riceverla?
 

La sua vita doveva comunque andare avanti, anche se la nuova routine gli pareva inconsistente e priva di senso. Il dolore lo distruggeva e spesso lo coglieva alla sprovvista, impreparato, e sentiva il cuore dolere come mai gli era successo prima di quel momento. Ma ogni volta che qualcuno gli chiedeva come stava, Satoru rispondeva che andava tutto bene. Nonostante tutto il dolore, pensava ancora a Suguru e al suo benessere; Satoru non aveva mai imparato a mettersi al primo posto.
 

All’esterno Satoru sembrava rilassato, sereno, con il solito sorrisino ammiccante e le battutine sempre pronte; all’interno era come se un mostriciattolo gli stesse mangiando le carni e le divorasse senza pietà. Era un dolore tutto nuovo che mai si sarebbe aspettato di provare, perché credeva che lui e Suguru sarebbero riusciti ad affrontare ogni tempesta. 
 

Folle, da parte di Satoru, crederlo davvero.
 

Quel pomeriggio, però, si era ritrovato Suguru nel suo nuovo appartamento, con i capelli sciolti e l’aria serena, e il suo cuore aveva fatto una capriola. Nonostante non si aspettasse una sua visita, Satoru l’aveva lasciato entrare. Non sapeva bene che dire o cosa fare, non si erano più sentiti da quando aveva detto addio a casa loro e alla loro vita insieme, ed era così strano trovarlo lì.
 

Per un breve istante, Satoru sperò che Suguru avesse cambiato idea, avesse capito cosa fosse andato storto ed era pronto a ricominciare. Anche Satoru l’avrebbe fatto, si sarebbe inginocchiato se fosse stato necessario, avrebbe supplicato di dare loro una terza, quarta, quinta occasione. L’orgoglio, però, era ancora una spina che lo pungeva in modo costante nel fianco e non gli permise di fare nulla di tutto quello. 
 

Satoru lo accolse come se niente fosse nel suo appartamento, che gli pareva triste ed era ammobiliato con poche cose, un divano e un tavolino nel soggiorno, una cucina con l’essenziale e, per fortuna, si sarebbe risparmiato il dover mostrargli la camera da letto scialba. Tutto quello, per Satoru, significava fallimento, perché sembrava che non fosse riuscito a rimettere insieme i pezzi della sua vita dopo Suguru. Il che era vero, ma non c’era bisogno di farglielo sapere.
 

Suguru si mosse nel soggiorno, guardandosi attorno con un’aria mezza incuriosita e mezza perplessa. Non c’era molto da guardare, neanche un quadro o una foto appesa alle pareti bianche; quindi, Satoru si chiese cosa stesse facendo. Era strano vederlo lì, in quello spazio che sarebbe dovuto diventare la sua nuova vita senza di lui. Avrebbe insozzato anche quello, costituendo il primo vero ricordo di quella casa? 
 

“Che ci fai qui?” chiese Satoru alla fine senza troppi preamboli, una lieve punta di rabbia nella sua voce. Si infilò le mani in tasca, per cercare di tenerle a bada e non iniziare a gesticolare come un matto. Quel silenzio e lo sguardo scrutatore di Suguru avevano iniziato a turbarlo e, invece che lasciarsi andare a una fervida immaginazione, era stato comunque meglio chiedergli il motivo di quella visita inaspettata.
 

“Volevo parlarti,” rispose semplicemente Suguru, e lo guardò negli occhi con un’intensità tale che Satoru fu travolto da quel mare nero. Quasi perse l’equilibrio, quello sguardo sarebbe riuscito sempre a spiazzarlo, perché celava una profonda e disarmante sincerità. 
 

“Non penso ci sia molto da dire.” Il tono di Satoru si fece un po’ più duro, perché voleva affrontare tutta quella situazione con il distacco necessario. Decise di allontanarsi da Suguru, la sua presenza fisica in quella stanza lo stava soffocando. 
 

In quelle settimane le sue emozioni lo avevano tormentato in modi diversi, passando da un sentimento all’altro come se fosse indeciso, come se non avesse chiara in mente la situazione. Ma eventi e fatti e date e momenti si susseguivano nella sua testa senza un ordine preciso, facendolo muovere tra un’emozione e l’altra senza capirci granché. In quel momento, Satoru era arrabbiato. Non pensava avrebbe rivisto il volto di Suguru e nella sua testa cercava un modo per dimenticarsi quegli zigomi marcati, quelle sopracciglia così sottili e scure da sembrare una pennellata agile; dimenticarsi la forma morbida delle sue labbra. Dopo settimane ci era quasi riuscito, ma vederlo di nuovo aveva cancellato ogni sforzo.
 

Satoru lasciò il soggiorno e si recò in cucina, e la prima cosa istintiva che fece fu aprire il frigorifero e prendere una bottiglietta d’acqua. Richiuse lo sportello con un po’ troppa rabbia e con la stessa forza svitò il tappo. Ne bevve un sorso, sentendo il gusto fresco e liscio dell’acqua scivolargli sulla lingua, poi nella gola. Peccato che non beveva alcolici, altrimenti avrebbe mandato giù un goccetto di vodka. 
 

Suguru, però, non lo aveva seguito; era rimasto in soggiorno, in piedi in mezzo alla stanza. Dalla cucina, Satoru poteva vedere metà della sua figura slanciata e sottile. Era in gran forma, nonostante tutto quello che era successo, e Satoru un pochino lo odiava per questo. D’altronde, chi era lui per giudicarlo? Anche Satoru sembrava stesse bene, come se non fosse successo nulla e Suguru non avesse mai fatto parte della sua vita, come se non fosse mai esistito. Non poteva avercela con lui e non con l’aspetto di sé che aveva deciso di mostrare agli altri. 
 

Dopo altri due sorsi di acqua, Satoru tornò in soggiorno. Con finta nonchalance si sedette sul divano, le dita strette attorno al collo della bottiglia che a causa del caldo stava già iniziando a bagnarsi di condensa, mentre l’altro braccio lo aveva appoggiato penzoloni sopra il bracciolo.
 

“Parla,” disse in tono duro Satoru, senza guardare il suo ex ragazzo negli occhi. Se lo avesse fatto, si sarebbe perso e mai più ritrovato, perché innamorarsi di lui era stato facile, amarlo era stato complicato. Era stato come allungare una mano per afferrare una rosa, ma ogni volta avvolgere le dita attorno a un intricato filo di spine. E quando gli sembrava di averla raggiunta, di essere riuscito a sentire la morbidezza dei petali sui palmi delle sue mani, ecco che il bocciolo gli sfuggiva di nuovo e le spine lo graffiavano.
 

Satoru non voleva più ferirsi in quel modo. Nella vita aveva subito così tante perdite e colpi bassi che quello era stato l’ultimo, uno in più e avrebbe ceduto.
 

“Sei sparito, Satoru. Non esci più, non ti fai più vedere,” iniziò Suguru, e dal suo sguardo sembrava sinceramente preoccupato, “e Shoko è preoccupata. Sei chiuso in questo buco da settimane, non fai altro che lavorare. Dovresti uscire, divertirti. Fare qualsiasi cosa.” 
 

Satoru si morse la punta della lingua, perché la risposta impulsiva non sarebbe andata bene. Avrebbe voluto dirgli che non aveva le forze per dormire, figurarsi di uscire e fingere che tutto stava andando bene; non aveva voglia di mangiare, dove avrebbe trovato la voglia di vedere altre persone? Non riusciva a fare niente senza pensare a Suguru e a come insieme si sarebbero potuti divertire, a quante cose ancora avrebbero potuto fare, posti da visitare, cibi da assaggiare. 
 

Uscire significava mentire e indossare costantemente una maschera, e indossarla in modo costante e attivo richiedeva uno sforzo che Satoru non sapeva se fosse in grado di portare. Perlomeno, non in quel momento, non ancora. Nascondersi in casa sua e perdersi da solo dentro il suo dolore era una strada più facile, la sola che era riuscito a percorrere
 

“Non è un tuo problema, non trovi?” chiese sarcastico, invece. Tra loro due ormai non c’era più contatto, Suguru si era volatilizzato dalla sua vita e non aveva alcun diritto di tornare in quel modo. Nessuno gliene aveva dato il permesso. “Queste cose non ti riguardano più. Io non sono più un tuo problema.”
 

Satoru era convinto che avrebbe passato il resto della sua vita con Suguru, una certezza che gli era stata brutalmente strappata via. Satoru sapeva che non aveva controllo sul futuro, sapeva che fare piani e prendere decisioni alla lunga si sarebbe rivelato pressoché impossibile, perché la vita e il destino trovano sempre un modo per metterti il bastone tra le ruote, ma era tutto crollato davanti a lui. Un vetro che si era infranto in pezzi così piccoli che era impossibile da aggiustare.
 

“Sono comunque preoccupato per te.” La voce di Suguru era dolce, quasi melodica, e a Satoru era mancato anche quel piccolo dettaglio. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter risentire quel suono ogni mattina. 
 

Ma, nonostante ciò, Satoru non riuscì a controllarsi. Afferrò la bottiglia con entrambe le mani e una risata amara gli scoppiò tra le labbra come un petardo impazzito e fuori controllo. Si sporse in avanti, con la testa abbassata e il mento che quasi gli toccava la base del collo. Non era arrabbiato, come avrebbe potuto esserlo? Alla fine, non era stata una decisione di nessuno, non era colpa di Suguru se le cose tra di loro erano andate in quel modo. 
 

“A che serve?” domandò Satoru dopo esser riuscito a riprendere il controllo delle proprie facoltà e del suo corpo. “Non ha più senso ormai. Tu,” Satoru mosse una mano a indicare la figura di Suguru, “non fai più parte della mia vita.”
 

Satoru rialzò lo sguardo e osservò l’aspetto distinto di Suguru. Aveva un che di torreggiante, una figura che riusciva a imporsi e a catturare l’attenzione su di sé. Era sempre stato così. Ogni volta che Suguru entrava in una stanza, lo sguardo dei presenti si posava su di lui e lo osservavano con fare meravigliato, come se la sua sola presenza inebriasse i loro sensi. Succedeva ogni volta anche a Satoru, che non mancava mai di posare gli occhi su di lui e innamorarsi un pochino di più ogni volta. Suguru aveva una specie di aura magica che lo avvolgeva. 
 

“Mi sono sempre preoccupato per te,” ribatté Suguru, la sua espressione rimase serena e il suo sguardo sembrò addolcirsi. 
 

“È vero,” ammise Satoru. Si alzò in piedi e abbandonò la bottiglietta quasi finita sul tavolino. “Questo non vuol dire che farlo anche ora è necessario, però. Abbiamo preso due strade diverse, è meglio che continuiamo a percorrerle.”
 

Suguru sembrava bloccato in quella posizione, come se si fosse congelato lì e anche volendo non sarebbe riuscito a muovere un passo; mentre Satoru ormai aveva perso il controllo. La punta di rabbia che si era insinuata in lui si sciolse come un fiocco di neve al sole, e lasciò lo spazio per una sensazione che stava accompagnando Satoru da settimane: rassegnazione. 
 

“È passato così tanto tempo,” continuò Satoru, ormai il fiume dei suoi pensieri si era tramutato in parole e non riusciva ad arginarlo. Se ne sarebbe sicuramente pentito, ma le emozioni che aveva represso per giorni riaffiorarono e si impossessarono di lui. “Ho rinunciato a noi. Ci ho provato a tenere le redini della mia vita, ma si sono trasformate in serpenti velenosi e mi hanno morso, avvelenandomi. Sono rimasto aggrappato il più possibile a te, alle tue cose, al ricordo di quelle che noi eravamo, ma ad un certo punto ho dovuto mollare la presa. Faceva, e fa, troppo male. Ho delle responsabilità, una vita da portare avanti, non posso rimanere ancorato al passato in questo modo. È necessario, lo capisci?”
 

Satoru non era riuscito a stare fermo. I piedi si muovevano veloci sul pavimento, come una trottola impazzita che non riusciva a stare ferma in un punto; affondò le mani in tasca e strinse le dita in un pugno, sentendo le unghie affondare nei palmi. Il tono della sua voce si era ulteriormente abbassato ed emanava malinconia, suonava rauca, come se Satoru fosse in mezzo al deserto da giorni senza aver avuto occasione neanche di bagnarsi le labbra.
 

La vista di Satoru si era così annebbiata che, continuando a guardare Suguru come se fosse una statua in mezzo alla stanza, i bordi del suo corpo sembravano sfocati, come se vibrassero nell’aria e fossero solo un effetto ottico. Per un breve istante, Satoru pensò di poter vedere attraverso il corpo di Suguru. 
 

“La cosa triste è che tu,” Satoru si avvicinò a Suguru, pur sempre mantenendo una certa distanza, “non dovrai mai fare i conti con questa situazione. Tu sei libero, lo capisci? Un’aspirazione che non potrò mai raggiungere.” 
 

Suguru allungò una mano e cercò di appoggiarla sul braccio di Satoru, che però si spostò. Non voleva essere toccato, afferrato da quelle dita sottili. Lo sguardo di Satoru cadde sulla mano ossuta di Suguru, ferma nell’aria tra di loro, e sulle vene che attraversavano il dorso come rami di un albero, e di colpo ricordò di tutte quelle volte che gliela aveva presa e baciato i polpastrelli a uno a uno, di tutte quelle volte che con la punta del suo dito aveva tracciato quelle linee violacee.
 

“Anche per me non è facile,” disse Suguru. “Pensi che stare lontano da te, da colui che ho sempre ritenuto il mio unico amore, sia stata una mia scelta? Io ti conosco, Satoru, so cosa ti turba. Stai pensando a tutte quelle volte in cui non ci sei stato, in cui hai dovuto lavorare o rimandare i nostri piani. Ti stai dando una colpa, quando colpa non ne hai.”
 

Satoru venne risvegliato da quelle parole e rialzò lo sguardo sul volto di Suguru, ora una maschera di tristezza. Respirò a fondo e cercò di tenere a bada il cuore che galoppava nel petto, lo sentiva battere addirittura fino su alla gola. “Tu lo sai?” Suonò come una domanda bieca e i suoi occhi si assottigliarono. “Tu non sai cosa vuol dire fare i conti con la tua mancanza, come ci si sente a essere me. Potremmo anche star qui ore e ore a parlarne, ma abbiamo due caratteri diversi, due modi diversi di vedere il mondo. Non riuscirai mai a comprendermi.”
 

Suguru si passò una mano tra i capelli e fece un passo verso Satoru, ormai mezzo metro li separava. Il suo respiro agitato riecheggiava per quei muri spogli, l’unico rumore che riempiva la stanza. “Non rendermi il cattivo di questa storia.” Fu l’unica cosa che riuscì a dire Suguru, in un bisbiglio. Il suo sguardo si riempì di sconforto e rassegnazione, un dolore che Satoru non aveva mai visto sul volto dell’amato.
 

“Ma tu sei il cattivo della mia storia,” rispose Satoru, la voce carica di amarezza. Fu solo un sussurro, ma perfettamente udibile. “Non importa cosa pensa la gente di me, non mi importa cosa pensa la gente di te. L’unica cosa che conta è che io sto affrontando tutto questo da solo. Tu mi hai abbandonato all’improvviso e io non ero pronto.”

“Credi che io l’avessi programmato o deciso?” chiese con sdegno Suguru. Si morse il labbro inferiore, affondando i denti in quella carne rosa. Una ciocca di capelli scuri come la china sfuggì al suo controllo e cadde sul suo viso. “Ho rinunciato a così tante cose e negli attimi prima che me ne andassi mi sono sentito profondamente solo. Come puoi darmi dell’egoista? Vivevo in funzione di te, della tua felicità, e alla fine per cosa? Ogni gesto e ogni parola hanno perso di significato, tutto quello che ho fatto o detto è stato del tutto inutile. Guarda dove siamo ora.” 
 

“Noi?” la voce di Satoru suonò squillante e alterata. Satoru perse nuovamente il controllo e anche il trattenere le lacrime gli venne difficile, tant’è che iniziarono a scendere copiose, una dopo l’altra a bagnargli le guance. “Non ti rendi conto che non esiste più un noi e sono rimasto solo io? In questo folle mondo, che corre e non si ferma un secondo, sono rimasto a combattere da solo. Da quando i nostri sguardi si sono incrociati la prima volta ti ho sempre avuto al mio fianco. Ora, dopo anni, non ci sei e mai avrei pensato di dovermi abituare a un’esistenza senza di te, senza la tua presenza, il tuo profumo o la tua voce. Ecco cosa sto provando da settimane, Suguru. Questo!” Satoru si indicò il volto. Aveva gli occhi già arrossati, la pelle del viso che sembrava stesse brillando; Satoru sentiva un tremolio all’occhio sinistro, probabilmente dovuto allo stress. Si odiava per essersi reso così vulnerabile.
 

Satoru digrignò i denti e iniziò ancora a muoversi per tutta la stanza. Non si era mai mostrato in quel modo, in preda alle emozioni senza averne nessun controllo. Forse era stato proprio quello il problema che gli impediva di gestire quella storia con coerenza: la sua volontà nel mantenere sempre la stessa espressione rilassata e per niente preoccupata nonostante le cose attorno a lui si stavano sgretolando. Forse se si fosse abbandonato di più alle emozioni, lasciando che lo travolgessero, non sarebbe finita in quel modo.
 

Il volto di Suguru sembrava di marmo: pallido e rigido, spigoloso. Eppure, Satoru ricordava quel viso illuminato dalla felicità; ricordava Suguru con gli occhi chiusi quando le risate erano troppe; Satoru ricordava la loro vita insieme, tra giochi infantili e stupidi scherzetti, risate che riempivano la stanza. “Ti ho amato fino alla fine, Satoru, devi credermi. Ogni mio respiro era dedicato a te.”
 

Il petto di Satoru iniziò ad alzarsi e abbassarsi rapidamente, quelle parole avevano avuto un effetto strano su di lui. Satoru aprì una mano e se la appoggiò lì, il palmo rivolto verso il cuore e le dita arricciate alla sua camicia. Se avesse teso la stretta, qualche bottone sarebbe saltato. Stava disperatamente cercando un modo per tornare a respirare. “Non riesco a darmi pace, non riesco a rispondere alle mie domande. Non potrai mai rispondere nemmeno tu. Odio te per avermi lasciato, odio me stesso per aver fatto sì che succedesse. Se potessi tornare indietro nel tempo, io…” Satoru abbandonò la frase a metà, come colto da un malore improvviso che gli impediva di parlare. 
 

Inspirò a fondo e chiuse gli occhi, cercando inutilmente di darsi una calmata. Fermare le sue emozioni in quel momento sarebbe stato inutile e controproducente, avrebbe dovuto lasciare che lo colpissero come una cascata. “Perché mi hai lasciato?” Il volto di Satoru si tramutò in una maschera di dolore: le sopracciglia abbassate, gli occhi lucidi, la bocca dischiusa e il labbro inferiore tremolante. 
 

“Non era quello che volevo,” la voce calda di Suguru lo raggiunse come una sinfonia vecchia, ma mai dimenticata. Strinse le labbra in una sottile linea bianca e lo guardò con quegli intensi occhi scuri come la notte. “Volevo noi due, volevo te.”
 

Satoru si arrese e il pianto ricominciò a scuotergli il corpo. Strinse la mascella e riuscì a fermare le lacrime, riuscì a far smettere le spalle di tremare a causa dei violenti singhiozzi. Si asciugò una guancia con il dorso della mano e si pizzicò quel mezzo centimetro di pelle tra le sopracciglia.
 

“Ti credo, Suguru.” I suoi polpastrelli scivolarono sulle palpebre chiuse e le strinse, come se stesse cercando di strizzarle per far scendere le ultime gocce salate. “Non importa quanto abbiamo voluto che tra noi funzionasse ogni cosa, alla fine è sfuggito tutto al nostro controllo. Non è colpa tua.”
 

Calò il silenzio e i loro occhi si incrociarono attraverso la stanza. Fuori il sole era alto e filtrava caldo dalle finestre, ancora senza tende ma con le tapparelle abbassate a metà. I raggi colpivano la bottiglia trasparente, abbandonata sul tavolo, con ancora due dita di acqua ormai calda e le gocce di condensa che avrebbero di certo lasciato un cerchio perfetto sul tavolo in legno chiaro. Sottili puntini di polvere fluttuavano tra di loro nell’aria, e si muovevano così piano e lentamente che sembravano quasi un effetto ottico dovuto alla tristezza e al pianto e alla stanchezza.
 

Suguru sospirò e si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, con lo sguardo basso rivolto ai suoi piedi. Satoru si chiese a cosa stesse pensando, ma che cos’altro c’era da dire quando una storia finiva e nessuno dei due aveva preso quella decisione? Un giorno gli avevano detto che tutte le coppie, anche quelle giuste, prima o poi si separavano. Se sono fortunate, sarà la morte a porre fine al loro amore.
 

Satoru, dunque, era stato fortunato?
 

L’amore della sua vita era proprio lì davanti a lui, in tutta la sua eterea bellezza, ma era ormai irraggiungibile. Quel Suguru che stava davanti a lui non era altro che un fantasma, un ricordo materializzato dell’uomo che amava, il suo unico e solo. Il dolore era stato così forte e scioccante che Satoru aveva creato quell’immagine di Suguru ed era difficile lasciarlo andare, era difficile riprendere la lucidità. Avrebbe voluto cullarsi in quell’illusione di averlo ancora davanti a lui, di poter udire ancora la sua voce, di poter sentire ancora il tocco della sua mano, di poter percepire un’ultima volta le labbra di Suguru contro le proprie. 
 

Tutto quello, però, non sarebbe successo mai più.
 

“Vattene,” disse Satoru, distogliendo lo sguardo.
 

L’immagine falsa di Suguru fece una smorfia e si trattenne per qualche secondo, come indeciso sul da farsi, ma poi se ne andò, svanendo nello stesso modo in cui si era presentato: in un battito di ciglia, nella speranza e ultimo desiderio di un uomo distrutto.
 

E quando Suguru svanì, Satoru udì un click di una porta, ma era il rumore che aveva emesso il suo cuore: si era chiuso. Satoru si lasciò andare e cadde in ginocchio sul pavimento. Era finita; era finita per davvero. Non ci sarebbero mai più state parole o chiacchiere, appuntamenti o cene tra di loro, uscite con gli amici per poi tornare a casa insieme, da soli, e sussurrarsi parole dolci tra le lenzuola. Non ci sarebbero mai più stati baci rubati, mai più baci che lo trasportavano e lo facevano sentire come se stesse fluttuando sull’acqua. Non ci sarebbero mai più stati litigi per poi fare la pace, superando lo spavento di perdere la persona amata. 
 

Questa volta lo aveva perso davvero e per sempre, in modo irreparabile. Non esisteva parola o azione che avrebbero riportato indietro il suo Suguru. Forse, un domani molto lontano, Satoru avrebbe incontrato qualcun altro, se ne sarebbe innamorato e avrebbe costruito con quella persona una vita e un futuro insieme, dove per Suguru non ci sarebbe mai più stato spazio, dove Suguru sarebbe diventato solo una persona del passato della quale raccontare ogni tanto, senza che la sua presenza – o assenza – sarebbe contata. 
 

Quei momenti di loro due ancora così vivi nella sua mente pian piano sarebbero sfumati, lasciando spazio solo per qualche ricordo breve, della durata di qualche secondo. Un sorriso strappato a qualcosa di divertente che avrebbe ricordato fosse successa, oppure un commento su qualcosa di sciocco che insieme avevano fatto. Niente di più. 

Sì, sarebbe successo.
 

Però era finita. Suguru se ne era andato. Quanto era difficile dire addio, quanto era difficile accettare che la vita sarebbe andata avanti e sarebbe funzionata anche senza di loro. 
 

Satoru cadde in avanti con i palmi appoggiati alla moquette. Inarcò le dita e affondò le unghie nel tessuto spinoso, e si fece male. Pianse di nuovo, pianse per la consapevolezza che ora erano due persone che non avrebbero mai più costituito un noi.
 

Satoru era solo. 

   
 
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