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Autore: Flying_lotus95    21/08/2022    1 recensioni
[Capitoli dal 1° al 9° revisionati]
Giappone, inizio anni'60. Un gruppo di sei ragazzi affronta le proprie vicende quotidiane, combattendo con un passato che non vuole lasciarli liberi. Mario Minakami è intenzionato a scoprire chi si cela dietro l'omicidio di Rokurota Sakuragi, l'uomo che sei anni prima aveva preso lui e i suoi amici sotto la sua ala e li aveva reintrodotti nella società, affrontando non poche difficoltà; Joe Yokosuka, meticcio, è alle prese con un passato ingombrante, una sorella da salvare, e un amore da proteggere; Tadayoshi Tooyama è un soldato delle Forze Armate del Giappone, sposato con la dolce Mina. Tra sensi di colpa e paure, dovrà affrontare i suoi demoni una volta per tutte...
Assieme ai loro ex compagni di cella, Ryuji Noomoto, Noboru Maeda e Mansaku Matsuuda, i tre si ritroveranno faccia a faccia ad affrontare un pericolo comune, che minaccerà il loro futuro, la loro "terra promessa".
[Leggera presenza OOC]
Genere: Azione, Drammatico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: Lemon, Otherverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 7


  • Gennaio, ospedale da campo nei pressi della prefettura di Ishikawa, Giappone, anno 21 dell’epoca Showa (1946)
 
Rokurota Sakuragi riaprì gli occhi lentamente, la luce gli aveva ferito le iridi per un tempo che era sembrato interminabile. 
Non riuscì a capire subito dove si trovasse, sentiva solo un gran vociare intorno a sè.
Sembravano lamenti, pianti, invocazioni...
"Sono ancora in carcere" pensò, portandosi una mano sul viso. Poi scostò il volto alla sua sinistra, e vide una branda su cui era steso un uomo assopito. Forse un militare come lui.
Rokurota accennò a tirarsi su, e un dolore alla schiena lo colse improvviso. Era come un bruciore fresco, tagliente. 
E a Rokurota venne in mente il ferro rovente che quel soldato russo gli aveva appiccicato alla schiena, per convincerlo a parlare, o semplicemente per il puro gusto di torturarlo. 
«Mariya...» quel nome gli sfuggì dalle labbra senza volerlo. 
«Mariya, dove sei amore mio?»
Rokurota aveva invocato quel nome così tante volte mentre era prigioniero, da arrivare a perdere quasi il senno. 
A volte gli era addirittura parso di ritrovarsela davanti agli occhi, ancora ragazzina, innocente, con le sue trecce lunghe color ebano e la divisa scolastica indosso, che gli carezzava il viso con una mano, detergendolo dal sudore e dallo sporco. 
Incurante del dolore, Rokurota si alzò dalla sua branda. Barcollò non appena mise piede a terra. La testa gli girava vorticosamente e aveva una grande nausea. Iniziò a vagare tra quei letti, capendo così di trovarsi in un ospedale da campo. L'odore acre di sangue, vomito e disinfettante gli inondò le narici senza permesso, stordendolo più di quanto già non lo fosse.
Si era allontanato di qualche letto rispetto al suo, quando intravide un volto a lui piacevolmente familiare. Sulle prime, Rokurota pensò che la testa gli stesse giocando brutti scherzi, ma quel giovane medico che stava visitando quel paziente febbricitante gli ricordava molto il suo amico d'infanzia Kensuke Tenko.
«K-Ken» provò a chiamare Rokurota con un fil di voce. Tentò di allungare un braccio con aria disperata verso di lui, quasi volesse aggrapparsi a quel miraggio con tutto sé stesso. Nel muoversi però, fece cadere al suolo una ciotola d'alluminio contenente gli attrezzi per la sutura e i vari medicamenti. Solo allora il giovane medico si voltò, incuriosito da quel rumore.
«Rokurota!» esclamò Kensuke, abbandonando momentaneamente il suo paziente per andare a soccorrere il suo amico di sempre.
«Rokurota! Ti sei svegliato finalmente!» constatò, afferrando l'amico per le spalle, ancora troppo debole e instabile per mantenersi da solo sulle proprie gambe. 
«Mariya! Dov'è Mariya?» gli occhi grigiastri di Rokurota vagarono senza pace per tutto l'abitacolo, agitandosi come un topo in gabbia.
«Dov'è Mariya, Ken? Avevo promesso di salvarla, che sarei tornato da lei... ma i Russi ci hanno preso...»
«Su, stai calmo adesso Rokurota. Ti hanno inferto ferite importanti, non dovresti agitarti in questo modo» lo avvisò Kensuke, in ansia per le sue condizioni.
«Giuro che se le hanno fatto qualcosa, io li ammazzo tutti! Li uccido tutti con le mie stesse mani!» la voce del soldato uscì un po' troppo alta ed incontrollata. Se Kensuke non fosse stato lì a sorreggerlo, sarebbe sicuramente caduto rovinosamente al suolo. 
«Dobbiamo trovarla, Ken, dobbiamo trovarla!» e appoggiò la fronte esausto sulla spalla del giovane medico, lasciandolo interdetto.
«Le avevo promesso che non le avrei più fatto fare quella vita di merda... che l'avrei protetta sempre! Glielo avevo promesso, e ora penserà che l'ho abbandonata... dimmi dov'è Mariya, Ken! Dimmelo, cazzo!» Rokurota prese così a colpire non troppo forte il petto del suo amico, prorompendo in fragorosi singhiozzi. 
Dal canto suo, Kensuke non sapeva come aiutarlo. Poche prostitute di guerra erano tornate dal fronte, e Mariya non era stata tra quelle poche fortunate. Avrebbe dovuto dirglielo, ma gli si stringeva il cuore nel vederlo in quelle condizioni pietose.
«Vieni con me! Se ti corichi e mi prometti che ti riposerai, ti farò sapere sue notizie». L'unica cosa che a Kensuke parve più giusto fare in quel momento fu temporeggiare. 
E Rokurota sembrò rinsavire alla sua proposta.
«Dille che la amo, e che non l'ho abbandonata neanche un momento! Glielo devi dire Ken! Glielo devi dire!»
«Glielo dirò, ma tu adesso coricati e dormi!» gli ordinò Kensuke, aiutandolo a stendersi sulla sua branda.
Il volto di Rokurota era rigato di muco e lacrime, a Kensuke parve un bambino smarrito in cerca della sua mamma.
Ordinò ad una delle infermiere di non perderlo di vista, di avvisarlo in qualsiasi caso. 
Per Kensuke Tenko, quella, come molte altre dopo, fu l'inizio di una lunghissima nottata.
Avrebbe davvero voluto dare buone notizie al suo amico d'infanzia, ma non si era minimamente aspettato che Mariya si fosse ritrovata al fronte, a fare la donna di conforto per i soldati. Tutto si sarebbe aspettato, men che meno questo. 
Tra una visita e l’altra, Kensuke trovò il tempo di buttare l’occhio verso il letto dell’amico. 
Osservò Rokurota parlottare nel sonno, l'ennesima lacrima gli rigò la guancia ispida.
"Prego davvero il cielo che la tua Mariya stia bene" si ritrovò a pensare il medico, stanco e privo di forze. A fine turno, si addormentò sulla sedia poco distante dal suo amico, quando ormai le prime luci dell'alba avevano cominciato a schiarire il cielo nero della notte.
Sarebbe iniziata ancora un'altra giornata faticosa e dolorosa all'ospedale da campo.



 
  • 10 aprile, campo base NATO, prefettura di Ishikawa, Giappone, anno 35 dell’epoca Showa (1960)
 
Era passato un bel po' di tempo dall'ultima volta che Mario si era ritrovato nella stanza di Lily. 
Si guardava intorno come se quelle pareti non gli fossero state affatto familiari.
Quando si era ripreso nel suo letto l'ultima volta, dopo l'attacco di panico che lo aveva colto alla sprovvista quel giorno nefasto, non si era soffermato a guardarsi intorno, tanta era stata la voglia di fuggire da lì il più presto possibile.
C'era stato un tempo in cui entrare ed uscire da lì era stato naturale come respirare. 
Dopo ogni allenamento in palestra, la stanza di Lily era stata una tappa fissa. Non era successo mai nulla di particolare, semplicemente tutti e due si trovavano a chiacchierare del più e del meno, o meglio, Mario parlava a ruota libera di tutto ciò che gli capitava, come non aveva più fatto da dopo la scarcerazione, e Lily lo ascoltava rapita, finché Rokurota non veniva a riprenderselo, rimanendo qualche istante fermo sull'uscio ad osservarli con aria serena, come un padre di famiglia che fissa il proprio figlio chiacchierare con sua madre.
All'epoca Mario non aveva nutrito alcun sospetto sulla loro relazione, non aveva immaginato neanche lontanamente che fossero amanti, per di più in segreto.
Da quando aveva messo piede in casa di Rokurota, aveva subito pensato che lui e Setsuko fossero sposati, vista la grande complicità che avevano mostrato ai suoi occhi. Scoprire della sua storia con Lily a suo tempo lo aveva scioccato parecchio proprio a causa di questo equivoco.
Lo aveva scoperto un giorno per puro caso, tornando presto dagli allenamenti. Come sempre, Mario aveva raggiunto l'alloggio di Lily a passo svelto, non gli piaceva stare troppo vicino ai soldati, gli incutevano timore quando parlavano con quella lingua sconosciuta e con quei visi tanto diversi dal suo da sembrare demoniaci. 
Li aveva visti dalla finestra, discutevano animatamente. Sulle prime, Mario si era spaventato, non aveva capito le ragioni di quell'acceso diverbio. Poi aveva visto Rokurota tirarsi Lily contro e baciarla con passione, e quell'immagine rimase vivida a lungo negli occhi di Mario. Si era dato dello sciocco e dell'ingenuo per non aver capito niente. 
Nonostante lo smarrimento iniziale, aveva accettato, sebbene con molta fatica, la situazione all'inizio, poi quando la rabbia e lo sdegno lasciarono il posto alla curiosità e all'accettazione, dovendo ammettere che non poteva esistere altra soluzione. 
Quei due erano fatti davvero per stare l'uno con l'altra, e più Mario li osservava e più se ne convinceva.
Mentre si perdeva tra i ricordi, tutto in quella stanza per lui sembrò essere rimasto immutato; il grammofono, la scrivania, il letto, la cassapanca...
Tutto gli evocava nostalgia, tutto gli ricordava Rokurota più di quanto si fosse aspettato. Come se la sua anima continuasse ad aleggiare indisturbata tra quelle pareti, e non volesse lasciare sola la sua amata nemmeno per un'istante.
Un oggetto in particolare catturò l'attenzione del ragazzo, vicino alla cassapanca aperta. La copertina color panna che Lily amava più di qualsiasi altra cosa al mondo sporgeva dal bordo, un po' sfatta. Mario ipotizzò che la donna l'avesse presa spesso nell'ultimo periodo, stringendosela al petto e annusandola con trasporto, nascondendo in essa le proprie lacrime e la propria nostalgia.
Il giovane sfiorò il tessuto con le dita della mano offesa, le cicatrici del dorso erano ancora esposte, il guanto lo teneva stretto nell'altra mano. Gli provocò una strana sensazione al tatto, come un richiamo primordiale, innato.
«Cosa stai facendo?» esordì Lily incuriosita, sull'uscio della porta. 
Dopo essere rimasti soli, Lily gli aveva chiesto di raggiungere il suo alloggio, mentre andava a sincerarsi delle condizioni di Mitsuha. 
Al suo ritorno, lo aveva scorto vicino alla cassapanca, intento a guardare quella copertina ruvida che portava con sé tanti ricordi felici e amari al tempo stesso.
«Niente» dichiarò Mario, secco.
«Stavo solo pensando che l'avresti avvolta con questa, se vostra figlia fosse nata» aggiunse con un velo di tristezza nello sguardo e nella voce.
Lily increspò le labbra in un sorriso obliquo e triste. Appoggiata allo stipite della porta con le braccia incrociate sotto al seno, dava tutta l'impressione di essere una dea dall'aria assonnata e diffidente, ma bellissima. 
«Beh, quella copertina ha già avvolto qualcuno» disse poi, avanzando nella stanza con passo cadenzato, raggiungendo il ragazzo alle sue spalle.
«Quel fagottino aveva un profumo così buono che da questa copertina non se ne andrà più via. L'ha monopolizzata col suo odore» e inspirò profondamente, socchiudendo gli occhi. Mario la fissò stranito, a volte Lily le sembrava così enigmatica da non riuscire a capire quando fosse seria o quando lo stesse prendendo in giro.
«Fiori d'arancio e vaniglia, la mia fragranza preferita. Più una puntina di borotalco» e nel dire ciò, pizzicò la punta del naso di Mario, che proruppe in una smorfia di puro fastidio.
«Vedi di non farlo più» si lamentò lui, massaggiandosi la punta del naso dolorante. Lily trattenne a stento una risata, portandosi alle labbra le belle dita affusolate smaltate di rosso. 
«Col tempo diventi sempre più acido» sottolineò Lily, sorpassandolo e andandosi a sedere sul letto, accavallando le gambe. «E del ragazzino gentile che ho incontrato cinque anni fa non sembra esserci più alcuna traccia» constatò, poggiando enfaticamente il mento sul palmo, il bello sguardo da cerbiatta puntato sul ragazzo poco distante da lei. 
Mario si umettò le labbra, abbassando il capo, riflessivo.
«Quel ragazzino è diventato un uomo ormai» disse con voce greve, cercando di darsi un tono, intento ad infilarsi il guanto alla mano destra. 
Lily annuì distrattamente alle sue parole.
«Certo. Un uomo che si comporta ancora come un moccioso indisponente».
Ed eccola lì la stoccata che Mario stava aspettando con trepidazione, il momento esatto in cui Lily avrebbe lasciato a briglia sciolta la lingua per rimproverarlo delle sue stupidaggini.
«Pensavo ti fosse passata la voglia di darmi in testa!»
«Pensavi male».
Entrambi si fissarono negli occhi per dei minuti interminabili. Non vi era imbarazzo, soltanto una sottile aria elettrica di sfida. Tutto normale per loro.
«È il tuo regalo di compleanno per me?» azzardò Mario, provocandola volontariamente. Lily non si lasciò intimidire per così poco. Aveva dalla sua parte sedici anni di vantaggio, la saggezza della maturità non la lasciò vacillare.
«Non era mia intenzione, ma se la cosa non ti disturba» affermò la donna, alzando il mento con aria provocante.
Mario sorrise di fronte alla sua sicurezza. 
«Tanto ormai, sembra vi divertiate a mettermi in riga per ogni cosa» puntualizzò Mario, leccandosi il canino con aria cinica.
«Sei anche tu bravo a provocare, c'è da dire» sentenziò lei, distendendo le labbra carnose in un sorriso sghembo.
«È inutile, non te la darò mai vinta, moccioso» e drizzò la schiena poggiando entrambe le mani sul materasso.
Mario increspò le labbra, remissivo. Aveva temuto quel confronto con lei nel momento esatto in cui aveva realizzato di aver compiuto la cazzata del secolo, andando sotto casa dei Sakuragi a fare quella scenata da ubriaco.
«Quante volte te lo dobbiamo ripetere che devi stare lontano da quell'uomo? Quando Jeoffrey mi ha riferito la cosa, volevo morire! Anzi, prima avrei ucciso te e poi mi sarei sotterrata viva» Lily buttò fuori quell'invettiva con un irruenza calcolata, ma la voce le tremava man mano che proseguiva nel discorso. 
Mario incassò il colpo in silenzio, anche se non del tutto intenzionato a rimanere zitto troppo a lungo. 
«Innanzitutto, dì al tuo caro amico che s'iniziasse a farsi i cazzi suoi! Solo perchè si porta a letto mia zia, non ha nessun diritto di fare il cane da guardia con me!» ringhiò Mario, le pupille di diaspro vibravano dal nervoso crescente.
Lily gli lanciò a sua volta un'occhiataccia aspra. 
«Non ti permettere di parlare di Jeoffrey e Yuzuki in questi termini! Lui la ama e la rispetta, lo sai perfettamente!» Lily prese le difese di Jeoffrey non perché voleva mostrarsi coscienziosa, ma perchè credeva davvero alla buona fede del marine.
«Sì certo, ne riparleremo quando abbandonerà lei e Jadine per tornarsene negli Stati Uniti da sua moglie...».
In realtà Mario quelle cose non le pensava realmente su Jeoffrey, ma il rischio che potesse avverarsi quell'eventualità lo rendeva irrequieto. Aveva già sentito diverse storie simili, di soldati americani che abbandonavano donne incinte al loro destino, o semplicemente amanti ufficiali, defraudandole anche dei loro averi, una volta andati via. 
Non avrebbe sopportato di vedere anche Yuzuki in mezzo ad una strada, costretta a vendersi per dare un tozzo di pane alla bambina e al suo anziano genitore. 
Mario non glielo avrebbe mai permesso, anche a costo di sobbarcarsi lui tutto sulle proprie spalle, non avrebbe lasciato che la donna che lo aveva cresciuto con amore facesse quella fine. 
Una disgraziata bastava ed avanzava in casa loro.
«Non essere così melodrammatico! Puoi star certo che non sparirà dalla vita di tua zia e tua cugina da un momento all'altro» cercò di tranquillizzarlo l'altra, sicura delle proprie parole.
 «E comunque non cercare di sviare il discorso, ragazzino! Torniamo a noi!» esclamò poi perentoria, con tanto di indice puntato alla volta di Mario.
«A parte il fatto che sei stato tu a sbirciare sulla sua agenda...»
«È stato un caso» si difese strenuamente Mario, distogliendo il contatto visivo che aveva instaurato con Lily.
«Sono stanco di vedere che quel pezzo di merda si goda la vita invece di pagare per tutte le sue malefatte! E tu dovresti capirmi meglio di chiunque altro» Mario aveva alzato la voce senza volerlo. Ogni volta che l'argomento verteva su Atsumichi Sakuragi, la calma e la pazienza svanivano nell'aria come fumo.
Lily si era alzata dal letto a quel punto, fronteggiandolo. Lo lasciò continuare, torva in viso.
«Se non fosse stato per lui, a quest'ora avresti condotto una vita normale, e non ti saresti ridotta a fare la puttana in questo schifo di posto!»
L'aveva detto. Mario le aveva detto esattamente quello che Lily non voleva sentirsi dire.
Non quel giorno.
«Ha la fedina penale più sporca della mia, ha sulla coscienza l'omicidio di suo figlio, per non parlare di quello che ha fatto a te, quando eri solo una bambina... Però, guarda caso, non ha mai conosciuto il carcere, lui! Nessuno osa fare il suo nome perché, per carità, stiamo parlando di Atsumichi Sakuragi, l'uomo più importante della Prefettura-»
«Mario, ti prego, basta, BASTA!» Lily alzò a sua volta la voce per farsi sentire da Mario, ormai partito con quell'invettiva per lei ancora troppo dolorosa da affrontare.
Si strinse le mani al petto, come per proteggersi da chiunque volesse farle del male in quel momento.
Ogni volta che sentiva quel nome, la pelle di Lily le si accapponava senza controllo.
Nel corso degli anni, mostrarsi forte per lei era stato un obbligo e non un'alternativa, non vi era stata scelta. Ma quell'uomo, a distanza di anni, continuava a terrorizzarla. Lo rivedeva nei suoi peggiori incubi, sopra di lei come un predatore affamato, e lei che implorava aiuto invano...
Atsumichi Sakuragi le aveva lasciato un marchio addosso indelebile, che neanche Rokurota, con tutto il suo amore, era riuscito a cancellare del tutto. 
Avrebbe fatto i conti con quel dolore per il resto della sua vita, nonostante agli occhi del mondo aveva saputo renderlo ormai acqua passata.
«Lo so perfettamente che se lui non mi avesse… sì, se non mi avesse stuprata, ora avrei una vita decisamente diversa!» e le mancò l'aria ad ammetterlo ad alta voce. Poi alzò gli occhioni lucidi da cerbiatta verso il viso contrito di Mario, così simile a quello del suo grande amore, e allungò una mano verso la sua guancia, inizialmente con timore, poi con più sicurezza. 
«Ma della vita che mi è toccata, che tu ci creda o no, non mi pento! Non mi pento affatto di ciò che mi è accaduto, perché ne sono uscita più forte. Mi è stato tolto tanto, è vero, ma in cambio ho ottenuto anche più di quanto potessi immaginare». Lily affermò quelle cose con aria così sincera e limpida da far destabilizzare Mario. 
Se solo avesse posseduto anche solo un briciolo della sua determinazione e della sua forza, probabilmente sarebbe stato un uomo diverso, un uomo di cui davvero Rokurota ne sarebbe andato fiero. 
Scostò il viso dalla carezza di Lily, come scottato. Sentiva i battiti del suo cuore in gola, le palpebre cominciarono a pizzicargli.
Sappiamo entrambi di chi è davvero la colpa della tua condizione. E non si tratta di Sakuragi.
Mario realizzò quel pensiero con l'amaro in bocca. Era solo lui il responsabile, soltanto lui e la sua meschina esistenza.
«Comunque, suvvia! Oggi non voglio vedere musi lunghi o altri litigi!» Lily cercò di richiamarlo al presente, ma Mario ormai era altrove. Avvertì qualcosa di bagnato scivolargli lungo la guancia. Una lacrima, seguita da una seconda, una terza. 
E Mario iniziò a ridere, inizialmente con un suono gutturale della gola, e poi sempre più vivido, inconfondibile. 
Rise amaramente, puntando gli occhi ovunque tranne che sul volto di Lily, che lo guardava con un'espressione intenerita, quasi si fosse aspettata una reazione simile da parte sua. O l'avesse sperata.
A quel punto Mario le diede definitivamente le spalle, godendosi quella piccola benedizione che aveva bramato con tutto sé stesso da tantissimo tempo. 
Non era come piangere per la paura di non riuscire più a respirare, era un altro tipo di pianto; era come se quel nodo nel petto che gli opprimeva il respiro si fosse allentato, donandogli sollievo e pace, in qualche modo.
Fu come godersi la frescura della pioggia dopo un intero anno di siccità. 
«Mi manca» ammise ad occhi chiusi, la mascella tremava trattenendo i singhiozzi. «Sono tre anni che mi manca e non ho potuto dargli giustizia. Mi manca per colpa sua, per colpa di quel lurido-» 
Un singhiozzo più forte degli altri bloccò il flusso delle sue parole, portandosi infine un braccio sugli occhi, pulendosi il viso con la manica della giacca. A Lily le parve di guardare un bimbo in preda ad una crisi di pianto provocata da un giocattolo rotto.
«E sono stanco. Sono stanco perché sento di portare avanti una battaglia inutile da solo. Come se fossi l'unico a cui continua ad importare davvero!».
Senza volerlo, quel peso sul cuore fatto di silenzi e rabbia si stava dissolvendo piano, come una nuvola che si sposta per permettere al sole di irradiare il terreno. Mario realizzò solo in quell'istante quanto gli avesse fatto bene ammetterlo ad alta voce. Ammettere di sentirsi piccolo ed insignificante davanti alla morte, davanti alle cose su cui non poteva esercitare alcun potere.
Per tutto quel tempo, si era sentito come Atlante, portandosi il peso del mondo sulle proprie, già fragili, spalle. Senza neanche accorgersi che anche gli altri ragazzi si erano presi un pezzo di cielo per ciascuno, da dividersi per non far crollare addosso a nessuno di loro pesi eccessivi, colpe innecessarie. 
Lily gli si avvicinò piano, mettendogli dolcemente le mani sulle spalle.
«Va tutto bene, Mario. Rokurota manca tanto a tutti noi, e capisco, anzi capiamo perfettamente la tua rabbia. E proprio perché non voglio perdere anche te che vorrei che tu ti tenessi alla larga da lui. È un uomo pericoloso, e non sopporterei che ti faccesse del male» gli confessò, scostandogli una ciocca bruna dagli occhi arrossati dal pianto, e gli lasciò un bacio delicato sulla tempia, con fare materno.
«E non puoi immaginare quanto io mi senta stanca, sempre! Combatto come te ogni giorno battaglie inutili, ma lo faccio perché altrimenti verrebbe meno tutto ciò in cui credo. Non dico che tu non debba pretendere giustizia per Rokurota, t'imploro soltanto di non farlo da solo» dopodiché lo invitò a guardarla, proprio come aveva fatto poco prima per distrarlo da Terence e dalle sue provocazioni.
Lasciò che poggiasse la testa sulla sua spalla, sebbene lui fosse leggermente più alto di lei, e quella posizione non giovasse affatto alla sua spina dorsale.
Rimasero in quella posizione, stretti l'uno all'altro per un tempo abbastanza lungo. Giusto il tempo di lasciare che le emozioni di Mario scorressero libere assieme a quelle lacrime tanto detestate quanto agognate. Il calore e il profumo di Lily lo avevano reso debole, ma sereno.
Fu come se entrambi avessero ritrovato un pezzo di sé stessi, che si era smarrito nei meandri della memoria e del dolore.


 
* * *


«Ehi zia Mina, ti piace il mio unicorno?»
La voce limpida e acuta del piccolo Heizo risuonò nel salotto come una sinfonia improvvisa. A Mina bastava osservare i suoi due nipotini, figli di sua sorella Masumi, per ritrovare il buon umore e la pace interiore. Era andata a trovarla apposta quel pomeriggio, dopo l'ennesimo momento di sconforto e la sensazione di pianto che non la abbandonava neanche un secondo. Mina aveva sentito il bisogno di lasciarsi contagiare dal buon umore che la sorella minore emanava a tutto spiano in qualsiasi circostanza.
«Proprio bello questo unicorno, Heizo-chan! Forse ha solo le ali un po' corte, ma per il resto è proprio ben fatto» dichiarò Mina con aria tra il professionale e il divertito. Il piccolo Heizo battè le manine euforico. Quell'unicorno disegnato da suo nipote a vedersi sembrava più una mucca con due cerchi al posto delle ali. Alla giovane venne in mente quando da bambina mostrava i propri disegni al padre, e l'uomo non aveva mai avuto cuore di dirle che erano degli obbrobri. Col tempo però, gli apprezzamenti verso le sue opere erano diventati ammirevolmente sinceri. O almeno così era parso a Mina.
«Io non sono bravo a disegnare come lui, zia Mina» il brontolìo soffuso di Eisuke, l'altro nipotino, arrivò come una carezza all'animo di Mina. Sebbene lui ed Heizo fossero gemelli, i loro caratteri non potevano che essere l'uno l'opposto dell'altro. 
Heizo era solare, chiacchierone e mingherlino, Eisuke piagnucolone, timido e cicciottino. Ma Mina li amava entrambi, li trovava adorabili proprio apprezzandone la diversità. 
«Però tu sei bravo con le costruzioni, no? Questa bella casetta con i mattoncini colorati l'hai fatta tu, e a me piace tantissimo» dichiarò lei, sempre dolce ed accondiscendente. «Vero, Eicchan! Le tue casette sono bellissime!» lo supportò il fratello, con aria allegra e pimpante. 
Eisuke si girò le piccole dita imbarazzato, ciondolando su sé stesso. Mina gli lasciò una carezza sui capelli a scodella, sorridendogli con premura.
«Su, voi due, lasciate stare la zia! Giocate con i vostri giochi e non infastiditela!»
Mina si voltò alla volta della padrona di quella voce tanto perentoria quanto divertita.
Masumi, sua sorella minore, osservava la scena accanto allo stipite della porta. Aveva in mano un vassoio di biscotti appena sfornati ed era radiosa come sempre. Il vestito giallo canarino le ricadeva lungo le curve morbide e sensuali del seno e del fondoschiena con una grazia senza precedenti.
Poggiò il vassoio sul tavolino da caffè, per poi sedersi sul divano accanto alla sorella maggiore, facendo attenzione a non spiegazzare il vestito. 
Eisuke guardò il vassoio con la bava alla bocca. «Posso mangiare un biscotto, mamma?» chiese il bambino, intimidito. Masumi increspò leggermente le labbra a quell'innocente richiesta.
«Ma tra poco si cena, amore! E poi questi li ho fatti per zia Mina» replicò Masumi, con un leggero imbarazzo. A Mina quell'atteggiamento apparve strano da parte sua. Masumi non si poneva mai problemi di tal genere. A meno che qualcuno - e a Mina fu facile intuire di chi potesse trattarsi - non gli avesse sottolineato l'evidenza più e più volte.
«Un biscotto non guasterà la sua fame, Masumi» disse Mina, prendendone uno per offrirlo al nipotino, che la fissava con aria indecisa. «Prendilo, su! I biscotti della tua mamma sono i più buoni in assoluto!» lo incoraggiò, porgendogli il biscotto davanti agli occhi. Eisuke guardò prima la madre, portandosi un ditino alla bocca, e poi la zia, in apprensione.
«E va bene, prendi pure! Ma solo uno» decise infine Masumi, rassegnata.
Il bimbo sorrise timidamente ed afferrò il biscottino porto dalla zia, contento di quella piccola vittoria.
Poco dopo si avvicinò anche Heizo, reclamando anche lui il suo biscotto.
Fu Masumi a darglielo stavolta.
«Non fate briciole sul tappeto, mi raccomando» raccomandò ai figli, già intenti a raggiungere i loro giocattoli, addentando i loro biscotti.
Mina sorrise nel vederli così pieni di salute e di vita.
«Ho paura che Eisuke possa ingrassare troppo» confessò Masumi, mordendosi il labbro con aria dispiaciuta. 
«Nostra madre lo ha fissato tutta preoccupata l'ultima volta che è venuta a trovarmi. Dice che dovrei stare attenta a come lo faccio mangiare, altrimenti crescerà troppo grosso».
Mina aggrottò le sopracciglia alle costatazioni della sorella. Il commento poco felice che la madre aveva fatto sul piccolo Eisuke le era andato di traverso.
«Ma se scoppia di salute, Masumi! È costituzione, anche tu da bambina sembravi un salamino» e nel dire ciò, le pizzicò gentilmente un fianco, ricevendo una manata fintamente infastidita dalla diretta interessata «E guardati ora! Nonostante hai portato in grembo due creature contemporaneamente, non hai messo su neanche un chilo! Sei bellissima come sempre sorellina mia!» concluse Mina, con un sorriso rassicurante.
Sapeva che bastava davvero poco per risollevare il morale di Masumi, le piaceva essere vezzeggiata e coccolata sin da piccola. 
Infatti, Masumi si sistemò il fermaglio dell'acconciatura con aria solenne e si stirò il vestito con le mani, dandosi arie da nobildonna.
«Beh, c'è un motivo per il quale mi mantengo tanto asciutta» e nel dire ciò, fece un occhiolino alla volta della sorella maggiore «Ho dovuto chiedere a Genji di far sostituire il nostro materasso. A furia di...» e imitò piccoli saltelli sul posto, sorridendo maliziosa «abbiamo rotto tre molle. Tre, ti rendi conto?» Masumi scoppiò a ridere, cercando di darsi un contegno che in quel momento non aveva. Mina arrossì vistosamente a quella confessione, percepì addirittura il fumo fuoriuscirle dalle orecchie.
«Masumi! Come ti viene, davanti ai bambini...» la rimproverò bonariamente Mina, buttando un'occhiata preoccupata alla volta dei due fratellini, per fortuna totalmente presi dai loro giochi.
Masumi proruppe in una risata argentina. «Ma che ti pensi, Mina? Che io e mio marito ci guardiamo in faccia per tutto il tempo?». A quella frase, Mina si rabbuiò leggermente. 
Tra me e Tadayoshi c'è soltanto questo ormai. Guardarsi e basta.
Quel pomeriggio aveva raggiunto sua sorella a Kobe perchè voleva cambiare aria. Aveva pensato che vedere i suoi nipotini e chiacchierare con Masumi del più e del meno l'avrebbe distratta dai propri pensieri. Erano passati due giorni dalla telefonata di Tadayoshi e soltanto il giorno prima aveva avuto quello spiacevole incontro con la sua presunta amante. Non aveva dormito nè mangiato per una giornata intera, si era coricata sul divano a fissare il soffitto per ore interminabili.
«Cosa c'è Mina? Qualcosa non va?» chiese Masumi, quasi intuendo i reali sentimenti della sorella maggiore.
Mina scosse il capo, decisa.
«Nulla, sono solo un po' stanca» e si sistemò una ciocca dietro l'orecchio, abbassando lo sguardo.
Ma Masumi non si accontentò di quella risposta.
«Come sta mio cognato? Quante molle del letto avete rotto in questi mesi?» chiese con aria furbetta. Mina sorrise amara alla sua battuta.
«Io e Tadayoshi siamo più misurati di te e Genji, sorella mia» se ne uscì Mina con molta eleganza. «Forse anche troppo...» si ritrovò poi a pensare ad alta voce. Masumi rise divertita alla sua constatazione.
«Per favore, Mina! Tuo marito ti sbatterebbe al muro con un semplice sguardo se glielo permetteresti! Sembra sempre così selvaggio quando ti guarda. Fa' venire i brividi persino a me!». 
Nel sentire Masumi decantare le doti intime di Tadayoshi, Mina si strinse le gambe per riflesso. Quella scossa di piacere che la colpiva all'improvviso ogni volta che si parlava di suo marito in quei termini licenziosi, le riportava alla mente quei brevi momenti di felicità trascorsi con lui all'inizio del loro matrimonio. 
Ne riaffiorò uno in particolare, il più vivido tra tutti: un rapporto consumato in garage, sul cofano della loro Toyota 2000GT. 
Mina ne era uscita con la schiena a pezzi e il bacino dolorante, ripetutamente sbattuta sulla superficie dura dell’automobile, graffiando con le unghie la schiena di Tadayoshi nel tentativo di aggrapparsi a lui. Era stata la prima volta in assoluto che Tadayoshi l'aveva fatta venire in quel modo, penetrandola brutalmente. A Mina era piaciuto così tanto da vergognarsene poi successivamente. Aveva amato persino quella sensazione di soffocamento che la mano di Tadayoshi le aveva arrecato tappandole la bocca per non farla urlare. Era stato tutto così animalesco e primitivo, da farle dimenticare perfino il proprio nome, la propria essenza ed integrità. Una donna sposata che si lasciava scopare dal marito come l'ultima delle meretrici. Solo il cielo poteva immaginare quanto avesse goduto nel vedere il volto di suo marito trasfigurato dal piacere, che cercava in tutti i modi di restare composto e vigile, nonostante una parte di sé si fosse unita alle sue pareti vogliose e pulsanti, facendogli dimenticare pudore e coscienza.
Il ricordo di quella notte Mina lo custodiva gelosamente nel suo cuore. Lo aveva pensato e ripensato così tante volte, da arrivare perfino a dubitare che quell'episodio fosse accaduto realmente. Che la sua povera mente fragile se lo fosse sognato per aggrapparsi a qualcosa, per non sprofondare maggiormente in quell'abisso nero di tristezza e senso di vuoto immane.
Probabilmente per Tadayoshi non avrà significato nulla, si ritrovava puntualmente a pensare, con una voragine sempre più profonda nel petto.
«Cosa c'è? Ti ho fatto ricordare un episodio piccante?» la provocò Masumi, dandole una leggera spallata.
Mina gliela ricambiò a sua volta, sorridendo imbarazzata. Allontanò il ricordo lontano ed irraggiungibile delle mani di Tadayoshi sui suoi fianchi, sul collo e sui seni, e tornò al presente, dove sua sorella la stava fissando con aria allegra.
«Se ti sentisse la mamma, ti farebbe ingoiare una saponetta intera per farti pulire la lingua dalle sciocchezze che dici!» l'ammonì, ancora sorridente.
«Scherzi a parte, sorella... è da un po' che tra di noi si è come spento qualcosa...»
«Qualcosa dici?» incalzò Masumi, fattasi più seria.
Mina annuì mesta, buttando ancora lo sguardo verso i nipoti.
Portavano i rispettivi nomi di suo padre e suo nonno, Heizo ed Eisuke. Di quest'ultimo, Mina ricordava davvero molto poco, essendo venuto a mancare quando aveva solo quattro anni. Dalle fotografie appariva come un uomo integerrimo, serio e rispettabile. Sua nonna gli aveva raccontato che era sempre stato un uomo schivo, a volte anche schiavo del ruolo che mostrava in società. Chieko era stata quella variabile impazzita che gli aveva scombussolato la vita. Si erano amati molto, e se davanti agli altri Eisuke appariva come un uomo freddo e scostante, nell'intimità sapeva essere dolce e sensibile, a tratti un po' impacciato.
Una storia d'amore come quella dei suoi nonni Mina l'aveva desiderata fin da bambina. Peccato che non possedesse neanche un briciolo dell'effervescenza caratteriale di sua nonna. Masumi le rassomigliava decisamente di più, sia nell'aspetto che nell'atteggiamento.
«Perchè pensi questo?» Masumi interruppe nuovamente il flusso di pensieri che aveva avviluppato la mente e il cuore di Mina in quell'ennesimo circolo vizioso fatto di negatività e malinconia.
«Perchè è da un po' che... non mi vuole toccare» Mina avvampò nel confessare quella verità alla sorella «e credo di poter affermare che abbia un'altra donna» concluse mestamente, le nocche delle mani diventate bianche a furia di stringere tra le dita la gonna turchese.
Masumi, nel frattempo, la fissò contrita. Come se non volesse affatto credere a quella dichiarazione.
«Ma hai trovato prove su questo suo presunt-»
«Si chiama Rurika, è molto bella, ha modi molto occidentali, qualsiasi uomo in salute gli morirebbe dietro» Mina buttò fuori quel nome senza soffermarsi a pensare, vomitandolo quasi. Voleva liberarsene, liberarsi di quel veleno che la paralizzava e la rendeva terribilmente impotente.
Masumi alzò un sopracciglio, sorpresa.
«Te lo ha detto lui? È stato Tadayoshi-kun a farti il suo nome?» chiese allora, sempre più intenzionata a saperne di più.
Mina si morse nervosamente il labbro inferiore.
«No, l'ho scoperto da sola. Negli ultimi tempi ha ricevuto spesso chiamate da questa persona, e subito dopo, lui usciva di casa piantando scuse» dichiarò Mina, grattandosi il ginocchio sinistro coperto dalle calze di nylon. 
Masumi si portò due dita al mento, dubbiosa.
«Ma tu sei proprio sicura che sia la sua amante? Perchè poi dovrebbe telefonare a casa vostra con tanta noscialance per rintracciare tuo marito? Sarebbero più furbi se si vedessero senza destare sospetti, no?» esclamò Masumi, cercando un contatto visivo con la sorella maggiore. Mina, dal canto suo, non era del tutto sicura della totale buona fede di entrambi, non dopo quanto accaduto al Rainbow.
Sei tu la moglie di cui non parla mai.
Era lì il problema, stava tutto concentrato in quella frase. 
Tadayoshi non parlava mai di lei, neanche per sbaglio. Mina era sempre stata un fastidio, un pezzo di carne senz'anima che si aggirava per casa. Un oggetto inutile, di poco valore, incapace di qualsiasi cosa, persino di generare figli.
Già, anche di generare...
Mina lanciò uno sguardo triste verso Heizo, intento a ridere di chissà cosa. 
Nove mesi di matrimonio, e neanche l'ombra di una gravidanza. Senza contare gli ultimi mesi in cui non c'era stata neanche traccia di un avvicinamento, un tentativo di trovarsi, toccarsi senza timore.
Niente di niente.
Mina era arrivata addirittura a pensare che Tadayoshi non volesse più alcun contatto fisico con lei proprio perché non era rimasta incinta fino a quel momento. E questo aveva accresciuto in lei quel senso di inadeguatezza e disagio già presente da tempo.
Se avessero avuto un figlio, forse le cose tra loro sarebbero andate diversamente; Tadayoshi l'avrebbe accettata, amata. Lei non si sarebbe dovuta smanettare a destra e a manca per apparire una moglie perfetta ai suoi occhi o agli occhi degli altri.
Questo pensiero la rendeva ipersensibile, aumentandole notevolmente le nevrosi.
«L'ho incontrata, Masumi» dichiarò poi, quasi sul punto di piangere.
Masumi si fece più attenta, porgendosi in avanti.
«Incontrata?» ripetè, non intuendo subito a chi si stesse riferendo Mina.
«La presunta amante di mio marito». Non vi fu veleno nelle sue parole, soltanto un'amara constatazione. Un pesante velo di tristezza si era adagiato sui suoi occhi neri di bambina.
«Oh cielo! Ti ha detto lei di essere la sua amante?» volle indagare Masumi, sempre più presa dall'esposizione dei fatti della sorella. 
Mina asserì, mettendo su il broncio.
«Mi ha detto di peggio» dichiarò, puntando lo sguardo sulle sue scarpe bianche col tacco. Le venne in mente il modo in cui aveva visto Rurika al Rainbow camminare su quei tacchi vertiginosi con una grazia e una sicurezza impareggiabili. 
«Mi ha detto che Tadayoshi non parla mai di me» la voce di Mina tradì un leggero cedimento. Non era riuscita ad andare oltre, a superare il momento in cui Rurika le aveva dimostrato sfacciatamente la sua superiorità. 
Tadayoshi di te non parla mai perchè non gli dai proprio modo di far parlare di te.
Guarda me, invece, basta che muovo i fianchi o sussurro parole sconce al suo orecchio, e sono diventata impossibile da dimenticare.
Mina si era sentita rimproverata in più modi diversi continuando a ripetersi quella frase in testa, ininterrottamente. 
«Però! Sfacciata la tipa» convenne Masumi, perplessa. Accavallò le gambe, sistemandosi meglio sul divano morbido in stile europeo, regalo di nozze dei suoi suoceri. 
In sottofondo, la televisione trasmetteva un carosello, a cui i due bimbi stavano dedicando poca attenzione, troppo presi dai loro giocattoli. 
«Comunque, credo che tu non debba darci troppo peso, sorella mia. Questa Rurika sarà solo una sbruffona, dubito altamente che oserebbe mettere in cattiva luce tuo marito intenzionalmente» affermò poi la giovane, incrociando le braccia al seno con aria sicura. Mina la fissò con meno convinzione invece.
«Rifletti, Mina: davvero quella donna ti affronterebbe sapendo di mettere a repentaglio la sua tresca con un uomo sposato? Avrà anche atteggiamenti “moderni”, ma dubito sia tanto stupida» Masumi era così convinta di ciò che sosteneva, che per un solo secondo, anche Mina si lasciò convincere dalla sicurezza che la sorella minore emanava con naturalezza.
«Vorrei poterti dare pienamente ragione Masumi, ma non tutte le persone sanno essere così razionali» mormorò Mina, stringendosi nelle spalle ossute. 
Masumi, di rimando, lanciò un'occhiatina maliziosa alla più grande, increspando le belle labbra piene in un sorriso sbilenco.
«Però c'è qualcosa che tu potresti fare Mina! Non tutto è perduto» le suggerì poi Masumi, sempre più ammiccante. Mina iniziò a provare una certa preoccupazione dinnanzi alla proposta della sorella.
La conosceva abbastanza bene da potersi aspettare, da un momento all'altro, la più sconclusionata delle soluzioni.
Si fece attenta, anche se con evidente timore.
«Che intendi dire?» biascicò, preoccupata.
A quel punto sulle labbra di Masumi sbocciò un sorrisetto complice.
«Ascoltami: tu e Tadayoshi siete sposati, no?» Mina annuì, accigliata.
«E questo vuol dire che lui è tuo. Puoi esercitare un certo potere sulla sua persona» esclamò Masumi, sempre più convinta delle sue parole.
«Essere mogli non significa soltanto rammendare la casa, stare appresso ai figli, preparare da mangiare... significa anche altro» in particolar modo su quest'ultima parola, Masumi pose con enfasi un accento significativo. 
«Non basta possedere un documento firmato per decretare la durata di un matrimonio! A volte bisogna scendere a compromessi. In poche parole, non devi per forza dipendere da tuo marito. Se lui non ti viene incontro, puoi sempre farlo tu!» sostenne Masumi, intrecciando le dita sul ginocchio accavallato.
Mina aggrottò la fronte, cogliendo poco e niente delle intenzioni di sua sorella.
«Insomma Mina, non puoi stare lì ad aspettare che a tuo marito gli venga la voglia! Devi darti una mossa anche tu» incalzò la più piccola, scuotendo le mani con enfasi, per evidenziare la grandiosità del suo discorso.
Mina a quel punto le distolse lo sguardo.
«E credi che non ci abbia provato?» farfugliò, nell'elencare a mente tutti i tentativi disastrosi di approccio che aveva attuato per avvicinarsi a Tadayoshi.
«E chi ti dice che ti devi arrendere, sciocchina?» l'invettiva di Masumi scosse Mina dal suo triste torpore.
«Devi sapere che, il più delle volte, sono io a stuzzicare mio marito, e non il contrario!» ammise fiera Masumi, colpendosi piano il petto florido con arroganza.
«Per carità, Genji mi adora, ma a volte si lascia un po' prendere dalla pigrizia, anche a causa della stanchezza che gli arreca il suo lavoro. Ed è per questo che entro in scena io con i miei giochetti» dichiarò la giovane, sempre più tronfia.
Mina le invidiò quel suo carattere così solare e positivo, sempre pronto a trovare soluzioni rapide a qualsiasi problema le si parasse davanti. Rispetto a lei, Masumi era sempre stata meno succube in famiglia, si era sempre interessata poco dei rimproveri di Yuuko e delle sue lagne, aveva seguito sempre il suo cuore, senza pentirsene mai.
Mina l'aveva sempre ammirata. Se a suo tempo avesse avuto la stessa faccia tosta di Masumi, avrebbe stretto tra le mani il suo titolo di studi tanto agognato, dopodiché avrebbe voluto iniziare un corso di arteterapia infantile, lavorando negli istituti o negli ospedali. Mina aveva confessato a suo tempo quel suo piccolo progetto a suo padre, ed Heizo ne era stato contento, aveva appoggiato la sua idea, l'aveva spronata a crederci e ad andare fino in fondo. 
E invece si era ritrovata a sguazzare nei suoi stessi pensieri, con le mani in mano, con il terrore perenne di sentirsi dire un giorno che non sarebbe più servita a nulla. E in quel caso chissà se l'arte sarebbe accorsa ancora una volta a salvarla dal baratro...
«Ma tu sei brava in queste cose, Masumi! Io ne sono totalmente incapace»
«Non è vero! Dovresti credere molto di più nelle tue capacità, Mina! Ricordati che noi donne possediamo armi che i nostri cari maschietti se le sognano!» affermò pimpante, sistemandosi la scollatura merlettata, sottolineando le sue parole. Mina la imitò di riflesso, per realizzare poi che le misure del suo petto erano nettamente inferiori a quelle di sua sorella. Il fatto accentuò la sua tristezza. 
«Quando torna Tadayoshi dall'addestramento?»
«Tra qualche giorno».
«Perfetto!» berciò Masumi, facendo sussultare Mina dallo spaventò.
«Uno di questi giorni, porto i bambini dalla nonna, tanto Ichika potrà badare anche a loro. Così io e te andiamo a fare compere!» propose Masumi, compiaciuta della sua idea. «E nel frattempo, ti dò qualche consiglio su come comportarti con quell'orsetto di tuo marito» aggiunse poi, prendendo sotto braccio la sorella maggiore. Mina si sentì improvvisamente coinvolta in quella strampalata idea, e realizzò che, tutto sommato, le sarebbe servito un po' di svago. Sperando poi che non sarebbe andato tutto in fumo come il tentativo di sua nonna di farla distrarre dai suoi pensieri.
«Che dici Mina? Come i bei vecchi tempi! Per stare dietro ai piccoli non esco quasi più, e le mie cognate sono sempre fuori città, impegnate in tante cose... Mi voglio proprio divertire a renderti favolosa!».
Fu allora che Mina capì, anche se in modo totalmente diverso, che anche Masumi doveva sentirsi sola per certi aspetti. Anche il matrimonio di sua sorella con Genji era stato combinato, con la differenza che era stato Genji stesso a chiedere la mano di Masumi, suscitando la gioia di tutti in casa. Tadayoshi non aveva nè chiesto nè preteso la mano di Mina, gli era stata offerta come un dono, un dono troppo importante e ghiotto da rifiutare. E la stessa Mina continuava a sentirsi addosso la responsabilità di questo suo essere "dono", ponderando azioni e pensieri con meticolosità e accortezza.
«Ti prego sorellona, dì di sì! Muoio dalla voglia di farti provare vestiti e gioielli a tutto spiano! Così quando tuo marito tornerà, capirà cosa si sta perdendo per fare il prezioso!» la pregò Masumi, aggrappandosi al suo braccio come faceva da bambina, quando voleva convincere la sorella maggiore a coinvolgerla in qualche marachella delle sue. A quel punto, Mina sorrise sinceramente alle sue insistenze. Stava per rispondere affermativamente, ormai convinta, quando sentì la porta di casa aprirsi improvvisamente, e la voce di un uomo prorompere dal corridoio adiacente.
«Masumi! Sono a casa!».
Mina e Masumi si alzarono contemporaneamente dal divano, andando ad accogliere il proprietario di quella voce profonda, ma cordiale.
Genji Moroboshi era tornato presto quel giorno dalla questura, indossava un completo elegante verde acqua con una paglietta bianca in testa. 
«Papà, papà!» corsero i bimbi, felici di saperlo a casa. 
«Oh, i miei ometti!» esclamò Genji, inginocchiandosi alla loro altezza. Mina intravide Masumi fissare il marito con un moto d'orgoglio. Si vedeva chiaramente che moriva dalla voglia di saltargli tra le braccia, ma si tratteneva soltanto per rispetto a lei e dei bambini. Si chiese improvvisamente se anche lei assumesse la stessa postura quando osservava Tadayoshi solcare l'ingresso, con la sua solita aria stanca e pacata, sempre seria. 
«Bentornato Genji-kun!» dichiarò Masumi, felice come una bambina. Poggiata la valigetta a terra, Genji raggiunse la moglie cingendole i fianchi e baciandole la guancia con trasporto.
Mina si sentì in dovere di distogliere lo sguardo da quella scena, quasi si sentisse di troppo. Tadayoshi a malapena la degnava di uno sguardo quando rientrava dalla caserma. Si considerava fortunata se alle volte le dedicava una ruvida carezza sulla guancia, indugiando qualche secondo che a Mina pareva sempre un'eternità.
«Papà, mi prendi in braccio?» farfugliò sommesso Eisuke, aggrappandosi alla giacca di Genji. 
«Oh, ma certo piccolo mio! Oplà!» e afferrò il figlio da sotto le braccia, portandoselo al petto. Heizo li guardò un po' mortificato, ma poi si gonfiò il petto con saccenza infantile.
«Io non ho bisogno di essere preso in braccio, sono grande!» dichiarò, nonostante il broncio evidente. Mina sorrise a quell'espressione messa su dal nipotino. 
«Ma se sei alto quanto una piantina di kaki!» lo prese in giro Mina, solleticandogli il collo e la pancia. Heizo scoppiò a ridere estasiato, pregando la zia di smetterla. 
«Mina, ci sei anche tu! Resti a cena con noi?» chiese poi Genji cordiale, con Eisuke aggrappato alla sua spalla come un piccolo re. 
Mina rivolse un piccolo inchino al cognato, poi scosse il capo gentilmente, declinando il suo invito.
«Non posso restare, cognato. È già tardi e devo prendere l'ultima corriera» disse con sguardo basso e le mani congiunte sul grembo.
«Però domani la porto in giro per negozi» decretò Masumi impettita, facendo l'occhiolino alla sorella. 
«Ottima idea! Così anche tu esci un po', tesoro! Stai sempre chiusa in casa!» constatò Genji, con una punta di costernazione nella voce.
«Beh, le tue sorelle sono sempre impegnate! E io mi ritrovo a dover fare sempre…»
Mina osservò in silenzio il botta e risposta che ne derivò tra i due coniugi, accennando in alcuni momenti a qualche sorriso di circostanza. 
Strinse un po' più forte i manici della borsa, senza volerlo. 
Quella complicità tra lei e Tadayoshi faticava ad esserci, entrambi cercavano permessi silenziosi tra loro per allungare anche solo un semplice dito.
E quella visione, seppur bella e accogliente, la feriva. Ma a nessuno poteva dare la colpa della sua inettitudine, nemmeno a quella Rurika che tanto le mandava in confusione la testa. 
Sua sorella aveva ragione, avrebbe dovuto imporsi di più, anche se questo avrebbe significato esporsi troppo e male.
 
Durante il viaggio di ritorno, aggrappata al manubrio superiore della corriera, pensò costantemente a Tadayoshi. Sentì il bisogno di chiamarlo, di sentire la sua voce, anche se solo per pochi minuti. 
Dopotutto, andare a trovare Masumi non era stata una totale perdita di tempo.
Spero davvero che non sia tutto perduto, si ritrovò a pensare Mina, ancora una volta, ad alta voce.
 

 
* * *
 

Lily tossicchiò nell'aspirare il fumo dalla cicca della sigaretta.
Non era più abituata a fumare, persino Sanders si era tolto il vizio di farlo in sua presenza, ed aveva imposto a tutti i suoi sottoposti di non fumare quando lei si trovava nei paraggi. Non poteva permettersi di danneggiare stupidamente ed ulteriormente il suo prezioso fiore all'occhiello.
«Non dovresti fumare. Ti fa male» commentò Mario, osservandola di sottecchi come al suo solito, con aria scura.
Lily ridacchiò alle sue parole. «Detto da te che fumi come un turco perde ogni credibilità, sai?» e si mise a giocherellare con un accendino Dupont d'argento, aprendolo e chiudendolo meccanicamente, facendo fuoriuscire ritmicamente una fiammella blu. 
«Io non sono stato male a causa della tisi almeno» la rimproverò Mario senza troppi complimenti. Detestava essere lui la persona ragionevole in quella conversazione, era come interpretare un ruolo che non gli si addiceva per niente. 
Lily buttò fuori un'altra nuvoletta di fumo, cercando di camuffare l'ennesimo colpo di tosse.
«Ci sono cose peggiori al mondo della tisi» commentò, assente. 
«Se stiamo con la finestra aperta, non sarà un problema» aggiunse poi distrattamente, spalancando ancora un po' le imposte di alluminio della sua stanza.
A quel punto Mario si alzò di scatto dal letto, tolse la sigaretta dalle belle dita di Lily e la spense con malagrazia sul piccolo davanzale.
«Non essere stupida! Ti fa male e basta!». Senza accorgersene, la voce gli uscì leggermente lamentosa, ancora roca a causa del pianto recente che aveva buttato giù qualsiasi scudo e protezione. Mario non si era mai sentito così esposto prima di allora.
Lily lo fissò contrita, ma intenerendosi pian piano. 
«Non ho intenzione di perdere anche te! E non ti farò raggiungere il tuo amato Rokurota tanto presto! Quindi evita di fare cazzate!».
Risuonò piuttosto strano ad entrambi quel rimprovero, a Mario per averlo fatto e a Lily per averlo ricevuto dalla persona più improbabile del mondo.
Entrambi scoppiarono a ridere di gusto, portandosi le mani in faccia.
«Non ti si addice il ruolo di padre apprensivo, Mario!»
«Chi cazzo ci tiene ad esserlo!».
Dopo che le risate si furono acquietate, Lily si fermò ad osservare il giovane lì di fianco a lei. Ormai era un adulto fatto e finito, lontano da quel ragazzino impacciato, con gli occhi così simili ai suoi, che si era ritrovata davanti in palestra anni prima, con il cuore che le era schizzato nel petto per la sorpresa. Osservarlo tanto a lungo le procurava un malessere benigno, un dolce dolore che le si propagava nel petto e nella pancia. Più vedeva Mario e più la nostalgia e la rabbia per la perdita di Rokurota si facevano sentire prepotenti, reclamando attenzioni indesiderate.
«Perché mi guardi in quel modo?»
Mario interruppe il flusso di pensieri che inglobavano la mente della donna con quella sua domanda apparentemente innocente. 
Lily sussultò appena, scuotendo impercettibilmente il capo.
«Ho soltanto realizzato che non ti ho fatto alcun regalo» dichiarò poi, amareggiata. Mario aggrottò la fronte e le labbra, alle sue orecchie infatti suonò come una scusa sciocca ed inconsistente.
«Beh, in realtà puoi sempre rimediare per quello» e si allontanò dal davanzale, raggiungendo il centro della stanza a braccia conserte. 
Lily affilò lo sguardo da cerbiatta, non colse subito le sue intenzioni.
«Potresti regalarmi qualche informazione su Meg, per esempio».
Lily stralunò gli occhi, portandosi due dita alla tempia sinistra.
«Non ti arrendi mai, eh?» notò l'ovvio, portandosi le mani sui fianchi e dandogli le spalle volutamente. 
Ma Mario non si sarebbe tirato indietro stavolta. Sarebbe andato fino in fondo, avrebbe ricavato poco, ma almeno quel poco poteva considerarlo un buon inizio.
«Era per questo che volevi che Joe venisse alla base? Perché conoscesse suo nipote?» affermò Mario, con aria risoluta e le braccia ancora conserte.
Lily rimase ferma a guardare fuori dalla finestra, un gabbiano sorvolava il campo con le sue ali lunghe e maestose, emettendo quel suo classico verso nostalgico e rilassante allo stesso tempo.
«Non era solo per questo» si decise poi a parlare, prendendosi ogni responsabilità su quello che avrebbe affermato di lì a poco.
«Non so per quanto ancora Meg riesca a stare al sicuro qui alla base. Peter mi ha detto che ultimamente uno strano individuo si aggira qui nelle vicinanze. Ho paura si tratti di quell'essere da cui è scappata via».
Mario la guardò interdetto, assottigliando lo sguardo.
«Scappata via da chi?» e per un attimo, Mario ipotizzò potesse trattarsi di Atsumichi Sakuragi o di una persona a lui vicina. Un suo tirapiedi, o peggio ancora, un'amicizia potente, intoccabile tanto quanto lui.
Di nuovo quel nome straniero gli tornò alla mente, cogliendolo di sorpresa.
«Attilio…» lo borbottò fra i denti, attirandosi l'attenzione di Lily.
«Come?» fece appunto, sorpresa.
Mario scosse il capo, come a voler scacciare una zanzara molesta che gli ronzano attorno.
«Niente, scusa… dicevi?».
La donna lo fissò per qualche minuto, cercando di carpire cosa realmente Mario le stesse occultando. 
Tuttavia, seguitò oltre.
«È scappata da suo marito» Lily vomitò quell'ultima parola con evidente disgusto, «o dovrei dire, dall'uomo che l'ha obbligata a sposarlo per poter abusare di lei come e quando gli pareva senza indurre in intoppi penali». Mario spalancò gli occhi esterrefatto. Improvvisamente gli riaffiorò un nome, un nome che Meg gli aveva lanciato contro come una pietra, accusandolo di esserne il complice.
«Maeba... Meikara...» tentò di ricordare, riflettendo sul suono di ogni sillaba.
«Maerata. Quel porco si chiama Maerata Shinnosuke» decretò Lily, seria in volto. 
«È il padre del bambino?» azzardò Mario, sperando di ricevere un "no" netto in risposta. 
«Meg non avrebbe mai messo al mondo un figlio suo. Si sarebbe uccisa piuttosto» affermò la donna, sicura delle sue parole.
«Te lo ha detto lei?» continuò a chiedere il ragazzo, sempre più incuriosito.
«Quando è venuta qui, due anni fa, Meg mi aveva detto che non voleva farsi trovare da lui. Era incinta di sette mesi» raccontò Lily, poggiandosi con il bacino sulla scrivania.
Mario metabolizzò quelle informazioni con grande attenzione, non lasciandosi sfuggire neppure un dettaglio.
«E perchè sarebbe venuta proprio qui a nascondersi? Perchè non ha cercato Joe?» a Mario quell'ultima frase uscì un po' più dura del previsto. I gesti e le azioni di quella ragazza gli parevano del tutto insensati e privi di logica, per quel poco che sapeva a riguardo.
Lily si umettò le labbra, stringendosi le braccia sotto al seno. 
«Perchè è stato Rokurota a portarla qui la prima volta, tre anni fa. Meg aveva quattordici o quindici anni quando la conobbi».
A quella rivelazione, Mario sobbalzò, aggrottando le sopracciglia con aria stupita. Risentire così all'improvviso quel nome, per di più fuoriuscito dalla bocca di Lily con tanta naturalezza, lo scioccò a tal punto da intorpidirsi la lingua e provocargli un leggero batticuore. 
«Ma cosa c'entrava Rokurota con lei?» soffiò Mario, più a sé stesso che alla sua interlocutrice, rabbuiatasi quanto lui.
A Lily non restò che dirgli tutto quello che sapeva, per filo e per segno, stando bene attenta a non tralasciare nessun particolare, nemmeno il più banale.
«Ti posso giurare che non ne so molto a riguardo. Qualche mese prima che lui... sì, insomma, prima della sua scomparsa, la portò qui, invitandomi a nasconderla. Mi disse che preferiva saperla con me piuttosto che lasciarla ancora tra le grinfie di Maerata» dichiarò Lily, avanzando di qualche passo in direzione di Mario, che continuava ad ascoltarla attento.
«Fu lui a dirmi chi fosse costui. Non mi disse però dove l'avesse trovata o in che condizioni vigesse. Preferì non dirmi nulla, probabilmente lo ritenne irrilevante. Io gli promisi ovviamente che avrei fatto tutto il possibile per tenere la ragazzina al sicuro. È rimasta qui nascosta in questa stanza per un po'. Anche Nijiko ed Eri erano a conoscenza della sua presenza».
Mario fece una smorfia impercettibile nel sentire il secondo nome.
«Eri Hagino?» chiese come per ricevere conferma. Sapeva che si trattava di lei, della sorella del comandante Eichi Hagino, ma volle ugualmente sentirselo dire.
«Certo. All'epoca eravamo molto vicine, ricordi?» incalzò Lily, alzando un sopracciglio. Mario annuì, sebbene il solo ricordo gli provocasse disagio. Lily lo intuì subito, scorgendo il lieve rossore che gli era apparso sugli zigomi.
«Beh, non tanto vicine quanto voi due, devo ammetterlo» lo prese in giro, trattenendo a stento un risolino molesto. Come se all'epoca dei fatti la loro intima amicizia non avesse suscitato affatto in lei timore e preoccupazione, conoscendo il carattere manipolatore di Eri.
«E perchè mai ti sei sentita in dovere di tirare in ballo loro due?» puntualizzò Mario, tossicchiando per schiarirsi la voce dall'ingombro del disagio che gli era spuntato in petto come una piantina. Voleva cambiare discorso, ma Lily pensò bene di accrescere maggiormente quel suo imbarazzo, stuzzicandolo senza remore.
«Avrei dovuto lasciare che quella povera creatura ci stesse a guardare mentre io e Rokurota eravamo intenti a fare l'amore?» Lily lo fissò divertita, la voce volutamente melliflua e suadente. Mario avvampò di colpo, agitando le pupille scure con disappunto. 
«Odio quando vuoi prendermi per scemo!» si lagnò il giovane, passandosi la mano guantata sul viso accaldato.
A quel punto Lily rise deliziata.
«Tu ti presti benissimo però!» si difese lei, alzando le belle mani affusolate e curate con aria svogliata.
«Se eravate due satiri in preda agli ormoni, non è colpa mia» commentò Mario, dandosi successivamente dell'idiota. 
Lui, tra l'altro, non era da meno. Non aveva avuto chissà quante esperienze, ma quelle poche che aveva vissuto erano state talmente intense da rincretinirlo e ridurlo ad uno stato brado vergognoso. 
Quel pomeriggio fatidico del tifone trascorso con Clara ne era stato l'esempio lampante.
E poi si permetteva pure di commentare aspramente le abitudini intime di due persone adulte che, a differenza sua, si erano amate alla follia, e il loro unirsi fisicamente era stato solo una conseguenza legittima di quella passione vivida e mordente di cui erano stati gli indiscussi protagonisti.
«In effetti, forse ci lasciavamo trasportare troppo dai nostri istinti... ma visto com'è andata, è stato meglio così. Almeno è morto sapendo cosa si prova a morire tra le gambe di una donna» affermò Lily, lo sguardo perso sul muro della stanza, languido. Il petto tradì un leggero acceleramento nel respiro, come se Rokurota stesso le si fosse avvicinato per stringerla ancora una volta - un'ultima volta - a sé.
«Poi cos'è successo?» preferì tergiversare Mario, non dando minimamente adito al commento fatto su Rokurota.
Lily tornò lentamente al presente, riacquistando vitalità nel suo sguardo di cerbiatta gentile ed austera.
«Venne a riprendersela qualche settimana più tardi, sembrava euforico. Mi disse che l'avrebbe fatta riavvicinare a Joe, che avrebbe sistemato ogni cosa. Anche i nostri documenti erano quasi pronti».
L'espressione di Lily divenne buia e triste, il capo reclinato in una posizione obliqua.
«Quella è stata l'ultima volta che lo visto» sussurrò piano, gli occhi spenti di qualsiasi luce.
Mario soppesò quelle parole, provava un sentimento strano, confuso, tra l'opprimente, il nostalgico e l'indifferente. Come se quelle confidenze non lo riguardassero in prima persona, come se fosse un estraneo che ascoltava le vicende di qualcuno che gli era del tutto sconosciuto. 
«E di conseguenza non hai rivisto più neanche Meg» concluse Mario, fissando un punto preciso sul pavimento, vicino ai piedi di Lily, «Finché non è tornata da te per scappare da questo tizio».
Lily annuì alle sue supposizioni, restando in silenzio, ma puntando fisso il viso di Mario, voleva cercare un punto fermo a cui aggrapparsi.
«Una cosa è sicura: Meg sa chi è l'assassino di Rokurota» suppose ancora Mario, grattandosi la nuca nervosamente. Lily seguì il suo ragionamento senza intervenire.
«Potrebbe essere il motivo per il quale non sia venuta a cercare Joe: può darsi che Rokurota gli avesse confessato i problemi che aveva avuto con Atsumichi, che non abbia potuto evitare di nasconderglielo» Mario ragionò su quell'eventualità girando su sé stesso e incrociando le dita tra loro, aprendo e chiudendo i palmi, un gesto che faceva di solito per mantenere la calma e non impazzire. In un altro momento si sarebbe acceso una sigaretta, ma non aveva alcuna intenzione di compromettere ulteriormente i polmoni di Lily col suo fumo passivo. 
«Oppure l'avrà scoperto da sola e gli uomini di Atsumichi gli hanno dato la caccia. Probabilmente anche Maerata doveva essere uno dei suoi uomini, oppure vi è un collegamento che a noi risulta ancora sconosciuto» ipotizzò anche Lily, increspando le labbra, concentrata.
«Non hai mai provato a chiederglielo?» le disse poi Mario, quasi scontroso.
Lily si umettò le labbra con imbarazzo.
«Come hai potuto vedere, Meg non è un tipo facile» si giustificò Lily, stringendo le braccia sotto al seno.
«Ma di te si fida» incalzò il giovane, sempre più intrattabile «Qualcosa deve pur averti detto. Possibile che non ti abbia saputo spiccicare una parola su Rokurota?»
«Ho avuto la decenza di non chiedere» esclamò Lily, esasperata.
«Aveva già i suoi pensieri per la testa, e una creatura in grembo avuta da chissà chi. Non sapevo nemmeno che lei fosse lì quel maledetto giorno! Non sono un'indovina, nel caso te lo fossi dimenticato!» Le pupille di Lily si dilatarono dalla furia. Non tollerava tanta insolenza e mancanza di tatto, con Mario poi era un parapiglia continuo su quel punto. Era terreno di scontro perenne.
Mario stralunò gli occhi sbuffando leggermente.
Lo sapeva perfettamente che per Lily non era facile parlare di Rokurota come se niente fosse. Ma la sua cocciutaggine ed irruenza tendevano sempre a sorvolare su questo particolare, ferendola puntualmente, anche senza volerlo.
«Joe non la prenderà bene» esclamò poi, sommesso.
«Già saperla qui dentro per lui è un tormento. Figuriamoci saperla anche madre».
Mario incrociò le braccia al petto, stanco e sopraffatto.
Ci pensò Lily a trasmettergli coraggio, anche se non lo meritava per niente.
«Joe è più forte di quanto credi» dichiarò infatti, avvicinandosi al ragazzo e toccandogli il mento, «Potrà restarne sconvolto, ma si rimboccherà le maniche e farà quello che deve. Per Meg non si tirerà indietro».
Mario dovette ammettere che Lily aveva ragione a riguardo: Joe ne aveva passate tante, era caduto infinite volte, ed altrettante infinite volte si era rialzato, combattendo anche contro il destino quando era stato necessario. Da quando Mario aveva scoperto quella faccenda spinosa, moriva dalla voglia di confidarsi con lui e Tadayoshi. Non perché Ryuji, Mansaku o Noboru non fossero affidabili, ma perché in special modo Joe e Tadayoshi li sentiva i suoi punti fermi, la sua vera forza. Nonostante incolpasse Tadayoshi di darsi ripetutamente arie da protettore incallito, e Joe di essere anche troppo mite a volte, Mario non la voleva neanche immaginare un'esistenza senza di loro. Senza i suoi fratelli per scelta a lui più cari.
«Non sarà solo, poi» aggiunse, scambiandosi con Lily un cenno d'intesa, a cui la donna rispose con un sorrisino fievole. 
«Rokurota vi ha educati bene» convenne lei, parve soddisfatta della sicurezza con cui Mario dimostrava il suo affetto verso i suoi compagni di sventura, l'unica famiglia che gli era rimasta.
Quella famiglia che lei non aveva potuto offrirgli.
«Almeno non è morto invano» dichiarò Mario, fintamente distratto.
«Ma sarà proprio per questo che andrò fino in fondo a questa storia. Scoverò chi ci ha tolto nostro padre, e lo farò rimpiangere di essere nato» sentenziò, lo sguardo da cerbiatto fiero e insolente, presuntuosamente fermo.
Lily ridacchiò, scuotendo il capo.
«Se posso esserti utile in qualche modo, sai che non ti negherò il mio aiuto. Ti chiedo soltanto di stare attento e di non agire di testa tua. Se dovessi fare la sua stessa fine... Oh, per tutti i kami, non ci voglio neanche pensare!» Lily cercò di ricacciare indietro le sue paure e i suoi timori, strizzando forte le palpebre. 
Mario le spostò una ciocca di capelli dagli occhi truccati.
Lily era bella, bellissima. La donna più bella del mondo, secondo lui. Ma lui era di parte, terribilmente di parte.
Non glielo diceva mai quanto l'ammirasse e quanto le volesse bene, si sentiva uno stupido al solo pensare di poter esternare quei pensieri carini per lei. Sentiva di non possedere la stessa delicatezza ruvida di Rokurota, con il quale riusciva ad esprimere anche le cose più ovvie senza avvampare dall'imbarazzo.
Mario conosceva solo i sentimenti irruenti, ricchi di rabbia ed istantanei. Odiava le mezze misure, o tutto o niente. Ed intanto faceva la figura dell'allocco, mordendosi la lingua a furia di occultare pensieri pregni di un'insolita tenerezza.
«Comincia a convincere Meg a parlare. Al resto ci pensiamo noi» dichiarò il ragazzo, un po' più dolce in volto.
Lily gli cinse la vita con un braccio, poggiando una guancia sulla sua spalla.
«Tu mi farai morire a me» dichiarò poi, sorridendo amara.
Mario sbuffò una risatina nasale nel sentirle pronunciare quella frase.
«Sai, la zia mi ha detto la stessa identica cosa stamattina» buttò lì Mario, umettandosi il labbro superiore con aria sbarazzina.
Lily non si scompose a quella rivelazione, anzi, la cosa accentuò il suo ritrovato buonumore.
«Davvero?» chiese, con la testa ancora poggiata sulla spalla del ragazzo.
«Già» sostenne Mario, inarcando le sopracciglia.
«Mi ha riempito la faccia e i capelli di farina ed impasto, tanto che era agitata!» esclamò poi, ricordando le mani di Yuzuki che gli avevano carezzato il viso maldestramente, ma con amore smisurato.
Improvvisamente, anche Lily fece un gesto inaspettato, prendendo in contropiede Mario.
Scosse i suoi capelli energicamente, per poi lasciargli ripetuti baci sulla guancia fresca di rasatura. Quel suo odore di tabacco e vaniglia la mandarono in visibilio.
«Lo capisci quanto tu sia importante per noi, testa calda?» e riprese a baciarlo, come una madre completamente persa nel coccolare il suo bambino.
Mario non seppe reagire a tutto quell'affetto improvviso, ma glielo lasciò fare. Glielo doveva.
«So solo che non vi sopporto più, a tutte e due!» sbiascicò, ridendo dei ripetuti baci affettuosi che Lily gli lasciava sulla guancia e sugli occhi, tra sorrisi e lacrime di commozione.
 
Trascorsero il resto del pomeriggio a parlare, passando tra argomenti seri ad altri più leggeri, proprio come si ritrovavano a fare solitamente in passato. Nijiko li venne a chiamare, invitandoli a bere il thè che Miki aveva preparato. Raggiunsero la sala comune, dove di giorno vi si svolgevano le riunioni e la sera i soldati si riunivano per bere, giocare a carte o spassarsela con le donne. 
Qualche minuto più tardi, vennero raggiunti anche da Vince e Peter, seguiti da un bonario Jimmy, che non perse tempo ad attaccar bottone con le donne più anziane, ovvero Lily e Nijiko.
Mario scherzò un po' con Mieru, che gli vorticava attorno come una falena attratta dalla luce, mentre le altre lo riempivano di domande ed aneddoti, stordendolo più di quanto avrebbe potuto fare una bevuta alcolica.
Vi erano tutti nella sala, persino Mitsuha se ne stava seduta buona su un piccolo divanetto, rannicchiata nel suo scialle, con l'aria eccessivamente stanca. Mancava soltanto Meg. 
Mario notò che il piccolo Kouki dormiva indisturbato tra i cuscini del divano, guardato a vista da Mitsuha, seduta lì accanto, e Kofumi, attente a non perdersi neanche il minimo sussulto. Mario notò anche l'interesse poco velato che Vince dedicò al bambino, avvicinandosi spesso al divano dove dormiva. Chiedeva a Kofumi qualcosa inerente alla sua salute, le sue abitudini, ne sembrava particolarmente interessato. Ogni tanto allungava la mano sul pancino del bimbo come a volerlo carezzare, o accertarsi che stesse respirando ancora. Gli occhi verdi gli brillavano di una luce limpida e meravigliosa, vi si poteva quasi scorgere un allegro sfavillio di stelle, quasi stessero sprigionando un incantesimo segreto.
Quando poi lo stesso Vince si avvicinò a Mario per chiacchierare, assieme a Peter e Mieru, il festeggiato lo provocò bonariamente, con finta disinvoltura.
«Ti ci vedrei a fare il papà» disse Mario, dando gomitate a Peter per richiamare la sua attenzione, poiché era intento a fissare come un pesce lesso le gambe accavallate di Miki.
Vince arrossì leggermente, sorridendo imbarazzato.
«Ma se non sono neanche fidanzato!» replicò, grattandosi la nuca con imbarazzo. Bevve il suo thè di fretta, fu fortunato che non era bollente, ma semplicemente tiepido.
«Non esiste un solo modo di diventare genitori» sussurrò Mario, convinto che Vince non lo stesse ascoltando, intento com'era ad osservare il bambino dormire profondamente. 
Già, non esisteva un solo modo di diventare genitori. Quello era un altro dei tanti insegnamenti che Rokurota Sakuragi gli aveva lasciato.
 
Poco prima di andarsene, nei pressi della cancellata, Mario salutò Lily con la promessa di stare attento e di non prendere vie nascoste e dissestate per tornare in città.
Prima di varcare il cancello, le pose una domanda che aveva avuto in testa tutta la giornata, ma che non aveva avuto il coraggio di esternare. 
«Davvero quella volta ve ne sareste andati senza di me?» Mario sussurrò appena quella frase, gli occhioni grandi e lucidi, dispiaciuti. 
Lily sulle prime sussultò, poi si calmò, capendo a cosa stesse facendo riferimento il ragazzo. Gli carezzò una guancia, spostandogli dagli occhi qualche filo castano. 
«Non lo avrei mai permesso, e neanche Rokurota. Eri tutto ciò che avevamo.» 
E adesso sei tutto ciò che mi resta di lui.
Lily si limitò a pensarlo, non ritenne necessario esternare quel fugace pensiero.
Mario allungò un lato delle labbra in un sorriso sghembo, amaro.
Aveva la testa piena di tante domande, di cui però avrebbe preferito non scoprirne mai le risposte.
 

 
* * *

 
Il quartiere dei locali notturni di Itogawa stava prendendo vita piano piano, i lampioni cominciarono ad illuminare le strade, e la gente cominciava ad aumentare di numero ad ogni minuto trascorso.
Mario si ritrovò ad accompagnare per il manubrio la bicicletta, godendosi quello spettacolo di luci e anime in subbuglio, tanto simili a lui e allo stesso tempo tanto distanti.
Si stava preparando mentalmente all'idea che, una volta varcato il portone di vetro del Rainbow, avrebbe dovuto sorbirsi la festicciola improvvisata che i suoi amici di sempre si erano ben guardati dall'evitargliela. 
Il fatto che mancasse Tadayoshi all'appello lo rendeva ancora più triste. Non che la presenza degli altri lo infastidisse, soltanto che sapere di avere accanto il più grande gli faceva venire meno voglia di fare lo scontroso e l'asociale. Tra una battuta e l'altra, Mario si sarebbe divertito a provocarlo, per poi aspettarsi di essere mandato non molto gentilmente a quel paese.
Era perso nei suoi pensieri, quando improvvisamente una donna andò a sbattergli contro, inciampando nei suoi stessi passi.
«Attenta!» gridò Mario, porgendosi in avanti per afferrarla giusto in tempo prima che potesse cadere a terra.
La donna gli si aggrappò alla giacca, all'altezza delle spalle, emettendo un gridolino di spavento. 
«Scusami ragazzo, sono inciampata» si giustificò lei, ancora con lo sguardo basso. A Mario quella voce parve piuttosto familiare. Una voce calda, suadente, avvolgente...
Quando finalmente la donna alzò lo sguardo e lo puntò dritto in quello incerto e sorpreso di Mario, lui la riconobbe subito.
«Eri?» la chiamò lui, sorpreso.
Eri Hagino, la sorella del comandante, un tempo compagna di sventure di Lily al campo base. 
«Mario? Sei proprio tu?» fece lei, abbozzando un sorrisino sbilenco e compiaciuto.
Le dita sulla giacca di lui si allentarono leggermente, provando a distendere il palmo.
Mario deglutì al suo gesto.
«Quanto tempo» esclamò, imbarazzato. 
Lily l'aveva tirata in ballo nella loro conversazione soltanto poche ore prima, ed ora era lì, tra le sue braccia, intenta a sorridergli e fissarlo, con quel fare che gli aveva sempre messo soggezione, sin da quando l'aveva conosciuta.
«Già! Da quando Lily venne a prelevarti mezzo ubriaco dal mio letto non ti ho più visto né sentito» constatò Eri, mettendo su un broncio finto.
Mario l'allontanò da sé senza sembrare troppo brusco.
«Sapevo che avevi lasciato la città...» 
«E come vedi, sono tornata» esclamò lei, scrutando il ragazzo dalla testa ai piedi. «Avevo alcune faccende da sbrigare». 
Mario si sentì presto a disagio, persino l'ipotesi della festa improvvisata al locale gli parve una via di fuga allettante.
Il disagio gli accrebbe non appena il dito curato di Eri prese a scivolargli sul petto, precisamente sulla porzione nuda della pelle che fuoriusciva dalla camicia sbottonata.
«Vai di fretta?» azzardò Eri, con sguardo di lince.
«In realtà sì» si divincolò definitivamente Mario, raccogliendo da terra la bici che nell'impatto con Eri era caduta rovinosamente a terra.
«Mi aspettano al Rainbow e sono già in ritardo» mentì, sperando che Eri non fiutasse le sue menzogne. 
Lei intanto fece scivolare la mano sul suo fianco, raggiungendo con le dita il bacino.
Strinse forte, accrescendo notevolmente il disagio di Mario. 
«Peccato. Volevo offrirti una tazza di thè. Magari in questi giorni mi faccio viva io» soffiò lei ad un centimetro dal suo orecchio. «Tanto so dove trovarti».
Mario, da parte sua, cercò di non ricordare i pomeriggi passati nell’appartamento di lei, tra una fumata d'oppio ed un cocktail, mentre veniva iniziato ai piaceri invitanti del sesso.
Quei ricordi erano legati a doppio filo a ciò che la morte di Rokurota aveva lasciato dietro di sé, e al solo ricordo, la vergogna assaliva Mario come un’onda anomala.
«Ci vediamo, tesoro. Salutami la cara Lily, è tanto che non la vedo» concluse poi la donna, tornando sui suoi passi, ondeggiando come una vera modella.
Mario scosse il capo a quella vista, mentre la donna si stava allontanando diretta chissà dove.
Continuava a rivedere il sé stesso appena diciassettenne, ammaliato dai giochini messi in atto da Eri per sedurlo e soggiogarlo a suo piacimento.
Un moto di nausea gli si propagò nel petto, e faticò a trattenerlo.
Si rimise in sella alla sua bici, ricacciando indietro il senso di nausea ed impotenza che quei ricordi molesti gli avevano generato.

 

// Revisionato in data 1/01/24 //

 
Salve a tutti! 😊
Mi scuso per il notevole ritardo nell'aggiornamento, ma agosto per me è un mese non tragico, di più 🙄
Tra l'altro, questo capitolo in particolar modo per me è stato veramente difficile da scrivere, e ho il timore di non essere riuscita a rendere come avrei voluto, in particolar modo, la scena cardine del capitolo, ossia quella tra Lily e Mario 😔
Detto ciò, vi lascio giusto qualche comunicazione di servizio quest'oggi:
Per settembre avevo in programma di pubblicare altri due capitoli, così da avvicinarci sempre più alla fine della prima parte, ma causa esame ostico e blocco dello scrittore (non creativo per fortuna! 😅) probabilmente la serializzazione riprenderà dopo Ottobre (non linciatemi vi prego 🙏).
In questo periodo sento di avere esaurito le cartucce per quanto riguarda la resa della scrittura, e quindi tutto ciò che scrivo mi suona ridondante e pesante. Onde evitare quindi di far fuoriuscire altri capitoli meh, mi appello alla vostra pazienza, sperando di recuperare vigore.
Spero che con il Writober la cosa si sblocchi un pochino, proprio come mi è successo esattamente un anno fa 🤗
D'altronde, è proprio dai prompt dell'anno scorso che questa storia ha iniziato a prendere forma, quindi never give up! 💪
Nel frattempo continuerò a postare i capitoli della ff su Haikyuu, "Parlami ho ancora bisogno di te" scritta a quattro mani con effe_95, che approfitto anche per ringraziarla del supporto e dei suggerimenti che mi apporta a PL, e non solo 🥰
Detto questo, ringrazio ancora chi segue la storia e continua a seguirne gli aggiornamenti, a chi vuole saperne sempre di più su Mario e i suoi amici.
Buona lettura, un bacione e a presto! 
   
 
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