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Autore: Parmandil    05/09/2022    0 recensioni
La Destiny doveva esplorare il Multiverso, ma qualcosa è andato storto e l’equipaggio è stato ucciso. Anni dopo, una banda di contrabbandieri ha abbordato la nave alla deriva, venendo risucchiata nel Multiverso, senza le coordinate di ritorno. Agli avventurieri non resta che esplorare una realtà dopo l’altra, in cerca d’indizi sulla via di casa, mentre cercano di riscoprire in loro quello spirito che creò la Federazione.
La prima tappa della Destiny la porta in uno strano cosmo in cui pensiero e realtà si confondono. La peggior minaccia per gli avventurieri potrebbe annidarsi in loro stessi, in quel subconscio che è uno spazio inesplorato, pieno di terrori e traumi, ma anche di rimpianti e bramosie. Riusciranno i nostri eroi a fuggire dallo Spazio Caotico, prima che siano i loro stessi demoni a distruggerli? Ma soprattutto, vorranno davvero andarsene?
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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-Capitolo 2: Paure nascoste
 
   Terminato il suo turno in plancia, Shati stava tornando nel suo alloggio. La situazione della nave la preoccupava, anche se lei personalmente non aveva ancora avuto visioni. Forse non ne avrebbe avuta nessuna, si disse. Forse capitava solo alle menti deboli...
   Uno scalpitare di passi la mise in allarme. Due Ferengi dell’equipaggio svoltarono da un angolo, pochi metri avanti a lei, e le corsero incontro, guardandosi terrorizzati alle spalle. Scappavano come se avessero un esattore delle tasse alle calcagna. «Aiutaci, Shati! Non vedi che c’inseguono?!» strillò uno di loro, mentre le passavano accanto.
   La Caitiana spinse in avanti lo sguardo, ma non vide nulla di strano. Il corridoio era perfettamente vuoto. Qualunque fosse il pericolo visto da quei due, era già scomparso. O forse lo vedevano soltanto loro? In effetti finora le visioni avevano colpito solo una o due persone alla volta; mai l’intero equipaggio.
   Un po’ rassicurata, Shati proseguì fino al suo alloggio. E qui l’attendeva una sorpresa, perché davanti alla porta l’aspettava uno strano individuo. Le girava le spalle, così che sulle prime la Caitiana non poté riconoscerlo; capì solo che era un Axanar. Cosa strana, indossava l’uniforme dei cadetti d’Accademia. «Ben arrivata, Shati. Era da un pezzo che ti aspettavo» le disse con voce rancorosa.
   «Scusi, lei chi è?» s’insospettì la Caitiana. Non c’erano Axanar a bordo, quindi con ogni probabilità era solo una visione, la prima che le capitava; ma voleva vederci chiaro prima di avvicinarsi.
   «Non fingere di non conoscermi, palla di pelo! Sei stata tu a ridurmi così... è tempo di pareggiare i conti!» minacciò l’Axanar, voltandosi di scatto.
   Shati indietreggiò con un «Meow!» spaventato, riconoscendolo. Era Jorag, il suo rivale ai tempi dell’Accademia. Sul lato destro del suo volto c’era una spaventosa ustione, che gli aveva rovinato un occhio, rendendolo cieco. Ma l’altro occhio ci vedeva benissimo. E in pugno l’Axanar aveva un phaser, puntato dritto contro di lei.
   «Tu non puoi essere Jorag. Sei solo un’allucinazione fra tante di questo posto assurdo» disse la timoniera, cercando di razionalizzare. «Ora fatti da parte, devo entrare nel mio alloggio. È stata una lunga giornata: ho fatto un doppio turno e voglio riposare».
   «Oh, la signorina vuole riposare!» sghignazzò Jorag. «Io invece ho voglia di giocare al gatto e al topo. Comincia a correre: ti do dieci secondi di vantaggio» disse, sempre minacciandola col phaser.
   «Io non corro da nessuna parte. Tu non sei qui, non puoi farmi del male» disse Shati, sebbene in realtà si chiedesse se poteva. Il Capitano aveva avvertito che quelle manifestazioni erano al limite della realtà...
   «Ah, no? Sta’ a guardare!» disse Jorag, e fece fuoco. Il raggio phaser colpì la criniera della Caitiana, tranciando uno dei folti dreadlocks. Shati sentì la puzza di capelli bruciati e vide la treccia recisa che giaceva sul pavimento.
   «Corri, ho detto» ripeté l’Axanar.
   Stavolta Shati non se lo fece ripetere. Sfrecciò per il corridoio alla massima velocità possibile, cercando un luogo in cui nascondersi o qualcuno che potesse aiutarla. Al tempo stesso pensò che non avrebbe dovuto ignorare con tanta superficialità quei due Ferengi in fuga. Non trovando salvezza, pigiò il comunicatore: «Shati a Sicurezza, mi serve subito aiuto! Un pazzo armato di phaser m’insegue sul ponte 8, sezione 14! Vuole uccidermi!».
   «Calmati, Tenente. È solo un’allucinazione...» cominciò Naskeel.
   «Allucinazione un corno! È armata con un phaser vero!» spiegò la Caitiana, correndo trafelata. Dietro di sé avvertiva i passi dell’inseguitore, sempre più vicino.
   «Cerca un posto in cui nasconderti e restaci, arrivo subito» disse il Tholiano.
   «Fosse facile!» ansimò Shati, guardando le porte che le scorrevano ai lati. Erano tutti alloggi, che non le avrebbero offerto alcun riparo; né voleva coinvolgere altri nel pericolo. Finalmente vide qualcosa che faceva al caso suo: una delle armerie di bordo. Si precipitò alla porta, che tuttavia era chiusa come al solito. «Computer, sblocca ingresso! Autorizzazione Shati 44-epsilon!» ansimò.
   La porta si aprì proprio mentre Jorag appariva in fondo al corridoio. L’Axanar sparò un colpo, che Shati evitò abbassandosi di scatto. La Caitiana sentì il sibilo del raggio phaser poco sopra la sua testa e fu investita dalle scintille sprizzate dallo stipite colpito. Si fiondò nell’armeria prima che l’inseguitore sparasse di nuovo. «Computer, sigilla ingresso!» ordinò.
   La timoniera aveva guadagnato qualche secondo, non di più. Doveva approfittarne per armarsi. Corse a un armadietto e prese un phaser; poi si appostò dietro a un angolo, tenendo sotto tiro la soglia. Se Jorag l’avesse varcata, gli avrebbe sparato... ma poteva fidarsi dei suoi sensi? Se avesse visto l’avversario, ma in realtà si fosse trattato di qualche suo collega della Destiny? Nel dubbio, la Caitiana si accertò che il phaser fosse settato su stordimento; poi tornò in attesa. Passarono i secondi, dolorosamente lunghi. Infine la porta si aprì senza essere forzata, segno che il nemico conosceva il codice di sblocco.
   «Sa tutto quello che so io. È nella mia testa...».
   Jorag si stagliò sulla soglia, più tronfio che mai. Prima che potesse dire o fare alcunché, Shati lo colpì in pieno. Il raggio phaser si spense sul suo petto come se fosse un innocuo ologramma. «È inutile che cerchi di nasconderti, palla di pelo!» avvertì l’Axanar. «Mi devi un occhio, ricordi? Non mi riterrò soddisfatto finché non me l’avrai restituito!». Sparò un colpo, che la Caitiana evitò ritraendosi dietro l’angolo.
   Col batticuore, Shati alzò la regolazione del phaser. Adesso era tarato per uccidere. Ma era proprio sicura che quello sulla soglia fosse un nemico mortale? Non c’era la possibilità che i suoi sensi alterati la inducessero a uccidere un collega innocente? Decise che doveva dargli almeno un avvertimento. «Chiunque tu sia, vattene subito! O giuro che ti uccido!» strillò.
   «Ma guardati! Pusillanime come al solito... è un bene che ti abbiano espulsa dall’Accademia. Non sei mai stata degna della Flotta Stellare!» infierì Jorag. «Ora sarai anche al timone della Destiny, ma non l’hai meritato. Tu e gli altri ladri vi siete impadroniti di una nave alla deriva, e del resto non sapete neanche usarla per tornare a casa. Se tuo padre fosse ancora vivo, si vergognerebbe di te!».
   «Taci!» gridò Shati, sporgendosi per sparare. Colpì l’Axanar come aveva già fatto, ma ancora una volta questi non mostrò alcun danno; e dire che stavolta il phaser era regolato per uccidere. Jorag fece per rispondere al fuoco, ma in quella fu colpito alle spalle da un raggio così potente da trapassarlo.
   Sconvolta, la Caitiana vide la luce del corridoio filtrare dallo squarcio nel petto di Jorag. Invece di cadere morto, come sarebbe stato naturale, l’Axanar si voltò lentamente, trovandosi a fronteggiare Naskeel. «Oh, questo è... insolito» ammise.
   «La sua presenza a bordo è indesiderata» disse il Tholiano, e sparò di nuovo. Stavolta il settaggio era talmente alto che Jorag fu completamente vaporizzato. Rimase solo il suo phaser, che cadde a terra. Naskeel lo raccolse, soppesandolo. Poi si rivolse a Shati: «Stai bene, Tenente?».
   «Credo di sì... grazie a te» ammise la Caitiana, uscendo dall’armeria. «Stavolta me la sono proprio vista brutta. Ti devo la vita» riconobbe.
   «Chi era quell’individuo?» chiese l’Ufficiale Tattico. «Da come parlava, si direbbe che vi conosceste».
   «Infatti ci conoscevamo, anni fa» sospirò Shati. Poggiò la schiena alla paratia e da lì si lasciò scivolare a terra. Aveva bisogno di sedersi un attimo per riprendersi. Vedendo che il Tholiano era ancora in attesa di chiarimenti, decise di vuotare il sacco. «Eravamo cadetti allo stesso anno d’Accademia e tra noi non scorreva buon sangue. Vedi, entrambi proveniamo da famiglie con una lunga tradizione nella Flotta Stellare. Durante la Guerra Civile, però, suo padre militò fra i Pacificatori mentre il mio rimase fedele alla Flotta. Morirono entrambi nella Battaglia di Bajor, combattendo negli opposti schieramenti» ricordò, tormentata.
   «E quindi?» incalzò Naskeel.
   «Quindi io e Jorag ci siamo odiati fin da subito!» rispose Shati, con sguardo velenoso. «Tra noi era una continua competizione per eccellere, il che se non altro ci valse ottimi voti. Ma Jorag non perdeva occasione per insultarmi e giocarmi brutti scherzi. Mi metteva costantemente in cattiva luce con gli istruttori. Una volta cercò persino d’addossarmi la responsabilità di un furto in un alloggio, del quale credo fosse lui il responsabile. Così, alla vigilia degli esami, tra noi era guerra aperta. Ma dopo tutti i suoi sabotaggi era lui ad avere i voti più alti, che gli offrivano migliori sbocchi di carriera. Così decisi di vendicarmi!» soffiò, infuriata. «La notte prima dell’esame finale, m’intrufolai sul ponte ologrammi e feci in modo che i protocolli di sicurezza si disattivassero quando sarebbe toccato a lui» confessò.
   «Speravi che il tuo rivale restasse ucciso?» chiese Naskeel.
   «Non so neanch’io cosa sperassi, in quel momento» borbottò la Caitiana. «Volevo solo che si facesse del male. E se ne fece, eccome! L’esame prevedeva che pilotassimo un’astronave in una simulazione di guerra. Se non eravamo abbastanza bravi, la plancia subiva danni. E lui non fu affatto bravo, perché la consolle del timone gli esplose in faccia. Se i protocolli di sicurezza fossero stati inseriti, come da regolamento, non si sarebbe fatto niente. Ma siccome io li avevo disattivati si ustionò mezza faccia, perdendo anche un occhio, ed ebbe una commozione cerebrale». Shati fremette al ricordo.
   «A quel punto l’Accademia aprì un’inchiesta per stabilire chi gli avesse giocato quel tiro mancino. Il Direttore esortò il colpevole a farsi avanti, promettendo clemenza. Ma io ero troppo giovane, arrabbiata e spaventata per denunciarmi. Temevo d’essere espulsa e temevo ancor più la reazione della mia famiglia. Per la figlia d’un eroe di guerra, sarebbe stata una vergogna. Così tenni la bocca chiusa. Questo non fece che peggiorare le cose, quando emerse la mia colpevolezza. Così provocai proprio ciò che temevo: la mia paura d’essere espulsa mi fece espellere, il terrore della vergogna mi gettò nella vergogna. Mi ero bruciata ogni opportunità di carriera nella Flotta e i miei parenti non volevano più parlarmi... nemmeno mia madre» confessò, con la morte nel cuore.
   «Così non mi restò che cercare impiego fra i mercanti, ma anche loro non erano attratti dal mio curriculum. Per anni ricevetti porte in faccia, e quando finalmente riuscii a farmi assumere, scoprii d’essere finita in mezzo ai delinquenti» concluse.
   «Ti riferisci ai tuoi colleghi dell’Ishka?» chiese Naskeel.
   «Sì, beh, Rivera li ha messi un po’ in riga, specialmente da quando ci siamo trasferiti sulla Destiny» riconobbe Shati. «Anche lui è stato espulso dalla Flotta, quindi mi capisce meglio di altri. Ma ancora oggi non posso fare a meno di chiedermi quanto sarebbe diversa la mia vita, se non avessi commesso quell’unico errore. E adesso... adesso quel maledetto Jorag è qui, per punirmi ancora!» si agitò, alzandosi di scatto. Nei suoi occhi c’era il terrore di un animale braccato, senza riposo né sollievo.
   «Calmati» disse Naskeel. «Non so cosa ne pensino i tuoi colleghi, ma a mio giudizio sei stata punita abbastanza».
   «I miei colleghi non conoscono la verità!» sussurrò la Caitiana, spalancando gli occhi spiritati. «Siccome nessuno mi assumeva, ho fornito dati falsi. Non potevo nascondere la mia espulsione, ma l’ho motivata dicendo che avevo modificato la simulazione per avere un punteggio perfetto. Ho nascosto il fatto di aver quasi ucciso un altro cadetto. Non c’è nessuno, su questa nave, che sappia come andarono realmente le cose: tu sei il primo a cui lo confesso. Ma questo spazio caotico... lui lo sapeva!» gemette, picchiandosi in testa. «Ci entra nel cervello, conosce tutti i nostri segreti, le angosce, i dolori. E li materializza affinché ci diano la caccia! Non possiamo nasconderci, né fuggire, né combatterli. Non esiste riparo contro i nostri demoni. Se non ce ne andiamo subito, ci distruggeranno uno dopo l’altro!» singhiozzò.
   «In effetti voi Organici sembrate assai vulnerabili a questo fenomeno» constatò Naskeel.
   «E tu, invece?!» chiese Shati con rabbia.
   «Io sono Tholiano. Il mio cervello non è un ammasso caotico di neuroni, bensì un preciso reticolo cristallino. Di conseguenza la mia psiche è diversa dalla vostra» chiarì l’Ufficiale Tattico. «Non possiedo un inconscio: sono perfettamente consapevole di tutte le mie istanze psichiche. Agisco secondo logica e di conseguenza non provo inutili emozioni».
   «Voi Tholiani siete logici solo fino a un certo punto» obiettò la Caitiana. «Dopotutto siete una delle specie più xenofobe della Galassia!».
   «Augurati che sia abbastanza logico da non soccombere a queste proiezioni psichiche, come sta accadendo a voialtri» ammonì Naskeel. «Ora che non ci sono pericoli immediati, vuoi che ti scorti al tuo alloggio?».
   «No, posso andare da sola» disse Shati, augurandosi di non trovare nuovamente Jorag ad aspettarla. «Grazie per avermi salvata... e anche per essermi stato a sentire. Ma vorrei che non dicessi ad altri ciò che ti ho rivelato» pregò.
   «Se desideri la riservatezza, l’avrai» promise il Tholiano. «Ma ho l’impressione che più segreti ci sono tra voi, più siate vulnerabili a questo spazio. Buonanotte, Tenente».
 
   Smontato dal turno, Talyn era tornato al suo alloggio. Gli eventi della giornata gli davano molto da pensare, così prima di coricarsi volle fare qualche esperimento. Prese una candela di meditazione, proveniente dall’alloggio ormai vuoto del Consigliere, e la pose spenta sul tavolino. Vi sedette davanti e si concentrò, provando ad accenderla con la forza del pensiero. Se l’inconscio aveva materializzato interi individui, non poteva la mente conscia accendere quello stoppino? Si concentrò a fondo, figurandosi la fiamma nella mente, ed ecco! La candela ardeva davanti a lui. Accostò la mano e ne sentì il calore. Di lì a un minuto vide la cera che cominciava a sciogliersi, colando lungo il fusto.
   «Manipolare la realtà col pensiero... il potere degli dèi!» si esaltò il giovane. Già, ma lui e gli altri non erano dèi. Non avevano un adeguato controllo su ciò che facevano. Gli venne in mente che a bordo serpeggiavano tensioni, specialmente verso i nuovi arrivati. Se qualcuno avesse desiderato, sia pure inconsciamente, che gli accadesse qualcosa di male? Di colpo Talyn ebbe paura. Spense la candela con un soffio e restò a osservarla finché il filo di fumo si estinse. Poi indossò il pigiama e andò a letto, sperando di prendere sonno in fretta.
   Ma se gli umanoidi hanno scarso controllo dei propri pensieri durante la veglia, non ne hanno affatto durante il sonno. È allora che dal calderone sobbollente dell’inconscio escono quelle strane combinazioni di fantasticherie e ricordi, di desideri e paure che sono i sogni. E nel passato del giovane El-Auriano c’era di che alimentare i peggiori incubi.
   Sulle prime fu un fischio incessante, come lo squillo di una sirena. La mente confusa di Talyn cercò d’identificarlo, finché lo riconobbe: era l’allarme che durante l’ultima guerra avvertiva i cittadini dei bombardamenti imminenti. A un tratto udì anche la voce diffusa dagli altoparlanti: «A tutti gli abitanti di Stardust City, attenzione! I Pacificatori hanno superato la griglia difensiva e si accingono a bombardare. Lasciate le vostre case in modo ordinato e recatevi nei rifugi, secondo il piano d’evacuazione. Non attardatevi a prendere i vostri oggetti. Ripeto, i Pacificatori hanno superato la griglia difensiva e si accingono a bombardare...».
   Nel dormiveglia, Talyn riconobbe l’incubo ricorrente che lo tormentava fin dall’infanzia: le sirene, i bombardamenti, il crollo. Tre giorni passati sotto le macerie di casa, prima che i soccorritori lo estraessero, unico superstite della sua famiglia. Per anni si era svegliato urlando a quei ricordi: solo dopo che gli avventurieri lo avevano adottato le sue notti si erano fatte più serene. Ma ora il vecchio incubo tornava a tormentarlo... doveva svegliarsi!
   L’El-Auriano spalancò gli occhi e drizzò la schiena, madido di sudore. Si guardò attorno: era ancora a letto, nel suo alloggio sulla Destiny. Ma qualcosa non andava, la sirena squillava ancora. «Attenzione, i Pacificatori hanno superato la griglia difensiva e si accingono a bombardare...». L’alloggio vibrò, a tempo con i boati provenienti dalla finestra.
   «Ma cosa...».
   Talyn si girò a fissarla, oltre la testata del letto. Invece del finestrone sigillato che dava la vista sullo spazio, c’era la finestra aperta di un’abitazione. E fuori si stendeva il panorama notturno di Stardust City, illuminata dalle esplosioni. I Pacificatori bombardavano dall’orbita, trasformando interi quartieri in crateri ribollenti di lava. Le onde d’urto squassavano case e grattacieli circostanti.
   «Non è possibile!» pensò il giovane, affacciandosi alla finestra. Che stesse ancora sognando? Ma era troppo vivido e dettagliato per essere un sogno. Oltre a vedere la distruzione in corso ne udiva i boati, avvertiva le vibrazioni, sentiva persino l’odore del fumo. Doveva essere un’altra allucinazione suscitata dallo Spazio Caotico, come l’equipaggio cominciava a chiamarlo. Solo che, invece d’evocare singoli individui, stavolta aveva evocato un’intera città...
   L’El-Auriano chiuse la finestra, sbattendo le ante, come se questo bastasse a chiudere fuori il bombardamento. Ma non era finita: sentì il soffitto scricchiolare, come se fosse in procinto di crollare. Allora saltò giù dal letto e corse verso la porta dell’alloggio, ancora scalzo e in pigiama.
   Troppo tardi.
   Con uno schianto assordante, il soffitto cedette e l’alloggio fu travolto dalle macerie. Erano macerie compatibili col crollo di un palazzo, non col cedimento dei ponti di un’astronave. Travi di tritanio e blocchi di permacemento si rovesciarono ovunque, schiacciando il letto su cui Talyn giaceva pochi attimi prima. Frammenti più piccoli caddero addosso al giovane, che fu gettato a terra. Talyn tossì per la polvere cementizia; quando anche questa si fu posata si guardò attorno, scoprendo che il suo più grande terrore s’era avverato. Era di nuovo intrappolato sotto le macerie, immobilizzato, incapace persino di chiedere aiuto. L’ultima luce sfarfallante dell’alloggio si estinse, lasciandolo completamente al buio. Nelle tenebre dilaganti le macerie scricchiolarono, sul punto di crollare ulteriormente, nel qual caso lo avrebbero schiacciato. Il comunicatore era perso chissà dove; così non gli restò che urlare con quanto fiato aveva in gola, sperando che anche stavolta qualcuno giungesse in suo soccorso.
 
   La mattina dopo, quando il turno principale prese servizio, tutti notarono l’assenza di Talyn. «Beh, che ne è del nostro ragazzo-prodigio?» chiese Rivera, dando voce alla perplessità generale. «Non è da lui far tardi la mattina».
   «Se per una volta tarda qualche minuto, non dovremmo farne un dramma» notò Losira.
   «No di certo, se fossimo nello spazio normale. Ma con tutto quel che sta succedendo, non sono tranquillo» borbottò il Capitano. «Plancia a Talyn, mi senti? Plancia a Talyn, rispondi! Fammi sentire la tua voce!».
   Dal comunicatore non giunse alcuna risposta.
   «Non mi piace...» borbottò Rivera, tamburellando sul bracciolo.
   «Vado a vedere che succede» si offrì Losira.
   «Prendi Naskeel con te, non si sa mai» ordinò il Capitano. Quando furono scesi, aprì un altro canale. «Plancia a sala macchine, come vanno i lavori?».
   «Qui Irvik, ho appena rilevato il turno di notte» rispose l’Ingegnere Capo. «Signore, mi spiace comunicarle che il danno è più grave del previsto. Oltre al trasformatore d’energia ci sono gli iniettori d’antimateria bloccati e i giunti di potenza depolarizzati. Ci vorrà più di una giornata per sistemare tutto. Ho anche lanciato una diagnostica generale, per rilevare eventuali altri danni».
   «Ma com’è possibile che si sia guastato tutto?!» si sgomentò Rivera. «Ci sono segni di sabotaggio?».
   «Nessun segno evidente, Capitano» rispose il Voth, che in quel momento esaminava un diagramma del nucleo. «Gli apparecchi si guastano e basta. Sembrerebbe usura, se non fosse che la nave non è poi così vecchia. In fondo ha appena cinque anni, ed è stata usata pochissimo. Perciò non mi spiego...».
   «Sarà meglio che trovi una spiegazione, se non vuole che rimaniamo bloccati qui!» disse seccamente il Capitano. «Mi avverta quando avrete ultimato le riparazioni. Non voglio restare un minuto più del necessario in questo Spazio Caotico».
 
   Giunta davanti all’alloggio di Talyn, Losira fece un ultimo tentativo di contattarlo al comunicatore. «Losira a Talyn, rispondi subito. Siamo in ansia per te!». Non ottenendo risposta, premette il comando per sbloccare la porta.
   Uno sbuffo di polvere cementizia le fece subito capire che qualcosa non andava. La Risiana cercò d’entrare, ma si trovò davanti un intrico di travi rovesciate e blocchi di permacemento inclinati. Da qualche parte, in mezzo alle macerie, risuonò una voce fioca: «Sono qui, non riesco a muovermi!».
   «Frell, sei ferito?!» si agitò Losira.
   «Credo di no, ma sono incastrato. E non oso muovermi, perché questa roba scricchiola come se dovesse crollare da un momento all’altro» spiegò il giovane, col respiro affannoso. «Non riesco a respirare... tiratemi fuori di qui!» boccheggiò.
   «Resisti, sarai fuori tra un attimo!» promise la Risiana. Anche se con lei c’era Naskeel, non osò chiedergli di rimuovere le macerie. Il rischio di provocare un crollo più grande, prima che arrivassero a estrarre il ragazzo, era troppo grande. Non c’era che una cosa da fare. «Losira a plancia, serve un teletrasporto d’emergenza. Agganciate i segni vitali di Talyn e portatelo al sicuro. È urgente!».
   «Sentito? Portatelo subito qui!» ordinò Rivera ai suoi ufficiali di plancia. Lasciò la poltrona e andò nell’adiacente saletta di teletrasporto, in tempo per vedere l’El-Auriano che si materializzava. Era ancora in pigiama, tutto sbiancato dalla polvere di cemento. Sul suo corpo c’erano lividi ed escoriazioni. Respirava affannosamente, come chi sia mezzo soffocato. «Aria!» boccheggiò, inspirando a pieni polmoni.
   «Santo Cielo, ma che t’è successo?!» si preoccupò il Capitano, chinandosi su di lui.
   «Ho rivissuto il momento peggiore della mia vita!» ansimò Talyn, ancora sotto shock. «Sa, il bombardamento di Stardust City. Ho visto le esplosioni dalla finestra, come se ci fosse l’intera città. E sono rimasto sotto le macerie... per ore, credo. Gran parte della notte. Mi mancava l’aria, credevo di soffocare!» gemette.
   «È tutto finito, ora sei al sicuro» lo confortò Rivera.
   «Nessuno è al sicuro, finché rimaniamo nello Spazio Caotico!» obiettò Talyn, levandosi la polvere dalla faccia.
   «Infatti ce ne andremo appena possibile» promise il Capitano. «Plancia a Losira, abbiamo Talyn ed è incolume. Dai un’occhiata al suo alloggio e fatti un’idea di quant’è grave il danno strutturale» ordinò, chiedendosi come mai i sensori interni non avessero dato l’allarme.
   Fatto un respiro profondo, Losira tornò ad accostarsi alla porta, provocandone la riapertura. E qui ebbe una grossa sorpresa, perché all’interno l’alloggio era tornato in perfetto ordine. Solo il letto era sfatto, come se il proprietario l’avesse abbandonato di fretta, ma per il resto era tutto a posto. Il soffitto era integro e a terra non c’era un granello di polvere. Le nubi azzurre vorticavano fuori dal finestrone sigillato. «Capitano, l’alloggio è in perfetto stato. Nessun danno, nulla in disordine» mormorò la Risiana, con la bocca secca.
   «Io ero sotto le macerie!» protestò Talyn, agitatissimo.
   «Lo so, le ho viste anch’io» assicurò Losira. «Tu sei certo di star bene?».
   «Ho qualche graffio, ma niente di rotto, credo» disse il giovane. Si alzò lentamente, con l’aiuto del Capitano, tastandosi per verificare la sua affermazione.
   «Comunque voglio accompagnarti in infermeria, non si sa mai» decise Rivera. Affidata la plancia a un sottoposto, salì con Talyn sulla pedana di teletrasporto.
 
   Trasferiti in infermeria, i due si guardarono attorno, in cerca della dottoressa Giely. Al momento, tuttavia, la Vorta non era in vista. «Dottoressa, sei qui?» chiese il Capitano, affacciandosi sulle altre salette. Le ispezionò una dopo l’altra, trovandole tutte vuote. Impensierito, tornò nella sala principale. Qui vide che Talyn si era seduto su un lettino e si stava curando da solo con un rigeneratore dermico. I graffi e i lividi sparivano, ma gli sarebbe servito un pezzo per rimettersi a nuovo.
   In quella entrò Losira. «Ho rimandato Naskeel in plancia» disse rapidamente a Rivera, dopo di che si accostò a Talyn. «Ti stai curando da solo? Non c’è la dottoressa?» si accigliò.
   «Sembra che anche lei non abbia preso servizio» borbottò il Capitano, sempre più preoccupato. «Rivera a Giely, puoi sentirmi? Rivera a Giely, rispondi subito!».
   Ancora silenzio.
   «Resta qui con Talyn, aiutalo a curarsi» ordinò il Capitano. «Io vado a vedere come sta la dottoressa».
   «Prudenza, signore!» lo esortò l’El-Auriano. «Questo spazio conosce tutti i nostri punti deboli. E ho notato che le apparizioni si fanno sempre più complesse e persistenti. Prima apparivano singoli individui, ora interi ambienti. Prima duravano pochi secondi, adesso intere ore. È come se questo luogo ci stesse fagocitando. Se non ne usciamo in tempo, potremmo esserne... assorbiti».
 
   Dopo una notte di sonno lungo e profondo, la dottoressa Giely cominciò a risvegliarsi. Attorno a lei c’era un calore uniforme e il suo corpo sembrava galleggiare. Poco alla volta si rese conto d’essere immersa in un liquido caldo. Si era forse addormentata nella vasca da bagno? Impossibile... l’alloggio del Medico Capo, da lei recentemente occupato, aveva sì una vasca, ma non l’aveva mai usata. Risvegliava troppi brutti ricordi. Allora perché adesso era a mollo? D’un tratto udì un sibilo, come di un coperchio stagno che viene rimosso. Una ventata d’aria fredda la fece rabbrividire.
   «Svegliati, Giely-9. La tua vita al servizio dei Fondatori è cominciata!» annunciò una gelida voce femminile.
   A quelle parole, fin troppo familiari, la Vorta spalancò gli occhi. E si trovò catapultata nel peggiore degli incubi: la memoria del passato. Era immersa nella vasca di gestazione da cui tutti i Vorta uscivano, fisicamente adulti. Aveva un respiratore fissato al volto, per darle ossigeno, e flebo conficcate nel corpo per somministrarle sostanze nutritive. Si trovava in un salone buio, ma in quella si accesero un paio di faretti sul soffitto, che l’abbagliarono tanto da farla lacrimare. Lo shock e la sensazione di soffocamento la indussero ad agitarsi.
   «No, sta’ ferma o ti farai male» l’ammonì la voce femminile. «Liberatela, presto».
   Mani sconosciute le staccarono il respiratore e le rimossero le flebo. La Vorta afferrò i bordi della vasca e fece forza per alzarsi, uscendo dal liquido amniotico. I capelli fradici le ricaddero davanti agli occhi, togliendole la vista. «Gasp!» boccheggiò, inalando l’ossigeno. Richiamate alla memoria le cognizioni sull’anossia, prese a respirare a fondo, ispirando dal naso ed espirando dalla bocca, finché il ritmo divenne regolare. Quando sentì che anche i battiti cardiaci erano più lenti e costanti, si scostò i capelli dal viso e riaprì gli occhi.
   Attorno a lei c’era la severa architettura del Dominio: pareti grigie e spoglie, interrotte da poche consolle. Il simbolo del Dominio, un rombo nero contenente un glifo verde e viola, campeggiava proprio davanti a lei. E sotto quel simbolo sostavano tre figure, in paziente attesa. Due erano soldati Jem’Hadar, armati e nerovestiti, dai duri volti scagliosi incorniciati d’escrescenze ossee. Ma era la terza figura, quella più minuta, che la terrorizzava più di tutte. Era una Vorta dal viso anziano e i capelli grigio ferro, vestita con l’uniforme della sezione medica del Dominio.
   «Benvenuta tra noi» disse l’anziana Vorta, con un sorriso privo d’amore. «Io sono Giely-8, medico di seconda classe al servizio dei Fondatori. Tu sei Giely-9, il mio clone progettato per sostituirmi. In questo momento ti senti spaesata, ma presto starai meglio. La tua memoria genetica riaffiorerà nell’arco di pochi giorni, dandoti una conoscenza istintiva delle nostre istituzioni. La tua istruzione medica, invece, richiederà qualche anno. La completerai in tempo per prendere il mio posto al servizio dei Fondatori. Sentiti onorata del tuo incarico e delle tue responsabilità!».
   «Ho già vissuto tutto questo» mormorò Giely, il cuore in tumulto.
   «Certo, lo hai già vissuto otto volte» confermò l’anziana Vorta. «Per otto generazioni abbiamo servito i Fondatori; tu sarai la nona. Devi esserne fiera: il nostro ceppo genetico è antico e rispettabile».
   «Intendevo che io personalmente ho già vissuto questi eventi» borbottò Giely, scoccandole un’occhiata velenosa. Non sopportava di starsene lì nuda, sotto gli occhi di tutti, a rivivere il momento peggiore della sua esistenza: quello in cui aveva saputo cos’era.
   «Ma che dici? Forse sei ancora confusa. Presto, vestitela!» ordinò Giely-8 in tono sbrigativo.
   I Jem’Hadar si avvicinarono, recando un asciugamano e abiti della giusta taglia. Giely glieli strappò di mano. «Grazie, faccio da sola!» sibilò. Uscita dalla vasca, si asciugò in tutta fretta e si rivestì. Ogni tanto lanciava occhiate feroci ai Jem’Hadar, che le restavano accanto, imperturbabili.
   «Si direbbe che tu abbia più individualità del dovuto» commentò Giely-8, squadrandola come avrebbe fatto con una cavia da laboratorio. «Controllerò che non ci siano state derive genetiche nel tuo processo di clonazione. Spero per il tuo bene che non ce ne siano, perché in tal caso sarei costretta a eliminarti e ricominciare daccapo».
   «Tranquilla, non ci sono derive. Sono il clone che hai sempre desiderato avere!» disse Giely con amarezza. «Però non sono te. Non sono nessuna delle mie antesignane. Ho una mia volontà e farò cose che nessuna di voi ha mai sognato!» rivendicò.
   «Tu obbedirai ai Fondatori, giovanotta, o saranno guai!» ammonì Giely-8. «Ricorda che sono i nostri dèi. Tutto ciò che siamo, e che saremo mai, lo dobbiamo a loro».
   «I Fondatori possono spiegare quel che c’è oltre quella porta?» la provocò Giely, indicando l’ingresso. «Aprila e scoprirai che non siamo su Kurill Primo».
   «Che vai farneticando? Certo che siamo sul nostro mondo!» s’indignò Giely-8. Ma i fatti la smentirono, perché in quel momento il Capitano Rivera entrò nel laboratorio di clonazione che aveva sostituito l’alloggio di Giely.
   «Dottoressa, come... stai?» mormorò l’Umano, guardandosi attorno sorpreso. Quel laboratorio alieno era assai più grande dell’alloggio del Medico Capo. Prima che potesse riaversi dallo stupore, il Capitano si trovò puntati al petto i fucili polaronici dei Jem’Hadar.
 
   «Tu chi sei, intruso?!» chiese Giely-8 in tono minaccioso.
   L’Umano passò lo sguardo da lei alla Giely più giovane, che con lo sguardo gli rivolse una muta preghiera: «Non fare sciocchezze». Poi tornò a fronteggiare gli esponenti del Dominio. «Sono il Capitano Rivera, dell’USS Destiny» dichiarò.
   «Mai sentita» rispose freddamente la vecchia Vorta. «Come ti sei introdotto nel nostro laboratorio, e perché?!».
   «Io non mi sono introdotto in alcun luogo. Siete voi che vi trovate illegalmente sulla mia nave» ritorse il Capitano. «Uscite da qui e lo vedrete coi vostri occhi!» aggiunse, scostandosi affinché vedessero il corridoio bene illuminato della Destiny alle sue spalle.
   «Impossibile! Che trucco è questo?!» fece Giely-8, arricciando il naso.
   «Nessun trucco. Avete invaso una nave federale, in violazione del trattato di pace tra i nostri governi» insisté Rivera. «Non intendo punirvi, però esigo che consegnate le vostre armi. È quel che vorrebbero i Fondatori, non trova?».
   «Non spetta a lei parlare a nome dei Fondatori!» lo zittì Giely-8. Tuttavia il corridoio della Destiny la incuriosì, inducendola a uscire. I due Jem’Hadar la scortarono, portando con loro la Giely più giovane. Percorsero un tratto di corridoio, circospetti. Avevano ancora i fucili polaronici spianati e Rivera temeva che aprissero il fuoco, se avessero incontrato qualcuno del suo equipaggio.
   Approfittando della loro distrazione, il Capitano mise mano a un’interfaccia parietale del computer. Bastava poco per inserire un codice di sicurezza atto a isolare gli intrusi. Lo preoccupava solo il fatto che Giely fosse ancora in mezzo a loro. In quella la giovane Vorta si guardò alle spalle, vedendolo armeggiare col pannello. Tra loro corse uno sguardo d’intesa.
   «Ora!» gridò Rivera.
   Giely si volse del tutto e sgusciò tra i Jem’Hadar. Si gettò in avanti, facendo una capriola sul pavimento, e si rialzò agilmente. I soldati del Dominio si girarono a loro volta, con le armi in pugno, ma non potevano uccidere il membro di una casta superiore senza l’ordine esplicito di Giely-8. E l’ordine venne, ma con un attimo di ritardo.
   «Fermatela! Fate fuoco!».
   I raggi polaronici si arrestarono contro il campo di forza che Rivera aveva appena alzato nel corridoio, alla giunzione fra un settore e l’altro. Buttandosi in avanti, Giely aveva superato gli emettitori incassati nelle pareti, ponendosi in salvo. La barriera, colpita dai raggi, scintillò a un palmo dal suo viso. C’era mancato poco. Giely-8 e la sua scorta si avventarono nell’altra direzione, ma si avvidero che un secondo campo di forza si era attivato pochi metri più avanti. Erano isolati in quel tratto di corridoio, privo di porte.
   «Stai bene?» chiese il Capitano, accostandosi a Giely.
   «Sono viva. Grazie, Capitano» mormorò la Vorta. Era chiaramente scossa dall’accaduto.
   «Sei una traditrice!» sibilò Giely-8 da dietro il campo di forza. «Non puoi sfuggire al Dominio. Non puoi sfuggire ai Fondatori. Se non ti poni al loro servizio, allora non hai motivo d’esistere e sarai eliminata».
   «Me ne sono andata una volta e lo farò di nuovo! E tu non puoi impedirmelo, oggi come allora!» gridò Giely con voce rotta.
   «Sei solo un clone difettoso che è impazzito. Un incidente di laboratorio. Ogni tanto capita anche nei ceppi genetici migliori. Mi assicurerò che la nostra prossima incarnazione sia priva di difetti» disse la vecchia Vorta, fissandola con gelido disprezzo.
   Giely si accostò al campo di forza. Erano faccia a faccia, del tutto simili, tranne la marcata differenza d’età. «Io non sono come te... non lo sarò mai!» sussurrò la giovane Vorta, piangendo. Poi le voltò le spalle e corse via, col cuore in tumulto.
 
   «Mi spieghi chi erano quelli?!» chiese Rivera, quando furono in infermeria. Talyn e Losira se n’erano già andati, per cui i nuovi arrivati avevano la necessaria privacy.
   «La mia famiglia» disse Giely, senza allegria. Misurò a grandi passi l’infermeria, poi si voltò di scatto verso il Capitano. «Ne avevo accennato a Talyn e Losira, durante la prima missione. Non ti hanno detto niente?».
   «Neanche una parola. Evidentemente vogliono rispettare la tua privacy» spiegò Rivera. «E siccome è evidente che il passato ti addolora, non pretendo che tu mi dica tutto. Parlerai se e quando ti sentirai pronta» disse, muovendo verso la porta.
   «No, aspetta!» lo inseguì la dottoressa. «Tanto vale che tu sappia ora. Cosa sai dei Vorta?».
   «Poco, in effetti» ammise Rivera. «So che siete una casta del Dominio, la più alta dopo i Fondatori. Siete amministratori, diplomatici e scienziati. A volte anche spie e comandanti militari. Tu sei la prima Vorta che abbia mai incontrato e devo dire che mi hai sorpreso. Non sapevo che alcuni di voi si fossero messi in proprio».
   «È rarissimo, infatti» confermò Giely. «La nostra devozione verso i Fondatori è così radicata che non trovo parole per descriverla. Per fartelo capire, ti racconterò una storia. Beh, più che storia è una leggenda: l’unico vero mito che si tramanda nella nostra cultura. Siediti» lo invitò, accennando a un lettino.
   L’Umano si accomodò e la Vorta gli sedette a fianco, con le mani in grembo. Il suo sguardo era perso in ricordi lontani; la voce usciva lenta e profonda dalle sue labbra. «La mia specie è originaria di Kurill Primo, un mondo del Quadrante Gamma. Eravamo creature scimmiesche, piccole e timide, che si nascondevano sugli alberi per sfuggire ai molti predatori del nostro ambiente. Mangiavamo bacche e noci, di cui infatti siamo ancora ghiotti... un retaggio del nostro miserevole passato» disse, ancor più pallida del solito.
   «Un giorno, uno dei Fondatori venne tra noi. Stava scappando: alcuni cacciatori Hur’q lo avevano ferito e ora lo inseguivano per dargli il colpo di grazia. I nostri antenati avevano paura di quella caccia violenta, ma una loro famiglia s’impietosì e offrì nascondiglio al Fondatore ferito. Lo tennero con loro e lo nutrirono finché non si fu pienamente ristabilito. Allora il Fondatore, grato dell’aiuto, predisse ai Vorta un futuro di grandezza. Ci promise che un giorno saremmo stati a capo di un vasto impero interstellare, che avrebbe dato legge e ordine alla Galassia. Non avremmo più dovuto nasconderci sugli alberi a ogni scricchiolio nel sottobosco!» disse con amara ironia.
   «Fammi indovinare... il Fondatore tralasciò di aggiungere che sareste stati suoi schiavi» mormorò Rivera.
   «Deve essergli sfuggito, sì» annuì Giely, sarcastica. «Nei secoli seguenti, i Fondatori sfruttarono i loro poteri di mutaforma per sottrarre tecnologie evolute ai popoli della zona. Tornarono su Kurill Primo ed elevarono la mia specie con l’ingegneria genetica. Ci trasformarono nei loro strumenti di conquista e di governo, ponendoci ai massimi livelli del Dominio. Come ti ho mostrato, ci resero immuni a molti veleni. Ma soprattutto c’instillarono l’incrollabile convinzione che loro fossero dèi, così da assicurarsi la nostra assoluta obbedienza. Pensa che ci dotarono persino di una ghiandola, nel cervello, che può rilasciare a comando una rara tossina letale anche per noi. Così, quando un Vorta viene catturato dal nemico, deve commettere suicidio piuttosto che nuocere agli interessi dei Fondatori, rivelando informazioni».
   «È orribile» mormorò il Capitano. «Perdona la domanda, ma... tu ce l’hai ancora?».
   «Quando chiesi asilo all’USS Keter, chiesi al loro medico di bordo di rimuoverla» rivelò Giely. «All’epoca ero così divorata dai sensi di colpa per la mia fuga che temevo di usarla in un attacco di depressione. Così eliminai il problema alla radice. Ma resto pur sempre una Vorta... la mia razza è odiata dai popoli liberi della Galassia. Siamo schiavi dei Fondatori e aguzzini per le altre specie!» si disperò, torcendosi le orecchie da Vorta come se volesse strapparsele.
   «Ehi, piano!» la fermò Rivera, temendo che si ferisse. «Non devi vergognarti dei tuoi antenati. Anche noi Umani discendiamo da primati che vivevano sugli alberi e mangiavano bacche».
   «Ma voi almeno vi siete evoluti da soli! Avete affrontato le sfide del vostro ambiente e avete forgiato il vostro destino!» insisté Giely. «Noi invece dobbiamo tutto ai Fondatori. Siamo una specie cliente; senza di loro saremmo ancora a dondolarci sugli alberi».
   «Qualunque cosa siano i tuoi simili, è chiaro che tu hai scelto un’altra strada» disse il Capitano, cercando di darle sollievo da quell’angoscia che la consumava.
   «Non è semplice come credi» mormorò la dottoressa. «Hai visto quella Vorta più anziana; hai anche notato quanto mi somigliava nell’aspetto?».
   «Vuoi dire che...» sussurrò Rivera, sentendosi accapponare la pelle.
   «Sì, quella è Giely-8, l’ottava esponente della sua linea genetica. Io sono Giely-9, destinata a subentrare nelle sue mansioni» rabbrividì la Vorta. «Vedi, le manipolazioni genetiche dei Fondatori coinvolgono anche la nostra sessualità. Sebbene tra noi ci siano ancora maschi e femmine, siamo pressoché privi d’istinto riproduttivo; e in ogni caso siamo sterili. Di conseguenza ci riproduciamo tramite clonazione, creando embrioni che crescono in vasche di gestazione. Dopo qualche travaso in vasche sempre più grandi, usciamo fisicamente adulti. Anche dal punto di vista mentale siamo in gran parte autosufficienti. La nostra memoria genetica ci fornisce una conoscenza istintiva delle istituzioni del Dominio; il resto lo studiamo a tempo di record. Quando un Vorta raggiunge una certa età, clona il suo successore e lo istruisce durante i suoi ultimi anni di vita, così che il clone sia pronto a subentrargli. Se invece un Vorta viene ucciso prima del tempo, sono gli altri che lo clonano e addestrano il suo successore. Ogni tanto poi il DNA viene manipolato, creando nuove linee genetiche, in un simulacro d’evoluzione».
   «Quindi tu sei...».
   «... creata in provetta e coltivata in una vasca, come un fungo» confermò Giely, beffarda verso se stessa. «Il mio primo ricordo, quando uscii dalla vasca, è Giely-8 che mi spiegava come sarei vissuta al servizio dei Fondatori. Dovevo essere come lei... come tutte le altre Giely che mi avevano preceduta e tutte quelle che sarebbero venute dopo».
   «Ma tu hai scelto diversamente» insisté il Capitano.
   «Ci ho provato, sì. Ho fatto di tutto per distinguermi dalle altre» annuì Giely. «Sono fuggita dal Dominio, ho rinnegato i Fondatori. Mi sono fatta togliere la ghiandola dell’eutanasia e ho rimosso il numero 9 dal mio nome. Mi sono arruolata nella Flotta Stellare nella speranza di placare la mia angoscia con l’esplorazione. Ma poco fa, in quella stanza, ho rivissuto la mia nascita e mi sono resa conto che è tutto inutile. Per quante cose faccia, non potrò mai cancellare ciò che sono. Giely-8 ha ragione: non sono altro che un clone difettoso, che s’è mascherato con l’uniforme della Flotta per illudersi d’essere qualcos’altro!».
   Osservandola, il Capitano fu colpito dai suoi occhi. Erano gli occhi di un animale braccato, alla perenne ricerca di qualcosa d’inafferrabile. La giovane Vorta era come posseduta, consumata dall’incapacità di dare un senso alla propria vita. La sua esistenza era grottescamente banale e senza scopo: un’infinita successione di azioni ripetitive, un’interminabile corsa che la sfiancava senza portarla da nessuna parte. Se fosse morta quel giorno, nulla si sarebbe perso... perché lei non era nulla. Ecco ciò che Rivera vide in fondo al pozzo di quegli occhi spiritati.
   «Stammi bene a sentire: tu non sei l’unica a sentirti così» disse l’Umano, prendendole le mani fra le sue. «Anche a me è capitato di sentirmi annientato, d’avere la sensazione di non valere niente, di temere che se fossi morto non sarebbe importato a nessuno. Credo che capiti a tutti gli umanoidi, prima o poi. Ma è proprio questo il punto! Se tu fossi un automa, o un clone programmato alla stregua di un automa, saresti soddisfatta delle tue mansioni. Non ti faresti domande, non brameresti di più. Il fatto stesso che tu abbia questa... tensione spirituale significa che sei ben altro che un clone malriuscito. Vedi, la cosa importante degli umanoidi non è il fatto che costruiamo astronavi per viaggiare nello spazio, nel tempo e persino da un Universo all’altro. No, ciò che ci rende speciali è che siamo... come posso dire... costruttori di significati. Non so se la vita in sé abbia uno scopo, ma noi ce ne diamo uno. O almeno ci proviamo, che poi è lo stesso».
   Giely lo ascoltò con gli occhioni violetti sgranati, affascinata dalle sue parole. Gradualmente un po’ di vita riprese a scorrere in lei. «Se solo capissi qual è il mio scopo...» mormorò.
   «Solo tu puoi rispondere a questa domanda» sospirò Rivera. «Tuttavia, se insisti, ti dirò che a mio modesto avviso tu stai già facendo cose importantissime. Ci hai salvati tutti dagli Undine e adesso sei il solo medico che abbiamo su questa nave. Hai trecento persone, incluso il sottoscritto, sotto la tua responsabilità. A me sembra una missione decisamente importante. Soprattutto se consideri che non sono stati i Fondatori ad affibbiartela, ma tu stessa, con le scelte che ti hanno condotta qui. Magari non era ciò che desideravi... del resto nessuno di noi vorrebbe essere smarrito nel Multiverso. Ma nel bene o nel male, resta il fatto che la tua esistenza non è stata decisa a tavolino da qualcun altro; hai esercitato il tuo arbitrio. E questa è una cosa che nessuno, nemmeno i Fondatori, potranno mai cambiare».
   A queste parole, Giely scoppiò in un pianto liberatorio. Abbracciò Rivera, scossa dai singhiozzi, finché l’emozione si placò. Allora si discostò da lui, mentre si asciugava il viso dalle lacrime. «Grazie di tutto, Capitano. Ti prometto che farò del mio meglio come medico di bordo» disse, con voce ancora roca.
   «Non chiedo altro».
   «Ma come medico, ti dico che sono molto preoccupata» aggiunse la Vorta. «Questo Spazio Caotico ci sta distruggendo psicologicamente. E più passa il tempo, più crescono anche i pericoli fisici. È un miracolo che non abbiamo ancora avuto vittime, e non so per quanto possa continuare. È di vitale importanza andarcene subito».
   «Fosse facile! Ma la Destiny sta avendo dei danni a cascata che c’impediscono di andarcene» si lamentò il Capitano.
   «Danni provocati da cosa?».
   «È questo che non riusciamo a capire. Ogni volta che gli ingegneri ne riparano uno, qualcos’altro si guasta. È come se la nave non volesse lasciarci ripartire...». Così dicendo, Rivera si bloccò. «O forse no. Forse siamo noi il problema» mormorò.
   «Capitano?».
   «Finora questo spazio ha agito sulle nostre emozioni più profonde. Desideri, rimpianti... e soprattutto paure» notò il Capitano. «Sai qual è una delle paure più ataviche e condivise dagli umanoidi? Rimanere intrappolati in un luogo pericoloso. Scommetto che tutti, a bordo, hanno il terrore di restare prigionieri di questo Spazio Caotico. Specialmente gli ingegneri, che hanno la responsabilità di far funzionare la nave. E così il timore che la Destiny si guasti si sta avverando. Siamo noi stessi, con le nostre paure, a distruggere l’astronave». 
 
   
 
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