Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: udeis    03/09/2022    0 recensioni
La storia del destino di un regno e di chi ne è stato artefice e compartecipe.
1. Re -Io, che preferii l'azione a un'immobile sconfitta, misi in moto gli ingranaggi del fato di mia spontanea volontà.
2. Figlia dell'inverno - Nessuno sembrava amare l’inverno, così iniziai a detestarlo anche io perchè mi aveva fatto diversa da tutti gli altri.
3. Strega - I suoi occhi neri come la notte come fuoco consumano il mio animo.
4. Fame - Avevo fame e mi sarei nutrita ad ogni costo.
5. Quello che ho perso - in poche e semplici parole avevano negato il mio sacrificio, non gliel'avrei permesso.
6. Appartengo alla terra - appartengo alla terra e alla terra tornai tra pianti e maledizioni.
7. Il principe che venne da lontano - C’era una volta un principe in cerca di una terra da poter chiamare sua
8. Dea - io ricordo solo le donne che mi videro
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Quello che ho perso

Avevano letto della mia gravidanza nell’ineffabile movimento dei pianeti, tra le vene della roccia spaccata da un fulmine o ne avevano sentito sussurrare gli uccelli del cielo. A me, invece, sfuggirono i segni del loro arrivo, complici le pesanti mura di pietra che circondavano la mia nuova dimora e che mi impedivano di comunicare con gli astri e i venti come avevo sempre fatto.

Perciò vennero all’inizio della primavera e non erano attese.

Erano i messi di quella Dea che avevo servito per tutta la vita e ancora servivo, lontana dai boschi a cui appartenevo. “Che la stirpe della Dea e gli stranieri diventino una cosa sola! Che le tradizioni vengano tramandate!” Aveva ordinato Lei ed io avevo obbedito, accogliendo nel mio letto lo straniero che sarebbe diventato re.

Venivano a me con una semplice veste di filato grezzo, piedi scalzi, i capelli sciolti cosparsi da edera e fiori. Sfoggiavano i segni dell’età con fierezza e non provavano  vergogna alcuna davanti allo sfarzo corte.

Li ricevetti con tutti gli onori nella sala del trono, così che nobili e notabili potessero apprendere quale rispetto tributare ai messi della Dea.
Io, la regina, chinai il capo davanti alle matriarche con venerazione e così fece il re. Poi, le invitai a parlare.

“Voi non appartenete a questa terra.” Esordì, la più anziana di loro, squadrando me e il mio consorte alternativamente. Il suo uso del plurale, un’ingiusta pugnalata che mi gelava le vene di abbandono.
“Dite che il reame è vostro per diritto di conquista, che avete costruito case e mulini, che avete scavato i canali e inciso le montagne con i terrazzamenti. Dite che fate attenzione a non prendere più del necessario, che uccidete solo per difendervi. Eppure le vostre case deturpano la terra, le vostre dighe imbrigliano i fiumi e il vostro popolo si moltiplica come le cavallette. Questa terra che voi chiamate regno non vi appartiene e non importa che voi crediate il contrario. La figlia che state per avere, invece, appartiene alla terra. Nelle vostre mani” dissero, “soffocherà e soffrirà la fame, sarà misera nell’abbondanza, sola anche se non abbandonata. Le vieterete di sentire la musica delle stagioni, di conoscere gli arcani misteri della natura, di sentire la vita scorrere attraverso di lei.
Lei appartiene alla Dea, appartiene alla terra. Noi che seguiamo i Suoi passi, la guideremo.”
Tacquero e nessuno fiatò.
“Lo stesso vale per tutte le altre figlie, quando verranno”.


La matriarca mi guardò con un sorriso crudele e io capii che ero destinata a mettere al modo soltanto altre iniziate, soltanto altre streghe, soltanto altre femmine; non un erede, non un principe, non un maschio. Nessuno dei figli che avrei partorito sarebbe sopravvissuto più di un giorno, nessuna delle figlie che avrei messo al mondo sarebbe potuta restare al mio fianco.

Soffocavo nei vestiti, ingombranti, scalpitavo costringendomi nell’opulenza delle stanze reali, appassivo rispettando l’etichetta. Soffrivo orribilmente ogni giorno la mancanza delle mie consorelle, bramavo il tocco gelido di una notte di inverno, ma sopportavo, resistevo, perchè era così che voleva la Dea. Anche lontana dalla congrega io servivo.
Con poche parole affilate, invece, il mio sacrificio era stato vilipeso, la mia missione ignorata. Mi sembrava quasi di sentirle gracchiare: “Hai scelto di restare con quel tuo re” dicevano, “di vivere trai lussi, di comandare gli uomini: queste sono le conseguenze”.

Avevo forse inteso male le parole della Dea? Non avevo servito con abbastanza devozione, con abbastanza fervore? Come avrei mai potuto tradire il suo volere, se per Lei avevo sacrificato ogni cosa che mi fosse cara? Ogni cosa che mi tenesse in vita?

Mi sentii morire, quando mio marito rispose che se il frutto della mia gravidanza si fosse rivelato femmina, non avremmo infranto le tradizioni che da secoli appartenevano a questa terra e l’avremmo consegnata alla congrega senza esitare.

Le matriarche quasi sogghignarono.
Anche esiliata, seppure esausta e sola, avrei servito, donando le mie figlie con gioia perchè si unissero alla congrega. Le avrei spiate da lontano, orgogliosa che  camminassero sul mio stesso sacro sentiero. Avrei chiesto di loro alle mie consorelle e forse un giorno avrei potuto incontrarle. Saremmo state parte della stessa cosa, più vicine di quanto possono mai esserlo madre e figlia.
Oggi, però, mi era stato negato il diritto di camminare accanto a loro: i sentieri della Dea non si sarebbero mai più aperti per me, la voce di una consorella non avrebbe mai più potuto consolarmi, la natura mi sarebbe stata ostile, la gente non avrebbe chiesto il mio consiglio. Se avessi consegnato loro le mie figlie, le avrei perse per sempre.

Il re era un uomo buono, ma non credeva nella Dea e pur rispettando la parola delle matriarche non ne capiva nè il potere, nè gli inganni. Sperava, lo vedevo, che il bambino sarebbe stato maschio. Ma gli avevano dato una mano truccata, ci avevano dato una mano truccata, per poi tagliarci la gola e lasciarci annegare nel nostro sangue, mentre si prendevano quello che era nostro, come dei volgari banditi di strada. Non l’avrei permesso.

Insistetti che le matriarche avessero le stanze più opulente e soffocanti: ricche di ori, sete, incensi e morbidi cuscini. Una camera che desse sul cortile, pieno di soldati e mercanti, e da cui si potesse vedere appena uno spicchio del bosco fuori dalle mura.
Mi premurai che avessero un seguito che non li abbandonasse mai: cortigiani in grado di subissarle di chiacchiere vacue. Trattenni le mie consorelle al castello, affidando loro la cura dei malati e dell’infermeria e feci in modo che avessero le erbe sempre pronte, accuratamente raccolte dalle ancelle più giovani.
Feci servire pasti abbondanti, vini pregiati e dolci sopraffini e quando piluccarono appena tutta quella abbondanza, nascosi maldestramente il mio disappunto, così che la corte potesse vederlo, così che la corte potesse parlarne. Li riempii di doni inutili, vanesi: fiori delicatamente forgiati dal bronzo, piccole spille d’argento che rappresentavano lupi, un piccolo sole d’oro intrecciato a un bracciale di rame. Fui gentile, vacua, frivola e loro scostanti fredde silenziose.
Lasciai che la corte arrivasse alle giuste conclusioni.

 

Il parto avvenne in estate, sancendo l’unione del re straniero con il popolo del regno che aveva conquistato. Nacque una femmina, così come avevano predetto le streghe. Esausta e con il cuore spezzato, affidai ai messi, mia figlia, come promesso. La parola del mio re, a vincolare anche il mio volere.

“Per fortuna che quest’antica religione vuole solo le femmine”, commentò qualcuno della corte, “almeno non si porteranno via l’erede”.

Mio marito mi strinse più forte e congedò i messi freddamente: non avevano accettato nessuno dei doni da lui preparati per la bambina.
Quella prima figlia gli sarebbe mancata per tutta la vita e per lei e soltanto per lei, avrebbe difeso e rispettato quelle antiche tradizioni che non gli appartenevano. Avrebbe risparmiato le foreste, regolato l’agricoltura, lasciati intaccati i luoghi sacri: li avrebbe regalati a lei, nella speranza che potesse esservi felice. Io, invece, con il tempo, avrei dimenticato e maledetto le mie usanze: non avrei più messo piede in un bosco, non avrei più ascoltato la musica della stagioni, non avrei mai più parlato della figlia che avevo perso.

 

Tutti sono a conoscenza dell’unico parto della regina.
Tutti hanno imparato che non mi piace parlarne.
Tutti sanno che il travaglio fu lungo e difficile, di come tremassi, dopo, di come riuscissi appena a stare in piedi, quando dovetti dire addio a mia figlia.
Tutti hanno stampato nella memoria come io abbia comunque sostenuto il mio re,  senza tirarmi indietro.
Tutti si ricordano del nostro dolore e di come il re scelse di non ripudiarmi, quando di figli nuovi non vennero.
Quello che molti non sanno e che ad altri ho vietato di ricordare è che il travaglio fu lungo e difficile perchè partorii due gemelle. I messi della dea vennero e se ne andarono con una bambina, così come volevano, così come il re aveva promesso. L’altra, invece, la affidai a un’ancella: che la crescesse lontano da sguardi indiscreti, che la amasse e che tornasse qui tra un anno -quello era il patto- e la sua famiglia non avrebbe mai più dovuto preoccuparsi della fame. Quella donna non sapeva niente degli antichi riti, per questo obbedì: io, che avevo servito la Dea per tutta la vita, invece, conoscevo il pericolo a cui andavo incontro, ma non mi fermai lo stesso.

Fu un anno di lutto e cordoglio e nuovi tentavi di concepire un erede: in quell’anno convinsi mio marito che non potevo dargli una discendenza. Fu doloroso ammetterlo, ma un regno senza eredi era un regno destinato a finire in una generazione e non era per quello che ne avevo sposato il re.
Insistetti che dovesse adottare il figlio di una sua amante e che io l'avrei cresciuto come se fosse mio. L’avrei scelto personalmente così che il legame potesse essere sincero e avremmo unito i nostri destini e il nostro sangue durante la notte del solstizio d’inverno, così che fossimo legati anche per le antiche tradizioni.
Di sangue o di anima, sarebbe stato mio figlio.

Il re, a malincuore, acconsentì e fu così che io re-introdussi a corte la mia vera figlia, serbandola dagli sguardi dei messi dell’antica religione. Giurai a me stessa che la mia piccola non avrebbe conosciuto la solitudine, nè la fame dei digiuni imposti. Non ci sarebbero stati i segreti dell’universo così numerosi e terribili da annichilire, nè la musica delle stagioni così forte da stordire, non ci sarebbero state le visioni a farla dubitare del suo giudizio. Avrebbe scelto liberamente il suo destino: sarebbe stata felice. Avrebbe avuto tutto quello che voleva.





 

Note: ciao a tutti. Non sono sicura di essere stata particolarmente brava a far intuire le parentele di questi ultimi capitoli, ma se ve lo state chiedendo, la protagonista di fame è proprio la gemella che non è stata presa dalle matriarche ed è rimasta a corte. A sua volta, lei è la madre del “re” del primo capitolo. Sì, proprio quella che lui ammirava per il suo animo generoso a cui si è sempre ispirato.

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: udeis