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Autore: Ella Rogers    20/08/2022    1 recensioni
"Chi non muore si rivede, eh Rogers?"
Brock Rumlow era lì, con le braccia incrociate dietro la schiena e il portamento fiero. Il volto era sfregiato e deturpato, ma non abbastanza da renderlo irriconoscibile, perché lo sguardo affilato e il ghigno strafottente erano gli stessi, così come non erano affatto cambiati i lineamenti duri e spigolosi.
"Ti credevo sepolto sotto le macerie del Triskelion."
La risata tagliente di Rumlow riempì l'aria per alcuni interminabili secondi, poi si arrestò di colpo. L'uomo assunse un'espressione truce, che le cicatrici trasformarono in una maschera di folle sadismo.
E Steve si rese conto che, per la prima volta da quando l'aveva conosciuto, Brock Rumlow si mostrava a lui per quello che realmente era, privo di qualsiasi velo di finzione.
"Credevi male, Rogers. Credevi male."
Genere: Angst, Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: Movieverse | Avvertimenti: Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'The Road of the Hero'
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Perfect Soldier
 
 
 
24 giugno 2015
Washington DC, 09:33

 
 
“Ti stai scomponendo e se ti scomponi…”
 
L’impatto del corpo di Daniel contro il pavimento creò un frastuono echeggiante che rimbalzò fra le pareti della stanza spoglia.
 
“Hai perso.”
 
Era sorprendente il numero di volte in cui aveva visto questa scena ripetersi. A parte le sottili variazioni che la precedevano, il finale era sempre lo stesso.
Daniel si allenava da ore e aveva avuto più di dieci incontri ravvicinati con il pavimento. Tuttavia, mettere ripetutamente a dura prova le ossa non lo aveva scoraggiato neanche di striscio. Aveva caparbietà da vendere e nessuna intenzione di gettare la spugna. Stava adesso riprendendo fiato, seduto a terra, con gli avambracci poggiati sulle ginocchia leggermente piegate. La maglia bianca era fradicia di sudore, così come lo era il viso arrossato dallo sforzo. L’espressione non lasciava trasparire stanchezza, ma solida concentrazione. Stava sicuramente ripercorrendo con la mente gli errori commessi e riconsiderando la fallimentare strategia adottata.
Steve era in piedi davanti a lui, le mani puntellate sui fianchi e l’ombra di un sorriso a distendergli i lineamenti del volto. Di riflesso sorrise anche lei. Sharon aveva finito per apprezzare parecchio la compagnia di quei due. Rendevano la stanchezza e la tensione più sopportabili e il lavoro sembrava meno sfiancante al loro fianco.
La Carter ricordava il giorno in cui lo SHIELD aveva deciso di reclutare Daniel Adley Collins. Il ragazzo si era arruolato nell’esercito poco dopo aver terminato il liceo e aveva dimostrato fin da subito capacità fisiche sopra la media, obbedienza nei confronti dei superiori e, soprattutto, disposizione al sacrificio. Tutte caratteristiche che lo SHIELD voleva vedere nei propri agenti. Così Collins era arrivato al Triskelion, dove nel giro di qualche anno lo avrebbero trasformato in un soldato perfetto, come tutti coloro che erano stati selezionati. Il piano però era saltato a causa dell’Hydra e la strada che era stata scritta per il ragazzo aveva subito una brusca deviazione.
 
Forse era stato meglio così.
 
Quella mattina, Sharon aveva incontrato Steve e Daniel intenti a lasciare l’appartamento e si era unita a loro. Cercava di non perdere occasione di farsi le ossa contro un super soldato, considerata l’attuale diffusione di potenziati. Una volta ottenuta la sua buona dose di lotta, si era ritirata a sedere su una panca in legno, sul fondo della spaziosa sala, e aveva lasciato i muscoli dolenti distendersi.
Erano in una palestra poco lontana dall’appartamento e che il proprietario teneva aperta perché Captain America glielo aveva gentilmente chiesto. L’uomo in questione – Pit – aveva rifiutato ogni sorta di pagamento, affermando che oltre ad essere un onore, era anche redditizio averlo lì, dato che tante persone erano attirate dall’idea che quella palestra fosse frequentata da Captain America in persona – passare inosservato per Steve non era così semplice nonostante lui ci provasse. D’altro canto, Pit faceva di tutto affinché il super soldato non venisse disturbato. Aveva riservato loro una sala ancora inutilizzata e che aveva intenzione di attrezzare una volta che gli affari fossero decollati.
 
“Ci fermiamo?” chiese Rogers, più per prassi che per altro, perché sapeva bene quale sarebbe stata la risposta.
 
No per favore, ce la faccio. Lasciami provare ancora” lo pregò Collins.
 
Steve sorrise divertito e gli tese una mano per aiutarlo a tornare in piedi, assicurandosi al contempo che Dan fosse effettivamente in grado di sostenere l’ennesimo round. Il biondo voleva evitare di fargli male seriamente, anche se quella preoccupazione stava lentamente scemando di fronte la crescita esponenziale delle capacità del ragazzo.
 
“Non buttarti a capofitto nel primo spiraglio che vedi perché spesso è un inganno” gli fece notare Rogers.
 
“Me ne sono reso conto” ammise Collins e tornò all’attacco senza ulteriori esitazioni.
 
Sharon si chiese quanto sarebbe durato Daniel stavolta. La sua attenzione però fu totalmente calamitata dalla persona che si sedette al suo fianco. Non l’aveva sentito arrivare.
 
“Non ci vanno piano quei due” convenne il nuovo arrivato dopo una breve occhiata rivolta allo scontro in atto.
 
“Quando sei rientrato?” chiese lei, sorpresa di vederlo lì.
 
“Qualche ora fa. Steve mi ha lasciato un messaggio per dirmi che lo avrei trovato qui.”
 
“Come è andata?”
 
“Stiamo seguendo le indicazioni di Stark. Sam e Anthea sono ancora con lui.”
 
James fece spallucce e Sharon capì che non aveva la forza di parlare di quanto fossero lontani dal risolvere la situazione. Lasciò cadere l’argomento, ma al contempo gli poggiò una mano sul ginocchio in un muto gesto di sostegno.
 
“Voi invece come ve la siete cavata?” fu la successiva domanda di Barnes, che le riservò un’espressione intensa e accesa da una fievole luce di speranza, come se si aspettasse risvolti positivi dalla risposta.
 
“Ce la siamo cavata ma niente di interessante. Siamo tornati in mattinata e qualcuno aveva bisogno di scaricare la tensione.”
Sharon indicò i suoi compagni, tuttavia evitò di specificare che quella tensione stava perseguitando anche lei, altrimenti non sarebbe di certo finita lì dopo un’intensa nottata di lavoro e un paio di ore di sonno.
“Quindi glielo hai detto” convenne di punto in bianco la donna e rivolse a James un mezzo sorriso, accompagnato da una leggera collisione fra le loro spalle.
 
“Non ne è rimasto così sorpreso. Non riesco a nascondergli molto.”
 
“La cosa è reciproca da quanto ho potuto vedere” ci tenne a puntualizzare la Carter.
Era spesso destabilizzante osservare le interazioni fra Rogers e Barnes. A quei due bastava uno sguardo per intendersi alla perfezione e per anticipare uno le mosse dell’altro.
Qualche giorno prima, James le aveva confessato di aver parlato con Steve della loro specie di relazione e lei aveva accettato di buon grado quella scelta perché, considerati i precedenti, mentire a Rogers – in qualsiasi modo possibile – la rendeva nervosa. Si era chiesta solo se ciò che c’era stato fra Steve e Peggy avrebbe potuto avere un peso in qualsiasi cosa ci fosse al momento fra lei e Bucky. Non avevano ancora parlato di cosa effettivamente ci fosse fra loro. A dirla tutta, non avevano nemmeno avuto occasione di parlarne. Era ovvio che la loro non avrebbe mai potuto essere una relazione normale. Inoltre, attualmente era alquanto complicato portare avanti qualsiasi tipo di rapporto, anche se già avviato e rodato. Di tanto in tanto passavano la notte insieme ed era lei a raggiungerlo, dato che i coinquilini di James sapevano. Le era capitato di incrociare la Reyes di andata o di ritorno dai loro appartamenti e, in diverse occasioni, si erano fermate a parlare come due conoscenti incontratesi per caso durante una passeggiata. Lontana dal campo di battaglia, Anthea appariva diversa, tremendamente umana e normale. Conoscerla meglio era stata un’esperienza interessante.
Alla fine dei conti, Sharon aveva una sola certezza al momento. Era nel posto giusto, al fianco delle persone giuste e lottare aveva finalmente riacquistato un senso dalla distruzione del Triskelion.
 
“Niente male il ragazzo. Ci ha preso la mano.”
 
Il flusso dei pensieri della Carter fu spezzato dalla voce divertita di Barnes, ora concentrato sullo scontro fattosi più intenso e serrato. Che Collins ci avesse preso la mano era un dato di fatto ormai. Sembrava che il suo corpo si fosse adattato gradualmente alla forza, alla velocità e alla resistenza dei super soldati e Rogers continuava ad alzare l’asticella, ponendosi sempre meno freni.
C’era stata solo un’occasione in cui Steve aveva forzato la mano, affinché Collins potesse rendersi conto di quanto un potenziato fosse pericoloso. Non era stato un bello spettacolo a cui assistere, ma era stato necessario. Collins non si era comunque arreso, né si era fatto spaventare. Però aveva compreso appieno il divario che lo separava da forze che stavano al di sopra di quelle umane.
Sharon imitò Bucky, concentrandosi sui suoi colleghi. C’era qualcosa di diverso nei movimenti di Daniel. Erano più fluidi e sicuri, nonostante l’affaticamento che a quest’ora avrebbe dovuto accusare. Sembrava essere in uno stato di grazia. Era completamente annegato in una profonda concentrazione.
 
Successe tutto in un attimo.
 
Un passo anticipato, una espirazione fuori tempo e l’urto che ne seguì fu differente dagli altri. Respiri affannati riempirono il silenzio e la tensione si sciolse. Occhi azzurri si stavano ora specchiando in iridi altrettanto chiare e limpide. La mano destra di Collins stringeva la gola di Rogers sotto di lui, mentre la sinistra gli teneva il polso destro ben ancorato al pavimento, sopra la testa. Il ginocchio destro del ragazzo premeva sull’incavo del gomito sinistro del super soldato, mentre l’altro ginocchio glielo aveva piantato nel costato.
Daniel ce la mise tutta per mantenere un’espressione seria, ma non riuscì ad impedire alla bocca di piegarsi in un sorrisetto vittorioso, del tutto legittimato dall’impresa appena compiuta. Perché quella, a suo parere, era un’impresa notevole. Steve Rogers era schiena a terra. Steve Rogers era sotto di lui, schiena a terra, sotto di lui, a terra sotto di lui.
 
“Dan” lo richiamò Steve, ripescandolo dal brodo di giuggiole in cui si era tuffato.
 
“Oh sì scusami.”
 
Collins sollevò il ginocchio ancora piantato nell’addome del super soldato e mollò la presa sia sul suo collo sia sul polso. Rimessosi in piedi, porse a Rogers una mano e lui la afferrò, accettando l’aiuto per rialzarsi dal pavimento. Quando poi le dita del biondo si strinsero sulla sua spalla, Daniel allargò il sorriso sfuggito al suo controllo a causa dell’ammutinamento simultaneo dei muscoli facciali.
 
“Stai perdendo colpi, Rogers.”
 
James sopraggiunse alle spalle di Daniel e fronteggiò Steve.
 
“Tu sei il prossimo, Bucky. Avevamo un accordo” si intromise allora Collins.
 
“Resta con i piedi per terra, ragazzo. Ti avverto che io sarò meno clemente.”
 
Tenere Daniel con i piedi per terra era necessario o la sua avventatezza lo avrebbe fatto ammazzare. Di pari passo con l’abilità cresceva la sicurezza e la sicurezza era spesso accompagnata dal calo della prudenza. Poi c’erano i casi disperati che il significato di prudenza lo aveva sempre ignorato, indipendentemente dalle abilità possedute. Collins poteva ancora essere salvato.
 
“Dovrai rifarlo almeno altre due volte per dimostrare che non è stato solo un colpo di fortuna.”
Stavolta era stata Sharon a parlare.
 
“Ci sto. Posso cominciare anche subito” fu la risposta di Collins, trascinato dall’adrenalina che gli scorreva in grandi quantità nelle vene. I suoi neuroni stavano molto probabilmente ancora facendo la ola.
 
Steve, suo malgrado, non poté evitare di sorridere. Incrociò lo sguardo di Bucky, che aveva l’espressione da ‘se hai bisogno di una pausa fammi un cenno.’
 
“Per te è okay se continuiamo?” chiese Dan al diretto interessato e il biondo acconsentì per sua somma gioia. Peccato però che furono interrotti ancor prima di prendere posizione.
 
La Stewart giunse a passo di carica nella sala e si rivolse direttamente a Rogers.
“Ross vuole parlare con te” riferì e dal tono perentorio si capiva che rifiutare non era contemplato.
 
Steve non poté fare altro che annuire in direzione della donna.
“Troveremo un altro momento” promise a Dan, che gli rispose con un breve – e afflitto – cenno del capo.
 
Una volta che Rogers ebbe lasciato la stanza assieme alla Stewart, Barnes sospirò molto profondamente e passò una mano fra i capelli scuri.
“Cosa vorrà questa volta?”
 
“Non ne ho idea” fu la sincera risposta di Sharon.
 
“Ross sta tirando un po’ troppo la corda” asserì James.
 
“Prima o poi la corda si spezzerà.”
Daniel aveva parlato con una calma e una serietà spiazzanti e l’eco di quelle parole riempì il silenzio che calò nella sala.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Pentagono
 
 
La riunione con il Consiglio Mondiale di Sicurezza era durata più del previsto. Tuttavia, i membri erano più tranquilli da quando Capitan America era sotto controllo e così sembravano essere anche gli Avengers.
Ross arrivò dinanzi al suo ufficio e sorrise compiaciuto. Un altro lavoro era stato portato a termine in tempi record, senza che lui dovesse coordinare alcunché. Aveva sempre desiderato un’arma che gli permettesse di gestire ogni tipo di situazione. Hulk era un’arma devastante e poco gestibile, un po’ come una testata nucleare. Rogers, al contrario, era gestibile e indiscutibilmente efficace, proprio come lo era stato il Soldato d’Inverno per l’Hydra. Ovviamente, avrebbe evitato di esprimere quell’ultimo pensiero ad alta voce.
 
“Vieni.”
 
Ross entrò nell’ufficio e Rogers, in attesa al fianco della Stewart, lo seguì all’interno.
“Accomodati pure” gli indicò un divanetto sul lato dell’ampia stanza, ma il ragazzo rimase in piedi come la maggior parte delle volte.
Ross lo raggiunse subito dopo aver posato dei documenti sulla scrivania e si fermò di fronte a lui, invadendone lo spazio personale senza alcun timore.
 
“Volevo parlarti del permesso che mi hai chiesto per New York.”
 
L’occhiata guardinga che ricevette indietro fu la reazione che si aspettava. Ross doveva riconoscere di essere stato parecchio pressante negli ultimi tempi ed era giusto – conveniente – concedere al ragazzo un respiro di tanto in tanto. Però doveva essere alle sue condizioni.
 
“Cosa vuole precisamente Stark da te?” gli chiese. Lo stava mettendo alla prova.
 
C’era una cosa di cui era necessario tenere conto quando si aveva a che fare con gli Avengers, ovvero l’altra faccia della medaglia rappresentata da Tony Stark. Si poteva dire che l’equilibrio della squadra ce lo avevano in mano lui e Rogers, due personalità agli antipodi ma in qualche modo complementari. Far deteriorare il loro rapporto avrebbe con buona probabilità portato alla disgregazione di quel gruppo male assemblato – seppur dannatamente potente ed efficace – e Ross ci aveva fatto un pensiero.
Peccato che Stark si stesse mostrando parecchio protettivo nei confronti del super soldato e non stava nemmeno facendo grandi sforzi per nasconderlo. No, Stark glielo stava sbattendo tranquillamente in faccia. Ross sapeva che il miliardario lo stava tenendo sotto controllo.
 
“Non sono tenuto a dirle ogni cosa.”
 
Quell’impertinenza non era ancora riuscito ad estirparla. Tuttavia, Ross aveva imparato a gestirla.
 
“No, non lo sei, questo è vero. Nemmeno io d’altronde sono tenuto a fare tante cose.”
 
Rogers si irrigidì ma sostenne lo sguardo del Segretario di Stato, non intenzionato a cedere.
“Se non si decide a lasciarci un minimo di spazio la situazione peggiorerà.”
 
“No.”
Una sola sillaba. Due sole lettere appiccicate insieme a formare una cacofonia stridente.
“Se tornerete ad agire a briglia sciolta ci sarebbero delle ripercussioni e io ho il dovere di evitare che tali ripercussioni si presentino.”
 
“Le ripercussioni ci saranno se non ci permetterà di fare qualcosa prima che sia tardi” ribatté il super soldato.
 
Uno scontro era prevedibile. Rogers era ancora distante dal fottutissimo rispetto che avrebbe dovuto mostrargli. Però Ross sapeva essere paziente e, pezzo dopo pezzo, avrebbe smontato quel fastidioso temperamento combattivo che il super soldato gli mostrava sempre meno spesso.
 
“Abbiamo un accordo, Rogers” gli fece presente. Ricordarglielo era necessario perché, a quanto pareva, il biondo tendeva a dimenticare che non era lui a fare le regole adesso.
 
“Questo lo so” fu la replica seccata di Rogers.
 
“Allora facciamo in modo che continui a funzionare.”
Ross fece una lunga pausa, sfidando il super soldato con lo sguardo ed era ovvio che lui fosse combattuto. In altre circostanze, Rogers lo avrebbe mandato a farsi fottere senza esitazioni e avrebbe smesso di chiedere permessi di cui non aveva bisogno. Però adesso stava in silenzio, a dimostrazione che era di fatto sotto controllo. Ross decise di andargli in contro, così da mostrargli la migliore facciata conciliante. Forzare troppo la mano con lui non aveva portato a buoni risultati in passato.
“Hai il mio permesso per New York. Tuttavia, se si presentasse un’emergenza dovrai rientrare, o potrei sempre rivolgermi alla Reyes. Si è mostrata disponibile l’ultima volta.”
Se lo sguardo avesse potuto uccidere, Ross sarebbe morto. Quella era l’esatta reazione che, in questo specifico caso, voleva ottenere dal super soldato. Una ulteriore conferma di averlo ancora in pugno.
 
“Sono io quello che lavora per lei, Ross. Se sarà necessario, tornerò in qualsiasi momento” Rogers accorciò improvvisamente le distanze “La lasci fuori dalle sue macchinazioni.”
 
Ross stavolta si sentì seriamente minacciato. Il silenzio dovette dilungarsi parecchio, perché il Rogers fece per andare via, ma il Segretario lo afferrò per il gomito destro e lo costrinse a fermarsi.
“Niente stronzate. Ci siamo capiti?” fu l’ultimo avvertimento e un modo per avere l’ultima parola.
 
Rogers annuì e solo allora Ross lo lasciò andare.
 
 
 
Una volta fuori dall’ufficio, Steve trovò Janet ad attenderlo. Era sempre lei ad accompagnarlo agli incontri con il Segretario e perciò aveva assistito a parecchie discussioni accese.
 
“Potresti rendere questi incontri molto più rapidi e meno sfiancanti, se solo ti sforzassi di essere più accomodante” gli fece notare la donna, che doveva aver sentito stralci della conversazione.
 
“Non è così semplice” tagliò corto il super soldato.
 
“Però stai imparando. Hai fatto progressi significativi.”
 
Rogers ruppe il contatto visivo con la Stewart e si avviò lungo il corridoio. Al momento, voleva solo allontanarsi da lì il più velocemente possibile.
 
“Potrebbe essere meno orribile di quanto pensi” insistette la donna mentre lo seguiva.
 
“Ti sbagli” controbatté il biondo, poco propenso a snocciolare tutte le ragioni per cui non aveva intenzione di diventare un burattino di Ross e del Governo.
 
Janet arricciò le labbra in un ghigno sottile, divertita dalla riluttanza del suo amabile collega.
“Cederai, Rogers. Cedono tutti alla fine.”
 
“Tu lo hai fatto?”
 
“Non è stato necessario. Non sono mai stata una pericolosa mina vagante.”
 
Steve si fermò per un momento e Janet fu certa che stesse per risponderle a tono. Invece, lui lasciò cadere la conversazione nel silenzio e riprese a muoversi.
 
 
 
 
 

 


 
 
 
 
 
27 giugno 2015
New York, Stark Tower, 21:03

 
 
“Che ne pensi di una pausa? E prima che tu risponda ti avverto che sono sull’orlo dell’esasperazione.”
 
Tony fece sparire gli schermi olografici che fino a poco prima tappezzavano gli spazi vuoti della sua adorata officina. Abbandonò la testa all’indietro e lo schienale della sedia girevole cigolò. Il tessuto umidiccio della maglietta nera era appiccicato alla pelle e stava iniziando a odiare il suo stesso odore.
 
Da quanto tempo erano chiusi lì dentro? Dieci, undici ore… giorni?
 
“Rogers, sto parlando con te.”
 
Il suo compagno di reclusione non era messo meglio di lui. Portava ancora l’intera divisa stealth ed era un miracolo si fosse almeno tolto lo scudo dalle spalle. In piedi e con le braccia incrociate al petto, il biondo stava fissando quasi ossessivamente la sua parte di ologrammi e nemmeno lo aveva sentito.
 
“Steve.”
 
Il Capitano aveva chiesto a Ross un congedo di qualche giorno. Il tempo a loro disposizione era poco e stavano cercando di arrangiarsi come potevano. Dopo aver trascorso un numero indefinito di ore in giro con James, Sam e Anthea – ovviamente Ross era all’oscuro del fatto che Rogers non fosse rimasto a New York come concordato –, avevano deciso di spostarsi alla Tower per sfruttare al meglio il tempo rimanente.
Gli altri Avengers erano rientrati quella stessa mattina a Washington, giusto per evitare di creare evidenti assembramenti indesiderati. L’ultima cosa che volevano era mettere in allarme il Consiglio e il Governo.
 
“Cap. Capitano. Captain America.”
 
Continuare a cuocere il cervello a fuoco lento, considerando anche che fosse già ben lessato, non avrebbe risolto i loro problemi. Erano ad un punto morto – e morto era un eufemismo. Aveva iniziato a diffondersi un nervosismo generale ed era un male, perché quel nervosismo avrebbe potuto portare a passi falsi non consigliabili. Steve era fra i candidati più promettenti a compiere quel passo storto e Tony – doveva ammetterlo – lo avrebbe seguito a ruota. A proposito di Steve…
 
Darling.”
 
Tony allungò un braccio verso il tavolo pieno zeppo di cianfrusaglie, afferrò il capiente bicchiere in carta che fino a poco prima conteneva caffè e, dopo averlo accartocciato, lo lanciò dritto sulla testa del soggetto che continuava ad ignorarlo con fastidiosa insistenza.
Rogers voltò il capo con uno scatto e gli rivolse uno di quegli sguardi fra l’esasperato e il rassegnato, come se poi fosse lui la vittima fra i due. È noto che essere ignorati ferisce più di uno stupido bicchiere di carta appallottolato. E per tutti gli dèi asgardiani – Thor più degli altri – stava decisamente delirando.
 
“Facciamo una pausa?” domandò prima di perdere di nuovo l’attenzione di Steve. La seconda cosa più a portata di mano era una chiave inglese e, se si fosse sforzato, avrebbe potuto al massimo arrivare a togliersi una scarpa.
 
“Rimangono poche ore e poi dovrò rientrare” obiettò il biondo.
 
Risposta così prevedibile che Tony avrebbe potuto fare l’inizio della conversazione da solo. Quindi tagliò corto, schivando tutta la parte dove gli faceva notare che erano ore che non incappavano in progressi nemmeno per sbaglio e che, se avessero continuato, probabilmente avrebbero iniziato a dare i numeri e non quelli di coordinate utili.
 
“Devo farti vedere una cosa.”
 
L’evidente arcuarsi del sopracciglio destro fu un buon segno e probabilmente la chiave inglese sarebbe rimasta lì dov’era e pure la scarpa.
Due cose aveva imparato, Tony. La prima era che quando voleva che Steve facesse per lui qualcosa di non prioritario, non doveva perdersi in chiacchere – troppo intelligenti per essere apprezzate – e doveva andare dritto al punto, affondare il colpo senza troppi fronzoli.
 
“Di che si tratta?”
 
La seconda era prenderlo in contropiede per distoglierlo più agevolmente da ciò che lo stava monopolizzando.
 
“Spogliati.”
 
Steve rimase a fissarlo con la bocca semiaperta e l’espressione di chi è convinto – spera – di aver sentito male.
 
“Come scusa?”
 
Divertirsi a suo discapito era un effetto collaterale apprezzato seppur poco carino – per Steve – ma era andato già fin troppo in contro al biondo, no? Aveva appena rinunciato a stordirlo di chiacchiere e giri di parole per confonderlo ed estenuarlo in un colpo solo. Mostrarsi troppo gentile avrebbe suscitato sospetti.
 
“Devo veramente mostrarti come? Sarebbe strano ma se proprio devo…”
 
Steve puntellò le mani sui fianchi e alzò platealmente gli occhi al cielo, mentre Tony si tirava su dalla sedia per poterlo raggiungere, accompagnato da una serietà mimata alla perfezione.
 
“Avanti, via la parte superiore dell’uniforme. La maglia puoi tenerla. Non ti chiederò nient’altro” per ora.
 
Scacco matto.
Al biondo non rimase che accontentare il compagno e Tony tirò fuori dalla tasca della tuta un sottile e opaco dischetto grigio. Se lo rigirò fra le dita un paio di volte, contemplandone i riflessi e apprezzandone il design compatto e leggero. Era un diavolo di genio.
 
“Ti avevo detto che avrei pensato a qualcosa ma sto ancora sperimentando, perciò non è niente di definitivo.”
 
Stark posizionò il dischetto in corrispondenza dello sterno del super soldato, sul tessuto della maglia aderente, e quello si attaccò alla stregua di una ventosa, per poi illuminarsi di un tenue luce azzurra. L’inventore diede un paio di colpetti al disco, che iniziò ad allargarsi come una macchia di petrolio sul petto del biondo, fino a ricoprirlo del tutto, assieme all’addome, alle braccia e alla schiena. Anche il collo venne coperto fino al pomo d’Adamo.
 
“Offre una protezione notevole e non è ingombrante come un’armatura.”
Tony si era appropriato di un taglierino e, prima che Steve potesse capire le sue intenzioni, glielo affondò nell’addome. Solo che la lama non affondò, ma finì per spezzarsi.
 
“La nanotecnologia è programmata per reagire agli urti e ai tentativi di penetrazione. In caso il nemico riesca ad aprire una fessura, questa ha la capacità di autoripararsi. Ovviamente è antiproiettile ed è resistente sia alle basse sia alle alte temperature.”
 
“Tony...”
 
“Vorrei evitare che qualcuno di voi muoia nel breve termine. Mi lasceresti nei casini.”
L’inventore lo disse con lo stesso tono che si usa per constatare una cosa ovvia. Il caldo sguardo nocciola aveva perduto ogni sfumatura ironica e sembrava più profondo e magnetico del solito. Steve faticò a sostenerlo quello sguardo, perché metteva a nudo parte della vulnerabilità che Tony celava dietro la corazza di sarcasmo e sicurezza.
 
“La testiamo?” fu la legittima domanda di Stark e l’impasse si sciolse, spingendoli a ricacciare indietro le pressanti emozioni. “Sarà rapido e indolore” aggiunse alla fine, per risultare più convincente.
 
“Sono certo che non sarà né rapido né indolore, ma credo di dovertelo” concesse il super soldato.
 
“Credi bene.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Si era fatto parecchio tardi e Tony non l’aveva ancora raggiunta in camera. Conoscendolo, Pepper ritenne opportuno andare a controllare che stesse bene e che non stesse esagerando come suo solito.
 
“JARVIS, puoi dirmi dov’è Tony?”
 
“Il signor Stark si trova nella Sala Comune, Miss Potts.”
 
Si strinse nella vestaglia color lavanda e si mosse per raggiungere la destinazione che le era stata indicata. Era abbastanza preparata a ciò che avrebbe potuto trovare, ma stavolta ne rimase alquanto sorpresa.
La Sala Comune era costellata di schermi olografici sospesi a mezz’aria e la penombra si era tinta di un tenue azzurro. C’erano file video, immagini, dati di difficile interpretazione, un elenco di luoghi contrassegnati con una croce e anche una lista di nomi.
Tony stava dormendo sul divano, disteso su un fianco, il viso rivolto verso lo schienale. Su una delle poltrone lì di fianco c’era invece Steve, il cui viso era illuminato dal lieve bagliore degli ologrammi e l’azzurro delle iridi brillava di riflesso. Era seduto sul bracciolo della poltrona, forse uno stratagemma per evitare di fare la stessa fine del compagno. Erano entrambi in tuta e, considerando i capelli umidi, un asciugamano abbandonato sul pavimento e il profumo di bagnoschiuma, avevano fatto una doccia da non troppo tempo.
Pepper sapeva che avevano passato giorni intensi e che Rogers sarebbe dovuto tornare a Washington l’indomani. Tony stava mettendo anima e corpo per riuscire a sciogliere tutti i nodi che erano venuti al pettine mesi prima, quando si erano trovati invischiati in una battaglia contro Teschio Rosso e il suo esercito di mostri. Sapeva anche di Adam Lewis e del pericolo che costituiva per tutti loro.
Tony aveva faticato ad accettare la decisione che Steve aveva preso e che lo aveva portato a lasciare la Tower. Aveva dovuto farsi andare bene le condizioni senza poter fare nulla a riguardo. Con il tempo, Pepper era giunta ad una conclusione a cui forse nemmeno i diretti interessati erano ancora arrivati. Quando la situazione diventava difficile, Tony aveva bisogno di Steve, così come Steve aveva bisogno di Tony. Le personalità agli antipodi di quei due si completavano vicendevolmente, creando un equilibrio solido e che trasmetteva sicurezza a chi stava loro vicino. Faticava ad immaginare le conseguenze di un loro conflitto. Con la rivelazione del segreto dietro la morte di Howard e Maria, Pepper aveva davvero temuto di vederli cadere in pezzi.
Tony aveva già avuto esperienze devastanti con tradimenti da parte di persone a lui vicine e nelle quali aveva riposto fiducia. Le conseguenze del tradimento di Obadiah Stane le portava ancora addosso e non se ne sarebbe mai liberato.
Steve, nonostante l’inizio difficile e traballante, si era trasformato in qualcuno su cui Tony si sarebbe appoggiato in caso di bisogno. Sapere che gli aveva mentito e su cosa gli aveva mentito era stato un duro colpo. Dinanzi ad un Tony Stark ferito, Pepper era stata costretta a prendere posizione. Forse Tony avrebbe anche potuto avere le sue buone ragioni per tagliare i ponti con Steve, ma se ne sarebbe pentito. Il rancore, la rabbia e la frustrazione sarebbero spariti per lasciare posto al rimorso di non aver affrontato la questione diversamente. Così Pepper aveva provato ad indirizzarlo verso la strada che aveva ritenuto migliore per lui.
 
“Cerca di metterti nei suoi panni, Tony. Ha cercato di proteggere Barnes. Tu avresti fatto lo stesso per Rhodes” gli aveva detto ad un certo punto, sperando di scuoterlo.
 
Con il senno di poi, era certa di aver fatto la cosa giusta, considerando quanto il legame fra i due si fosse fortificato negli ultimi mesi. Quei due a volte iniziavano a scambiarsi messaggi quasi come una coppietta bella che fatta. E poi a Tony piaceva passare il tempo con Steve e il sentimento era reciproco, nonostante fossero lontani – molto lontani – dall’ammetterlo.
Peccato che al momento il poco tempo che stavano trascorrendo insieme era speso per tenere a bada le conseguenze delle azioni di Adam Lewis, trasformatosi in un fantasma inavvicinabile.
Pepper continuò ad avanzare con calma, entrando nel campo visivo di Rogers in maniera graduale e lui spostò lo sguardo su di lei. Le sorrise con gentilezza, macchiata da una inconsapevole timidezza che quasi gli stonava addosso.
Non aveva mai avuto occasione di rimanere a tu per tu con lui, anche se erano stati sotto il tetto della Tower per diverso tempo. Aveva imparato a conoscerlo attraverso Tony.
 
“Gli avevo consigliato di andare a letto.”
Il tono basso e caldo di Steve si sostituì al silenzio e Pepper sorrise a quelle parole.
 
“Non gli piace che gli si dica cosa fare” rispose lei, in un sussurro, dopo essersi avvicinata abbastanza affinché il super soldato potesse sentirla senza sforzo.
 
“Ne so qualcosa.”
 
Scambiarono uno di quegli sguardi che dicono tutto senza bisogno di essere accompagnati da parola alcuna. Poi, Steve abbassò il capo e passò una mano fra i capelli ancora leggermente umidi. Sembrava teso.
 
“Deduco che non avete ottenuto i risultati sperati” convenne lei.
 
“Si sta rivelando più complicato del previsto.”
Il biondo sembrava sinceramente desolato e, per un momento, Pepper credette che si sarebbe scusato con lei.
“Per oggi abbiamo finito. Prima che vada, posso fare qualcosa per aiutare?” si offrì invece, indicando Tony.
 
Scosse il capo, Virginia, e poi puntò gli occhi chiari in quelli di Steve, mentre si avvicinava di un altro paio di passi. Non riuscì a fermarsi, non poté evitare che le successive parole lasciassero la sua bocca.
“Solo” esitò per un frangente “non tradire ancora la sua fiducia.”
 
Virginia Potts amava Tony Stark più di quanto avrebbe mai potuto esprimere. Aveva scelto e sceglieva ogni giorno di rimanere al suo fianco. L’istinto di sostenerlo e proteggerlo aveva messo radici e chiunque gli avesse fatto del male avrebbe dovuto vedersela con lei. Chiunque.
Osservò Rogers abbassare lo sguardo e risollevarlo su di lei dopo diversi attimi di silenzio.
 
“Non lo farò” le promise.
 
Pepper mosse il capo in un chiaro segno conciliante.
“Quando partirete di nuovo?” volle sapere e si strinse con maggiore decisione nella vestaglia.
 
“Non lo sappiamo con certezza. Stiamo seguendo una pista poco definita” spiegò il super soldato con un certo rammarico.
 
Di nuovo, Virginia lasciò che le emozioni prendessero il sopravvento e la voce ne fu implacabile espressione. L’indomani se ne sarebbe di certo pentita.
 
“Fa’ in modo che ritorni a casa. Per favore.”
 
A chi altri avrebbe potuto avanzare una richiesta del genere se non alla persona che affiancava Tony in ogni scontro?
Era estremamente arduo guardare l’uomo che amava uscire dalla porta senza avere la certezza di vederlo tornare e con il tempo non diventava più facile, anzi, era sempre più difficile e doloroso. Aveva abbandonato l’idea di appellarsi a entità intangibili. Steve era lì, era umanamente tangibile ed era una delle poche garanzie di vedere Tony tornare.
Era egoistico da parte sua, fortemente egoistico, Pepper lo sapeva bene. Eppure non era riuscita a rinunciare alla possibilità di potersi aggrappare alla rassicurazione, seppur labile, che tutto sarebbe andato bene, che Tony sarebbe tornato da lei ogni volta.
 
Steve le diede quella rassicurazione senza esitare.
 
“Hai la mia parola.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
‘Qui tutto okay. Tu sei di ritorno?’
 
Il messaggio era arrivato qualche minuto prima della partenza.
Steve rispose con un semplice ‘Sono in strada. Non aspettarmi alzata’. Spostò poi lo sguardo dal cellulare al finestrino e osservò le luci della città di New York ormai lontane. Era stanco di essere in continuo movimento e lo era da troppo tempo. Sapeva però che fermarsi non era fra le opzioni che aveva a disposizione al momento. Il telefono vibrò e rispose senza nemmeno controllare chi fosse.
 
“Non è educato andare via senza salutare.”
 
“Torna a dormire, Tony.”
 
“E tu avresti potuto rimanere alla Tower e domani mattina ti avrei dato un passaggio io. È tardi e sono più di quattro ore di viaggio.”
 
“Ti ringrazio ma c’era già un’auto che mi aspettava.”
 
“Gentile da parte di Ross. Già che c’è potrebbe...”
 
“Stark, per favore.”
 
“Va bene, va bene. Non esprimerò il mio pensiero a riguardo.”
 
“Sei davvero premuroso.”
 
“Sento puzza di sarcasmo.”
 
Steve si lasciò scappare uno sbuffo divertito, ma tornò subito serio.
“Grazie Tony.”
 
“Mi stai ringraziando per cosa esattamente?”
 
“Torna a dormire.”
 
“Evasivo come sempre. Manda un messaggio quando arrivi.”
 
“Buonanotte, Tony.”
 
Una volta chiusa la chiamata, il cellulare vibrò di nuovo. Un messaggio.
 
‘Non starò alzata, stai tranquillo. Ti aspetto distesa sul tuo letto.’
 
Steve scosse il capo e sorrise. Avere qualcuno da cui tornare. Alla fine dei conti, un punto fermo ce lo aveva.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Località sconosciuta
 
 
“Signor Lewis, abbiamo un problema.”
 
Odiava essere disturbato mentre lavorava.
Poteva vedere il riflesso di uno dei suoi anonimi sottoposti nel vetro dalle sfumature ambrate, dietro il quale erano custodite le nuove armi su cui era riuscito a mettere le mani.
 
“Qual è il problema?”
 
“La Mayers ci è sfuggita di nuovo. Sembra scomparsa dai radar.”
 
Lewis storse il naso ed emise un verso di frustrazione.
 
“Contatta Benson.”
 
“Sarà fatto. C’è un’altra cosa, signore. Stark sta danneggiando le nostre basi d’appoggio e sembra avvicinarsi.”
 
“Non c’è pericolo.”
 
“Ne è sicuro, signore?”
 
Lewis stavolta sorrise.
“Lo sono.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
30 giugno 2015
Casa Sicura, 16:24

 
 
C’era una fresca brezza quel pomeriggio e godersela sulla veranda era stata un’ottima idea. Era appoggiata al parapetto, lo sguardo vagante lungo la verde distesa di alberi che si estendeva dinanzi a lei. Le uniche cose che stonavano lì nel mezzo erano le armature che Stark aveva programmato per proteggere lei e Clint da qualsiasi attacco nemico.
Lasciare la Tower era stata una decisione sofferta. Aveva avuto la sensazione di abbandonare i suoi compagni in una situazione complicata. Tuttavia, erano stati proprio quei compagni a spingere lei e Clint ad allontanarsi dai punti nevralgici. Tony si era assicurato che nessuno potesse arrivare a loro, non senza attraversare la barriera costituita dalle armature. Al minimo accenno di allarme, era certa si sarebbero precipitati tutti lì.
 
Quel pensiero le stringeva il cuore.
 
Ormai era più di un mese che vivevano stabilmente in quella bolla protetta. All’inizio avevano dovuto sistemare un bel po’ di cose, ma adesso si sentiva a casa. Non aveva mai pensato concretamente all’idea di abbandonare tutto e cambiare vita, smettere di combattere, smettere di essere la Vedova Nera. Ora stava assaggiando quell’opzione e aveva un sapore diverso, che non riusciva a ricondurre a niente che avesse mai provato prima. Però era piacevole se non si considerava lo stato d’allarme.
Abbassò lo sguardo e spostò l’attenzione sul tessuto candido della camicia, il quale seguiva il profilo curvo del pancione ormai impossibile da nascondere. Posò i palmi delle mani vicino l’ombelico, lì dove aveva l’impressione di essere più vicina alla vita che cresceva dentro di lei. La sentiva muoversi ed agitarsi di tanto in tanto, come impaziente di venire al mondo.
Natasha era invece meno impaziente, perché conosceva quel mondo, ne conosceva le ombre più oscure e spaventose. Non aveva idea di come avrebbe potuto proteggerlo da tutto quanto e, più il momento si avvicinava, più la sicurezza la abbandonava.
 
Dita più grandi e ruvide si intrecciarono alle sue e resero più saldo il contatto con il ventre. Un respiro caldo le solleticò il collo e il mento di Clint trovò appoggio sulla sua spalla destra.
 
“Dici che potrei far sistemare il prato ad una delle armature?”
 
“Tony potrebbe prendersela.”
 
“Non se a chiedere fossi tu” le suggerì lui.
 
Natasha arricciò le labbra piene in un sorriso e si abbandonò contro il petto del compagno, con la cieca certezza che lui l’avrebbe sostenuta. Quando la sicurezza la abbandonava, Clint era lì e gliene donava di nuova.
Mai, anni prima, avrebbe creduto che fosse possibile riporre completa fiducia in una persona. Ora poteva affidarsi a più di una persona e non era nemmeno certa di meritare quel privilegio.
Di tanto in tanto sentiva gli altri e, la maggior parte delle volte, si trattava di brevi conversazioni per assicurarsi vicendevolmente che fosse tutto okay. Stavano combattendo anche per lei.
 
“Va tutto bene?”
 
La calda voce di Clint la distolse dai pensieri.
 
“Sì, non preoccuparti. È solo che sia Tony sia Steve sono in silenzio stampa ultimamente e non è mai una cosa positiva.”
 
“Scommetto che risolveranno la situazione prima che arrivi il momento. Sono fastidiosamente testardi” cercò di rassicurarla il compagno.
 
“Questo lo so. Ti ricordo che li ho frequentati separatamente e mi hanno infilato entrambi in situazioni assurde a causa della loro testardaggine.”
E situazioni assurde era un eufemismo.
 
“Ora che mi ci fai pensare” Clint fece una pausa ad effetto “credo che non ti lascerò più da sola con nessuno dei due.”
 
Natasha rise.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
30 giugno 2015
Washington DC, 22:54

 
 
“Ti serve una mano?”
 
Il sussulto delle spalle fu seguito da un gemito sommesso e quella reazione le fece sollevare un angolo della bocca in modo affettuoso.
 
“Quante volte ti ho detto di non farlo?” fu la lecita e prevedibile protesta, con tanto di premura a sottolineare il non che, a quanto pareva, non era ancora stato recepito come tale.
 
“Dici entrare di soppiatto dalla finestra? Non saprei.”
 
Tante. Le aveva chiesto di non farlo tantissime volte da quando era arrivata a Washington. Però il sorriso leggero che gli ammorbidiva i tratti del viso sembrava più un invito a non smettere e così lei non aveva smesso.
Anthea scese dal davanzale della finestra su cui era seduta, lasciandosi alle spalle le ombre della notte. Venne accolta dal fievole bagliore di un abatjour e dall’espressione conciliante di Steve.
 
“Allora” fu lui a rompere il silenzio “quella mano?”
 
La giovane sorrise apertamente e lo raggiunse. Si posizionò dietro di lui e allentò le cinghie in cuoio che gli circondavano le spalle tese e percorrevano la schiena incrociandosi fra le scapole. Steve le aveva strette più del solito. Di nuovo. Erano ben visibili i solchi che marcavano il cuoio.
“Cosa hai combinato?” gli chiese, mentre lo invitava a girarsi per poterlo guardare direttamente in viso.
Con delicatezza gli fece scivolare le cinghie lungo le braccia, senza però distogliere lo sguardo dal suo.
 
“Una caduta dalle scale.”
Il biondo scosse il capo, come a voler dare poco peso a ciò che aveva detto.
 
“Puoi ripetere? Credo di aver capito male.”
Anthea lo aiutò a liberarsi della parte superiore dell’uniforme. Lo fece con calma, prendendosi tutto il tempo per evitare che Steve sforzasse la spalla sinistra.
 
“Hai capito bene invece.”
 
“Questa voglio sentirla.”
La giovane gli sfilò l’aderente – non più così aderente – maglia grigia dalla parte inferiore dell’uniforme e sfruttò l’occasione per infilare – in modo apparentemente casuale – le dita fra il bordo dei pantaloni e la pelle calda del compagno.
Tre dita. Una in più dell’ultima volta.
 
“Non è così interessante” provò a dissuaderla Steve.
 
“Avanti” insistette lei.
 
Il super soldato le confessò che la caduta dalle scale c’era stata davvero, ma solo dopo un placcaggio con i fiocchi da parte di un potenziato che l’aveva preso alle spalle. La complicazione era nata sfondando la ringhiera metallica e percorrendo tre piani in una caduta libera spezzata qua e là da urti contro la stessa ringhiera metallica, finché il pavimento non li aveva accolti con tutta la sua cementata durezza. Non era stata un’esperienza piacevole e, a parte i lividi già in fase di guarigione, la spalla lussata – uscita parecchio fuori asse – era stata la conseguenza più fastidiosa e invalidante.
 
“Avresti dovuto farti controllare al rientro” lo riprese Anthea, mentre soffocava con forza il tumulto di preoccupazione che stava costringendo il suo stomaco a fare i salti mortali. Non c’era modo di schivare quelle emozioni e di abituarsi non se ne parlava nemmeno.
 
“Sto bene. Ho solo bisogno di riposare” cercò di convincerla Steve.
 
Anthea gli dedicò un sorriso morbido e lo spinse indietro con una mano premuta sull’addome, finché lui non si ritrovò seduto sul bordo del letto. Il biondo la lasciò fare e non si mosse quando lei prese a percorrergli la clavicola sinistra con la punta delle dita.
 
“È ancora fuori asse” affermò la ragazza.
 
“Sicura? L’avevo fatta rientrare...” nei due secondi successivi prima che il potenziato gli saltasse di nuovo addosso come una feroce bestia affamata, episodio che per il momento avrebbe tenuto per sé.
 
“Non è a posto. Fidati.”
Glielo disse guardandolo dritto in faccia e mostrandogli l’espressione di chi la sa lunga. Con il palmo destro risalì lungo il suo bicipite e con la mano libera gli afferrò il polso sinistro.
“Ti fa male?” gli chiese, mentre seguitava ad applicare una certa pressione lungo il braccio, arrivando fin sopra il trapezio. La muscolatura era ancora tonica e forte, ma meno piena. Decisamente meno piena.
 
“È solo indolenzita. Cosa fai?”
Steve si stava inconsciamente rilassando contro il tocco deciso della compagna.
 
“Faccio distendere i muscoli. Hai già cenato?”
 
“Non ancora.”
 
“Giusto per curiosità. L’ultima volta che hai fatto un pasto vero?”
Nonostante adesso fossero nella stessa città, il tempo che passavano insieme si riduceva a quello speso per portare a termine le missioni collegate a Lewis e ai rari momenti – il più delle volte notturni – in cui erano entrambi in pausa. Quindi, Anthea non aveva molto chiara la routine che Steve seguiva per la maggior parte del tempo, se di routine si poteva parlare.
L’oneiriana percorse ancora il bicipite dal basso verso l’alto e fissò il palmo contro l’articolazione, incastrando il pollice nella rientranza appena sotto la clavicola.
 
“È difficile dirlo con i continui cambiamenti di fuso orario, però credo…”
 
Il rumoroso crack che tolse a Steve la forza di parlare insieme a quella di respirare arrivò senza alcun segnale di preavviso. Il biondo serrò le palpebre e strinse i denti, soffrendo in dignitoso silenzio. Percepì a malapena la mano della compagna carezzargli i capelli.
 
“Scusami” sussurrò Anthea “contavo sull’effetto sorpresa. Vado a prendere del ghiaccio.”
 
La mano destra del super soldato si chiuse attorno al braccio dell’oneiriana. Quel gesto la colse del tutto alla sprovvista. “Resta qui. Sto bene” le assicurò.
Anthea spostò la mano dai suoi capelli biondi al collo, percependo sui polpastrelli una patina di sudore freddo. Lo ascoltò prendere profondi respiri ed ebbe l’impressione che ci fosse un tremito quasi impercettibile in ognuna delle espirazioni. Okay, si sentiva ufficialmente in colpa.
L’improvvisa vibrazione di un cellulare mandò in frantumi quel momento di stasi. Steve voltò il capo verso il comodino posto di fianco il letto e Anthea si irrigidì.
 
“Ci penso io.”
La giovane recuperò il telefono e diede un’occhiata al nome che figurava sullo schermo illuminato. Morsicò l’interno della guancia e per un attimo – un attimo pericolosamente lungo – sentì l’impulso di serrare le dita e frantumare quell’ammasso di circuiti.
 
“Anthea” la chiamò Steve, preoccupato dal silenzio prolungato, e allora lei dovette muoversi. Gli consegnò il cellulare ancora vibrante e lo osservò corrugare la fronte.
 
La conversazione durò un paio di minuti. Steve passò da seduto a in piedi dopo i primi trenta secondi. Percorse la lunghezza della stanza almeno tre volte nei successivi trenta e rimase immobile con una mano fra i capelli per il rimanente tempo. Non parlò molto. Si limitò per lo più ad ascoltare, finché le parole “Mi farò trovare pronto” non misero fine alla conversazione.
 
“Che cosa vuole ancora da te?”
Anthea lo aveva raggiunto e gli aveva afferrato il polso sinistro per attirare la sua attenzione.
 
“Si tratta di un’emergenza. Devo andare” le spiegò Steve, senza scendere nei dettagli.
 
L’oneiriana gli strinse il polso con più convinzione, poco intenzionata a lasciarlo andare.
“Hai provato a spiegare a Ross che non sei una macchina?”
 
“Non credo cambierebbe qualcosa” rispose lui con voce alquanto tesa. Le lasciò una leggera carezza sulla testa e sembrò quasi un gesto di scuse.
 
Anthea però non mollò la presa. Fino ad allora era stata al gioco. Aveva rispettato le regole e non aveva pensato nemmeno per un istante di agire seguendo i sentimenti perché, se avesse seguito i sentimenti, avrebbe quasi sicuramente scatenato il caos e lei con il caos ci andava a braccetto. Più volte era arrivata spaventosamente vicina a superare il limite di sopportazione. O meglio, lo aveva superato da un pezzo, ma Steve aveva l’innata capacità di spostare in avanti quel limite, anche nelle situazioni più critiche. Se lei era una bomba pronta ad esplodere, lui era il meccanismo di disinnesco. Tuttavia, quel meccanismo cominciava a funzionare meno e Anthea sentiva il bisogno di agire secondo ciò che riteneva fosse giusto. Scendere a compromessi non era sempre sbagliato, lo aveva capito, ma farlo non doveva compromettere chi si era e quello in cui si credeva.
 
“Finora ho pensato che ne valesse la pena ma così non otterremo nulla. Ross è stato scaltro e ha saputo giocare bene le sue carte però ne abbiamo di buone anche noi e dobbiamo solo deciderci a usarle.”
 
“Adesso non è il momento” Steve sospirò con fare nervoso “Anthea. Per favore” la pregò, privo delle forze necessarie per fronteggiarla.
 
“Invece è il momento. Non puoi andare avanti così” lo corresse lei, mentre l’agitazione prendeva possesso dello stomaco. Odiava scontrarsi così con lui, ma non riusciva a vedere una valida alternativa al momento.
 
“Vuoi che mi opponga a Ross e che metta in pericolo tutti voi? Non lo farò.”
Rogers le dedicò un’occhiata penetrante – una di quelle in grado di farla rabbrividire – e tentò di scivolare via dalla sua presa, tuttavia Anthea non glielo permise.
 
“Capisco le tue ragioni. Davvero. Ma intanto Ross ti sta usando come se fossi un oggetto e questo deve finire.”
Riusciva ancora a mantenere il tono basso, nonostante la frustrazione le stesse facendo ribollire il sangue.
 
“Credi che non me ne sia accorto?”
Steve tentò nuovamente di liberare il polso e, come conseguenza, la stretta si fece più insistente, quasi dolorosa.
 
“Allora dovresti anche esserti reso conto che così siamo vulnerabili e che Lewis si sta prendendo gioco di noi. Stiamo sbagliando” Anthea lo strattonò poco gentilmente nel momento in cui lui distolse lo sguardo. “Guardami dannazione. Sto cercando di...”
 
“Lasciami andare” la fermò lui e quello suonò come un ordine, non più come una richiesta.
 
Di risposta, Anthea rafforzò la presa sul suo polso, stavolta quasi sfidandolo. Stava faticando a mantenere le emozioni sotto controllo e non sapeva fin dove si sarebbe spinta arrivata a quel punto. Era arrabbiata e spaventata al tempo stesso. Era arrabbiata con Ross e il suo subdolo abuso di potere. E aveva paura per Steve, perché le condizioni a cui era sottoposto lo stavano consumando.
 
“Devi lasciarmi andare” ripeté lui con fermezza.
 
Ora la stava guardando e non era affatto piacevole avere quegli occhi di ghiaccio addosso. Le loro volontà stavano cozzando e stridendo in maniera eclatante. E lei non sapeva più cosa fare per fermarlo.
 
“Ross ha ottenuto quello che voleva. Un soldato perfetto.”
 
Non appena l’ultima parola scivolò sulla lingua e abbandonò le labbra, Anthea seppe di aver toccato – pugnalato – un nervo scoperto, perché riuscì a mandare in frantumi la maschera di risolutezza del compagno. La brusca contrazione della mascella fu seguita dal violento serrarsi dei denti e dal secco spezzarsi del respiro.
Il maledetto cellulare prese a vibrare di nuovo, infrangendo il momento di soffocante tensione.
Anthea mollò la presa sul polso che aveva stretto fra le dita fino al allora. Lo lasciò andare. Steve rispose alla chiamata e lei lo guardò scambiare qualche rapida parola con quello era certa fosse Ross. Fece scivolare gli occhi dal collo rigido alle spalle tese. Non era così che sarebbe dovuta andare.
Chiusa la chiamata, il super soldato afferrò lo scudo addossato al muro e lo agganciò sulla schiena.
 
“Steve, aspetta” lo richiamò, scossa da un’ondata di agitazione “Voglio solo che tutto questo finisca perché sta consumando tutti noi” gli disse, sforzandosi di mantenere ferma la voce.
 
Il biondo si lasciò scappare una sottile risata dalle sfumature tese e passò una mano fra i capelli stirandoli indietro. La frustrazione era trapelata dal velo placido delle iridi azzurre. Di fronte quella reazione, Anthea percepì ogni muscolo tendersi con uno spasimo. Lo osservò pinzare le tempie con la mano destra, poi lasciar cadere le braccia lungo i fianchi e infine sollevare gli occhi verso il soffitto.
“Lo so. Lo so bene” ammise con un filo di voce, tornando finalmente a guardarla, e l’espressione passò da seria ad esausta nel giro di una frazione di secondo.
 
Anche se credeva fermamente che andasse cambiata rotta, Anthea non poteva – e non voleva – imporsi sfruttando le incrinature della persona che amava, o non sarebbe stata diversa da Ross. Però stavolta non sarebbe rimasta ferma a guardare, non avrebbe più permesso agli eventi di travolgerla. E poi, da giorni, aveva un’orribile sensazione appiccicata addosso. Se non avesse fatto qualcosa ora, aveva la certezza che se ne sarebbe pentita.
“Facciamolo. Sono pronta ormai” asserì quindi con fermezza, prendendo il compagno totalmente in contropiede.
Sapevano entrambi che sarebbe stata solo questione di tempo dal momento in cui, quella notte dopo gli eventi di Chicago, avevano iniziato a parlarne e poi avevano continuato a parlarne, finché le cose non avevano assunto vera e propria concretezza.
“Ross e il Governo saranno concentrati sull’emergenza e avrò campo libero. Aggiorneremo gli altri una volta rientrati. Funzionerà.”
 
Il biondo schiuse appena le labbra per dire qualcosa, ma alla fine rimase in silenzio. Nessuno dei due si sarebbe fermato. Erano terribilmente simili in questo.
 
“Tregua?” gli chiese allora lei, mentre faceva qualche passo per accorciare la distanza che li separava.
 
“Tregua” accordò lui. La freddezza si era sciolta e la frustrazione sparita. Però c’era l’incertezza. Spaventosa e logorante incertezza.
“Se qualcosa dovesse andare storto, come farò a… ”
 
Anthea gli afferrò il polso sinistro, stavolta con delicatezza. Un sorriso di scuse le incurvò le labbra. Lo tirò a sé, la mano libera si infilò fra i capelli biondi, le dita calcarono sulla nuca e le loro fronti si toccarono.
“Qualsiasi cosa accada, qualsiasi cosa ti diranno, non smettere di credere in me. La realtà potrebbe incasinarsi da ora in avanti” gli disse, tingendo di rassicurante convinzione ogni singola parola pronunciata e lo spinse indietro con gentilezza, rompendo il contatto.
 
“Sta’ attenta.”
 
Dietro quella raccomandazione c’erano sottintesi che lei comprese perfettamente, senza alcuno sforzo.
 
“Anche tu.”
 
Erano rimasti in attesa del momento giusto. Tuttavia, nessun momento sarebbe mai stato veramente giusto. Si trattava di fare il primo passo in una direzione diversa, rischiosa, e probabilmente era l’unica alternativa rimasta. Il timore di crollare sotto la pressione incalzate li aveva portati a scontrarsi, ma la lucidità era tornata prima che fosse tardi, prima che finissero per trascinarsi a fondo a vicenda.
 
“Anthea” la richiamò Steve un’ultima volta prima di lasciare la stanza. “Non sono un soldato perfetto. Non è quello che voglio essere.”
 
“Lo so. Non lo pensavo davvero” volle assicurargli e, se avesse potuto, le avrebbe ingoiate quelle maledette parole che il tumulto di rabbia e frustrazione aveva spinto fuori dalla bocca, prima ancora che lei fosse in grado di prenderne coscienza.
 
Lo guardò uscire dalla stanza. Il piano di passare del tempo con lui in un frangente di apparente calma era fallito miseramente. E miseramente era fallito anche il tentativo di evitare che Steve finisse sul campo di battaglia quella notte.
Adesso era sola con sé stessa e con i suoi scomodi sentimenti. Credeva di aver fatto pace con il passato, invece il passato continuava a perseguitarla e Anthea sapeva che mai avrebbe potuto liberarsene davvero. L’avrebbe accompagnata fino alla fine dei suoi giorni. Però non avrebbe permesso al passato di portarle via il presente e il futuro.
Si avvicinò alla finestra, pronta ad andare, nonostante il cuore avesse preso a martellarle nel petto con un po’ troppo entusiasmo. Doveva rimanere calma e concentrata, altrimenti non sarebbe stata in grado di gestire ciò che l’aspettava una volta uscita dalla stanza. Troppo impegnata a mettere ordine nell’interiorità a soqquadro, avvertì il rumore dei passi solo quando questi giunsero alle sue spalle. Si girò bruscamente e, prima che potesse registrarlo, si ritrovò intrappolata in una stretta che le tolse il fiato e soffocò le emozioni più impetuose e graffianti.
 
Il meccanismo di disinnesco funzionava ancora dopotutto.
 
Anthea circondò il collo di Steve con le braccia, sollevandosi sulle punte dei piedi, e lo strinse a sé senza fare domande. Le si formò un nodo in gola nel percepire le dita del compagno stropicciarle il fine tessuto della maglia e premere con forza sulla schiena.
 
“Ci sono ancora tante cose che voglio fare perciò non ho nessuna intenzione di mandare tutto in fumo” gli assicurò e, dannazione, le tremava la voce. “Adesso vai o non riuscirò a lasciarti andare una seconda volta.”
 
“Tornerò il prima possibile” le promise Steve e si tirò indietro per poterla guardare in viso. Le iridi cerulee erano così limpide da aver assunto le sembianze di incustoditi varchi attraverso l’anima.
 
“Scommetto che ti batterò sul tempo” lo sfidò la giovane e riuscì a rubargli un accenno di sorriso, uno di quelli sinceri.
 
“Non ci giurerei se fossi in te.”
 
Stavolta fu lei a sorridere.
Era calma adesso. Il battito cardiaco era tornato regolare, un susseguirsi costante di contrazioni e dilatazioni che non le causavano più affanno. Ed era bastato così poco. Un contatto sentito, caldo e confortante.
 
Era tornato indietro. Anche se per poco. Steve si era fermato ed era tornato indietro. Per lei.
 
 
 
 
 
 
 
You know you need a fix when you fall down
You know you need to find a way
To get you through another day
Let me be the one to numb you out
Let me be the one to hold you
Never gonna let you get away
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Note
 
Un grazie e un augurio speciale a te, Ragdoll_Cat ❤️
È trascorso già un interno ennesimo anno ed è anche merito tuo se questo piccolo progetto prosegue, nonostante le ripetute interruzioni e le pagine rimaste bianche a lungo. Spero di riuscire a strappare ancora emozioni.
 
Un intenso e sincero abbraccio ❤️
 
 
Ella
   
 
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