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Autore: Parmandil    05/09/2022    0 recensioni
Per secoli la Federazione ha esplorato il cosmo, nelle sue vastità di spazio e tempo. Resta un’ultima soglia da oltrepassare: quella che conduce ad altre realtà. La missione dell’USS Destiny è esplorare il Multiverso, arrivando coraggiosamente là dove nessuno è mai giunto prima. Ma qualcosa va storto e la Destiny sparisce nel suo viaggio inaugurale.
Cinque anni dopo, è una sgangherata banda di contrabbandieri a trovare la nave alla deriva in una nebulosa. Lo spettrale vascello è deserto, a eccezione della dottoressa Giely, misteriosamente priva di memoria. Dov’è stata la Destiny in quegli anni e cos’è successo all’equipaggio? La risposta giace in un altro cosmo, dove si annida la specie più pericolosa mai incontrata dalla Flotta Stellare. È l’inizio di una caccia spietata, scandita da un’unica regola: «Il più debole dovrà perire».
Non resta che unire le forze. Un rinnegato della Flotta Stellare, un gruppo d’avventurieri senza scrupoli, persino alcuni ex nemici della Federazione: tutti dovranno coalizzarsi per sopravvivere. Riuniti sulla Destiny, dovranno riscoprire in loro quello spirito di fratellanza che creò la Federazione, mentre esplorano il Multiverso in cerca della via di casa...
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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-Capitolo 1: La nave alla deriva
Data Stellare 2610.35
Luogo: Ammasso delle Pleiadi
 
   Il mercantile Ferengi di classe D’Kora era vecchio e scassato, eppure riusciva a manovrare con sorprendente agilità tra gli asteroidi che circondavano Merope, una delle più brillanti tra le Pleiadi. La gigante azzurra sfolgorava a poca distanza, diffondendo radiazioni letali, tanto che il vascello doveva tenere alzati gli scudi. E tenerli attivi è un problema, quando un’altra astronave t’insegue, sparando a tutto spiano.
   «Colpo diretto alla griglia scudi posteriori, perdiamo potenza!» avvertì Rivera, l’unico Umano in servizio sul mercantile. Era un uomo atletico, dalla corta barba ispida e i lunghi capelli scuri raccolti in una coda, secondo una moda maschile assai diffusa in quel primo scorcio di XXVII secolo.
   «Energia d’emergenza, compensare!» ordinò Grilk, stringendosi ai braccioli della poltrona. Come Capitano – il termine Ferengi era DaiMon – non poteva mostrare troppa fifa; ma ne aveva eccome. Tra le loro fughe rocambolesche, quella si stava rivelando la più pericolosa.
   «Fatto, scudi ripristinati» disse Rivera, il volto madido di sudore nella luce incerta dell’Allarme Rosso. «Ma non reggeremo a lungo. È la Flotta Stellare a inseguirci, non qualche banda criminale».
   «Rispondere al fuoco!» strillò il DaiMon, gesticolando verso lo schermo. L’inquadratura posteriore mostrava la nave inseguitrice: un potente vascello di classe Horus. Stava riducendo le distanze, sgusciando agilmente tra gli asteroidi. Ogni pochi secondi sparava coi phaser anteriori, martellando gli scudi dei Ferengi.
   «Signore, è una classe Horus! Non le faremo neanche il solletico!» protestò Rivera. Sebbene fosse il Primo Ufficiale, in quei frangenti svolgeva anche il ruolo di Ufficiale Tattico, secondo un’usanza diffusa tra i mercanti Ferengi. Di conseguenza i suoi pareri avevano un certo peso.
   «Continuano ad avvicinarsi. Sono a diecimila km, in diminuzione» avvertì Talyn, l’addetto ai sensori. Era di gran lunga il più giovane tra gli ufficiali di plancia, poco più di un ragazzo. A vederlo sembrava un Umano, dalla carnagione olivastra e gli occhi un po’ a mandorla, come gli abitanti del sudest asiatico e dell’Indonesia. Ma le apparenze ingannano: il giovanotto apparteneva agli El-Auriani, uno dei più antichi ed enigmatici popoli della Galassia.
   «Non puoi seminarli?!» chiese il DaiMon, all’indirizzo della timoniera.
   «Ci sto provando!» berciò lei, senza nemmeno voltarsi. «Ma questa carretta ha visto giorni migliori. Come vuole che faccia a seminare una Horus? È già tanto che non esploda il nucleo!». Shati, così si chiamava, era l’elemento più irruento dell’equipaggio. Era una Caitiana dalla folta pelliccia color crema, salvo la criniera più rossiccia; le ciocche fulve erano raccolte in spessi dreadlocks che le davano un’aria rockettara. Di solito era ottimista, ma ora il suo nervosismo era evidente: le vibrisse fremevano, le pupille verticali erano contratte, la coda a ciuffo si agitava senza posa.
   «Non accusare l’Ishka!» protestò Grilk, passando lo sguardo da una paratia all’altra della sua adorata astronave. «Ho fatto un affarone con Joe, il Rigattiere Interstellare...».
   «Già, quello a momenti ti pagava perché la portassi via! Non ti ha nemmeno accordato la garanzia!» sbuffò Losira, la tesoriera di bordo. Il suo prestigioso incarico ne faceva la terza in comando dopo il DaiMon e il Primo Ufficiale. Anche Losira, però, non era una Ferengi. Si trattava di un’avventuriera Risiana, riconoscibile dal piccolo fregio bianco al centro della fronte. Era affascinante, fasciata com’era in un lungo abito azzurro con una fantasia tropicale. I capelli a caschetto cambiavano spesso tonalità, tanto che nessuno ne aveva mai scoperto il vero colore; quel giorno erano bianchi, con strisce orizzontali azzurre. Sarebbe stata irresistibile, se solo il cinismo non ne avesse smorzato l’avvenenza.
   «Meno critiche! Voglio dei suggerimenti costruttivi, e li voglio subito!» strepitò il DaiMon. Si portò istintivamente la mano alla cintura, dove pendeva la famigerata frusta neurale, l’arma più temuta dei Ferengi. Uno schiocco di quell’arnese stimolava i centri nervosi delle vittime, provocando un dolore intenso e stordendole, pur senza ferire il corpo. Quando si sentiva minacciato, Grilk la sfiorava; ma solo in casi estremi la usava per mantenere la disciplina.
   A vedere quel gesto, Rivera fremette: aveva provato sulla sua pelle la tortura della frusta neurale, negli anni bui della Guerra Civile. Ma come al solito si dominò.
   «Tu!» disse il DaiMon, indicandolo col tozzo indice dall’unghia laccata. «Non fai che vantarti d’essere stato nella Flotta. Metti a frutto le tue conoscenze e tiraci fuori dai guai!».
   «Ehi, c’ero anch’io nella Flotta!» rivendicò Shati con orgoglio, come se questo la ponesse al di sopra della marmaglia.
   «No, io sono stato nella Flotta Stellare, per cinque anni. Tu ti sei fatta espellere dall’Accademia!» le ricordò Rivera.
   «Ero all’ultimo anno, a un passo dagli esami. Ho imparato tutto quel che c’è da sapere!» si difese la Caitiana, ma in quella l’astronave sussultò, richiamandola alla guida.
   «Allora, qualche idea?!» incalzò Grilk.
   «Vediamo... la classe Horus ha scudi molto più resistenti dei nostri, quindi non possiamo reggere lo scontro, e nemmeno nasconderci nella fotosfera» ragionò il Primo Ufficiale. «Scarterei anche di nasconderci tra gli asteroidi; i sensori federali ci troverebbero subito. Però siamo a pochi parsec dalla Nebulosa del Toro» aggiunse, con un occhio alle telemetrie dei sensori. «Dovrebbe essere abbastanza densa da offrirci riparo».
   «Dovrebbe?».
   «Lo farà, okay? Dobbiamo solo arrivarci tutti interi» assicurò l’Umano.
   «E va bene» cedette il DaiMon. «Shati, traccia la rotta e portaci là a massima curvatura. Talyn, apri un canale: dobbiamo distrarli, così forse la smetteranno di spararci addosso».
   «E dovrei distrarli io?» chiese Losira, che da esperta truffatrice aveva una certa esperienza.
   «No, me la sbrigo io» disse Grilk, alzandosi con risolutezza dalla poltroncina. «Mercantile Ishka a nave federale, cessate il fuoco e rispondete!».
   Passarono alcuni secondi carichi di tensione, nei quali Shati compì la modifica di rotta. Il vecchio mercantile lasciò la cintura d’asteroidi, allontanandosi dalla stella azzurra, e puntò verso la Nebulosa del Toro. Appena fu possibile balzò in curvatura. La pattuglia federale continuò a tallonarlo, adeguando rotta e velocità; ma per il momento smise di sparare.
   «Qui è il Capitano Cagy dell’USS Rukh» disse un minaccioso Coridano, apparendo sullo schermo. «Cessate il vostro futile tentativo di fuga. Fermatevi, abbassate gli scudi e consentiteci di abbordarvi».
   «Come no! Già che ci siamo, vi prepariamo anche la cena?!» sbottò Shati, ma il DaiMon la zittì con un gesto.
   «Capitano, sono certo che siamo di fronte a un banale errore» disse il Ferengi, nel suo tono più affabile. «Sono il DaiMon Grilk, un libero professionista dedito a oneste e innocue attività commerciali. La mia nave è regolarmente iscritta nell’albo della FCA, l’Autorità Commerciale Ferengi. Controllate pure, ho tutti i documenti in regola».
   «Sarete anche nel registro FCA, ma questo non vi pone al di sopra delle leggi federali; e ne avete violate parecchie» obiettò Cagy. Attivò un oloschermo dal bracciolo della sua poltrona e prese a leggere: «Siete accusati di quarantasette reati, in trentanove diversi sistemi stellari. Le accuse includono contrabbando, furto, ricettazione, truffa aggravata, falsa testimonianza, occultamento di prove, atti osceni in luogo pubblico...».
   «Quello fu tutto un malinteso» intervenne Losira, disinvolta.
   «... potrei continuare, ma credo che ci siamo capiti» proseguì il Coridano. «Fermatevi, vi dico, e affrontate le conseguenze delle vostre azioni».
   «Conseguenze! La Federazione ha mai pensato alle conseguenze, quando ha varato le sue leggi restrittive in materia d’affari?!» protestò Grilk. «Quelle leggi sono un insulto per ogni Ferengi che si rispetti. Io credo nel libero mercato e nell’iniziativa personale, non nella vostra asfissiante economia pianificata!».
   «L’economia federale non è poi così pianificata; infatti ci siete voi mercanti indipendenti» obiettò Cagy. «Però bisogna rispettare le leggi. Voi non l’avete fatto, quindi la vostra licenza è revocata e la vostra nave sarà sequestrata. Chi troppo vuole, nulla stringe!».
   «È questo che voi federali non riuscite proprio a digerire, vero?! Non accettate che qualcuno possa guardare la vostra utopia e dire: “No grazie, non fa per me, io preferisco guadagnarmi la mia fortuna sulla frontiera!”» polemizzò il DaiMon. «Dica la verità: ci detestate perché vi ricordiamo com’eravate voi un tempo, quando poneste le basi del vostro successo. Fare la guerra a noi è tutt’uno col rinnegare il vostro passato!».
   «La smetta d’atteggiarsi a vittima» ammonì il Coridano. «Questo è l’ultimo avvertimento: arrendetevi o apriremo di nuovo il fuoco. E stavolta ci fermeremo solo quando la vostra nave sarà ridotta a un colabrodo» minacciò.
   «Non prendiamo ordini da un ex Pacificatore!» ringhiò Rivera, inserendosi di prepotenza nella conversazione. «Sì, Capitano Cagy. Ho fatto le mie ricerche e so da che parte stava, durante la Guerra Civile. Sono i macellai come lei che dovrebbero stare in cella, non noi avventurieri, che a ben vedere contribuiamo a espandere la frontiera!».
   «Ah ah! Ben detto, figliolo! Questo significa cantarle chiare!» approvò Grilk, dandogli una pacca sulla spalla. «E tu, mia cara, che pensi degli ex Pacificatori riammessi nella Flotta?» si rivolse a Losira.
   «Tutto il male possibile!» sibilò la Risiana, ricolma di disprezzo.
   «Come vede, io e i miei ufficiali siamo unanimi» concluse il DaiMon, rivolgendosi al Capitano avversario. «Che la sfida continui, e vinca il Ferengi migliore!».
   «Siete dei pazzi; non avete alcuna possibilità di sfuggirci» disse Cagy, e chiuse il canale. L’attimo dopo i phaser della Rukh tornarono a martellare gli scudi posteriori dell’Ishka.
   «Allora, questa nebulosa?» chiese Grilk, rivolgendosi a Talyn con un certo nervosismo.
   «Ci saremo tra venti minuti» assicurò il giovane El-Auriano. «Nel frattempo emetto un segnale a onda coassiale per interferire coi loro scanner di puntamento».
   «Ho deviato tutta l’energia disponibile agli scudi posteriori, spero che reggano» aggiunse Rivera, tornato alla postazione tattica.
   «E io continuo le manovre evasive» disse Shati, sebbene fosse un grosso rischio manovrare così la nave mentre erano in curvatura. Una sterzata troppo brusca rischiava di far collassare il campo di curvatura, rigettandoli nello spazio normale... o distruggendoli.
   «Bene, continuate così» approvò Grilk, risedendosi sulla poltrona di comando. «Sapete che vi dico? Dopo tante avventure su questa nave, sono convinto che possiamo superare ogni ostacolo».
 
   Venti minuti dopo, gli scudi posteriori dell’Ishka erano pressoché esauriti; ma la Nebulosa del Toro campeggiava sullo schermo. Era una nube oscura, composta da gas e polveri così opachi da nascondere le stelle retrostanti.
   «Bene così, scendiamo a impulso e avanti tutta!» ordinò il DaiMon.
   Il mercantile effettuò la manovra con qualche scossone. La macchia nera della nebulosa crebbe, fino a invadere tutto lo schermo. Non si vedeva una sola stella.
   «Siamo dentro» confermò Talyn. «Densità delle polveri in rapido aumento».
   «E i federali?» chiese Grilk.
   «Li ho persi» ammise l’El-Auriano. «Comunque anche noi dovremmo essere svaniti dai loro sensori».
   «Non ancora; ricorda che hanno sensori migliori dei nostri» avvertì Rivera. «Shati, riduci la velocità e correggi la rotta. Va’ a zig-zag per seminarli» chiarì.
   «Ricevuto» disse la Caitiana, curva sui comandi. «Signore, ho difficoltà a manovrare. Tutti quei colpi nel posteriore ci hanno conciati male. Se ne usciamo vivi, la bagnarola avrà bisogno di una revisione».
   «Cominceremo a lavorarci non appena avremo la certezza di aver seminato gli sbirri» promise Grilk. «Cioè, voi comincerete a lavorarci. Io sono il DaiMon e ho già fatto il mio dovere: vi ho tirati fuori dai guai!».
   «Lei, eh?» fremette Rivera. «Sono stato io a suggerire la nebulosa come riparo, mentre te la facevi sotto dalla paura!» aggiunse fra sé.
   «Io, sì. Ricorda che sono stato io ad accoglierti nella ciurma, dopo che la Flotta Stellare ti ha cacciato a calci in culo. Ti ho offerto una nuova vita, un nuovo scopo!» proseguì il Ferengi in tono enfatico. «Così, ogni volta che ti viene una buona idea, è in conseguenza della mia lungimiranza!».
   «Organizzo i turni per le riparazioni» sospirò l’Umano. Disinserito l’Allarme Rosso, lasciò la postazione tattica per tornare a quella del Primo Ufficiale.
   «Bravo. E non lesinare i doppi turni» raccomandò il DaiMon. «Ricorda la Regola dell’Acquisizione numero 111. Tratta i sottoposti come tratti i tuoi familiari: sfruttali!».
   «Sissignore» mugugnò il Primo Ufficiale.
 
   Quella sera, Rivera decise di andare in mensa per annegare le sue preoccupazioni in un bicchiere di tequila. C’era poca gente, perché erano quasi tutti impegnati in controlli e riparazioni. L’Umano contò una mezza dozzina di Ferengi e due Yridiani, più il Dopteriano al bancone. Con una certa sorpresa vide anche Losira, seduta a un tavolino e intenta a osservare l’oscurità fuori dal finestrone. Era raro che la Risiana venisse in mensa, se non per spennare qualche nuovo arrivato al gioco del tongo.
   Volendo scambiare due chiacchiere, Rivera passò prima dal replicatore per ordinare la tequila. Ne prese due, una per sé e l’altra per la collega. Per averle, però, dovette passare la tessera fiscale sul lettore: tutte le consumazioni sull’Ishka erano decurtate dallo stipendio. «Ah, le astronavi Ferengi» si disse mesto, accomodandosi al tavolino. Vi posò i bicchieri e ne spinse uno verso la Risiana. «Ehi, come va?» le chiese.
   «Uh, che galante!» sorrise lei, nel prendere il bicchiere. «Non c’è male, i profitti dell’ultimo mese sono ottimi».
   «Già, i profitti del DaiMon!» sbuffò Rivera. «Io comunque volevo sapere come stai tu. Mi sembra che l’inseguimento di oggi ti abbia scossa».
   «Scossa? Non direi, ne abbiamo passate di peggio» ricordò Losira, bevendo una prima sorsata. «Più che altro mi chiedo che prospettive abbiamo per il futuro. Ormai siamo tutti schedati dalla Flotta Stellare. Le pattuglie ci danno la caccia in ogni settore. Probabilmente sfuggiremo alla Rukh, restando nascosti qualche giorno; ma poi che faremo? Dove andremo?».
   «Non lo so» ammise Rivera, bevendo a sua volta. «Suppongo ci siano ancora sistemi sicuri, a cercar bene. Certo che alla lunga...» lasciò in sospeso.
   Vedendo il suo sconforto, la Risiana gli prese la mano tra le sue, in un gesto incoraggiante. L’Umano era l’unico collega che le stesse un po’ simpatico, forse perché era finito di malavoglia in quel postaccio, proprio come lei. Ma sebbene tra loro ci fosse intesa, persino una certa ammirazione, nessuno dei due aveva mai provato a sedurre l’altro. A ciò contribuiva senz’altro la significativa differenza d’età. Rivera aveva trentacinque anni; Losira lo superava di ben quindici primavere. A onor del vero, la Risiana era in splendida forma: aveva mantenuto con cura una figura snella e non c’era in lei debolezza o irrigidimento. La pelle era ancora liscia e vellutata; solo intorno agli occhi cominciava a vedersi qualche cedimento. Ma per quanto avesse un aspetto giovanile, Losira non intendeva prendere in giro se stessa, né il giovane collega.
   «Guarda, guarda... abbiamo visite» mormorò la Risiana, accennando a un nuovo arrivato in sala mensa. «È il nostro passeggero di riguardo».
   «Che?! Non ce le voglio le lucertole, qui!» ringhiò l’Umano, in un raro attacco di collera.
   «Ti ricordo che è un passeggero pagante. Il nostro unico passeggero» lo redarguì Losira, lasciandogli la mano. «Se non ti sta simpatico, vattene; me ne occupo io. Ma non offenderlo: abbiamo già fin troppe rogne».
   «Non sia mai che la lucertola si offenda!» sibilò Rivera, fissando l’intruso di sottecchi.
   Non correva buon sangue tra Umani e Voth, le due specie senzienti originarie della Terra. Non da quando, vent’anni prima, i Voth erano giunti con un’armata dal Quadrante Delta, intimando la consegna del loro “Mondo Perduto”. Forti della loro avanzatissima tecnologia, e di un vergognoso collaborazionismo da parte delle autorità federali, i sauri si erano impossessati della Terra, deportando milioni di Umani (e alieni) per sostituirli con i propri coloni. Questo dramma aveva scatenato la Guerra Civile che per tre anni aveva dilaniato la Federazione. Dopo inutili bagni di sangue, e dopo che la Flotta Stellare aveva sventato un’invasione Borg su vasta scala (mentre i Voth erano vigliaccamente fuggiti) si era giunti a un trattato di pace. I sauri avevano rinunciato a ogni pretesa sul Mondo Perduto, consentendo ai deportati di tornarvi. In cambio la Federazione permetteva loro di visitare la Terra come turisti; ma solo a patto di non soffermarvisi più di un mese e di non sforare un tetto massimo di centomila visitatori per volta. Così adesso c’era un discreto andirivieni di sauri, che venivano in pellegrinaggio al loro mondo d’origine. Per la maggior parte sfruttavano canali diplomatici; ma alcuni s’ingegnavano a trovare mezzi di trasporto alternativi. Era il caso di Irvik, che dopo essere finito ampiamente fuori strada con la sua navetta aveva chiesto un passaggio a quelli che, sul momento, gli erano parsi onesti mercanti.
   «Ah, Comandante! La stavo giusto cercando!» esclamò il Voth, puntando dritto su Rivera. «È tutt’oggi che attendo una spiegazione. L’Allarme Rosso, tutti quegli scossoni... è chiaro che abbiamo avuto uno scontro a fuoco. Ma contro chi? E dove ci troviamo adesso?» chiese, sedendo pesantemente accanto all’Umano.
   «Signor Irvik, sono desolato per i disagi, ma le assicuro che l’emergenza è passata» lo rassicurò Rivera.
   «Non ha risposto alle mie domande. Chi ci ha attaccati?» insisté il sauro.
   «Erano dei pirati spaziali, okay? Probabilmente del Sindacato di Orione» s’inventò l’Umano lì per lì. Come poteva confessare che invece si trattava della Flotta Stellare?
   «Pirati?! Oh, povero me! Quando sarò sulla Terra, protesterò presso il consolato Voth!» avvertì il passeggero. Vedendo le espressioni allarmate dei commensali, si calmò leggermente. «Tranquilli, signori, non intendo denunciarvi. È chiaro che avete fatto il possibile, anzi vi ringrazio per averci salvati da quei criminali. Ma la Flotta Stellare deve sapere che le rotte non sono ancora sicure».
   «Oh, credo che lo sappia» sospirò Rivera. «Sa, una volta lavoravo nella Flotta, prima di... cambiare ramo».
   «Oh, allora è del mestiere! Bene, sono contento» disse Irvik, senza sospettare la realtà. «Ci siamo rifugiati in una nebulosa oscura, suppongo» aggiunse, osservando il finestrone nero intenso, senza una stella. Vedendo che l’Umano annuiva, passò alla domanda successiva: «Tra quanto potremo ripartire?».
   «Un giorno, ma forse ci tratterremo più a lungo, per sicurezza» disse Rivera.
   «Spero non tanto più a lungo» brontolò il sauro. «Sa, sono qui in ferie... le prime ferie prolungate che mi prendo da parecchi anni a questa parte. Voglio avere la soddisfazione di visitare il Mondo Perduto, per una volta nella mia vita. Quindi ogni giorno che perdo è un giorno in meno che passerò là!» si lamentò.
   «Ha la nostra garanzia che la sbarcheremo il prima possibile» intervenne Losira, prima che il collega esplodesse. «La porteremo fino a Evora, da cui potrà prendere un trasporto diretto per la Terra. Nel frattempo che ne dice di svagarsi con qualche gioco da tavolo? Potrei insegnarle il tongo!» suggerì, prendendo la tavoletta e le carte circolari dal tavolo adiacente.
   «Tongo? Non ne ho mai sentito parlare. È un gioco tipico della Terra?» s’interessò il Voth.
   «In un certo senso...».
   Vedendo che la Risiana aveva trovato il pollo da spennare, Rivera lasciò silenziosamente il tavolo, con l’intento di dileguarsi. Era arrivato all’ingresso quando, aprendosi questo, si trovò davanti Talyn. Il ragazzo-prodigio era visibilmente emozionato. «Ah, Comandante! Cercavo proprio lei!» esordì.
   «Anche tu» borbottò Rivera, lanciandosi una rapida occhiata alle spalle, dove il sauro era ormai intortato da Losira. «Va bene, dimmi tutto».
   «Poco fa i sensori a lungo raggio hanno captato un segnale. È molto disturbato dalla nebulosa, ma la frequenza è certamente della Flotta Stellare» rivelò l’El-Auriano.
   «La Rukh?!» s’inquietò il Primo Ufficiale.
   «Direi proprio di no. Loro ci stanno cercando, quindi vogliono coglierci di sorpresa. Quello invece è un segnale automatico di soccorso» spiegò il giovane.
   «Un SOS?» fece Rivera, aggrottando la fronte.
   «Sì, signore... qualcuno ha avuto un incidente e sta chiedendo aiuto» confermò Talyn. «Ma siccome si trovano nella nebulosa è difficile che il segnale possa uscire. Noi lo abbiamo captato per pura fortuna, perché siamo vicini. Se non rispondiamo, passerà molto tempo prima che qualcun altro lo riceva. Forse troppo per aiutare quelle persone. Quindi... non dovremmo pensarci noi?» chiese con ansia.
   «Groan, se fossi ancora nella Flotta Stellare non ci penserei due volte» mugugnò Rivera, massaggiandosi la fronte. «Ma ora sono qui con voi... una banda di ricercati. Non ti viene in mente che potrebbe essere un trucco dei federali, per attirarci in un’imboscata?».
   «Lo escluderei. Considerando la distanza da cui proviene il segnale, devono aver cominciato a trasmettere prima che noi ci rifugiassimo nella nebulosa» rivelò il giovane.
   «Ma è comunque un codice della Flotta Stellare» puntualizzò il Primo Ufficiale. «Anche se questi non ce l’hanno con noi, potrebbero riconoscere che siamo ricercati e agire di conseguenza. A meno che non siano veramente a pezzi, ci batteranno».
   «È un rischio, sì» ammise Talyn. «È per questo che ci sono gli ufficiali superiori, no? Io il mio dovere l’ho fatto... ora tocca a voi decidere» si sfilò.
   «Diciamo piuttosto che deciderà il DaiMon» borbottò Rivera, cercando di prevedere la sua reazione. «D’accordo, gli parlerò io. Cercherò di mettere una buona parola, nel caso che possiamo salvare qualche vita. Tu va’ a riposare, muchacho» ordinò.
   «A domani, Comandante» salutò l’El-Auriano, e sparì nelle profondità della nave.
   «Un’altra deviazione... speriamo solo di non morire da Buoni Samaritani» si disse l’Umano, lasciando frettolosamente la mensa.
 
   Più tardi, il DaiMon Grilk era nel suo alloggio; ma non per dormire. Seduto in poltrona, lasciava che Losira gli girasse attorno, praticandogli l’oo-mox, ovvero il massaggio dei lobi. Le grandi orecchie dei Ferengi, infatti, erano piene di terminazioni nervose che le rendevano molto sensibili. Un buon massaggio portava i proprietari al settimo cielo, così come le lesioni gli facevano patire le pene dell’Inferno. E fortuna voleva che Losira fosse un’ottima massaggiatrice.
   «Aaaahhh, che meraviglia!» sospirò Grilk, socchiudendo gli occhi mentre reclinava la testa all’indietro. «Ci voleva, dopo una giornata così».
   «Tutto si sistemerà, vedrai» lo blandì la Risiana. «Il peggio è passato, ormai siamo fuori pericolo. Tra un giorno o due potremo lasciare la nebulosa».
   «Uhm, sì» fece il DaiMon, aggrottando appena la fronte. «Rivera mi ha detto che abbiamo captato un SOS da dentro la nube, su una frequenza della Flotta Stellare. Voleva che andassimo a controllare, ma ho detto di no. Non siamo boy-scout della Flotta, e poi potrebbe essere una trappola».
   «Ma se ora me ne parli, significa che vuoi il mio parere» notò Losira, sempre dandosi da fare coi lobi. «Io credo che dovremmo investigare sulla faccenda».
   «Davvero?» fece Grilk.
   «Con le dovute precauzioni, s’intende. Al minimo segno di trappola faremo presto a dileguarci nella nebulosa» chiarì la Risiana. «Ma se c’è davvero una nave in difficoltà, potremo approfittarne. Ci sono sempre cose interessanti, nelle stive dei federali!». Così dicendo gli dette una grattatina dietro le orecchie, facendolo fremere.
   «Ah! Oh! Uh!» fece il DaiMon, su di giri. «Se la metti così, sei convincente. Ma non so se il profitto vale il rischio».
   «Questo capita spesso, ma finora l’incertezza non ti ha mai trattenuto. Suvvia... sai bene che un mancato profitto è come una perdita» lo provocò Losira. Per suonare ancora più convincente, gli mordicchiò delicatamente un orecchio.
   «Uuuuhhh!» esalò Grilk, deliziato. «Hai ragione, dolcezza. Mostrerò alla ciurma che il loro DaiMon non si lascia sfuggire alcuna occasione. E se c’è davvero un vascello della Flotta in panne... impareranno che quando si è nei guai è meglio stare zitti!» aggiunse, facendosi truce.
 
   Il segnale di soccorso veniva da una regione più interna della nebulosa, dove i gas e le polveri si addensavano. L’Ishka s’inoltrò con i sensori all’erta e gli scudi alzati, per difendersi in caso d’imboscata. In plancia si respirava un certo nervosismo, eppure il DaiMon non si tirò indietro, come Rivera aveva temuto. «Vuole soccorrere la nave incidentata... o vuole saccheggiarla?» si chiese l’Umano, che ormai sapeva con che fuorilegge si era messo.
   «Ci siamo, scendo a velocità impulso» disse infine Shati.
   «Nave federale a ore dodici, sta entrando nel campo visivo» aggiunse Talyn.
   Gli avventurieri fissarono lo schermo principale, aguzzando la vista. Sulle prime non videro altro che scure volute di gas nebulare, rischiarate qua e là da lampi d’elettricità statica. Poi qualcosa emerse dalle tenebre. Era uno scafo gigantesco, dalla configurazione così insolita che non ne avevano mai visto l’eguale. Scuro e incorniciato dai fulmini, incombeva minaccioso sul mercantile. Era inclinato di 45 gradi e ruotava lentamente lungo l’asse maggiore, come se fosse alla deriva. Nessuna luce lo punteggiava: né le finestre degli alloggi, né i collettori Bussard, né tantomeno il deflettore di navigazione. Osservandolo, Rivera si sentì accapponare la pelle; c’era qualcosa di strano e d’inquietante in quel vascello.
   «Si direbbe alla deriva. L’energia principale è disattivata, c’è solo qualche sistema ausiliario in funzione» rilevò Talyn. «Il supporto vitale è al minimo... deve far freddo da morire» aggiunse.
   «Segni di vita?» chiese Rivera.
   «Non ne rilevo nessuno» rispose l’El-Auriano.
   «Una nave abbandonata? Ma lo scafo sembra integro!» commentò Shati, aguzzando gli occhi felini.
   «Ci sono ragioni per abbandonare un’astronave integra. Fughe di radiazioni, rischi biologici...» notò Rivera.
   «Già, ma quando si abbandona una nave in genere lo si fa con navette e capsule di salvataggio. Invece le capsule ci sono ancora tutte. E anche le navicelle sembrano essere al completo» disse Talyn, proseguendo le scansioni. «Magari quelli dell’equipaggio sono ancora a bordo... tutti morti» rabbrividì.
   «Ma siamo certi che sia una nave della Flotta Stellare? Io non ne ho mai viste con questa configurazione» disse Losira, osservando l’anello che avvolgeva gran parte della nave, cambiando inclinazione man mano che questa ruotava.
   «Sì, non ci sono dubbi. Il registro è USS Destiny NCC 204.610» disse Talyn, leggendo il nome dipinto sullo scafo.
   «Destiny... questo nome non mi è nuovo...» mormorò Rivera, frugando nella memoria.
   «Ne hai sentito parlare? Dimmi tutto!» ordinò il DaiMon.
   «Cinque anni fa, un prototipo sperimentale chiamato Destiny fu varato dalla stazione Jupiter. Io non ero presente, ma ricordo che se ne parlò in tutta la Flotta» ricordò l’Umano. «Vedete, la Destiny era la prima nave destinata a esplorare il Multiverso».
   «Multicosa?!» sobbalzò Grilk.
   «Multiverso. Dimensioni parallele, realtà alternative... chiamatele come volete» s’infervorò Rivera. «Purtroppo qualcosa andò storto e la Destiny non fece ritorno dal suo viaggio inaugurale. Così la Flotta la dichiarò dispersa e vietò la costruzione di altre navi della stessa classe. Però non ha mai smesso di cercarla in lungo e in largo. Signori, abbiamo fatto una scoperta importantissima. Quella lì è la nave più bramata dalla Flotta Stellare!» disse, indicando il vascello alla deriva. «Chissà dov’è stata in questi anni... chissà cos’ha visto...».
   «Ma la sua destinazione originale qual era?» s’inquietò Losira, osservando la nave spettrale, in quel momento quasi capovolta.
   «E chi lo sa? I dettagli di quel viaggio sono top secret» sospirò Rivera. «Forse se l’abbordassimo ne sapremmo qualcosa. I diari dei sensori, quelli dell’equipaggio... ci aiuterebbero a capire cos’è andato storto».
   «Scusate, ma questo non è di competenza della Flotta Stellare? Noi passavamo solo di qui» notò Talyn. «Abbiamo risposto a una chiamata d’aiuto, ma in assenza dell’equipaggio...».
   «L’equipaggio non c’è e la nave è intatta. Combinazione perfetta!» gongolò il DaiMon, fregandosi le mani mentre osservava il relitto con bramosia.
   «Che vuol fare, signore?» si preoccupò Rivera. Conosceva quello sguardo cupido e sapeva che annunciava guai.
   «Che domande! Voglio abbordare la nave, scoprire i suoi segreti e venderli al miglior offerente!» annunciò Grilk. «Questo è l’affare più redditizio della mia carriera... finalmente potrò smetterla di girovagare con voi guitti e diventare un rispettabile Ferengi d’affari. Ovviamente ci sarà profitto anche per voi!» promise.
   «Vuol saccheggiare una nave della Flotta?!» inorridì il Primo Ufficiale. «E poi a chi conta di rivendere le spoglie? Chiunque nella Federazione ci salterà addosso...».
   «E allora venderemo fuori dalla Federazione, no? Là fuori ci sono fior di clienti che pagheranno latinum per avere i segreti della Destiny. I Breen, i Romulani Imperiali, il Dominio... usa un po’ di fantasia!» esortò il DaiMon, picchettandosi il testone.
   «È un’ottima idea, caro!» trillò Losira, venendogli a fianco. «Questo può essere l’affare che ci sistema tutti, se lo sfruttiamo bene!» aggiunse, lanciando un’occhiataccia a Rivera, per dissuaderlo dal sollevare obiezioni.
   «Già, stavolta siamo sistemati per le feste!» si disse l’Umano, pensando alla reazione della Flotta. Ma vedendo che anche la Risiana voleva darsi al saccheggio, si arrese. «Posso almeno suggerire di esaminare la Destiny con una squadra, prima d’invaderla in massa? Dobbiamo capire cos’è successo all’equipaggio, se c’è rischio biologico o di altra natura. Ricordate che il latinum non serve a niente, se si è morti» avvertì.
   «Sì, e spegnete quel dannato segnale di soccorso!» annuì Grilk. «Non voglio che i federali vengano a rovinare tutto».
   «L’ideale sarebbe riattivare l’energia principale, motori compresi, e spostare altrove la Destiny» suggerì Shati. «Così avremo tutto il tempo per esaminarla».
   «Splendida idea, fatelo subito!» ordinò il DaiMon. «Rivera, porta una squadra su quella nave e tienimi informato dei progressi. Sento che abbiamo trovato una miniera di latinum!» ridacchiò, spaparanzandosi sulla poltrona di comando.
 
   Di lì a poco la squadra esplorativa si teletrasportò sulla Destiny. Oltre a Rivera c’erano Talyn (per esaminare i diari di bordo), Shati (per occuparsi del timone) e l’Ingegnere Capo Brokk (per riattivare il nucleo principale). Tutti quanti indossavano le tute spaziali, per non correre rischi nel caso in cui ci fossero agenti infettivi. Si materializzarono sul ponte di comando, sperando che da lì fosse più facile verificare lo status della nave.
   La plancia della Destiny era ampia e circolare, con uno schermo visore particolarmente largo, tanto da coprire un terzo della circonferenza. Al centro della sala vi era una pedana rialzata che ospitava le sedie del Capitano, del Primo Ufficiale e del Consigliere di bordo. Le altre postazioni erano allineate lungo la parete; ma non c’era nessuno dell’equipaggio, né vivo né morto. Il salone era immerso nell’oscurità, a stento rischiarata dai faretti delle tute. Gli oloschermi erano disattivati, come buona parte delle interfacce LCARS, che inoltre erano coperte di brina. Su tutto gravava un silenzio opprimente, tanto che Rivera udì il sangue pulsargli nelle orecchie. Trascorsero lunghi secondi prima che qualcuno osasse parlare.
   «Sembra in buono stato» commentò Shati, i cui occhi felini luccicavano nell’oscurità. Tra i presenti era quella che ci vedeva meglio al buio.
   «Già, a parte il dettaglio che l’equipaggio s’è volatilizzato» commentò Rivera. «Allora, per prima cosa esaminiamo l’aria, in cerca d’agenti infettivi». Rimpianse che sull’Ishka non ci fosse un vero dottore cui fare affidamento. Invece avevano solo un vecchio Medico Olografico d’Emergenza, senza nemmeno un Emettitore Autonomo che gli permettesse di lasciare l’infermeria.
   «Il mio tricorder segnala pulito» disse Shati dopo qualche minuto.
   «Confermo» disse Talyn. «Ci sono tre gradi sottozero, per questo c’è condensa ovunque. E l’aria è un po’ viziata. Ma a parte questo non ci sono problemi. Direi che possiamo toglierci i caschi».
   «Aspettate, servono ulteriori...» cominciò Rivera, ma Shati aveva già ritirato il suo casco nel collo della tuta. Vedendola, Brokk e Talyn la imitarono. «... analisi. Oh, al diavolo!» sbottò Rivera, e ritirò il casco a sua volta. Fu assalito dal freddo pungente, a cui non era abituato. Ogni suo respiro condensava in una nuvoletta bianca. Si guardò attorno più volte, girando su se stesso: quella nave buia e deserta gli faceva accapponare la pelle. Aveva il timore irrazionale d’essere spiato e persino assalito alle spalle. Dovette respirare a fondo per calmarsi. Sapeva che l’oscurità è uno dei timori più atavici degli umanoidi. Una volta riaccese le luci, sarebbero stati meglio.
   Notando una targa color bronzo fissata a una paratia, il Primo Ufficiale andò a osservarla da vicino. Come sospettava era la targa commemorativa della Destiny, che riportava i dati fondamentali dell’astronave, oltre al motto che la ispirava. 
 
USS DESTINY
 
STARSHIP REGISTRY NCC-204.610
LAUNCHED STARDATE 2605.45
BUILT AT JUPITER STATION – SOL SECTOR
UNITED FEDERATION OF PLANETS
FIRST PROTOTYPE OF ITS CLASS
 
“Logic will get you from A to B.
Imagination will take you everywhere”
A. Einstein
 
   «Mi sa che stavolta l’immaginazione li ha spinti troppo oltre» si disse Rivera, chiedendosi ancora una volta dove diavolo fosse stata quella nave. Lesse anche le righe più piccole sulla targa, che riportavano il nome del Capitano Dualla e degli ufficiali superiori al momento del varo. «Eppure questa gente non può essere svanita nel nulla. Da qualche parte saranno finiti. Se non sono più a bordo, devono essere sbarcati. Ma dove, e perché? Cosa li ha indotti ad abbandonare l’astronave alla deriva, con l’SOS automatico?».
   «Ehm, ci mettiamo al lavoro, signore?» lo richiamò Talyn.
   «Sì, per prima cosa spegni quel segnale di soccorso» ordinò l’Umano con voce roca, ricordando i loro doveri.
   «Subito» fece l’El-Auriano. Passò da una postazione all’altra, fino a trovare quella di sensori e comunicazioni, una delle poche attive. La sbrinò con una manata e si mise al lavoro.
   Nel frattempo i colleghi aprirono le porte con le apposite unità di sblocco, per controllare le sale adiacenti. C’erano quattro porte in tutto. Una conduceva all’ufficio del Capitano Dualla, ornato da piante e manufatti del suo mondo d’origine, Delta IV. Ma nella perdurante oscurità tutto appariva sinistro, anche perché le piante erano avvizzite in mancanza di luce e acqua. La seconda porta conduceva alla sala tattica, caratterizzata da un lungo tavolo semitrasparente di forma rettangolare. Attraverso l’ampia finestra era visibile l’Ishka, che stazionava a poche decine di km dalla Destiny.
   «Ancora nessuna traccia dell’equipaggio...» mormorò Rivera, sempre più inquieto.
   La terza porta condusse i visitatori a una saletta teletrasporto. Giunti alla quarta, si aspettavano di trovare il turboascensore per scendere ai ponti inferiori; ma al suo posto videro un’ampia scala a chiocciola che scendeva nell’oscurità.
   «Dev’essere per non isolare la plancia, se venisse meno l’energia principale» comprese Rivera. «Meglio così; non avremo problemi a scendere. Talyn, sei riuscito a interrompere il segnale?».
   «Ho fatto, non stiamo più trasmettendo» rispose il giovane, stranamente trasognato. Era ancora alla postazione sensori, ma teneva gli occhi chiusi, come in ascolto.
   «Ehi, che ti succede?» chiese Rivera, venendogli accanto.
   «Non so come descriverlo... non ho mai provato nulla di simile» mormorò Talyn, con voce distante. «È come se percepissi un’eco dell’equipaggio. Le loro voci... no, le loro sensazioni. È successo qualcosa di terribile, capo. Non so cosa... ma terribile!» sussurrò, riaprendo gli occhi. Aveva le pupille dilatate dall’orrore.
   «Ma come puoi saperlo?» chiese Shati, inquieta.
   «Psicometria» rispose Rivera al posto suo. «È la capacità di percepire la storia di un oggetto, o del suo proprietario, semplicemente toccandolo. Si tratta di una qualità rarissima, anche fra i telepati».
   «Ma io non sono un telepate!» squittì il giovane, spaventato.
   «Sei un El-Auriano. La tua gente ha capacità percettive ancora poco comprese» ricordò il Primo Ufficiale. «Non sarete telepati alla maniera dei Betazoidi o dei Vulcaniani, ma certo avete un dono...».
   «Non so che dire. Non ho mai conosciuto il mio popolo» si rabbuiò Talyn. «Qualunque cosa sappiano fare, non hanno potuto insegnarmela».
   «Va bene, ora calmati. Pensi di poter scaricare i diari dei sensori? Così ci faremo un’idea più precisa dell’accaduto» disse Rivera, per dargli un compito che lo distraesse.
   «Sì, non dovrebbe essere difficile» si riscosse il giovane, e si mise al lavoro.
   Mentre Talyn armeggiava coi comandi, aiutato da Brokk e Shati, Rivera lo osservò pensosamente da una certa distanza. Quando l’Umano era salito sull’Ishka, cinque anni prima, il ragazzo era già lì. Siccome era ancora minorenne, Rivera aveva chiesto spiegazioni a Losira, che si trovava a bordo da più tempo. Se chiudeva gli occhi, poteva quasi risentire la loro discussione.
 
   «Non farti ingannare dal suo aspetto» gli disse Losira. «Il ragazzo non è Umano come te. Si tratta di un El-Auriano».
   «Okay, ma... è pur sempre minorenne. Che diavolo ci fa qui a bordo?» insisté Rivera.
   «Oh, è una triste storia» sospirò la Risiana. «Lo abbiamo trovato a Stardust City, sul pianeta Freecloud. La città fu bombardata dai Pacificatori, come rappresaglia per la loro sconfitta nella Guerra Civile. La casa di Talyn fu distrutta, la sua famiglia sterminata. Solo lui sopravvisse... all’epoca doveva avere cinque o sei anni. Nei dieci anni successivi è vissuto in strada, nei quartieri degradati e semidistrutti, compiendo piccoli furti. L’anno scorso lo abbiamo trovato mentre eravamo a Freecloud per affari».
   «Trovato?» si accigliò Rivera.
   «Ha tentato di borseggiare il DaiMon, ma l’abbiamo scoperto e bloccato. Grilk l’avrebbe consegnato alla polizia locale, se non avessi interceduto per lui» rivelò la Risiana. «Ho convinto il DaiMon a prenderlo a bordo, come apprendista tuttofare. Da allora si può dire che l’abbiamo adottato, tutti noi dell’equipaggio. Gli stiamo insegnando il necessario sulla vita di bordo e alla lunga contiamo di trovargli un incarico, forse come addetto ai sensori».
   «Commovente» disse l’Umano. «Ma non dovreste consegnarlo agli assistenti sociali?».
   «Lui non vuole andarsene. Cerca di capire: questa nave è la casa più stabile e confortevole che abbia avuto da quand’è rimasto orfano. Alcuni di noi sono ciò che di più simile abbia a una famiglia. Farlo andar via sarebbe traumatico...» si giustificò Losira.
   «Per lui o per te?» chiese Rivera. «Da come ne parli, sembra che sia stata soprattutto tu ad adottarlo» indovinò.
   «Non lo nego» ammise la Risiana. «Comunque ci stiamo impegnando tutti per tirarlo su. Io faccio il possibile, ma ha bisogno di una figura paterna. Sai, certe notti si sveglia ancora gridando, dopo aver sognato i bombardamenti. E ha ancora il brutto vizio di rubacchiare in giro. Potresti tenerlo d’occhio, dargli una raddrizzata...?» chiese speranzosa.
   «Farò del mio meglio» s’impegnò l’Umano. «Però ho sentito strane voci sugli El-Auriani».
   «Sono grandi ascoltatori e credono negli incontri predestinati» annuì Losira.
   «Sì, ma a parte questo, pare che abbiano una telepatia latente e avvertano persino gli scompensi spazio-temporali. Se è vero, e i suoi poteri si risvegliano, allora nessuno di noi è qualificato per insegnargli il controllo» avvertì Rivera.
   A questo Losira non rispose.
 
   «Molto strano» disse Talyn, esaminando i diari dei sensori.
   «Cosa c’è di strano?» fece Rivera, riscuotendosi dai ricordi. Gli venne accanto, per osservare lui stesso l’interfaccia.
   «Qualcuno ha cancellato i diari dei sensori, persino i file di back-up» spiegò il giovane. «C’è un vuoto tra il momento in cui la Destiny è passata nell’altra realtà, cinque anni orsono, e il suo ritorno... che risale a poche settimane fa. Qualunque cosa sia successa, i responsabili non vogliono farcelo sapere».
   «E i diari personali dell’equipaggio?».
   «Cancellati anche quelli. Chiunque sia il responsabile, è stato molto meticoloso».
   «Ma non c’è un’Intelligenza Artificiale? Se la riattivassimo, potremmo chiedere a lei...» suggerì Shati.
   «No, niente IA su questa nave» constatò Brokk, che stava esaminando una consolle ingegneristica. «La cosa non mi stupisce. Dopo tutti i casini della Guerra Civile, le IA delle astronavi sono passate di moda. Non resta che andare in sala macchine per riattivare l’energia principale, così potremo spostare la nave ed esaminarla con più calma» aggiunse.
   «Okay, andiamo» disse Rivera, muovendo verso la porta.
   «La sala macchine è quindici ponti più giù. Non ci facciamo teletrasportare dall’Ishka?» chiese Brokk, volendo risparmiarsi la scarpinata.
   «No. Voglio percorrere i corridoi di questa dannata nave, per cercare di capirci qualcosa» decise il Primo Ufficiale. «Seguitemi e tenete gli occhi aperti. Fate caso se ci sono dei corpi, tracce di lotta, segni di sabotaggio... qualunque cosa possa fornirci un indizio». Ciò detto imboccò la scala a chiocciola, obbligando i colleghi a seguirlo.
 
   Il viaggio attraverso i livelli dell’astronave fu lento, perché gli avventurieri procedevano con prudenza, osservando ogni dettaglio attorno a loro. I corridoi vuoti erano inquietanti; l’oscurità e il silenzio li rendevano ancor più spettrali. Più volte Rivera ordinò alla piccola squadra di fermarsi, convinto di aver sentito dei rumori; ma si trattava sempre di echi dei loro passi e delle loro voci. Ancora più snervanti furono i passaggi nei tubi di Jefferies, necessari in quanto i turboascensori erano senza energia. In quei momenti l’Umano teneva il phaser in pugno, pronto a reagire a qualunque attacco. Ma di attacchi non ce ne furono e così la squadra raggiunse finalmente la sala macchine.
   Sbloccato l’ingresso, i contrabbandieri si addentrarono nel vasto salone in penombra. Il nucleo quantico era spento, come gran parte delle consolle.
   «Wow, avete mai visto attrezzature così?!» commentò Shati, guardandosi attorno.
   «No, mai» ammise Rivera. «Questa doveva essere la nave più moderna della Flotta, cinque anni fa. Probabilmente lo è ancora. Continuo a chiedermi cosa li abbia sopraffatti, e se proprio non hanno lasciato indizi...».
   In quella le orecchie feline di Shati si mossero sopra la sua testa. «Ssshhh! C’è qualcuno!» sussurrò.
   «Sicura?» fece l’Umano, impugnando il phaser.
   «Ci scommetto le vibrisse. È lassù!» bisbigliò la Caitiana, accennando ai ponteggi che circondavano il nucleo quantico. Poiché la sala macchine era immersa nelle tenebre, non c’era modo di vedere chi vi si acquattasse.
   «Niente luci!» sussurrò Rivera, impedendo a Talyn di dirigere la torcia da polso della tuta in quella direzione. «Perderemmo l’effetto sorpresa. Shati, tu sei la nostra One Woman Army. Te la senti di andare a caccia?».
   «Sì, gioco volentieri al gatto col topo» sogghignò la Caitiana. «Ma mi serve un’esca».
   Brokk e Talyn presero a fissarsi le scarpe. Rivera avrebbe potuto far valere i gradi e mandare uno di loro allo sbaraglio, ma non se la sentì. «Okay, vado io» sussurrò. «Voi guardatemi le spalle. Phaser su stordimento, mi raccomando. Chiunque sia l’intruso, lo voglio vivo».
   Il quartetto si divise. L’Umano avanzò allo scoperto, fingendo d’esaminare le consolle, mentre i colleghi lo sorvegliavano a una certa distanza. La Caitiana invece si addentrò tra le ombre, non così fitte per i suoi occhi felini. Giunta sotto una delle passerelle, si sfilò rapidamente la tuta spaziale affinché non l’intralciasse. Poi spiccò un balzo, atterrando sul ponteggio col silenzio dei suoi piedi felpati.
   Rivera stava ancora passando tra le consolle, senza realmente vederle, quando una voce piovuta dall’alto lo inchiodò lì dov’era. «Fermo là! Chi sei tu, che violi quest’eremo di pace?!». Era una voce femminile, con una strana inflessione.
   L’Umano alzò le mani, temendo che la sconosciuta fosse armata. Spinse lo sguardo in direzione della voce, ma non vide altro che oscurità. «Mi chiamo Armando Rivera, sono il Primo Ufficiale del mercantile Ishka» si presentò. «Non ho cattive intenzioni, anzi sono qui per aiutarti. La mia nave ha captato la tua richiesta di soccorso».
   «Richiesta di soccorso?».
   «Sì, questo vascello emette un segnale automatico. Non lo sapevi?» si stupì Rivera.
   Silenzio.
   «Senti, posso abbassare le mani?» chiese l’Umano, stanco di starsene come un malvivente colto in flagrante. «Poi potresti scendere, così parleremo faccia a faccia...».
   «Scendere? No-no, sto bene qui. Puoi salire tu. Anzi no, ti preferisco sotto tiro!» disse l’estranea, parlando in falsetto. «Siete arrivati in molti? Che volete fare, rubare la nave per poi venderla? Farla a pezzi, e poi vendere i pezzi? Non si fa, tsk-tsk!».
   «Niente di tutto questo; vogliamo solo aiutarti» disse Rivera, falso come Giuda. Aveva l’impressione che l’estranea fosse picchiatella; ma temeva che fosse anche armata e ciò lo tratteneva dall’andarla a stanare. «Ci risulta che questa nave sia sparita cinque anni fa. Tu facevi parte dell’equipaggio o sei salita in un secondo momento? Perché se sei rimasta tutta sola per cinque anni, potresti essere... come dire...» esitò.
   «Svitata? Mi stai dando della svitata, intruso?!».
   «Certo che no!» annaspò l’Umano, che invece ne era sempre più convinto. «Ma potresti gradire la compagnia. Se ci aiuti a riavviare la nave, ti porteremo dove vuoi. Non ti piacerebbe tornare a casa?».
   «Casa?! Non voglio vederla neanche al telescopio!» si scaldò l’estranea. «La Flotta Stellare è la mia casa. Questa è una nave della Flotta, perciò sono a casa. Non come voi manigoldi, che siete qui solo per rubare!».
   «Senti, perché non mi dici chi sei e...» si spazientì Rivera, facendo un passo avanti, ma fu bloccato dalla reazione.
   «Altolà! Un’altra mossa e ti uccido!».
   Ora che si era un po’ avvicinato, Rivera intravide la sagoma dell’avversaria che incombeva su di lui. Sembrava che gli puntasse contro un phaser, impugnandolo con ambo le mani. Avrebbe sparato? Passarono i secondi, dilatati dalla tensione. Uno... due... tre...
   In quella una seconda figura si scagliò contro la prima, con un balzo felino. Era Shati, naturalmente. Atterrò l’avversaria e la disarmò, o così parve; poi la costrinse a rialzarsi e a seguirla in un piccolo elevatore, che le riportò al piano inferiore. Lì giunte, la Caitiana scaraventò teatralmente la prigioniera ai piedi di Rivera. «Guarda un po’ chi abbiamo! Una lecchina del Dominio!» esclamò.
   L’Umano si chinò sull’estranea. Il colorito cereo, gli occhi violetti, le strane orecchie zigrinate... era proprio una Vorta. Però aveva i capelli lisci, anziché impomatati come facevano i suoi simili. Cosa ancora più strana, indossava un’uniforme della Flotta Stellare, sezione medica. «Insomma, chi sei tu?» chiese Rivera.
   «Dottoressa Giely, specialista medica di seconda classe! Posso fare qualcosa per voi? Ehi, attenti... sono armata!» ridacchiò la Vorta, ancora in ginocchio. Così dicendo gli puntò contro l’unica “arma” di cui fosse mai stata provvista: le mani intrecciate con gli indici puntati in avanti, a simulare un phaser. E scoppiò in una risata maniacale. 
 
   
 
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