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Autore: sakusadokja    21/08/2022    0 recensioni
[daisuga, mini-fic]
la prima volta che Sawamura Daichi mi rivolse parola al liceo sapevo già cosa mi avrebbe detto - un saluto formale, collaudato, da manuale -, come me lo avrebbe detto - tono modulato, moderato e un inchino deciso, poi un sorriso grande da bravo ragazzo, gli occhi socchiusi e le guance piene - e dove me lo avrebbe detto - in palestra, le selezioni per la squadra di pallavolo. E lo sapevo ormai da quattro anni
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Daichi Sawamura, Koushi Sugawara
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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“La prima volta che Sawamura Daichi mi rivolse parola al liceo sapevo già cosa mi avrebbe detto - un saluto formale, collaudato, da manuale -, come me lo avrebbe detto - tono modulato, moderato e un inchino deciso, poi un sorriso grande da bravo ragazzo, gli occhi socchiusi e le guance piene - e dove me lo avrebbe detto - in palestra, le selezioni per la squadra di pallavolo. E lo sapevo ormai da quattro anni.

Sul finire delle elementari, i miei genitori decisero di cambiare lavoro, casa, quartiere, il che per me significava cambiare scuola, amici, punti di riferimento. Il tempismo fu inopportuno: doversi riadattare per l’ultimo anno all’epoca avrebbe dovuto avere le dimensioni di una catastrofe inaudita, una tragedia senza precedenti. Eppure non dissi nulla, nè versai una singola lacrima, perché già allora il ricollocamento mi sembrò tutt’altro che imperfetto, qualcosa che assomigliava ad un segno del destino, ai ribilanciamenti della vita che quando qualcosa toglie poi qualcos’altro restituisce. 

Anche a pensarci adesso la cosa non mi pare strana, affatto. Nè si trattava di superficialità, piuttosto avevo sempre atteso messaggi dall’alto, simboli, numeri, fortuite coincidenze. Con un certo timore reverenziale rivolgevo il naso all’insù, inciampavo su un sasso e me lo portavo a casa credendolo un talismano. 

I miei pensavano fosse semplicemente la mia pacata disposizione d’animo, il mio insensato tentativo di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno: in fondo gli avevo reso quell’ennesima complicazione una passeggiata. Non se ne curarono. 

Ero un bambino che - sbadataggine e ginocchia sbucciate a parte - non aveva mai dato alcun problema. Ero sempre al mio posto, lo conoscevo e ci rimanevo: il posto dei bambini è preoccuparsi delle faccende dei bambini, non di quelle degli adulti. Su quelle i bambini devono tacere. Non ne ero totalmente consapevole allora, era puro istinto di sopravvivenza, adesso la chiamo superstizione, comunque resta la cosa più vicina alla speranza che io abbia mai conosciuto. Come la prima volta che vidi Daichi, o meglio la sua testa, i suoi capelli neri e folti. Ero corso sul vialetto a recuperare l’ultimo scatolone del trasloco, avevo frenato di colpo con i piedi perché qualcosa disturbava la mia vista periferica, qualcosa lampeggiava ed era fuori posto. E qualcosa in effetti c’era. 

Ecco come è andata, immagina la scena.

Mi accovaccio per raccogliere un cartoncino rosso che campeggia in mezzo al grigio dell’asfalto (E’ strano no? Cosa ci fa lì? E poi papà mi diceva sempre di non prendere nulla da terra, quindi aver disobbedito con quella facilità doveva pur essere un segno: quel cartellino mi chiamava), quando un pallone mi prende in pieno il braccio destro facendomi barcollare per l’impatto. Un secondo dopo un bambino - che sembra letteralmente sbucato dal nulla, da un’altra dimensione, forse il cielo lo ha fatto precipitare lì - fa una sgambata da dove si trovava fino a poco prima per raggiungermi - lo so perchè ha il fiatone - e inizia a scusarsi. E’ disperato, ricurvo in un profondo inchino. Mi implora di perdonare suo fratello minore, parla di fretta e trema tutto. 

Me lo chiede più di dieci volte (smisi di contare), cambiando sempre l’ordine delle parole, aggravando la formalità, il tono, l’angolazione delle vertebre. Anche io sono tutto agitato, ho le mani in avanti e di tanto in tanto replico che non ce n’è davvero alcun bisogno e che- Ma all'ennesima formula di scuse lui prende e scappa via prima che io possa dire o fare altro, dire o fare qualcosa di senso compiuto. 

Fine. Quello fu il nostro primo incontro (o scontro, vedila come vuoi).

Poi semplicemente me ne restai lì, fermo sul posto ma in bilico per qualche secondo, a ciondolarmi su un piede e a chiedermi se i segni dal cielo possedessero anche un moto orizzontale, perchè quello a terra non era un pezzetto di carta rossa qualsiasi, ma un amuleto enmusubi, un amuleto d’amore, e quella non era una testa piena di capelli scuri qualsiasi, ma quella di Sawamura Daichi, quella del mio primo grande amore. 

Allora, mentre io cadevo a terra per la spinta a scoppio ritardato del pallone, mi sembrò che la mia superstizione avesse di nuovo fatto centro, che il mondo avesse ritrovato il suo equilibrio perfetto. Il giorno dopo quando mi comparve un lividaccio tondo sul braccio pregai gli dei o chi per loro - comunque avevo il naso all'insù - di non mandarlo mai più via. Riuscivo a leggere sull’epidermide le vie violacee di un fortunato ideogramma.

L’ematoma sparì però quel sabato stesso. Ricordo che ero al parco, faceva caldo e le maniche corte mi scoprivano le braccia, io invece scoprivo che il mio messaggio divino si era già volatilizzato. Sempre quel sabato lo rividi, rividi Daichi, la sua testa piena di capelli scuri, quel pallone rattoppato e una schiera di mini versioni di lui - tra loro il fratello minore che avevo indirettamente perdonato -, dunque era un segno. Non era stato un incontro casuale, non era stato uno scontro qualsiasi: dovevamo ritrovarci. 

Daichi non era molto più alto degli altri Sawamura, nè di certo di me che non avevo mai spiccato per stazza o umore, eppure aveva un suo modo di ergersi al di sopra degli altri, come fanno i fari, o forse come fanno le luci basse alla fine del porto, quelle che indicano la strada di casa. Comunque lui era il punto focale di ogni cosa in quel parco, il nord. Dirigeva il gioco, recuperava il pallone quando andava disperso, comandava le pause e le azioni, redarguiva e accarezzava i suoi fratelli come fosse un adulto duro ma giusto. Aveva a malapena undici anni, ne dimostrava anche meno, ma Daichi era un bambino grande

Disponendo della presenza scenica di un filo di fieno battuto dal vento, il mio religioso pellegrinaggio al parco, ogni sabato, passò fortunatamente inosservato. Lo stesso accadde per tutto l’anno seguente, o meglio per i tre anni seguenti, quando finii - per ovvi motivi - nella stessa scuola media di Daichi. Stesso edificio, classi diverse. Non fu colpa di nessuno dei due - o forse proprio per questo fu colpa di entrambi - se non ci incontrammo mai sul serio in quegli anni. La cosa comunque giocò a mio vantaggio: ebbi tutto il tempo e il modo di osservarlo. 

Non era fanatismo, il mio. No. Io ero ciecamente convinto che se fossimo stati destinati a diventare amici (anzi proprio perché lo eravamo, lo sentivo, lo sapevo) sarebbe successo, prima o poi, come quel giorno sul vialetto o quel sabato al parco. Non dovevo mettere fretta al cielo, Lui ha i suoi tempi. E più lo studiavo più mi rendevo conto che anche Daichi li aveva e nemmeno a lui dovevo metterla, a lui che era proprio un bambino grande, che sembrava un adulto con tutta l’agenda piena, i posti accanto già occupati. Come quando aspettavo che mamma tornasse a casa dall’ospedale: sapevo sarebbe tornata - come diceva papà “Per stare con noi per sempre” -, non c'era motivo di disperarsi nel frattempo.

Durante la pausa primaverile tra le terza e la prima liceo, mia madre purtroppo ci lasciò. Questo fu il verbo che usò l’infermiera all’ingresso del reparto quando ci precipitammo in ospedale, verbo che mio padre si affrettò subito a correggere non appena rimanemmo da soli. Mi prese il volto tra le mani tremanti e minuscole e in quel momento quell’uomo che era già piccolo di suo, mi sembrò piccolissimo, impotente. Però poi sempre quell’uomo piccolissimo disse qualcosa di grande che non dimenticherò mai. La voce era bassa ma salda, fu la prima volta che mi parlò come si fa con i ragazzini della mia età, che non sono nè carne nè pesce, nè bambini nè adulti. Disse qualcosa di grande, amorevole, pieno di speranza, ma che era comunque, in qualche modo, nel nostro modo di vedere la cosa, vero. 

“Mamma non ci ha lasciati, è solo morta. La differenza ti è chiara, Koushi?” 

La differenza mi era lampante, papà quel “Per stare con noi per sempre” me lo aveva ripetuto mille e mille volte. Lo avevo imparato a memoria, interiorizzato tra la tabellina del 7 e le capitali del mondo. Per assurdo, sapevo esattamente di cosa stesse parlando.

Potrebbe sembrare un contentino, una frase da manualetto, specchietti per allodole - all’ospedale mi diedero un depliant su come affrontare il lutto e più o meno c’era scritta la medesima cosa -, ma sai, ognuno trova il suo antidoto al dolore, alle domande senza risposta. Ognuno ha il suo e gli altri su questo potranno anche dissentire ma per esempio c’eravamo mio padre ed io convinti che la mamma e i suoi capelli d’argento non fossero destinati a nessun luogo terreno, ma a qualche posto lontano tra le stelle, all’ombra della luna. O forse proprio lì: la immaginavo dormire dentro qualche cratere. Indisturbata. Serena. Perfetta.

Per questo al funerale presenziai solo per buon costume, formalità, e per mio padre, ma con lo spirito non ero lì, non lo ero come avrei dovuto esserlo. Ognuno ha il suo di antidoto, ti dicevo. C’è chi, come il resto della mia famiglia, aveva la religione, io il destino, i ribilanciamenti della vita. 

Non mi sembravano poi così diversi, partivano dallo stesso problema e lo affrontavano con la medesima arma: una fede cieca e assoluta che tutto accadesse per un motivo preciso. Solo che a me, tu o qualcun altro, darà sicuramente dello sciocco o, peggio, dell’irrispettoso, indelicato, ma… Mia madre era morta e io ero certo che qualcosa di altro, di diametralmente opposto, fosse sul punto di accadere”

“Zio Suga, non potrei mai darti nè dell’uno nè dell’altro…”

   
 
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