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Autore: Lamy_    05/09/2022    1 recensioni
Ariadne Evans è in gabbia, intrappolata in un matrimonio combinato e prigioniera di una madre dispotica. Il suo piano sin dall’inizio era quello di uccidere Mick King, aiutare i suoi fratelli e porre fine alla sua vita da criminale. Ma vuole anche vendicare la morte di Tommy, l’uomo verso cui ha un debito.
Tommy Shelby è un fantasma. La sua famiglia crede che sia morto e i Peaky Blinders sono allo sbando. La città è nelle mani dei nemici e Polly fa fatica a tenere duro. Tommy deve vendicarsi e per questo crea una falsa identità che lo porta a vivere a Londra nelle vesti di pescatore squattrinato.
Tutto cambia quando Ariadne e Tommy si rincontrano per caso. Nel momento in cui i loro sguardi si incrociano, entrambi capiscono che niente e nessuno potrà separarli.
Uniranno le loro forze e cercheranno in tutti i modi di liberarsi, arrivando addirittura a fare accordi con la banda più pericolose del Regno Unito pur di riuscirci.
“Tenendosi per mano, con passi erranti e lenti
attraverso l'Eden presero la loro via solitaria.”
(John Milton, Il Paradiso Perduto)
Genere: Azione, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Thomas Shelby
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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2. UCCIDI CIO’ CHE TI FA MALE

“Per tutto quello che ho fatto nella mia vita valeva la pena andare all'inferno.”
(Earl Burger Warren)
 
Una settimana dopo
Ariadne uscì dalla sua stanza intorno alle otto del mattino. Per una settimana era rimasta a letto come le aveva consigliato il dottore, il suo corpo aveva bisogno di riprendersi dalle botte di Mick. Un paio di grossi lividi violacei le deturpavano il viso. Una benda le stringeva il polso lussato, ma per fortuna non rotto.
Dalla cucina proveniva un profumo di tè e torta di mele che le fece brontolare lo stomaco. A causa dei dolori alle costole aveva mangiato poco, e ora che stava meglio aveva intenzione di recuperare.
“Buongiorno, signora.” La salutò la governante.
Ariadne abbozzò un sorriso e si infilò nella sala da pranzo, ad attenderla c’era soltanto Rachel. La giovane donna stava spalmando una generosa quantità di marmellata su una fetta di pane abbrustolito. Davanti a lei una tazza di pregiata porcellana stava fumando.
“Buongiorno.” Disse Ariadne.
Rachel sobbalzò sulla sedia, poi la vide e la salutò sventolando la mano mentre masticava.
“Oh, ciao! Finalmente! Ti è passata la febbre?”
Certo, Mick si era inventato la scusa della febbre per giustificare l’assenza della moglie. Era incredibile quanto fosse subdola la mente di quell’uomo.
“Sto meglio, grazie. La febbre non c’è più.”
Ariadne si sedette e si versò del tè, dopodiché addentò un biscotto al burro e noci.
“Mi dispiace per la tua malattia.” Disse Rachel in tono serio.
Stava fissando i segni sulla faccia di Ariadne, la fasciatura al polso, i suoi occhi scavati da notti insonni.
“Non importa. Ormai è passato.”
Erano le stesse parole che pronunciava sua madre dopo che il marito l’aveva picchiata. Ariadne non capiva perché la madre mentisse quando era chiaro che era stata malmenata, ma immaginava che lo sguardo rabbioso di suo padre ne fosse la causa.
Per quanto odiasse ammetterlo, lei era diventata la copia di sua madre.
“Magari più tardi potremmo andare a fare un giro al parco. Scommetto che un po’ di aria fresca possa esserti d’aiuto.”
“Sì, va bene.” acconsentì Ariadne.
La porta si aprì facendo entrare una delle domestiche che reggeva un vassoio su cui erano poggiati i giornali quotidiani.
“Signorina King, ecco a voi i giornali che avete richiesto.”
Rachel si alzò in fretta, ringraziò la domestica e si mise a sfogliare i giornali con foga. Ne tirò uno dalla pila e lo guardò con occhi ammirati.
“Ariadne, leggi questo articolo e dimmi cosa ne pensi.”
Ariadne prese il giornale e lo distese sul tavolo per leggere meglio. L’articolo in questione si intitolava ‘Le donne: la forza della società’ e l’autrice era una certa Virginia Alcott.
Dopo svariati minuti in cui Ariadne lesse e Rachel si morse le labbra per l’agitazione, la rossa chiuse il giornale con un sorrisino sulle labbra.
“E’ un articolo molto intelligente. E soprattutto femminista. Mi ricorda certi discorsi delle suffragette.”
“Lo pensi davvero?” domandò Rachel, sorpresa.
“Certamente! Sono d’accordo: le donne sono la vera forza della società ma gli uomini non ci permettono di dimostrarlo perché sanno che siamo migliori di loro.”
“Sì, esatto!”
Rachel battè le mani in preda all’entusiasmo. Era così contenta che le si erano arrossate le guance.
“Lo hai scritto tu, vero?” fece Ariadne.
Rachel smise di sorridere. Il suo volto era una maschera di terrore e ansia.
“Ehm no…ma che…che vai a pensare…no, io…non sono io…”
“Virginia Alcott è un nome palesemente finto: Virginia come Virginia Woolf e Alcott come Louisa May Alcott. Ho notato che sullo scrittoio hai diversi libri della Woolf e della Alcott.”
“Non dirlo a Mick, ti scongiuro! Ti do tutto quello che vuoi! Soldi? Gioielli? Chiedi e ti sarà dato!”
Ariadne ridacchiò per il rossore diffuso sul viso di Rachel. Era come un palloncino sul punto di esplodere.
“Non dirò niente a Mick. Sai, a Birmingham frequentavo un gruppo di suffragette anche io.”
Rachel si rilassò, per un attimo aveva visto le sue speranze andare in frantumi. Un anno prima a Londra era entrata in un circolo di suffragette e queste l’avevano convinta a pubblicare articoli sotto falso nome sui diritti delle donne. Era stato il periodo più felice della sua vita, lontana dai doveri della società e lontana dal controllo di suo fratello.
“Scrivevo anche quando ero in India. Da Nuova Delhi spedivo un articolo ogni settimana a Londra. Non potrei vivere senza la scrittura.”
“Ti capisco. Io prima studiavo all’Accademia di Arte.” Disse Ariadne.
Il solo ricordo dell’Accademia, di Carl e Lisa, delle lezioni e delle mostre, le causava una grande tristezza. A peggiorare il tutto era la sua incapacità di disegnare, ormai erano mesi che non si cimentava più nell’arte. Temeva di aver perso quel dono.
“Perché hai abbandonato?” domandò Rachel.
“Perché sono stata richiamata a Birmingham. La famiglia aveva bisogno di me e della mia totale attenzione.”
Un ricordo trafisse Ariadne come fosse uno spillo acuminato: nella sua testa rivide quella mostra scolastica a cui Tommy si presentò; ricordava che si erano seduti nel giardino del British Museum; ricordava che era Tommy l’acquirente misterioso del suo disegno.
“Ariadne, ti senti bene? Sei diventata pallida.”
La conversazione fu troncata dall’arrivo della governante, la sua espressione la diceva lunga sulla sua preoccupazione.
“Perdonate il disturbo, ma è appena arrivata lady Violet Howard.”
Ariadne scattò in piedi come una molla. Se c’era una cosa positiva nell’aver sposato Mick era quella di aver conosciuto lady Violet, eccentrica donna che conquistava tutti con il suo sorriso malizioso.
“Fatela immediatamente accomodare e offritele il tè.”
 
Ballintoy, Irlanda
Julian stava fumando alla finestra della cucina mentre Rose era distesa sul divano a rattoppare un paio di calzini bucati. C’era un silenzio confortante fra di loro, non sempre erano necessarie le parole.
Quella serenità fu spezzata dal suono del campanello e da ripetuti colpi alla porta.
“Julian.” disse Rose spaventata.
Julian spense la sigaretta e si avvicinò alla porta per guardare attraverso lo spioncino. Si ritrasse bestemmiando a bassa voce.
“Jul, lo so che ci sei. Vedo la luce accesa. Per favore, apri. E’ urgente!”
Rose sbirciò da dietro le tendine e riconobbe l’uomo che stava bussando. Era Russel, ex braccio destro in affari di Eric ed ex amante di Julian.
“Apri questa cazzo di porta! Sono solo. Non sono venuto accompagnato da nessuno.”
Julian fece un respiro profondo e aprì la porta con espressione seria e rabbiosa. Rivedere Russel era come rivedere la sua vecchia vita, e gli faceva ribrezzo.
“Che vuoi?”
Russel si fiondò in casa e chiuse la porta, era in uno stato evidente di agitazione. Era così nervoso che si tirava i polsini della giacca quasi fino a strapparli.
“Russel, che vuoi?” domandò ancora Julian.
“Dovete lasciare la città subito. Non avete molto tempo.”
“Perché? Di che stai parlando?”
Intanto Rose aveva raggiunto Julian e gli aveva preso la mano, mentre con l’altro braccio proteggeva il ventre appena gonfio.
“Mick King ha fatto accordi anche con l’IRA. Io l’ho scoperto stasera.” Spiegò Russel.
“E questo che c’entra con noi?” volle sapere Rose.
Russel andò a guardare fuori per controllare di non essere stato seguito. Un tempo non era così paranoico, ma adesso le cose stavano in maniera decisamente diversa.
“Ho scoperto chi è uno dei membri dell’IRA, e adesso si trova proprio qui a Ballintoy.”
“Come ci hanno trovati? Ariadne ha organizzato tutto in gran segreto.” Disse Julian.
“Mick in qualche modo lo ha scoperto e ha attivato la cellula dell’IRA che collabora con lui. Sono qui per catturarvi e chissà cos’altro! Dovete sparire entro stanotte.”
“Dobbiamo acquistare i big…” tentò di dire Rose.
Russel alzò la mano per interromperla, aveva già pensato a tutto lui.
“Ho già comprato due biglietti per voi per andare a Londra. Lì, fuori città, abita una mia cugina che è disposta ad ospitarvi.”
Julian lo guardò come se vedesse Russel per la prima volta, eppure lo conosceva da anni. Non lo aveva mai visto tanto preoccupato e spaventato. E se lui era spaventato, allora c’era davvero da temere il peggio.
“Rose, prepara una valigia con il necessario per entrambi. Dobbiamo viaggiare leggeri.”
Rose annuì e corse in camera da letto per prepararsi. Julian, invece, andò in cucina e trafficò nello stipetto della pasta. Tirò fuori una pistola argentata e si assicurò che fosse carica.
“Ti ricordi ancora come si spara?” gli chiese Russel.
“Sì. Me lo hai insegnato tu.”
“Almeno è servito a qualcosa.”
Julian si infilò l’arma nel retro della cintura e la coprì con la camicia, dopodiché si mise alla ricerca di soldi e oggetti di valore da portare con sé.
“Chi è il capo della cellula dell’IRA che lavora con Mick?”
Russel guardò la parete dietro Julian con sguardo perso, poi si ridestò e abbassò la testa come un bambino sgridato dalla maestra.
“E’ Charlotte. Lei ha sempre lavorato per l’IRA.”
 
Nadina attraccò la barca al molo e scaricò i cesti pieni di pesce. Era venerdì, dunque era salpata all’alba per poi vendere il pescato al mercato. Con lei c’era Tom, il nuovo arrivato. Era rimasto zitto per tutto il tempo, fermo al suo posto come una statua di marmo.
“Allora, a che stai penando? Sembri un mulo più del solito.”
Tom si accese una sigaretta e scaricò l’ultimo cesto, poi scese dalla barca con un salto.
“Non penso a niente.”
“Infatti avevo il sospetto che il tuo cervello fosse vuoto.” Lo derise Nadina.
“Nadina! Tom! Alla buon’ora!” esclamò Olga.
La vecchia indossava uno scialle nero consunto che le conferiva un’aria misteriosa, come se potesse usare la pelle lucente dei pesci per leggerti il futuro seduta stante.
“Scusa nonna, ma ci siamo dovuti allontanare per pescare.” Disse la ragazza.
“Ora non importa. Sbrigatevi, Joshua vi aspetta.”
Tom e Nadina caricano le ceste di pesce su uno sgangherato carretto di legno e si incamminarono verso l’immenso mercato. Era così affollato che dovevano farsi strada a gomitate e minacce.
Individuarono la bancarella di Joshua, scorbutico venditore che pagava Nadina una miseria, e si avvicinarono in fretta.
“Piccola pulce, eccoti! Credevo fossi scappata con il mio carico.” Blaterò l’uomo.
Nadina si pulì le mani sui pantaloni e scoccò al venditore un’occhiata altezzosa, quel tono non la intimidiva affatto.
“Taci e dammi i soldi che mi spettano. Anzi, questa volta devi pagarmi il doppio perché mi sono allontana per prendere il tuo pesce schifoso.”
“Non ti darò uno spicciolo in più, ragazzina!” abbaiò Joshua.
Tom, che fino ad allora era rimasto in disparte, si piazzò davanti a Joshua e lo guardò dritto in faccia.
“Senti, stronzo, stamattina pescare è stato difficile. Adesso tu ci dai i soldi che ci spettano, altrimenti portiamo le ceste ad un’altra bancarella.”
Joshua adocchiò le ceste e a malincuore dovette ammettere che il pescato di Nadina era il migliore di tutta Londra, dunque doveva cedere a quella richiesta.
“D’accordo. Kate, dai alla piccola pulce quello che vuole!”
Kate, la figlia del venditore, richiamò Nadina e le due si misero alla casa per fare i conti.
“Buongiorno. Posso chiedere?”
Una giovane donna si era accostata alla bancarella. Indossava un austero abito nero e i capelli erano legati in una treccia perfetta; nessuna traccia di trucco o gioielli. Al braccio portava una borsa ricolma di frutta e verdura. Era chiaramente una domestica.
“Oh, mia cara! Certo che potete chiedere!” disse Joshua con un sorriso.
“Il solito ordine del signor King.” Rispose la ragazza.
Tom sbarrò gli occhi. Il respiro gli si mozzò all’istante nell’udire quel cognome. Se la domestica proveniva da casa King, ciò significava che doveva esserci anche la moglie di Mik.
“Tu, poveraccio, aiuta la signorina con le buste!” abbaiò Joshua.
Tom si ridestò dai suoi pensieri e si precipitò a recuperare la spesa della domestica. La ragazza gli rivolse un sorriso cortese e iniziò a camminare verso l’uscita della zona del marcato.
Per un po’ rimasero in silenzio, lui che la seguiva fra le bancarelle e le urla dei venditori, finché non varcarono il cancello e si ritrovarono nei pressi della stazione.
“Signorina, posso farvi una domanda?”
“Chiedete pure.”
Tom si avvicinò e lei indietreggiò un poco, spaventata com’era dallo sguardo tetro dell’uomo.
“Voi lavorate al servizio di Mick King, giusto?”
“Sì, giusto.”
“Il signor King si è sposato di recente?”
“Un paio di mesi fa si è sposato. La signora King è davvero una donna deliziosa, è gentile e amichevole con la servitù. Spesso ci aiuta con le faccende di casa.”
Tom non rimase stupito, del resto Ariadne per anni aveva lavorato come sguattera in una locanda. E poi era una ragazza che non si lasciava mai spaventare dal duro lavoro.
“Grazie, signorina. Ma adesso dovete farmi un favore.”
La domestica sbiancò, il tono di voce dello sconosciuto era basso e profondo da metterle i brividi.
“Q-quale?”
“Dovete mostrarmi dove abitano i King.”
 
“…e alla fine dello spettacolo tutti erano annoiati a morte!” concluse lady Violet.
Ariadne e Rachel stavano ridendo a crepapelle per il modo in cui Violet stava raccontando loro la serata precedente trascorsa a teatro.
“Non ridete, ragazzacce! E’ stata una tortura!” rise Violet.
Ariadne si asciugò le lacrime con il tovagliolo ricamato troppe erano le risate.
“Lady Violet, voi sareste perfetta per le commedie!”
L’ospite sorrise compiaciuta e bevve un altro sorso di tè con gesti teatrali.
“Voi, invece, sareste perfetta per una tragedia smorta e triste come siete.”
Ariadne smise di ridere, l’euforia era evaporata lasciando spazio alla desolazione.
“A ognuno il proprio ruolo.”
“Il vostro ruolo non è quello di mogliettina, mia cara.” Disse Violet.
Questo Ariadne lo sapeva bene. Aveva sempre immaginato di portare a termine gli studi, di aprirsi un atelier di pittura e vendere le proprie opere. Nella sua fantasia avrebbe vissuto una vita felice, se solo non fosse esistita sua madre. Marianne Evans, donna che farebbe scappare a gambe levate persino il diavolo.
“Ho sentito che state organizzando un ballo.” Esordì Rachel.
Violet si asciugò le labbra col tovagliolo e sfoggiò un altro sorrisetto, uno di quelli che ammaliavano uomini e donne.
“Un ballo in maschera per il mio compleanno. Si terrà fra due settimane. Voi ovviamente siete invitate!”
“I vostri balli sono famosi per essere scandalosi.” Commentò Ariadne con un sorriso.
“Oh, è la gente che si scandalizza per così poco! Ballerini nudi che pendono dal soffitto vi sembrano inappropriati?”
Ariadne rise e scosse la testa, adorava l’intraprendenza e il coraggio di Lady Violet. Rachel, timida e riservata come sempre, arrossì al pensiero di giovani senza abiti appesi al soffitto; quel pensiero le faceva accapponare la pelle.
“Non credo che mio fratello ci permetterà di partecipare.”
“Mick non è sulla lista degli invitati. Anzi, nessun uomo è invitato. E’ una festa per sole donne.”
Ariadne si sentì sollevata all’idea di trascorrere una serata lontana dal marito e da quella casa infernale.
“Non mancheremo!”
“Splendido! Vedrete come ci divertiremo!”
Mentre Ariadne e Violet si scambiavano uno sguardo di intesa, Rachel deglutì e cercò in tutti i modi di farsi coraggio. Le feste non facevano proprio per lei.
                                                                                                                                                                        
Tommy sbirciò la strada prima di proseguire. La domestica camminava davanti a lui a passo spedito, era chiaro che volesse scappare ma non ci provava per timore di essere ripresa. Ad un certo punto aveva anche cominciato a piagnucolare.
“Smettetela di piangere, signorina. Non vi farò del male.”
“Ma lo farete alla mia signora.” Replicò lei.
“Io sono un amico di Ariadne. Non le farei mai del male.”
Certo che in quelle condizioni – barba lunga, taglio di capelli disordinato, occhiaie marcate e vestiti stracciati – non sembrava proprio che potesse essere amico di Ariadne.
“Se siete davvero un suono amico, potreste bussare alla porta come una persona normale.”
Tommy alzò gli occhi al cielo, ci mancava una domestica petulante per peggiorare la giornata. Inoltre, doveva ritornare al mercato prima che Olga o Nadina cominciassero a sospettare. Le due donne lo avevano accolto, sfamato e gli avevano dato un lavoro, ma lui non si fidava comunque. Come diceva sempre zia Polly: bisogna guardarsi dagli amici, dai nemici e dai finti amici.
“E da quando la gentaglia come noi può bussare alla porta dei ricconi?”
La ragazza abbassò lo sguardo, era consapevole che l’uomo aveva ragione. Tommy, dal canto suo, prima di diventare ricco e di entrare nel Parlamento, era stato un poveraccio in canna che spalava letame per Charlie Strong e che ogni tanto serviva ai tavoli del Garrison. Lui conosceva bene la povertà, la fame e l’umiliazione. Ed erano sensazioni che aveva provato anche dopo aver messo piede a Westminster. Per quanto ci provasse, non sarebbe mai stato un uomo perbene.
“Siamo arrivati.” Annunciò la domestica.
Eccola lì l’enorme dimora di Mick King che si stagliava contro il grigio cielo di Londra. Era una villetta a due piani, con l’esterno rivestito in mattoni bianchi e i balconi dorati, le finestre erano tutte adornate da spesse tende blu che non permettevano di scrutare l’interno. Due uomini stavano di guardia alla porta. Tommy vide che anche il giardino e la strada erano sorvegliati. Quella casa era una fortezza e lui non poteva avvicinarsi in nessun modo.
“Adesso potete andate, signorina. Ma badate bene: voi non mi avete visto oggi. Se scopro che avete detto a qualcuno di me, verrò a cercarvi e non sarete contenta.”
La domestica, con gli occhi traboccanti di lacrime, annuì e scappò in direzione della porta secondaria che permetta di entrare in cucina.
Tommy sospirò.
Se lui non poteva entrare, sarebbe stata Ariadne ad uscire prima o poi.
 
Margaret era così stanca che si trascinava sulla strada del ritorno. Erano le otto di sera, i lampioni gettavano opachi fasci di luce sulle vie dissestate di Small Heath. Aveva appena concluso il suo turno al cotonificio e sentiva le mani, con le quali aveva tagliato e filato tutto il giorno, che bruciavano per il dolore. Da quando Enea Changretta si era appropriato del Garrison, lei e i Peaky Blinders avevano dovuto trovare un’altra occupazione. Ma mentre Finn e Arthur combinavano scommesse durante incontri di boxe illegali, Margaret era stata assunta al cotonificio per otto ore di lavoro e una paga misera. Del resto, suo malgrado, aveva una famiglia da mantenere e non poteva rifiutare. I tempi d’oro dei Peaky Blinders erano finiti e il quartiere di Small Heath era ripiombato nella povertà.
Giunta davanti alla vecchia casa degli Shelby, sulla soglia fu accolta da Jeremiah che fumava un sigaro. Il ragazzo la salutò con un cenno del capo.
“Ehilà, Margaret. La riunione inizia tra poco.”
La cosiddetta riunione era stata organizzata da Polly, che ormai aveva assunto il controllo dei Peaky Blinders, o di quanto ne restava.
Margaret fu investita da una nuvola di fumo quando entrò. Alcol e tabacco impregnavano l’aria costringendola a tossicchiare.
“Ecco la mia ragazza!” strillò un Finn molto brillo.
La ragazza si lasciò abbracciare e baciare, ma senza ricambiare i gesti. Finn ultimamente aveva la cattiva abitudine di ubriacarsi e di fare lo sciocco, due cose che lei detestava.
“Dov’è Polly? Sono molto stanca e vorrei tornare a casa.”
“Puoi restare a dormire qui. Non sarebbe la prima volta.”
Finn le fece l’occhiolino in memoria di tutte le notti che avevano passato nella sua cameretta in quella casa. Margaret lo guardò in tralice e sospirò, alle volte era davvero un idiota con i fiocchi.
“Sono qui.” Esordì Polly.
Indossava un abito blu che le conferiva un’area elegante e autoritaria. In una mano reggeva un bicchiere di whiskey e nell’altra teneva una sigaretta. Margaret la invidiava e la stimava, lei non era in grado di avere tanta fiducia in se stessa.
“Buonasera, Polly. E’ successo qualcosa?”
“Dobbiamo discutere di affari. E purtroppo non sarà una conversazione piacevole.”
Dalla cucina sopraggiunse un trambusto di vetri rotti. Poco dopo Arthur uscì barcollando con le nocche insanguinate. Era così ubriaco che non si manteneva in piedi.
“Sul serio, Arthur?” lo rimproverò Polly.
“Tutto apposto, Pol. Io sto bene… il bicchiere invece…” e scoppiò a ridere.
“Sono circondata da idioti.”
Polly diede un’ultima occhiata rabbiosa al nipote e andò in cucina ad assicurarsi che non vi fossero gravi danni. Margaret, invece, si sedette in un angolino del salotto e si tolse le scarpe che aveva indossato per ore. I piedi le facevano talmente male che sembrava avesse delle spine nelle ossa.
“Stai bene?” le domandò Finn.
“Ti importerebbe se non stessi bene?”
Finn rimase stupito, la bocca appena spalancata per la sorpresa.
“Sei la mia ragazza, certo che mi importa se non stai bene. Marg, che succede?”
“Scusami, è che sono stanca. I turni al cotonificio sono estenuanti.”
Margaret sentì le lacrime pungerle gli occhi e dovette trattenersi per non farsi deridere dal gruppo di maschi che inondava la casa. Finn le prese le mani e le diede un bacio sulla fronte.
“Lo so che è dura e so che io sto facendo il cazzone, ma ti prometto che presto le cose andranno meglio. Dobbiamo solo aspettare e fidarci di Polly.”
“Fin…”
“No. Ascoltami: noi ci sposeremo, andremo a vivere a Londra e avremo la vita che abbiamo sempre sognato. Andrà così come abbiamo stabilito.”
“Solo se riusciamo a risolvere questa situazione…” mormorò Margaret.
“E ci riusciremo.” Disse Polly.
D’improvviso il silenzio calò nella stanza e tutti si voltarono verso Polly, che stava al centro del salotto. Una regina davanti alla sua corte.
“Come?” chiese Arthur.
“Per prima cosa dobbiamo cacciare Enea Changretta dalla città. Per farlo abbiamo bisogno di soldi e di armi. L’unica persona che può aiutarci è Byron Davis.”
Jeremiah strabuzzò gli occhi e lasciò il bicchiere per avvicinarsi a Polly.
“Siamo in debito con Davis. Tommy e Ariadne non gli hanno più dato l’alcol promesso.”
“Lo so, perciò dobbiamo aumentare la posta in gioco.”
“Abbiamo ancora qualcosa da offrirgli?” domandò Finn.
Polly guardò Finn e gli diede una pacca sulla spalla, poi passò in rassegna tutti i visi pallidi dei Peaky Blinders.
“Gli faremo un’offerta che non potrà rifiutare: gli daremo il Garrison.”
“No! Col cazzo che gli do il mio pub!” si lamentò Arthur.
Polly afferrò il nipote maggiore per il polso e lo strattonò fino a ritrovarselo ad un centimetro dalla faccia.
“Non fare l’idiota, Arthur. Tommy è morto, Changretta si è preso Birmingham, Mick King e Marianne Evans osservano ogni nostra mossa. Non abbiamo altra scelta.”
“E Ariadne? Non può aiutarci?” si intromise Margaret.
“Me ne sto occupando. Nel frattempo abbiamo bisogno di agire subito, quindi domani mattina andremo da Byron Davis.”
“Chi verrà con te? Io ci sono.” Si propose Finn.
Polly lasciò andare Arthur e si sistemò i polsini dell’abito. Sorrise come un gatto prima di catturare un topo.
“Margaret mi accompagnerà.”
 
Erano all’incirca le dieci di sera quando Ariadne sgusciò fuori dalla sua stanza. La casa era immersa nel buio, Rachel e la servitù erano già andati a letto. Anche Mick non c’era, era uscito a cena con alcuni pezzi grossi per concludere un affare. Questo significava che lei aveva il tempo di frugare nello studio di Mick in cerca di qualcosa da usare contro di lui.
Accese una candela e scese piano le scale, tenendo la fiamma al riparo con il palmo della mano.
Superò il soggiorno e la biblioteca, dopodiché passò davanti alla cucina. La porta, anziché essere chiusa come al solito, era accostata e una debole luce proveniva dall’interno. Ariadne si sporse di poco e vide che Rachel stava affondando la forchetta in una fetta di torte di mele.
“Rachel?”
Rachel sobbalzò e scattò in piedi con la forchettina sguainata a mo’ di spada. Si rilassò quando vide Ariadne e abbassò l’arma improvvisata.
“Oh, sei tu! Credevo fosse la governante. Odia che qualcuno entri in cucina dopo le nove.”
“Ti senti bene?” domandò Ariadne.
Lanciò una breve occhiata alla torta, anche lei sfogava l’ansia sul cibo. Era bello sapere che sua cognata in parte poteva comprenderla.
“Ho finito di scrivere un articolo sui fumi delle fabbriche che sono dannosi per le donne. Ho pensato di premiarmi con un po’ di dolce.”
“Anche la mia amica Betty di Birmingham stava lavorando sui fumi delle fabbriche. Diceva che rendevano le donne calve e senza denti.”
“E’ vero! Sai, ho condotto una ricerca simile anche in India. Lì molti ricconi inglesi e americani e francesi aprono le fabbriche perché pagano una miseria le operaie e le sfruttano.”
“E’ la colonizzazione che ci ha reso dei mostri.” Sospirò Ariadne.
Rachel sorrise e annuì, era felice di aver trovato una mente affine alla sua. Quando aveva scoperto che Mick si era dato alla malavita, aveva lasciato Londra per andare a studiare letteratura al College e poi aveva viaggiato in tutto il mondo per scrivere i propri articoli.
“L’India è un bel posto. Ti piacerebbe molto.”
Ariadne si versò un goccio di vino in un calice e si sedette al tavolo; avrebbe rimesso tutto in ordine prima che la governante se ne accorgesse.
“Come mai hai scelto l’India? Meta insolita per una signorina dabbene.”
Rachel tornò ad accomodarsi e si dedicò nuovamente alla sua fetta di torta, questa volta mangiando piccoli bocconi per poter parlare.
“Perché è lontana da Londra e le comunicazioni sono lente. Pensa che una lettera può arrivare nell’arco di tre o anche quattro mesi.”
“Volevi stare lontana da Mick.” Concluse Ariadne.
“Sì. I miei genitori si vergognerebbero se sapessero che vita ha scelto mio fratello.”
“Come sono morti i vostri genitori?”
“Mio padre è morto sul lavoro, la fabbrica ha preso fuoco. Mia madre è morta qualche anno fa a causa della febbre spagnola.”
“Mi dispiace. Dovevano essere persone oneste se oggi sarebbero inorriditi da Mick.”
Rachel fissò il piatto quasi potesse rivedervi riflesso il volto dei genitori. In India aveva imparato che gli spiriti potevano comunicare attraverso ogni tipo di superficie riflettente.
“Mick da ragazzo era ingenuo e certe brutte compagnie si sono approfittate della sua bontà. Nel giro di poco tempo si è trasformato in un criminale e non c’è stato verso di riportarlo sulla retta via.”
Pensare a Mick come a un ragazzo ingenuo era difficile, se non del tutto impossibile.
“E sua moglie? Com’era?” azzardò Ariadne.
Rachel spalancò la bocca perché non immaginava che qualcuno sapesse che suo fratello era già stato sposato. Capì subito che a spifferare il segreto era stato qualcuno della servitù.
“Camille era il suo primo amore. Anche lei proveniva da una buona famiglia, suo padre è il banchiere Lowell. Quando Mick ha iniziato a rubare, Camille ha cercato di fermarlo ma ormai era tardi. Anziché lasciarlo, ha deciso di sposarlo e di scappare con lui nella speranza di cambiarlo. Dopo la nascita del bambino, però, Mick si è messo a commerciare con la droga e la povera Camille ha perso la testa. Il dottore le diagnosticò isteria e la rinchiusero in istituto.”
Ariadne rimase in silenzio, la fronte aggrottata, ad elaborare tutte quelle nuove informazioni. Ciò che la colpì di più fu scoprire dell’esistenza di un bambino.
“Mick ha un figlio?”
Rachel si diede una manata sulla fronte. Santi numi, alle volte aveva la lingua troppo lunga! Il danno era stato fatto e mentire non serviva a niente, soprattutto non ad Ariadne che le piaceva.
“Leonard oggi ha diciassette anni. E’ stato mandato in un collegio svizzero all’età di sei anni. Da allora non l’ho più visto. E credo che neanche Mick lo abbia visto.”
Ariadne dentro di sé emise un gridolino di gioia. Stava acquisendo informazioni dall’interno proprio come avrebbe fatto Sherlock Holmes. Adesso aveva più elementi a disposizione con cui minacciare Mick.
“Anche la mia famiglia è un disastro. Ho due fratelli, il maggiore è Eric e il minore è Julian. mio padre diede il controllo dei Blue Lions a Eric. Julian è rimasto a Birmingham ed è diventato un alcolizzato. Io sono scappata a Londra e mi sono iscritta all’Accademia di Arte. Purtroppo non ho concluso gli studi perché sono stata richiamata da mia madre per gestire gli affari dato che Eric si era ammalato.”
“La famiglia è un peso di cui non ci liberiamo mai.” Disse Rachel.
Ariadne ebbe un flash del delitto che aveva commesso. Rivide suo padre a terra, la sua mano che stringeva l’attizzatoio, la madre che piangeva, il sangue che si allargava sul tappeto.
“Alcune volte per liberarti devi uccidere ciò che ti fa male.”
 
Salve a tutti! ^_^
Ecco che le cose iniziano a farsi interessanti sia per Ariadne che per Tommy.
Fatemi sapere cosa ne pensate.
Alla prossima, un bacio.
 
 
Ps. Alcune cellule dell’I.R.A. restarono attive anche negli anni ’30 del 900.
  
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